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venerdì 22 maggio 2020

33 - "Il Dramma di Corte Rossa" ("The Red House Mystery", 1922) di A.A. Milne

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Con la recensione di oggi, termina la mia breve incursione nel giallo dedicata alle storie ambientate in luoghi esotici oppure vacanzieri. Questo non significa che non esistano altri titoli, dedicati al clima primaverile-estivo, al di fuori di quelli che vi ho presentato in questo primo mese di giornate di sole e timide uscite, in seguito all'isolamento forzato causato dall'epidemia di Coronavirus; in realtà, ci sarebbero molti altri romanzi gialli classici appartenenti a questo filone che meritano un'analisi. Eppure, non voglio diventare troppo noioso e concentrarmi solo su un tipo di crime story. Quindi, tralasciando il prossimo venerdì che vedrà una recensione un po' speciale, dai primi di giugno aspettatevi qualcosa di diverso. Dopotutto, anche se non sono capace di scrivere un romanzo del mistero come quelli che mi piacciono, non voglio rinunciare ad evocare un'aura di mistero sugli argomenti delle mie prossime recensioni. Farò, insomma, un po' come i giallisti di professione, i quali non avvertono il lettore prima di stupirlo con una nuova trovata; a volte addirittura senza tirare in ballo soltanto il loro ingegno. Alcuni di loro, infatti, sono riusciti a creare avvincenti storie di successo e che si ricordano ancora al giorno d'oggi... per poi decidere di punto in bianco, per motivi differenti, di abbandonare il genere giallo. Questo sì che si può definire come un colpo di scena. Chissà cosa è mai passato per la loro testa, per indurli a una decisione tanto drastica. Forse si sono resi conto di non riuscire a tenere il ritmo per pubblicare un nuovo romanzo del mistero in tempi ragionevoli, oppure si è trattato di una sorta di passatempo e non erano interessati a continuare su quella scia, oppure ancora hanno perso interesse col passare del tempo e si sono disaffezionati alle storie di crimini e omicidi. La stessa Dorothy L. Sayers dovette far fronte a questo dilemma, poiché era maggiormente intenzionata a raccontare storie che avevano soltanto un marginale collegamento col delitto; mentre Anthony Berkeley sviluppò un carattere troppo instabile e patì pene troppo segnanti per riuscire a produrre qualcosa d'altro dopo "As For the Woman".

In ogni caso, come dicevo, alcuni scrittori (soprattutto appartenenti alla Golden Age) si sono improvvisamente risolti ad abbandonare il classico giallo ad enigma, spesso dopo il grande successo arriso alla loro prima opera di genere. Tra questi si possono citare C.P. Snow, del quale ho recensito la scorsa settimana quella che per lunghissimo tempo fu la sua unica incursione nel mystery, "Morte a Vele Spiegate"; Dermoth Morrah, che ci ha lasciato "Il Caso della Mummia Scomparsa", esemplare giallo a sfondo universitario, prima di concentrarsi sulla scrittura di articoli di giornale; Ellen Wilkinson, esponente del partito laburista inglese, la quale scrisse "The Division Bell Mystery" basandosi sulla sua esperienza al Governo; la coppia Horatio Winslow-Leslie Quirk, con il capolavoro del delitto impossibile "Svanito nel Nulla"; l'americano F.G. Parke, del quale non si conosce la vera identità ma solo il romanzo "La Sera della Prima"; T.L. Davidson e il suo "Omicidio in Laboratorio"; Richard Connell con il mystery "Delitto in Mare"; Alfred Meyers e il suo "Aria Mortale". Ognuno di questi signori (e signore), pur dedicandosi ad altre occupazioni di carattere politico, scientifico, narrativo, musicale, didattico, cinematografico, tentò la strada del giallo e, sfortunatamente, non riuscì a resistere alla tentazione di prendere altre strade o a sostenere il carico di lavoro che comportava l'ideazione di omicidi fittizi. In compenso, riuscirono a diventare celebri in altri ambiti; sebbene, da parte mia, avrei preferito scoprire quali altri misteri sarebbero riusciti a creare. Eppure, nessuno di loro ha mai raggiunto una fama tanto grande ed è stato tanto in anticipo sui tempi come ha fatto uno dei narratori moderni più importanti tra tutti: A.A. Milne, l'inventore di Winnie-the-Pooh. Ricordato al giorno d'oggi soprattutto per le avventure del piccolo orsetto e dei suoi amici del Bosco dei Cento Acri, Milne compì l'impresa straordinaria di ottenere pari fama sia nell'ambito delle storie per bambini sia in quelle a carattere delittuoso, grazie alla sua unica incursione nel genere giallo, uno dei romanzi gialli più leggeri e divertenti di sempre: "Il Dramma di Corte Rossa" (Polillo Editore, 2003), il quale costituisce un mirabile esempio di giallo "soleggiato-vacanziero" (per restare in tema con i titoli del mese di maggio) e vede, per la prima volta, la nascita della figura dell'investigatore scanzonato e dell'indagine intesa come atto di divertimento e svago, oltre che di inchiesta per la scoperta di un colpevole. Si tratta di un tipico delitto della casa di campagna, in cui si sommano moltissimi elementi di cliché che negli anni a seguire avrebbero costituito il racconto del mistero. Un giallo troppo stereotipato, penserà qualcuno; eppure vi posso assicurare che esso è l'eccezione che conferma la regola, dove l'eccesso di maniera dà vita a quello che Rex Stout, inventore di Nero Wolfe, definì come un libro "semplicemente incantevole" nella sua deliziosa ingenuità.

Red Cottage (Essex), 1927, di Eric Ravilious, simile alla
Corte Rossa di proprietà di Mark Ablett
La vicenda si apre fin da subito in un un'atmosfera da sogno: a Corte Rossa, la casa di campagna del filantropo e gentiluomo Mark Ablett, è l'ora della siesta, quel particolare momento della giornata in cui si è troppo stanchi per muovere un dito e si prova un particolare piacere nel restare ad ascoltare il lieve suono della falciatrice al lavoro sui campi lontani. Nell'edificio si trovano pochissime persone, poiché gli ospiti dell'ultimo fine settimana hanno deciso di recarsi al vicino campo da golf per fare qualche oziosa partita: nell'atrio ombroso e fresco, seduto in una poltrona, Matthew Cayley, cugino di Mark, sta leggendo un libro; in un punto imprecisato della casa, Ablett si aggira turbato in attesa dello sgradevole incontro che a breve dovrà affrontare con Robert, il fratello; in cucina, infine, alcune domestiche stanno allegramente chiacchierando proprio sull'imminente ricongiungimento degli ultimi esponenti dell'antica famiglia degli Ablett. Come fa notare l'anziana signora Stevens alla nipote Audrey, a Corte Rossa non succedeva niente del genere da tempo immemore: infatti, Mark ha sempre tenuto nascosto il fatto di essere legato da rapporti di parentela con un individuo che, a suo tempo, è stato allontanato dall'Inghilterra e additato come "pecora nera". Eppure, adesso sembra sia giunto il momento che tutti i nodi vengano al pettine, poiché l'arrivo di Robert è stato annunciato all'ora della colazione con grande enfasi a tutti quanti (forse per avvertirli in caso di cattive sorprese?) e le premesse lasciano intendere come egli stia per sconvolgere la pacifica tranquillità della casa di campagna.

E infatti Robert arriva, puntuale come un orologio svizzero e con un'aria tanto scontrosa che Audrey si chiede quali siano le sue reali intenzioni. Subito il visitatore viene fatto accomodare nello studio a est della casa e la ragazza corre ad avvertire il padrone di casa, incuriosita dalla reazione di quest'ultimo alla vista del fratello; tuttavia, ben presto la faccenda si fa complicata e tragica. Mentre Audrey si trova in giardino, dentro Corte Rossa si ode uno sparo che mette in allarme tutti quanti, a partire dalle domestiche in cucina fino a Cayley, il quale scopre di non riuscire ad aprire la porta che collega lo studio all'atrio in cui si trova. Cos'è successo davvero dietro l'uscio serrato? L'arrivo fortuito di Anthony Gillingham, amico di uno degli ospiti della casa, Bill Beverley, permette la repentina scoperta del cadavere di Robert, chiuso nella stanza in cui egli era stato sistemato in attesa del fratello. A quanto pare, è stato ammazzato da un colpo di pistola e Mark, che secondo la testimonianza del cugino si era unito al morto pochi minuti prima dello sparo, è svanito nel nulla. Che sia fuggito perché temeva di essere accusato del delitto? Tutti si convincono che le cose siano andate così, da Cayley al giovane Beverly agli altri ospiti della casa; eppure Gillingham ha qualche dubbio a riguardo. Alla scoperta del cadavere, egli ha notato una serie di strani dettagli che lo hanno insospettito sul reale svolgersi dei fatti e, un po' per mancanza di altri passatempi e un po' per curiosità, decide di mettersi ad indagare per conto proprio, con Beverly a fargli da spalla. I due si trovano ben presto di fronte a una serie di sfide e di ostacoli che li metteranno alla prova, tra passaggi segreti e gite subacquee, fino a scoprire una verità forse non così imprevedibile, ma di sicuro sorprendente se basata sulle convinzioni che la polizia e gli altri testimoni si erano costruiti all'inizio della vicenda.

Pianta di Corte Rossa
Anche questa volta, ci troviamo nella situazione di partenza che avevamo riscontrato con "Morte a Vele Spiegate": tratteggiata così, infatti, la trama pare avere tutti gli ingredienti del tipico romanzo giallo che gli appassionati di crime story classica amano; anzi, se li contiamo risultano quasi troppi per poter essere accettati e sopportati. Non che la cosa stupisca più di tanto: "Il Dramma di Corte Rossa", infatti, risale al 1922, agli albori di quella che sarà la Golden Age del mystery di stampo inglese; per cui è abbastanza prevedibile che non ci sia chissà quale elemento di originalità al suo interno e che a dominare la scena siano soprattutto quelli che oggi consideriamo cliché a tutti gli effetti. Inoltre, non bisogna aspettarsi che questo romanzo rivoluzioni il genere; ricordiamo che il mondo era nel bel mezzo di una guerra sanguinosa, dalla quale si cercava di sfuggire per qualche ora impegnando la mente in esercizi divertenti, e che quindi la priorità era quella di ideare vicende leggere e intriganti ma non aveva ancora preso piede la vera e propria sfida tra narratore e lettore. Eppure, a differenza del libro di Snow, in questo caso ho amato ogni pagina di "Il Dramma di Corte Rossa". Cosa strana, considerando il fatto che, oltre alla presenza di aspetti inflazionati nel racconto del mistero, l'enigma stesso sia da considerare come molto inferiore a quello che è stato costruito in "Morte a Vele Spiegate", in quanto a complessità ed ingegnosità.

Come spiegare questa reazione da parte dei lettori (parlo al plurale perché ho accertato che siamo stati in molti ad apprezzare e lodare il romanzo di Milne)? Ebbene, la risposta che mi sono dato è che, sebbene entrambi gli autori abbiano dato vita a una sola opera di pregio di genere giallo, Snow non possedesse la capacità di dipingere una storia di omicidi di stampo prettamente classico, dotata di quegli elementi che la caratterizzarono per tutto il corso della sua epoca più sfavillante e capace, allo stesso tempo, di raccontare come fosse il mondo del primo Novecento e di intrattenere chi leggeva con grazia e simpatia; cosa che, invece, Milne ha dimostrato a più riprese di possedere. Mi spiego meglio, prendendo a sostegno come "Il Dramma di Corte Rossa" è stato giudicato da uno scrittore molto famoso negli Stati Uniti, uno dei padri del giallo hard-boiled, Raymond Chandler. Egli ha passato al setaccio questo romanzo e ne ha fatto oggetto di una celebre analisi all'interno del saggio "La Semplice Arte del Delitto", osservando come esso tratti una storia tutt'altro che credibile, se confrontata con altri romanzi del mondo dei duri a cui lui era molto legato. Secondo lui, non era plausibile che tanti elementi del mistero fossero lasciati al caso: che l'inchiesta del coroner venisse basata su un processo privo di alcun documento ufficiale sulla vittima e su Mark Ablett; senza l'analisi del cadavere da parte del medico legale, indispensabile in casi di delitto; sulla testimonianza di molti testimoni sospettati; sulla quasi totale ignoranza nei confronti della figura di Robert; sulla troppo ingenua fiducia della polizia. Per non parlare del fatto che Gillingham fosse raffigurato in modo troppo irreale e scherzoso ("rabbrividisco al pensiero di quello che gli farebbero i ragazzi della Squadra Omicidi del mio paese" sentenziò).

Ora, se confrontate con altri mysteries del periodo, tra quelli di Sayers, Christie o Berkeley, queste critiche alle inesattezze sono fondate: ci troviamo senza dubbio di fronte a un giallo tutt'altro che perfetto e pieno di cliché, e non possiamo che essere d'accordo con le argomentazioni di Chandler; benché voglia ricordare ancora una volta come il libro di Milne appartenesse agli albori del giallo ad enigma della Golden Age. Però, detto questo, vorrei sottolineare due cose: innanzitutto, nel fare la sua analisi, Chandler era di parte e avrebbe apertamente considerato qualunque cosa al di sotto del romanzo dei duri, se solo avesse potuto farla franca; quindi, bisogna intendere le sue parole negative sul caso di Corte Rossa con molta cautela. Inoltre, cosa più importante, vorrei mettere in luce un fatto che moltissimi critici tendono a dimenticare, quando recensiscono un'opera di svago: ognuno di noi decide di approcciarsi alla storia fittizia in modo differente, quindi non è detto che, se a uno non è piaciuto un dato libro, esso debba fare schifo anche a un altro (e viceversa). La cosa varia in base a fattori diversi: c'è chi leggere per intraprendere una sfida mentale, chi fa come le persone vissute nel 1920 e vuole soltanto svagarsi un po', chi intende la crime story come passatempo e perciò non ha grandi pretese sul rispetto delle regole del fair-play, o sul fatto che vengano impiegati cliché o introdotte innovazioni originali. Personalmente, dalla lettura di gialli cerco di ricavare informazioni sul mondo del primo Novecento, oltre che desiderare un mistero affascinante e una certa sorpresa. Quindi, per concludere la digressione, bisogna tenere da conto, quando si fanno delle critiche su un dato argomento (io stesso mi sforzo di mettere in luce pregi e difetti allo stesso modo, così da dare una visione d'insieme), che ciò che noi amiamo potrebbe essere noioso per altri. E "Il Dramma di Corte Rossa" ha messo d'accordo un sacco di persone, nonostante le sue lacune. Come mai?

Esso può essere considerato secondo diversi punti di vista. Da quello strettamente enigmistico, può non valere molto per un appassionato: infatti, è innegabile che nel libro ci sia, da parte dell'autore, un uso smodato di passaggi segreti, travestimenti e altri elementi fin troppo usati nel giallo, insieme a molte imperfezioni e ingenuità. D'altra parte, però, è pur vero che il romanzo si legge che è un piacere, proprio grazie al suo essere leggero, grazioso, confortante. In esso, sembra contare più il viaggio del mistero, come se l'autore volesse intrattenere con una storia graziosa piuttosto che creare chissà quale capolavoro del giallo. Questa è la grande differenza con "Morte a Vele Spiegate" e il motivo per cui Chandler lo bocciò. Nel caso di Snow il delitto, costruito con ingegnosità quasi calcolatrice, era il centro di tutto quanto: esso era stato curato con fredda astuzia e costruito come se la vicenda dovesse essere rappresentata per un pubblico di attenti codebreaker, trattato come un quesito matematico a cui viene accostata l'indagine delle emozioni e dei caratteri dal punto di vista scientifico-analitico, senza dare importanza al sentimento vero e proprio e senza lasciarsi mai andare, come se fosse un delitto far trapelare che, dietro a ogni cosa, ci fosse un'anima. Il risultato, di conseguenza, era stato qualcosa di artificioso e irreale, in cui tutto si concentrava sul caso e mai sul lato "umano" della storia (non per niente le uniche parti dove emerge una parte di genuinità sono quella allo stadio, con l'ironica tirata di Finbow sulle capre e le pecore accostate agli studenti di istituti privati e licei pubblici, e quella all'ospedale, con i pomposi e vivaci Boothby e Parfitt). L’ironia incarnata da Birrell e la signora Tufts veniva trattata da Snow (che ne era privo) come una caratteristica poco seria, che trasformava tali personaggi in macchiette da prendere in giro; non riesce a spezzare la tensione e ad allontanare la mente dal caso, ma costituisce un pretesto cinico per dimostrare come il mistero viene affrontato (malamente) dalla polizia ufficiale in confronto al metodo di Finbow. Milne, invece, con questo romanzo decide di incarnare l'ideale di Thomas de Quincey e il suo "L'Assassinio come una delle Belle Arti" e di dare una svolta al giallo improntato al solo problema matematico, abbandonando l'austerità come avevano già iniziato a introdurre Christie e Sayers in "Poirot a Styles Court" e "Peter Wimsey e il Cadavere Sconosciuto", introducendo per la prima volta il componente principale che avrebbe fatto la fortuna delle storie di Berkeley: il brillante chiacchiericcio e il lasciarsi andare un po', trattando il giallo non solo come un austero cruciverba ma raccontando piccoli episodi di vita quotidiana per spezzare la gelida routine dell'indagine.

In questo caso, l’ironia diventa qualcosa di leggero, un elemento che contribuisce a far avvicinare non solo il ristretto numero di amanti del giallo, ma soprattutto la gran quantità di persone che desiderano leggere una storia simpatica, che abbia o meno a che fare con un delitto. Credo sia questa la ragione del successo tra il pubblico e gran parte della critica di "Il Dramma di Corte Rossa"; tanto grande da rendere la disamina denigratoria di Chandler come una sorta di lamentela capricciosa di un collega invidioso. Leggere questo romanzo vuol dire rasserenarsi, entrare in un mondo migliore, garbato, pulito e ordinato, nonostante vi venga commesso un delitto; e alla fine conta poco la perfetta esecuzione del mistero tanto casa a Snow. I difetti scompaiono di fronte al lettore medio (e al giallista meno manicheo di Chandler), poiché egli viene catturato dal racconto e avvolto dal modo grazioso in cui è narrata la storia, dall'intreccio godibile, dal crogiolarsi beato nelle splendide descrizioni della campagna inglese, dai dialoghi brillanti e dall'umorismo garbato che permea tutto il libro, anche nei momenti più drammatici.

Alan Alexander Milne, nato nel 1882 e
morto nel 1956
D'altronde, Alan Alexander Milne era quello che si può definire come "uno scrittore di vocazione". Nato nel 1882, fu il terzo di tre fratelli: egli stesso, Barry (il maggiore) e Ken (il minore). Se col primo ebbe sempre un rapporto molto difficile e caratterizzato da una feroce inimicizia, col secondo instaurò uno straordinario legame di cordialità che gli permise di scoprire la propria strada letteraria. Infatti, dopo gli studi alla Henley House di Londra (diretta dal padre), sotto l'ala protettrice di nientemeno che H.G. Wells, e la Westminster School, approdò col fratellino al Trinity College di Cambridge, dove come duo iniziarono a collaborare a "The Granta", la rivista umoristica pubblicata in loco. Fu questo l'inizio della sua carriera di scrittore, poiché durante gli anni universitari Alan iniziò a scrivere anche per altre testate; tra cui il "Punch", dove venne assunto in pianta stabile nel 1906. Nel frattempo, un anno prima aveva pubblicato una serie di pezzi sotto il titolo "Lovers in London", un volume che in seguito avrebbe ripudiato e del quale si affrettò a riacquistare i diritti per non vederlo più ristampato. Nel 1913 sposò Dorothy de Selincourt, e poco dopo si arruolò per andare in guerra. Nel 1919, al ritorno dal fronte, si aspettava di tornare a scrivere per il "Punch" ma dovette accettare il fatto che, alla redazione, si erano ormai adattati a trovare un suo sostituto, che producesse contenuti adatti alla testata umoristica invece di baloccarsi con opere teatrali (come aveva fatto lui). In questo modo, Milne cambiò rotta e si concentrò sulla scrittura di testi per il teatro, i quali gli diedero tanta fama quanto critiche (egli fu sempre molto suscettibile a riguardo). Ormai famosissimo, decise di nuovo di tentare una strada diversa e, nel 1922, scrisse "Il Dramma di Corte Rossa", il quale venne accolto ancora una volta tra critiche feroci (come quella di Chandler) e lodi sperticate, tanto da diventare in breve uno dei più grandi gialli di tutti i tempi. Questo forse sarebbe bastato per un uomo normale: dopotutto, ormai avrebbe potuto dedicarsi esclusivamente al teatro o al mystery fino alla fine dei suoi giorni. E invece, di nuovo, Milne intraprese una sfida all'apparenza disperata: decise di scrivere per i bambini, ottenendo l'ennesimo trionfo con i quattro volumi sull'orsetto Winnie-the-Pooh e i suoi amici del Bosco dei Cento Acri (tra cui il bambino Christopher Robin, alter ego del figlio di Milne).

È curioso come egli, poco dopo, iniziò ad odiare la sua creazione: forse desiderava essere ricordato per le sue opere più impegnate, come accadde a Christopher St. John Sprigg. A quel punto, dunque, decise di abbandonare l'orsetto al suo destino, ma stavolta il pubblico non gli perdonò l'affronto; tanto che le sue opere successive non riuscirono nemmeno lontanamente ad eguagliare il successo ottenuto con Winnie. Intanto i rapporti con Christopher si erano deteriorati poco a poco e Alan decise di trasferirsi con la moglie nel Sussex, a vivere in campagna. Laggiù trascorse gli ultimi anni della sua vita, finché nel 1952 venne colpito da un ictus e dovette essere operato al cervello; l'intervento gli salvò sì la vita, ma lo rese invalido fino al 1956, quando morì. Questo suo carattere difficile può far pensare che Milne fosse un vecchio antipatico, dal quale era meglio stare alla larga; eppure, Clarice Carr (la moglie del celebre giallista John Dickson) lo ricordò in un'occasione particolare, durante una delle cene al Detection Club (al quale Alan venne chiesto di unirsi grazie al suo celebre giallo e ad alcuni racconti sporadici sullo stesso genere): sconcertata, lo descrisse come "il tipo puramente inglese, bello da vedersi come una star cinematografica, magro e ben proporzionato, né piccolo né troppo alto, leggeri capelli marroni... Si portò in un angolo e si sedette laggiù, senza parlare o guardare nessuno". La spiegazione del suo comportamento, tuttavia, non è da imputarsi a snobismo o indole scostante, ma solamente a timidezza e reticenza (come affermarono John Rhode e Dorothy L. Sayers). Da parte mia, l'ho sempre immaginato come uno di quei vecchi gentiluomini d'altri tempi, duri ma capaci allo stesso tempo di essere affascinanti e di intrattenere con storie argute: in fin dei conti, aveva lavorato al "Punch" come Berkeley e non mi sarei aspettato una vena umoristica poco sviluppata. Quella stessa emerge da ogni sua opera letteraria: nei testi teatrali, in Winnie-the-Pooh e, ovviamente, anche in "Il Dramma di Corte Rossa", dove essa riesce ad amalgamare ogni elemento della trama e della struttura narrativa in modo egregio e leggero.

Pensate che, nella ristampa del suo romanzo giallo del 1926, inserì un'introduzione in cui spiegava come egli intendesse la crime story e cosa, a suo parere, essa dovesse essa mettere in scena. Stilò quindi una piccola scaletta di regole da seguire (come fecero Monsignor Knox, T.S. Eliot e S.S. Van Dine; il tutto con intento ironico, s'intende): spiegò che il romanzo doveva essere scritto in inglese corrente; che non doveva esserci al suo interno alcun interesse amoroso, soprattutto per l'investigatore, il quale doveva essere impegnato a risolvere il caso e non ad intrattenere allegre relazioni; che il detective e l'antagonista non dovevano avere conoscenze particolari ad avvantaggiarli nell'ideazione del delitto e nel raggiungere la sua soluzione; che la scienza non doveva essere impiegata troppo spesso per giustificare prove e indizi; che le conoscenze del lettore dovevano essere sempre messe sullo stesso piano di quelle della spalla di turno, senza nascondere alcun elemento fondamentale o a fare rivelazioni finali; infine, che ci dovesse essere uno "Watson" ad interpretare il ruolo del lettore all'interno del racconto. Questa lista deve essere presa in modo ironico, come dicevo; eppure, se ben guardiamo, ci accorgiamo che tutto ciò è stato inserito in "Il Dramma di Corte Rossa": oltre all'ambientazione tradizionale, quella di un mondo "alla Wodehouse" in cui l'estate è eterna, il tè e i tennis party si sprecano, la guerra non è mai esistita e solo ogni tanto appare qualche cadavere di sfuggita, un po' somigliante a quella di "La Pietra di Luna" di Wilkie Collins, in cui viene dipinta la società de tempo; oltre all'atmosfera rilassata e sognante, caratterizzata dal piacevole chiacchiericcio tra una governante e una cameriera, dalla calda giornata estiva nella quale si ode solo il brusio delle api e una falciatrice lontana, da simpatici ospiti scrocconi e sfaccendati (tra cui i proverbiali maggiori dell'esercito, anziane signorine e giovani delicate forse poco tridimensionali, vedi pp. 7-10, 13-15, 17-20, 23-25, 52-58, 63, 75-79) che a quel tempo erano parte del tessuto sociale e tranquillamente tollerati; oltre a tutto ciò, insomma, abbiamo una coppia di protagonisti che, parodiando il genere con la giusta alchimia e battute e riferimenti simpatici, decidono di giocare a Sherlock Holmes e Watson (pp. 87-88, 90, 95-97, 108, 113-118, 121-122, 127-128, 136, 139, 142-143, 147-152, 171-177, 188, 195-196, 201-202, 209, 212, 214, 218-219, 240, 244-245) all'interno di una storia piena di elementi fin troppo usati nel giallo: a partire dal titolo (che sembra proprio accennare al classico delitto della casa di campagna), troviamo poliziotti un po' ottusi ma abbastanza svegli da capire che la faccenda è più complicata di quanto sembri; passaggi segreti dietro gli scaffali pieni di libri, aule di tribunale colme di gente in attesa del verdetto del coroner, confessioni finali in forma di lettera, fantasmi finti.

Lo stesso Gillingham incarna lo stereotipo del giovane ricco che, alla pari di Lord Peter Wimsey, decidere di dedicarsi all'indagine da dilettante per passare il tempo e rendersi utile, grazie alla capacità di registrare tutto e conservarlo nel subconscio; mentre Bill è il giovane sfaccendato "alla Bertie Wooster" tanto presente nei classici mysteries, un po' ingenuo e vanesio ma fedele. Insieme costituiscono le due facce dell'indagine: quella che si diverte ad indagare, per puro spasso, e quella consapevole della tragedia avvenuta, più seria quando fa ragionamenti nella sua testa (pp. 36-39, 56-60, 66-70, 80-81, 89-91, 96-97, 99-102, 104-105, 111-112, 122-123, 132-134, 137-138, 140-141, 143-144, 167-170, 183-184, 191-193, 197-203, 242-244). Lo stile garbato e simpatico, pieno di piccole osservazioni dell’autore (pp. 18, 24-27, 41-42, 52-54, 67-68, 73-77, 95-96, 109-110, 119-121, 147-151, 157-159, 179-182, 186-188, 217, 222) con cui viene tratteggiata tutta la storia, infine, restituisce al lettore un giallo sempre giocato sul filo del divertissement, dove le sue leggerezza e allegria (non c'è praticamente mai un momento di tensione o di reale pericolo per i due protagonisti) non appaiono mai fuori posto. "Il Dramma di Corte Rossa" è un giallo che è invecchiato, sì, ma con grazia. Ed è per questo che, a mio parere, pur nella sua ingenuità viene citato e ricordato con affetto a tutt'oggi (a differenza di altre opere più complesse e ingegnose, ma pesanti e invecchiate male); nonostante il suo enigma poco complesso, carente soprattutto nella parte dell'inchiesta (cap. 19) e nella soluzione finale, il cui confronto coi grandissimi del genere è del tutto impietoso. Penso che, in fondo, lo scopo di Milne non fosse quello di ideare una soluzione plausibile che reggesse a un attento esame, ma che il vero piacere della lettura fosse da ritrovare nell'ingegnosità della sua costruzione e nel rapporto tra i personaggi. Insomma, per concludere: il fatto che questo sia uno dei primi esempi di giallo deduttivo non deve indurci a pensare che esso sia noioso o addirittura scadente. Anzi, secondo me è da considerare ancor più straordinario proprio perché, nonostante questi difetti, "Il Dramma di Corte Rossa" ha saputo mantenere bene la propria fama per tutti questi anni, come un giallo d'epoca arguto che è invecchiato con grazia. Niente male, pur essendo un po' prevedibile sotto alcuni aspetti.

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venerdì 7 febbraio 2020

23 - "Dov'è Cicely?" ("Cicely Disappears", 1927) di A. Monmouth Platts/Anthony Berkeley

Copertina dell'edizione pubblicata nei
Classici del Giallo Mondadori n. 1429
Da pochi anni a questa parte, in Italia, il mercato della classica crime story ha subito un radicale cambiamento. Infatti, se fino alla fine del 2015 soltanto Mondadori (con le sue collane da edicola sulle ristampe del Giallo) e in parte Polillo (la quale ha ripreso le pubblicazioni dopo un periodo di pausa) si erano addentrate in questo campo perlopiù inesplorato dall'editoria del nostro Paese, da qualche tempo le pubblicazioni in tal senso si sono moltiplicate grazie alla nascita di nuove collane da libreria, dedicate al romanzo del mistero inglese della prima metà del Novecento. L'opera di Christopher St. John Sprigg, ad esempio, ha trovato il proprio posto in Lindau, assieme ad altri titoli meno impeccabili in fatto di enigma ma in gran parte inediti e sempre ben accetti; Mulatero prosegue la sua riproposta della serie di Abercrombie Lewker di Glyn Carr, e lo stesso si può dire di Le Assassine, le quali hanno in cantiere libri del mistero molto appetibili. Forse questo è un segno del fatto che, finalmente, la crime story della Golden Age ha iniziato ad assumere una connotazione differente da quella che l'ha vista etichettata come letteratura "medio-bassa"; relegata alle sole collane da edicola, dove ci eravamo abituati a veder ristampati i soliti titoli oppure romanzi più attinenti al genere hard-boiled. Bisogna ammettere, tuttavia, che anche in questo formato, a partire dal 2018, sono tornati alla ribalta alcuni inediti perlomeno interessanti per il collezionista di gialli tradizionali, soprattutto all'interno dei Classici del Giallo. Certo, spesso gli autori proposti non sono i Grandi Maestri del calibro di Dorothy L. Sayers (della quale manca la traduzione nostrana di "Gaudy Night"), Ngaio Marsh, J.J. Connington, John Rhode oppure Nicholas Blake; però penso che non ci si debba lamentare per questo. Dopotutto, si tratta pur sempre di nuove letture e, dal canto mio, nutro una grande passione per gli intrighi prettamente inglesi, ma densi di suspense, che ideò a suo tempo Ethel Lina White, o per le storie scientifiche e al limite dell'asettico di Richard Austin Freeman; per cui sono più che felice di trovare inedite storie di questi autori ogni anno.

A questo proposito, proprio in questo mese di febbraio, i Classici del Giallo hanno riservato una sorpresa ai suoi lettori, proponendo per la prima volta la traduzione di un libro attorno al quale aleggia una densa aura di mistero; quel "Cicely Disappears" che venne firmato da tale A. Monmouth Platts e che comparve (leggermente diverso) in una prima edizione a puntate nel marzo 1926, col titolo di "The Wintringham Mystery", per poi essere raccolto in volume l'anno seguente. Un romanzo giallo davvero particolare, visto che le sue ripubblicazioni e traduzioni estere si contano sulle dita di una mano: la prima (originale) nel 1927, quella giapponese di una quindicina di anni fa e quella di cui sto parlando, che recensirò per voi questa settimana. Si tratta, dunque, di una sorta di evento, che si può paragonare in piccola parte a quanto è accaduto con "Com'è Morto il Baronetto?" di H.H. Stanners; solo che in questo caso il romanzo, benché sotto pseudonimo, è stato scritto nientemeno che da Anthony Berkeley! Così, di punto in bianco, Mondadori ha momentaneamente ripreso il ruolo di editore di punta nel campo del mystery, consegnando ai lettori l'inedito "minore" di un grande del Giallo col titolo "Dov'è Cicely?" (Classici del Giallo Mondadori n. 1429, 2020); "minore" perché fu la prima incursione di Berkeley nel campo della classica crime story e, quindi, non all'altezza di altri suoi capolavori, ma non per questo meno divertente o del tutto estraneo al modello che l'autore ha instaurato nel corso della sua carriera, poiché esso presenta numerosi cenni biografici a personaggi e luoghi che ebbero un forte legame con lui e affronta temi che egli svilupperà negli anni seguenti.

Illustrazione su come si svolgeva una seduta spiritica simile
a quella messa in scena in "Dov'è Cicely?"
La storia inizia presentandoci il personaggio di Stephen Munro, un giovane appartenente all'aristocrazia inglese della prima metà del Novecento, il quale si ritrova a dover abbandonare gli agi a cui è abituato e ad affrontare la dura realtà: dopo aver esaurito i propri mezzi di sostentamento, infatti, egli è caduto in disgrazia e, pur di sopravvivere, è costretto a cercare un lavoro come tutte le persone che non hanno avuto la fortuna di nascere con un cospicuo patrimonio alle spalle. Non può nemmeno mantenere il proprio maggiordomo Bridger, poiché l'unica prospettiva che gli si presenta all'orizzonte è quella di diventare a sua volta un servitore a Wintringham Hall, la dimora della ricca lady Susan Carey; e un valletto non può permettersi alcun cameriere personale. Insomma, un futuro ricco di sorprese e decisamente imbarazzante si delinea nell'avvenire di Stephen, obbligato ad assecondare gli strani desideri degli ospiti della padrona di casa: quest'ultima si rivela una vera arpia, impossibile da accontentare; il suo amico Freddie Venables, nipote della signora Carey, lo tratta come se fosse un suo pari e non sembra avere intenzione di accettare la nuova condizione del novello cameriere, mettendolo in continue situazioni inopportune; il maggiordomo di Wintringham Hall, Martin, spera di riuscire ad inserirlo al meglio nel personale che dirige e si erge sgradevolmente ad esempio per Stephen, sebbene anche Bridger sia stato accolto da lady Susan. Inoltre, come se tutto questo non bastasse, la ragazza di cui il nostro sfortunato protagonista è innamorato, Pauline Mainwaring, si presenta a Wintringham Hall con un nuovo corteggiatore dall'aria bellicosa e pare ignorare i continui sguardi che Munro le indirizza. Eppure, pian piano, Stephen riesce a trovare un giusto compromesso e a sopportare la situazione che si trova costretto a vivere: l'altra nipote di lady Carey, Millicent, appare tranquilla e riservata e non crea alcun tipo di problema, e pian piano anche gli ospiti si abituano alla presenza di un valletto fuori dall'ordinario come lui. Un valletto che tiene gli occhi ben aperti e non si lascia sfuggire nulla: come quando intravede nell'espressione di Cicely Vernon, la protetta della sua padrona, un lampo di apprensione, mentre lei si appresta a lasciare la casa. Una stranezza che solletica la sua fantasia...

La sera stessa della partenza della signorina Vernon, tuttavia, l'attenzione di Stephen viene catturata dalla malsana idea di Freddie di mettere in scena una seduta spiritica. Tutti si annoiano, per cui cosa potrebbe sollevare meglio l'umore dei presenti? Tra vane lamentele e l'entusiasmo crescente, alla fine l'esperimento viene approntato proprio mentre Cicely ritorna precipitosamente a Wintringham Hall; sarà proprio la ragazza ad offrirsi per fare da medium per entrare in contatto con gli spiriti. Mentre le luci sono spente e il salotto è chiuso come una scatola da scarpe, tuttavia, il gioco si trasforma in cruda realtà e accade l'impensabile: Cicely scompare nel nulla, in mezzo a suoni lugubri, urla inumane ed effluvi di cloroformio, senza che nessuno riesca a capire come sia riuscita ad compiere una tale fuga impossibile. Che fine ha fatto la ragazza? E come mai lady Susan sostiene con tanta forza che si tratta solo di uno scherzo di pessimo gusto? Quando la scomparsa della giovane si farà ben più reale, sarà Stephen (accompagnato da una spalla più che mai gradita ed affettuosa) ad assumere i panni dell'investigatore dilettante e a prendere in mano le indagini sul mistero, tra passaggi segreti, ospiti subdoli, ricatti e furti; mentre la Morte si avvicina sempre più, per colpire all'improvviso e ritirarsi nella stessa ombra in cui (forse) si trova già la ragazza sparita.

Copertina dell'edizione originale di "Dov'è Cicely?" del 1927
Nell'introduzione alla recensione, ho sottolineato il fatto che la recente pubblicazione di "Dov'è Cicely?" rappresenta un evento non sono per i lettori italiani come il sottoscritto, ma in qualche modo pure per coloro i quali sono abituati a letture in lingue diverse dalla nostra. Questo titolo, infatti, è scomparso dagli scaffali delle librerie di quasi chiunque nel mondo, e solo alcuni fortunati possono affermare di possedere l'edizione originale del 1927. Si tratta, dunque, di un'eccezionale occasione per riscoprire uno dei romanzi più oscuri della storia della Golden Age del giallo all'inglese, e sono davvero contento che Mondadori abbia deciso di riproporlo. In realtà, per qualche tempo mi sono chiesto come mai sia dovuto passare così tanto prima di veder ristampato "Dov'è Cicely?": dopotutto, esso rientra tra le opere di uno dei maggiori scrittori di crime novels di tutti i tempi, colui il quale diede vita per primo a un prototipo del giallo psicologico come lo intendiamo noi oggi, grazie ai libri che firmò come Francis Iles; quindi perché si erano perse quasi del tutto le tracce di questo giallo? A fine lettura, tuttavia, penso di aver capito il motivo di questo ritardo e come mai questa prima prova letteraria di Berkeley non sia rimasta a lungo impressa nella memoria dei critici. Il fatto è che, pur raccontando una storia piacevolissima e tipicamente tradizionale, "Dov'è Cicely?" non spicca nella massa di altri romanzi gialli dell'epoca; non è qualcosa di imprescindibile, pur proponendo una variazione della camera chiusa tanto amata dagli appassionati di classica crime story. Infatti, se paragonato a capolavori geniali dello stesso autore, come "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" o a "L'Ultima Tappa", questo libro risulta inferiore, poiché presenta ancora troppi cliché e personaggi un po' stereotipati. Tutto questo, però, non vuol significare che le vicende narrate siano noiose e poco interessanti. Se da un lato la storia non possiede ancora le caratteristiche straordinarie che Berkeley avrebbe conferito in seguito alle sue creazioni, dall'altro essa risulta godibile e divertente, permettendoci inoltre di notare come queste ultime stessero iniziano a delinearsi, in una sorta di abbozzo o prova generale; e ciò è di grande interesse per poter capire quale fu il percorso intrapreso dall'autore per raggiungere le vette di perfezione che sarebbero venute in futuro.

Insomma, non siamo ancora ai livelli di "L'Omicidio è un Affare Serio", dove l'autore decise di anticipare i tempi e cambiare le regole della tradizionale partita tra lettore e autore di gialli; ma alcune idee sull'enigma e sulla personalità e mentalità dei personaggi cominciarono già a prendere forma, dando vita a una forte contrasto interno alle vicende raccontate il quale, oltretutto, rappresenta al meglio chi fosse Anthony Berkeley Cox. Dovete sapere, infatti, che egli, nato nel 1893 come la sua controparte femminile Dorothy L. Sayers, fu un personaggio talmente complesso che probabilmente nessuno riuscirà mai a comprenderlo appieno (in ogni caso, per avere una visione chiara e dettagliata di questa somiglianza, vi consiglio di leggere "The Golden Age of Murder" di Martin Edwards, in cui l'autore viene attentamente messo sotto il microscopio). Problematico, affetto da un fortissimo complesso di inferiorità nei confronti delle donne (probabilmente dovuto al fatto di essere sempre stato considerato, dalla madre autoritaria, più "tardo" rispetto al fratello Stephen e alla sorella Cynthia), inguaribile donnaiolo, misantropo e affettuoso di volta in volta, ma allo stesso tempo geniale innovatore della crime story britannica, Berkeley fu un individuo capace di spiazzare gli interlocutori con i suoi repentini cambi di umore e idee. Probabilmente fu la guerra a dare il colpo di grazia al suo fragile equilibrio mentale: ritornato dai campi di battaglia, la sua salute fisica e psichica si aggravò e mise in luce quanto il conflitto l'avesse indebolita, tanto quanto l'intelligenza e la creatività erano invece solide. Aveva trascorso un'infanzia segnata dall'infelicità, tra fratelli considerati molto più dotati di lui e genitori non propriamente affettuosi, e la somma dei suoi traumi finì per generare in lui un atteggiamento schizofrenico, che si abbatteva sul prossimo di continuo, soprattutto quando si trattava di esseri femminili, e che egli stesso tentò di esorcizzare attraverso la scrittura. Rinchiuso nelle sue proprietà di Monmouth House e The Platts (proprio ad esse si ispirò per inventare lo pseudonimo usato per firmare "Dov'è Cicely?"), trascorreva le proprie giornate a riflettere sulla propria esistenza travagliata e a riversare nei romanzi le frustrazioni, generando un'aura di mistero attorno a sé e alimentando la propria insoddisfazione. Si prendeva gioco della giustizia, considerandola fallace e inutile per dirimere le questioni vitali degli uomini; intrecciava relazioni e flirt illudendosi di aver trovato l'anima gemella e finendo sempre per rendersi conto di essersi sbagliato; si lamentava del Governo e degli addetti statali dopo un'infelice esperienza lavorativa in un ufficio governativo: riuscì a fare tutto questo mentre ideava misteri strabilianti, dando nuova linfa al giallo all'inglese, tratteggiando con tono cinico i personaggi e le loro debolezze e mettendo in ridicolo le convinzioni più radicate della sua epoca. "I giorni del vecchio enigma poliziesco, basato interamente sulla trama e senza connotazione dei personaggi e concessioni allo stile e allo humor, sono, se non contati, in ogni caso nelle mani del pubblico" sostenne nella prefazione di "Gioco Mortale", il suo secondo romanzo, aggiungendo che "il romanzo giallo si sta sviluppando in un genere narrativo con un interesse più accentuato sul crimine, che tiene avvinto il lettore facendo leva non tanto sugli elementi matematici quanto su quelli psicologici". Tale convinzione, pertanto, non poté che indurlo a compiere l'ennesima pazzia: per il gusto di cambiare le solite regole noiose, infatti, arrivò a rovesciare completamente i canoni del giallo all'inglese, inducendo gli assassini a diventare le vittime, gli assassinati crudeli aguzzini, giudici dall'aria paterna figure lugubri e molto altro. Tuttavia, il suo gusto per il mistero finì ancora una volta per toccare l'esagerazione, tanto da indurlo a non rivelare mai niente di sé senza sotterfugi: non concedette interviste né autografi gratuiti e si divertì a confondere anche gli amici fornendo opinioni che cozzavano spesso tra loro, godendo nel mantenere uno stretto riserbo sulla sua vita privata al punto che solo di recente alcuni fatti della sua vita sono venuti alla luce.

In ogni caso, l'utilizzo della narrativa del mistero come mezzo per andare incontro e mettere freno alle proprie manie non dovette andare del tutto a buon fine, visto che il suo atteggiamento non mutò in meglio; anzi, con il passare degli anni purtroppo peggiorò e la sua mente divenne sempre più instabile, tanto che Julian Symons raccontò di averlo incontrato in un paio di occasioni e, in entrambe, si verificarono strane circostanze: una volta, un chiodo arrugginito sbucò dal suo piatto di minestra (lo aveva lasciato cadere qualcuno per sbaglio o lo aveva infilato lì lui stesso?) e l'altra interruppe addirittura la conversazione, mettendosi una maschera sulla faccia, gonfiando una pallina di gomma e facendo profondi respiri. Ma, in fondo, Anthony Berkeley non era quel mostro che fin qui può esservi parso: era un compagno che, per quanto un po' inquietante, si dimostrò insolito e sorprendente. Brillante romanziere, capace di creare atmosfere ricche di sfumature misteriose e trame complesse, oltre ad innovare il romanzo giallo con le sue trame in anticipo sui tempi, riuscì a rivoluzionare anche la concezione del detective tradizionale con l'introduzione, in "Uno Sparo in Biblioteca", di Roger Sheringham, un individuo scontroso, maleducato, fallace e abbastanza sconveniente il quale, prima di arrivare alla soluzione, finisce per sospettare di quasi tutti. Berkeley era uno che avrebbe potuto vantare e strombazzare una personalità fuori dal comune, però decise di non farlo. Amava indossare i panni di personaggi curiosi, spesso misogini e burberi, come se fosse sempre sul palcoscenico; a volte litigava con foga con alcuni membri del Detection Club, che contribuì a fondare fin dai primi giorni (una volta mi sarebbe piaciuto assistere a un suo incontro con Dorothy L. Sayers), ma in molti affermarono con convinzione che sotto sotto amava incoraggiare i giovani scrittori e, cosa da non dimenticare, possedeva una percezione della realtà fuori dal comune. La stessa identità di Francis Iles, con cui firmò "L'Omicidio è un Affare Serio", "Il Sospetto" (da cui Hitchcock trasse un film che, per quanto ben fatto, non riesce a rendere l'idea della grandezza del libro da cui è stato tratto) e "As For the Woman" rimase un incognita che venne svelata solo dopo la sua morte; una maschera che amava portare più di ogni altra, poiché era nata dal ricordo di un vecchio antenato, un contrabbandiere che veniva considerato una pecora nera dalla famiglia. Proprio il tipo che lui avrebbe preso in simpatia fin da subito e al quale avrebbe accordato la disponibilità per combinare qualche astuto ed eclatante scherzo.

Anthony Berkeley Cox, nato nel 1893
e morto nel 1971
Tenuto conto di questa descrizione contrastante della personalità di Berkeley, non c'è alcun dubbio che essa sia riflettuta in pieno già a partire da questo suo primo romanzo. Come vi ho detto, infatti, "Dov'è Cicely?" presenta alcune idee abbozzate sulla concezione del romanzo del mistero, sui temi trattati e sulle figure dei protagonisti secondo la concezione dell'autore, le quali avrebbero poi costituito una sorta di marchio, insieme al seminare cenni biografici a personaggi e luoghi che ebbero un forte legame con la sua persona. Ad esempio, per i propri personaggi Berkeley prese ispirazione da persone con cui entrò in qualche modo in contatto: Cullompton, Kentisbeare e il ricco ma violento Julius Hammerstein ricordano individui che possono essere accostati a figure reali (primo tra tutti Hammerstein, il quale lavora come agente immobiliare allo stesso modo di Paul Dashwood, marito della famosa E.M. Delafield e "rivale" dello stesso Berkeley per la conquista del suo cuore). Anche per la figura di Stephen Munro può esistere un legame con un essere umano in carne ed ossa: egli, infatti, si chiama come il fratello dell'autore, sposato alla giovane Hilary della quale quest'ultimo si era invaghito; sebbene in fatto di caratteristiche fisiche e psicologiche sia più vicino allo stesso Berkeley, poiché è un giovane che si apprezza per la sua ironia un po' cinica, per il modo di fare schietto ma simpatico, per l'impossibilità di essere trovato davvero antipatico nonostante alcune uscite teatrali e per il temperamento irriverente. Tra i cenni biografici, inoltre, si può includere il riferimento allo sculacciare (uno dei cavalli di battaglia più curiosi dello scrittore, p. 136) e la scelta dello pseudonimo adottato per firmare il romanzo, visto che egli scelse i nomi delle sue due proprietà di campagna per comporlo.

Pure in fatto di temi ricorrenti nella narrativa di Berkeley ci possiamo sbizzarrire. Primo tra tutti, il voler mettere in ridicolo gli atteggiamenti dei personaggi: grazie al proprio tipico umorismo inglese, irriverente e cinico, l'autore si diverte a girare il coltello nelle debolezze degli attori sulla scena, portando alla luce segreti e nefandezze di tutto questo gruppo di individui ben poco simpatici, ognuno caratterizzato da doppiogiochismo oppure da interessi personali da portare avanti senza curarsi delle conseguenze sugli altri. Ma non solo; Berkeley fa anche in modo di portare Stephen (nobile decaduto a servitore) di nuovo alla pari con gli ospiti "ufficiali" di Wintringham Hall, dopo avergli permesso di seminare sconcerto tra il personale: in questo modo, sembra prendersi gioco dei valori del suo tempo e, restituendo la dignità a Munro, di quella giustizia secondo cui egli sarebbe dovuto essere licenziato ed allontanato dalla casa, e non reinserito nella società più elevata. A questo proposito, il sentimento critico si riflette pure nel ritratto che viene fatto della giustizia. Berkeley fu sempre ossessionato dal fatto che il sistema giuridico inglese non fosse all'altezza delle aspettative e, di conseguenza, riuscisse solo a condannare le vittime e a salvare i colpevoli; ebbene, anche in questo caso (soprattutto nella spiegazione finale e nella scoperta del colpevole) si nota come l'autore avesse già iniziato a sviluppare questo tema, benché non raggiungendo ancora i livelli di sconcerto generati in romanzi successivi come "L'Ultima Tappa". Inoltre, l'irriverenza tocca la seduta spiritica: Berkeley calca la mano sugli effetti misteriosi, generati nel corso del rituale, per prendere in giro chiunque creda a queste séance fasulle; non lo fa semplicemente per dare enfasi alle descrizioni e generare tensione e pathos, ma intende dipingere il tutto come qualcosa di scherzoso e bonario, un intrattenimento per trascorrere qualche ora oziosa e che non bisogna prendere sul serio (un po' come avrebbe fatto in seguito Christopher St. John Sprigg col suo "Sei Oggetti Misteriosi", anche se in quel caso egli avrebbe sollevato la questione politica dell'ingannare la gente ingenua e sulla pericolosità del plagiare e menti). In fin dei conti, la seduta spiritica resta uno stratagemma per mettere in mostra la vacuità della società e non diventa fonte di inquietudine; al contrario, sono gli atteggiamenti delle persone che si rivelano pericolosi e deleteri. Ultimo tra gli elementi che saranno sviluppati da Berkeley, ma non meno importante, è infine la fallacia dell'investigatore. Con la creazione di Roger Sheringham, l'autore ideò per primo la figura del detective che può permettersi di sbagliare nel giungere a una conclusione, e lo fece agire in questo modo in numerosi tra i suoi casi. Anche in "Dov'è Cicely?" ritroviamo questa formula in modo abbozzato, poiché Stephen cambia idea di capitolo in capitolo su chi sia il colpevole, e dobbiamo aspettare proprio la fine prima che decida a chi imputare le colpe.

È questo l'ennesimo segno del segreto divertimento di Berkeley nel tormentare giocosamente e prendere in giro il prossimo. Insomma, tutto ciò dimostra come "Dov'è Cicely?" non sia affatto un romanzo da buttare. Peccato solo che la storia tenda verso l'avventuroso, tanto che i capitoli dedicati alla truffa ai danni del padre di Pauline esulano un po' troppo dal mistero della scomparsa di Cicely, ed essa rechi al suo interno ancora stereotipi e cliché della narrativa di inizio Novecento per potersi dire un capolavoro. Ad esempio, alcune figure assomigliano a burattini che difettano di personalità (Bridger assume gli atteggiamenti di Betteredge, il maggiordomo di "La Pietra di Luna", oppure del famoso Jeeves di Wodehouse, del quale Berkeley sentiva forse ancora l'influsso, poiché aveva già scritto una parodia) oppure non riescono ad affrancarsi dai loro modelli, come l'anziana lady Susan, l'ambiguo maggiordomo Martin, la debole signorina Carey e lo stupido aristocratico Kentisbeare. Il trucco del passaggio segreto, esplorato a notte fonda, rimanda di nuovo alla tradizione del romanzo vittoriano, assieme alla figura dell'individuo sospettato perché è stato in prigione. La storia d'amore tra Stephen e Paula è un po' stucchevole, sebbene numerosi guizzi ironici la alleggeriscano e si notino alcuni elementi di maggiore libertà negli usi e costumi. Il problema maggiore, tuttavia, è posto dalla quantità ingente di sfaccettature che vengono date all'enigma: furto, sequestro, ricatto, truffa sono mescolati tutti assieme (forse) per ampliare la platea di lettori, ma soprattutto per confondere le acque, al punto che forse risultano troppi da sviluppare al meglio; con il risultato che, sebbene il mistero sia senza dubbio intrigante, la trama risulti tirata troppo per le lunghe e la soluzione della sparizione di Cicely diventi un po' ingenua e superficiale. Per non parlare del finale tirato e un po' banale alla "e vissero sempre felici e contenti". Tutto questo, insomma, influisce sulla resa finale e ci consegna un romanzo giallo ancora fuori fuoco, rispetto a quelli che Berkeley avrebbe creato in seguito, il quale tuttavia può contare su uno stile elegante e leggero, tipico dei gialli "alla Agatha Christie" che si leggono per il gusto di passare qualche ora a rilassarsi o come storie di evasione. Sapete che (probabilmente) proprio Agatha rientrò tra i pochi lettori che riuscirono a fornire una soluzione soddisfacente al mistero di "Dov'è Cicely?", quando il Daily Mirror istituì un concorso sulla versione a puntate del 1926? Tra i vincitori, infatti, spuntò un certo Archibald Christie. Se proprio volete trovare un motivo forte per leggere questa classicissima crime story, potete immaginare di vestire i suoi panni per qualche ora. Oppure tenere a mente che, in ogni caso, questo romanzo è eccezionale non solo per la sua rarità su scala mondiale, ma anche per l'importanza del suo autore all'interno del genere.

Link all'edizione italiana su Amazon (ebook)

venerdì 20 dicembre 2019

18 - "Natale con Delitto" ("The Santa Klaus Murder", 1936) di Mavis Doriel Hay

Copertina dell'edizione pubblicata dalle
Edizioni Lindau
Tra le collane sulla classica crime story in lingua inglese, la British Library Crime Classics occupa un ruolo di primo piano; non solo perché presenta agli appassionati un nuovo romanzo circa ogni mese, ma anche per il merito di aver dato inizio alla riscoperta di un genere che, da qualche tempo, era stato trascurato in favore di altri. Come in Italia abbiamo avuto Polillo Editore (che mi auguro riprenderà a sfornare nuovi gialli in collaborazione con un nuovo ed entusiasta gruppo editoriale) a dare l'esempio a Lindau e Le Assassine, così la BLCC ha fatto lo stesso con Dean Street Press e altri marchi britannici, tracciando una strada nuova che, per quanto riguarda la pubblicazione di fiction, si diversifica dalle tendenze che oggigiorno vanno per la maggiore e soddisfa l'appetito di lettori affezionati ad autori come Agatha Christie e Dorothy L. Sayers. Fino ad oggi la collana, che si appresta a continuare la sua opera per molto tempo ancora, ha dato alle stampe 76 libri, tra romanzi e raccolte di racconti curate da Martin Edwards; una decina dei quali mi sono già procurato, poiché hanno saputo incuriosirmi e sarà molto difficile vedere una loro traduzione italiana. "Portrait of a Murderer" di Anne Meredith, ad esempio, è una suggestiva inverted story e si sa che questo tipo di romanzo, in cui il colpevole è chiaro sin dai primi capitoli, può risultare meno appetibile al lettore comune e quindi, al di fuori di Polillo, difficilmente essere preso in considerazione per una pubblicazione in Italia; e un discorso simile vale per "It Walks by Night" di John Dickson Carr, intrigante romanzo pubblicato molti anni fa da Mondadori in una versione tagliatissima, intitolata "Il Mostro del Plenilunio", che potremmo non rivedere mai più nel nostro Paese, a causa di problemi di diritti d'autore.

Tra gli altri, ero intenzionato ad aggiungere alla lista anche il delizioso "The Santa Klaus Murder" di Mavis Doriel Hay, quando Lindau mi ha piacevolmente stupito e lo ha tradotto col titolo di "Natale con Delitto" (Lindau, 2017). Proprio questo romanzo sarà l'oggetto della recensione di oggi, poiché non solo racconta una gradevole storia in tema con il periodo natalizio e le feste imminenti, che merita di essere conosciuta, ma si presta benissimo anche a rappresentare uno degli elementi che caratterizzano il "Christmas Murder Mystery", come "Quando l'Amore Uccide" di Nicholas Blake e i due libri che seguiranno questo post. Se il giallo di Blake era focalizzato su di un complesso enigma psicologico e sulle riflessioni etiche che da esso potevano scaturire, stavolta il fulcro della narrazione ruota attorno ai suoi protagonisti e ai comuni conflitti che nascono di volta in volta tra i membri di un nucleo familiare vecchio stampo, con tanto di capofamiglia, figli, cognati e amici vari al seguito. I personaggi, i quali agiscono nel consueto spazio chiuso di una casa di campagna mezza isolata dalla bufera, popolano dunque una vicenda più convenzionale, nella quale avviene un omicidio tipico della classica crime story, ma certo non banale: infatti, sebbene anche qui la psicologia occupi un posto di rilievo nella soluzione del mistero, tuttavia l’apparente semplicità del caso evoca la sensazione di essere immersi in una di quelle deliziose letture in cui i rapporti tra membri della stessa famiglia e amici, costretti a convivere insieme e con una personalità spiccata, sono caratterizzati da piccole e stuzzicanti gelosie interne; letture in cui traspare l'autentica anima della detective novel del periodo tra le due guerre, la quale aveva il principale scopo di far trascorrere al lettore qualche ora di spensieratezza e divertimento.

Cartolina natalizia dalla quale si è preso spunto
per la copertina italiana di "Natale con Delitto"
La storia si svolge quasi tutta a Flaxmere, la dimora avita della famiglia Melbury. Lì, nei giorni che precedono il Natale, il parentado al completo si riunisce all'anziano patriarca Osmond, alla sua segretaria e alla figlia più giovane Jennifer per celebrare in allegria la tradizionale festa con i congiunti: gli altri eredi del vecchio (George con consorte e figli, la vedova Hilda con la figlia Carol, Eleanor con il marito Gordon e prole al seguito, Edith con lo scontroso David), la vecchia zia Mildred col suo carattere pungente, l'attore Philip Cheriton, il posato Oliver Witcombe e servitù assortita, tra cui l'autista Bingham e il maggiordomo Parkins. Dietro la facciata di gioia che tutti quanti ostentano in occasione del Natale in comunione, tuttavia, si celano forti rancori, paure e gelosie che accrescono la tensione che già si respirava a Flaxmere ancor prima che tutti fossero arrivati a destinazione: Jennifer, infatti, desidererebbe lasciare definitivamente la casa del padre per farsi una vita propria e poter sposare il proprio amato, Cheriton; eppure Osmond Melbury si oppone con tutte le sue forze e minaccia di lasciarla senza alcuna dote. A ciò, va aggiunta la fredda accoglienza che Edith, Eleanor, Hilda e George ricevono una volta giunti a Flaxmere. La prima, infatti, viene ancora una volta accusata di essere incapace di mettere al mondo la prole che il vecchio si aspetterebbe da lei; la seconda, pur avendo sposato un uomo di rango adeguato secondo il volere del padre, viene accusata di essere incapace di frenare il temperamento bonario di quest'ultimo, imbarazzante in occasioni mondane; alla terza, invece, poiché ha disobbedito ad Osmond in modo plateale, sposando un artista che poco dopo l'ha lasciata vedova e con una figlia da crescere, viene rinfacciata la propria sconsiderata audacia; per non parlare di George, considerato alla stregua di uno sciocco incapace.

Come se tutto ciò non bastasse, inoltre, la presenza in casa di un'avvenente segretaria, Miss Portisham, non passa certo inosservata e contribuisce ad esasperare gli animi degli eredi, rimescolando le carte su chi sarà il fortunato prescelto a ricevere il grosso dell'enorme eredità che il vecchio si appresta a stabilire, proprio in occasione della riunione di famiglia per le feste. Insomma, non si preannuncia una bella settimana per i Melbury, costretti a fare buon viso a cattivo gioco e ad assecondare il vecchio Osmond per non rischiare di essere esclusi dal testamento; soprattutto quando quest'ultimo decide di voler mettere in scena una recita per i bambini, con tanto di Santa Klaus a distribuire i regali. Una bella seccatura, questa sceneggiata; che si trasformerà in tragedia quando, in seguito all'apparizione di Babbo Natale, lo stesso Osmond verrà trovato morto nel suo studio. La faccenda appare chiara fin da subito: a commettere il delitto può essere stato solo qualcuno che si è introdotto nella stanza per vie traverse, magari travestito per non essere riconosciuto; e chi meglio di Santa Klaus, impegnato a movimentare il teatrino inscenato per intrattenere i piccoli di casa, avrebbe avuto l'occasione per farlo? Eppure il colonnello Halstock, incaricato di condurre le indagini, capisce che qualcosa non va per il verso giusto: i numerosi indizi che iniziano ad essere raccolti sembrano suggerire che la soluzione sia ben diversa da quella ipotizzata, con un finestra aperta sul freddo dell'inverno e una fuga precipitosa che suggerisce la presenza di un estraneo sul luogo della tragedia. Toccherà indagare molto più a fondo, intorno alla strana sparizione di un costume da Babbo Natale e di un testamento ambiguo, prima di riuscire a fare luce sul mistero. Cosa che avverrà anche grazie all'aiuto di Kenneth Stour, attore col pallino per le indagini e con una cotta per la tranquilla Edith Melbury.

Mappa di Flaxmere in inglese
Mi rendo conto che, da come viene descritto nell'introduzione qui sopra, "Natale con Delitto" appaia molto simile a "Quando l'Amore Uccide" di Nicholas Blake. In entrambi i casi, infatti, l'enigma all'interno del racconto si basa sul fattore psicologico del carattere dei personaggi ed evolve in base agli indizi che, più o meno allo stesso modo, emergono dall'analisi di quest'ultimo. In un certo senso, questo è vero, visto che tutti e due i libri danno molta importanza al sentimento e alle emozioni manifestate dai personaggi: Blake si concentra sulle pulsioni nascoste dell'animo umano, sulle esplosioni suscitate e sulle ferite inferte dai violenti contrasti tra gli individui e sulla forza di volontà che anima ognuno di noi, nel bene e nel male; mentre in "Natale con Delitto" la bellezza della storia sta nel riuscire a calarci nei pensieri di tutti quanti, prima uno e poi l'altro, così da riuscire a farci un'idea generale di come evolverà la situazione e del clima di tensione che aleggia durante le fatidiche feste di Natale a Flaxmere, quando Osmond Melbury viene assassinato. Eppure, la trattazione psicanalitica della faccenda mi è sembrata decisamente diversa in ognuno dei romanzi, benché entrambi siano del 1936: infatti, se Blake sfrutta il suo complesso caso di omicidio per trattare in modo enfatico temi etici come quello della vendetta e quello della giustizia, ed indagare come la coscienza degli attori sulla scena si possa intersecare a un enigma, nel suo libro Hay fa invece un discorso molto più leggero e attinente alla tradizione, con un'indagine imperniata sulla trattazione classica dell'enigma sullo stile di Haynes in "Chi ha Ucciso Charmian Karslake?". In parole povere, sebbene gli ospiti di Flaxmere provino senza alcun dubbio le stesse forti emozioni degli abitanti di Dower House, ho avuto l'impressione che il fattore "introspettivo" dell'indagine sia stato sondato soltanto fino a un certo punto, senza sconfinare nel giallo psicologico che negli anni '30 stava iniziando a prendere piede.

L'enigma in sé, ad esempio, tratta di uno di quei convenzionali casi che si ritrovano spesso all'interno della crime story della Golden Age, dove il patriarca di una famiglia numerosa oppure un individuo che esercita un forte potere su alcuni subordinati viene ammazzato (cap. 1 e pp. 55-64): la scoperta del colpevole viene perseguita attraverso una ricerca di tipo "attivo", grazie all'utilizzo di molti indizi materiali come guanti, peli, foglietti, sopracciglia, impronte su macchine da scrivere e davanzali; alla quale tuttavia si combina un'attenta analisi dei rapporti tra membri della stessa famiglia Melbury oppure con i loro congiunti, dove Halstock si ingegna per capire quali siano le fonti di odio, invidia ed egoismo che lambiscono quelle terre inesplorate che sono per lui i caratteri più profondi dei protagonisti (cap. 1, pp. 10, 31, 37, 40-41, 44, 51-52, 57, 60, 70, 81-82, 88-94, 146, 239). Sebbene lui conosca da molto tempo i Melbury come amico di lunga data, di punto in bianco si ritrova a dover trattare ognuno di loro da un punto di vista professionale e ciò gli permette di notare come alcuni covino emozioni sotterranee che fino a quel momento non aveva compreso appieno. Si tratta pure in questo caso di importanti indizi, alla pari di quelli che è riuscito a ricavare dai sopralluoghi in giro per Flaxmere; e lui ne è consapevole, tanto da impegnarsi ad interrogare più volte la stessa persona per riuscire a scoprire cosa si celi sotto la maschera superficiale che ogni personaggio indossa (pp. 14-21, 44-45, 63, 131-138); ma in questo caso l'interesse per lo svelamento degli impulsi nascosti non serba alcun sottinteso melodrammatico o troppo calcato, poiché le sensazioni (pp. 265-266) conservano un'interesse limitato al caso in sé, senza la pretesa di voler sfruttare l'enigma e il rapporto tra i personaggi per fare discorsi seriosi sulla morale o indagare implicazioni elevate su tematiche importanti, come invece era stato il fine di Blake nel suo giallo.

A differenza di quanto accade in "Quando l'Amore Uccide", Hay mette in scena una vicenda più ridimensionata, dove il mistero viene considerato come un corollario dei personaggi (non il contrario) ed esso risulta privo di lirismo o ambizione a trattare argomenti complessi come la vendetta o l'elargizione di un qualche tipo di giustizia; semplicemente, nel suo romanzo giallo la psicologia viene sfruttata per giustificare il comportamento dei personaggi e dare loro moventi per cui agire, senza essere impiegata per esplorare a fondo la coscienza dell'individuo, con il fine di narrare una consueta storia di delitto famigliare, senza strafare e facendo il giusto per intrattenere il lettore (ne è un sintomo anche il fatto di aver raccolto, nelle pagine finali, una sorta di cluefinder, tabella che indica quali sono i passaggi indispensabili per comprendere chi sia l'assassino, usata anche da J.J Connington e Charles Daly King). Insomma, "Natale con Delitto" si potrebbe collocare in uno stadio intermedio tra il giallo tradizionale e quello psicologico; poiché nelle intenzioni assomiglia a "Chi ha Ucciso Charmian Karslake?" di Annie Haynes, sebbene Hay faccia un passo avanti nel tratteggio dei protagonisti della sua storia: rispetto ad allora, infatti, il suo stile a più voci, orientato comunque al passato e al giallo della Golden Age e mescolato a un certo gusto per il pettegolezzo (pp. 58-59, 215), che aiuta a seminare cattiveria (pp. 247-248, 270-272, 284) e ad esaltare istinti nascosti, affianca il tipo di indagine più "attiva" dell'ispettore Rousdon e risulta utile per delineare meglio ogni individuo dal punto di vista della psicologia (interesse che non era presente nel romanzo di Haynes), pur tenendo allo stesso tempo le distanze dal giallo psicanalitico di Blake.

Copertina dell'edizione inglese di "Natale
con Delitto", pubblicata dalla BLCC
La narrativa del mistero di Mavis Doriel Hay ha riottenuto una certa fama dopo che la British Library Crime Classics ha ripubblicato i suoi gialli. Fino ad pochi anni fa, infatti, poche persone si ricordavano dei libri di narrativa scritti da questa autrice, tanto che anche la sua biografia in terza di copertina dell'edizione italiana si limita a cinque righe stringate. In realtà, si conosce qualcosa di più su di essa (anche se non sono riuscito a trovare una sua fotografia). Mavis Doriel Hay nacque a Potters Bar, una cittadina del Middlesex, nel 1894. Dopo aver vissuto nei primi anni della sua vita a nord di Londra e aver frequentato il St. Hilda’s College di Oxford, nello stesso periodo in cui Dorothy L. Sayers si trovava a studiare al vicino Somerville College, divenne un’esperta di artigianato rurale: prima di assumere, una volta rinunciato alla narrativa, il ruolo di ricercatrice presso il Rural Industries Bureau ed incoraggiare le industrie artigianali in aree svantaggiate (si diceva che avesse tanti agganci vantaggiosi da poter organizzare conferenze addirittura nelle case dell'aristocrazia), condusse infatti numerose ricerche in questo ambito e pubblicò diversi libri per esporre le sue conclusioni, tra cui "Rural Industries of England and Wales", per il quale collaborò con Helen Elizabeth Fitzrandolph. Nel 1929 sposò proprio il fratello di Helen, Archibald Menzies, membro della RAF che morì in un incidente aereo nel 1943, durante la seconda guerra mondiale. Fu questa una delle tragedie che segnarono tristemente l'esistenza di Mavis: il più giovane dei suoi fratelli fu ucciso quando il suo aeroplano Tiger Moth si schiantò nella giungla Malese nel 1939, un altro affondò con la sua nave durante la Battaglia dello Jutland nel 1916, all'età di 19 anni, mentre nel 1940 un terzo fratello perse la vita lavorando nella famigerata linea ferroviaria Thailandia-Burma, dopo essere stato catturato dai giapponesi. Nel 1979, l’autrice si spense nel villaggio di Box, nel Gloucestershire, dove aveva risieduto per gran parte della sua vita da adulta; prima di allora, tuttavia, fra il 1934 ed il 1936 scrisse tre romanzi gialli che furono enormemente apprezzati sia dal pubblico che dalla critica: "Murder Underground" (1934), "Death on the Cherwell" (1935) e “Natale con Delitto". Ognuno di essi rientra nel canone del giallo tradizionale della Golden Age, con un'interesse particolare per la psicologia: sono convito che lei preferisse il classico schema della crime novel del dopoguerra in cui lo stile e l'enigma, con tanto di deliziosi e astuti depistaggi e l'eleganza caratteristica dei romanzi di un tempo, sono i punti forti (pp. 95-98, 100-102, 109-110, 182-186, cap. 20).

Molti sono gli elementi che si rifanno a questo tipo di fiction: l'abituale famiglia riunita per le feste di Natale in un'ambientazione sufficientemente d'atmosfera (p. 267), la casa isolata, un anziano scorbutico che ha deciso di cambiare il proprio testamento (pp. 152-153), la mappa dettagliata della scena del crimine, il sovrintendente determinato ma garbato che viene affiancato al detective dilettante, la presenza di indizi materiali da incastrare nel mosaico dell'indagine (come un frammento di carta con alcuni calcoli sull'eredità), un certo classismo che emerge dai discorsi dei personaggi (pp. 20, 41, 50-51, 66-67, 118-119, 254) e il rispetto della tradizione (pp. 73-73). Il racconto della storia nei primi e ultimi capitoli, descritti secondo il punto di vista di alcuni dei protagonisti come era avvenuto in "La Pietra di Luna" di Wilkie Collins, assieme alla presenza di numerosi tipi di testo diversi, riesce a dare una visione del delitto diversa dal solito, e al tempo stesso consente agli attori sulla scena di rivelare meglio, attraverso la funzione della scrittura come mezzo di indagine (pp. 137-139, 145-146), la propria personalità, nel caso in cui omettano di volta in volta alcuni aspetti della vicenda. Qualcosa di simile ha fatto anche Agatha Christie nel suo "Il Natale di Poirot". Ogni membro del gruppo ha un movente per il delitto e, sebbene all'inizio si faccia fatica a star dietro alla grande quantità di sorelle e declinazioni dei loro nomi (Edith-Ditte-Lady Evershot, ad esempio), riesce a conservare una propria personalità che nel corso della storia si fa sempre più marcata. A spiccare tra gli opportunisti e i sospettati, sono soprattutto le figure di Ashmore, l'autista (pp. 27, 243-245, 266-267); di Jennifer (pp. 47-48, 59, 65, 241-242, 227-239), Hilda (pp. 30-34, 285), Edith (capp. 1, 3-5, 7, 15), le figlie di Osmond; di Carol (capp. 1-3, 12-13, 17, 19-20), la figlia di Hilda; e di David Evershot (13, 59-64, 110-114, 196-197, 199, 201-202 285), il marito di Edith. Ognuno di loro dipinge un complesso ritratto che rimanda a uomini e donne vissuti molti anni fa, ma in qualche modo attuali: le difficoltà di Hilda e Ashmore di tirare avanti e prendersi cura della propria famiglia; la prigionia di Jennifer e Carol in una società in cui le donne non riescono ancora a provvedere a se stesse; le pressioni di Edith nel sostenere David e l'invalidità psicologica di quest'ultimo; tutto ciò mi ha profondamente commosso. È nei piccoli personaggi che emerge l'abilità di Hay nel tessere le sue trame, piene di colpi di scena, stratagemmi e bugie ben nascoste. Il tutto, inoltre, viene descritto con grazia e chiarezza, che rendono questo romanzo molto gradevole e ironico. Non bisogna dimenticare che Hay era ancora alle prime armi, quando decise di dedicarsi al romanzo giallo; quindi, se anche potremmo notare qualche imperfezione (come il copioso numero di sospettati oppure una certa ingenuità nella soluzione del caso), penso che esse siano perdonabili al netto del risultato. Tutto l'insieme riesce a dare vita a un libro originale, che soddisfa le aspettative del lettore e lo accompagna durante il periodo del Natale, dimostrando ancora una volta che, anche in occasioni del genere, il delitto e la gelosia non sono mai bandite del tutto.

P.S. Questo è l'ultimo post prima di Natale, quindi approfitto per farvi tantissimi auguri. Spero che possiate passare delle buone feste felici e dedicarvi a molte nuove letture!

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venerdì 22 novembre 2019

15 - "L'Occhio di Osiride" ("The Eye of Osiris", 1911) di Richard Austin Freeman

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore
L'ho spiegato anche nella presentazione di questo blog e nella recensione di "La Figlia del Tempo" di Josephine Tey, ma lo ripeto sempre volentieri: senza alcun dubbio, una delle ragioni che hanno contribuito a farmi diventare un appassionato della classica crime story (in particolare quella inglese) si può ritrovare nella capacità, insita in questo genere letterario, di saper evocare di volta in volta un mondo affascinante, come quello degli anni suggestivi e imperfetti tra la fine dell'età Vittoriana e la rinascita tumultuosa che seguì la fine della Seconda Guerra Mondiale, attraverso le piccole attività quotidiane di uomini e donne morti da tempo ma, in qualche modo, pur sempre "vivi" agli occhi dei suoi lettori. È questa una caratteristica peculiare della narrativa gialla, la quale spesso riesce a ridare vita al passato altrimenti noioso dei freddi resoconti nei libri di Storia e nei saggi stesi da asettici studiosi, interessati più ai Grandi Avvenimenti che alla Vita Quotidiana. La compilazione di un diario giornaliero, ad esempio, con quel gusto nel dare risalto al racconto delle vicende di ogni giorno; il complesso rapporto tra conoscenti e il corteggiamento dei gentiluomini nei confronti di garbate signorine, fatti di inchini formali e toni lirici; oppure il ritratto di una via piena di negozi e dei suoi abitanti, nati o stabilitasi proprio lì da tempi immemori, o la descrizione di antiche dimore distrutte dalle bombe o dal progresso: tutte queste abitudini e luoghi che ci parlano di un'epoca passata sono stati man mano cancellati (o quasi) dal passare degli anni, con la conseguenza che noi non potremmo più vederli rivivere davanti ai nostri occhi e rischierebbero di essere dimenticati, se non fosse stato per l'opera di alcuni giallisti, ignari biografi della società, i quali hanno destinato all'eternità un'eredità preziosissima di piccoli frammenti che, tutti insieme, tracciano un godibile ritratto delle usanze tradizionali, capaci di resistere fino ad oggi grazie al fatto di essere stati impressi nelle pagine dei loro romanzi. Oltre a soddisfare la mera curiosità ed arricchire le vicende fittizie, infatti, tutto ciò riveste una grande importanza nel mostrare l'evoluzione della società di un tempo e ci permette di apprendere fatti che altrimenti sarebbero andati perduti tra le pieghe della Storia; mica male, per una forma letteraria famosa per descrivere situazioni perlopiù fittizie.

La stessa P.D. James, scrittrice di crime novels classiche, ha osservato che si può "apprendere molto di più sui costumi sociali dell'epoca in cui un giallo è stato scritto, di quanto si possa fare dalla letteratura più pretenziosa". E anche se, in questo caso specifico, lei si riferisce al periodo della Golden Age, in cui il genere ha raggiunto l'apice in quanto ad inventiva e tratteggio dell'atmosfera sociale, secondo me la stessa cosa vale per gli anni immediatamente precedenti, quelli che vanno dalla fine dell'Ottocento agli inizi del Novecento: pure allora, infatti, vennero prodotte opere del mistero degne di essere ricordate per il loro piacevole racconto della quotidianità; certo, magari alcune non hanno resistito alla prova del tempo, a causa di uno stile che nel frattempo si è evoluto, ma altre conservano tutt'oggi un certo fascino che mescola enigmi in anticipo sui tempi e una narrazione perlomeno suggestiva, dando prova della solidità di un genere che resiste con successo da oltre 150 anni e in cui si sono cimentati, oltre ad alcuni storici, anche poeti, economisti e scienziati. In particolare, l'oggetto della recensione di quest'oggi, "L'Occhio di Osiride" di Richard Austin Freeman (Polillo Editore, 2014), è un esempio dell'opera complessiva di uno stimato e controverso dottore, vissuto a cavallo di XIX e XX secolo, la quale si può ascrivere tra tali libri datati ma ancora godibili: si tratta infatti di un romanzo stupefacente, datato 1911 ma che si legge perfettamente anche ai nostri giorni e presenta alcuni aspetti tanto innovativi da apparire molto più recente, in cui il primo investigatore scientifico della Storia (dopo l'eccezione Sherlock Holmes) indaga su un delitto misterioso, che mescola Antico Egitto, sentimento autentico e l'applicazione di un metodo che non sfigurerebbe nelle moderne sezioni della "scientifica", e persegue la propria meta senza tregua, confidando nel potere della chimica, della biologia, della legge e della Giustizia.

Dipinto raffigurante Nevill's Court, quartiere di Londra
distrutto in seguito ai bombardamenti della Seconda Guerra
Mondiale
La vicenda si apre con una scena all'ospedale St. Margaret di Londra, dove il protagonista e narratore della storia, il dottor Paul Berkeley, assiste a una conferenza dello stimato John Thorndyke, suo docente e investigatore dilettante. L'argomento della lezione appena terminata ha riguardato il come si possa stabilire con certezza il momento della scomparsa di una persona, e il professore ha deciso di presentare agli alunni interessati un esemplare caso atto ad illustrare le teorie che ha fin lì esposto: quello di John Bellingham, egittologo di fama mondiale, sparito in circostanze eccezionali dalla casa del cugino Hurst, in cui si era recato di ritorno da un viaggio sul continente. La cameriera lo aveva accolto e fatto accomodare nello studio del padrone, in attesa che quest'ultimo ritornasse da un appuntamento in città, per poi dedicarsi alle faccende domestiche lasciate in sospeso; tuttavia, quando Mr. Hurst era rincasato, si era scoperto che Bellingham si era volatilizzato senza alcun motivo, sgusciando da un cancello sul retro. Preoccupato dallo strano comportamento del cugino, Hurst aveva subito allertato l'avvocato di Bellingham, Mr. Jellicoe, ed insieme si erano diretti dal fratello dell'archeologo, Godfrey, per scoprire che in un momento imprecisato della serata il fuggiasco aveva fatto una tappa a casa di quest'ultimo, senza farsi riconoscere dal personale, seminando sul suo cammino uno scarabeo da cui non si separava mai e facendo perdere ancora una volta le proprie tracce. E se è vero che, al di là di allarmare i suoi parenti e Jellicoe, l'atteggiamento di John Bellingham non farebbe necessariamente pensare a una disgrazia, è altrettanto vero che dà adito a numerosi dubbi sui motivi che possano averlo spinto a mettere in atto una tale messinscena. Se stava bene, perché Bellingham avrebbe dovuto lasciar cadere a terra lo scarabeo e abbandonarlo, prima di sparire? Perché ha architettato una fuga tanto pirotecnica? Ma soprattutto, adesso è morto oppure si sta nascondendo?

Il problema ha suscitato l'interesse accademico di Thorndyke e ha acceso l'immaginazione di Berkeley il quale, appena due anni dopo la scomparsa e la fine dei suoi studi, incappa per puro caso proprio in Godfrey Bellingham, caduto in disgrazia in seguito alla sospensione del reddito concessogli dal fratello, e in sua figlia Ruth. Dalla sua posizione di medico condotto, ora Berkeley può accedere a confidenze personali e a documenti che tempo prima erano stati preclusi ai giornali; e un interesse decisamente sentimentale, legato all'impressione che un grave pericolo gravi sui suoi nuovi amici, gli suggerisce di interpellare proprio John Thorndyke, affinché lo possa aiutare a risolvere il caso. Tuttavia, alcuni presagi fanno intendere che possa essere accaduto qualcosa di grave all'egittologo e non è facile intraprendere un'indagine adeguata: le complicazioni, infatti, sembrano moltiplicarsi man mano che passano i giorni. Innanzitutto, niente conferma il momento esatto in cui Bellingham è scomparso: ha fatto visita prima al fratello oppure al cugino, visto che in realtà nessuno può confermare di averlo visto di persona dopo il suo ritorno in Inghilterra? In secondo luogo, la spinosa questione del testamento del (presunto) defunto, la cui stesura presenta condizioni alle quali pare impossibile adempiere, suscita ben più di un dilemma, coinvolgendo Jellicoe e Hurst tra i sospettati di una congiura cui forse hanno avuto una parte anche i Bellingham; senza contare il misterioso affare del rinvenimento di alcuni resti umani, sparpagliati in diversi laghetti e stagni nei dintorni della vecchia casa di Godfrey e Ruth. La vicenda si protrarrà tra un idillio al British Museum, gite in vecchi cimiteri e vicoli della Londra Edoardiana, processi e inchieste del coroner, mentre Thorndyke si interroga sulla soluzione del caso, tra un esperimento e l'altro; finché egli sarà ricompensato per l'attesa e, grazie a un passo falso del suo misterioso avversario, il quale si delinea sempre più sullo sfondo della scomparsa di Bellingham, riuscirà a far luce sulla misteriosa scomparsa dell'egittologo.

Fotografia raffigurante il sarcofago della
mummia di Artemidoro
Richard Austin Freeman non è propriamente da considerarsi un autore della Golden Age del romanzo giallo inglese; nel senso che ha iniziato a scrivere nell'epoca precedente a quella di altri grandi e più famosi esponenti del genere, come Agatha Christie o Dorothy L. Sayers. Ad esempio, le avventure con protagonista Romney Pringle, le quali costituiscono il suo primo sforzo letterario, risalgono al 1902, mentre l'esordio del professor Thorndyke al 1907, poco meno di 15 anni prima di quello di Poirot. Questo fatto potrebbe indurre a credere che l'opera di Freeman sia purtroppo datata e molto meno interessante di quella dei suoi colleghi più giovani; eppure, niente potrebbe essere tanto sbagliato, e per averne conferma basta leggere "L'Occhio di Osiride". Quest'ultimo appartiene a un filone di mysteries che mi piace definire "antiquati", ma non per sottolineare in senso negativo il loro essere superati e antichi; piuttosto, per indicare come essi siano stati capaci di sfruttare il passato così da accrescere il proprio valore intrinseco nel futuro. Considerateli come se fossero scrivanie d'epoca accostate a tavoli dal design moderno: magari non reggono il confronto con alcuni capolavori venuti in seguito, soprattutto in fatto di complessità di enigma oppure di emancipazione dei personaggi; però non si può negare il fatto che i gialli di Freeman, allo stesso modo di quelli scritti (per fare un esempio) da J. Jefferson Farjeon, riescano ad esercitare un'attrazione irresistibile nei lettori nostalgici e costituiscano dei piacevoli esempi di period novel, ovvero quel tipo di romanzo in cui viene ritratto lo stile di vita di un definito arco di tempo, con i suoi pregi e i suoi difetti. Si tratta di opere suggestive, le quali sanno raccontare vicende avvolte da una sorta di alone onirico, che vediamo come attraverso la nebbia del tempo, ed intrattenere il proprio pubblico con una semplicità soltanto apparente: in realtà, infatti, in "L'Occhio di Osiride" ma non solo, ci troviamo di fronte a complessi mosaici fatti di piccole tessere dettagliate, tenute insieme da un collante costituito da stile, ambientazione e caratterizzazione dei personaggi "alla Dickens"; tutti quanti solidi contro il passare del tempo (anche se soggetti alle mode) e, nonostante la pesantezza che ogni tanto lasciano trasparire, mescolati all'indubbia attrattiva del mistero.

Nel caso specifico del romanzo di Freeman, quattro sono gli elementi che risaltano al suo interno e gli hanno permesso di sopravvivere alla prova del tempo: una scrittura ironica seppur specialistica, magari un po' nostalgica ma mai banale, attenta e a suo modo coinvolgente; un enigma capace di soddisfare anche i lettori più esigenti, imperniato su un metodo d'indagine scientifico ma non per questo poco appassionante; un sapiente uso delle descrizioni degli ambienti che fanno da sfondo alle vicende raccontate, capaci di proiettare chi legge direttamente dentro le pagine; una grande attenzione al rapporto tra i personaggi, costruito di interazioni che si inseriscono molto bene tra i momenti più "seri" dell'indagine e che permette di spezzare un racconto altrimenti troppo schematico e serioso. La critica che il più delle volte viene rivolta a Freeman (e al suo Thorndyke), infatti, è quella di adottare un atteggiamento a dir poco gelido e molto tecnico; certamente comprensibile, se si presta attenzione alla semplice esposizione del mistero, ma bisognerebbe sottolineare anche il fatto che un simile giudizio è alquanto riduttivo e arbitrario, se si tiene conto pure del contenuto effettivo e di quanto fa da contorno ai casi di cui uno è inventore e l'altro protagonista. Il buon professore sarà anche il più scientifico degli investigatori e il primo medico legale mai apparso sulla scena della narrativa del mistero, ma che dire  dell'empatia di cui dà prova in alcune occasioni? E tornando a Freeman, cosa dire delle città che ha ritratto come dipinti in movimento, dei dialoghi brillanti, dei temi toccati e dei complessi rapporti tra innamorati che letteralmente pullulano nelle sue crime novels?

Sono soprattutto questi i motivi che spingono ancora adesso alla lettura di questi straordinari romanzi. Lo stesso Raymond Chandler, durissimo nei confronti del giallo classico, elogiò apertamente il loro autore, definendolo “un magnifico artista” che “non ha eguali”. Al fine di convincervi della bontà del mio pensiero, ora prenderò in esame ognuno di questi elementi caratteristici di "L'Occhio di Osiride", partendo dai contenuti che mescolano scienza forense, pratica legale, romanticismo ed egittologia. Spesso, nei mysteries contemporanei, mi sono reso conto di come la "sostanza" sia debole e fiacca, poiché mancante di una base stabile e salda per quanto riguarda il fattore stilistico e contenutistico; nel caso di questo libro, invece, mi è sembrato che l'autore sapesse molto bene di che cosa stava parlando e avesse tutte le intenzioni di renderlo noto ai suoi lettori: lo dimostrano non solo i continui riferimenti alla pratica legale (pp. 161-198, ovvero i capitoli sull'inchiesta e sul processo di morte presunta, ma anche pp. 80-91, 122-123 e cap. 9, quest'ultimo sul modo di ragionare di un avvocato fin troppo zelante) e alla medicina (pp. 59-60, 128-131, 134, 138, 150-160, 165-169, 284-288), i quali possono essere ascritti alle critiche di cui sopra pur presentando per la prima volta una grande autorità in merito allo sviluppo di nuove tecniche da applicare alle indagini, tanto da influenzare autori come Dorothy L. Sayers, J.J Connington e John Rhode, ma anche le digressioni sul rapporto tra i personaggi principali, ironiche in modo da alleggerire la pesantezza di uno stile dalle descrizioni troppo dettagliate (come alle pp. 29, 32 2 55), oppure quelle sull'Egittologia, questa scienza strana che si occupa di imbalsamazioni e conservazione di cadaveri (cap 8, p. 221, 228-229) la quale non viene qui sfruttata solo per creare suggestioni più o meno a buon mercato, ma impiegata in modo intelligente attraverso intere pagine dedicate all'antico Egitto, alla sua religiosità, a nozioni interessanti; tanto che, alla fine della lettura, possiamo dire di sapere qualcosa di più sull'argomento.

Papiro egizio
Senza dimenticare le passeggiate e le visite che vedono protagonisti Berkeley e Ruth Bellingham (sulla loro relazione mi soffermerò più avanti): proprio queste, infatti, legano meglio tra loro ambientazione e scrittura, grazie alla caratteristica di poter essere eventualmente ripercorse anche nella realtà. Le "visioni" evocate dall'autore giocano un ruolo di prima importanza nel creare la giusta atmosfera in cui si svolgono le vicende che egli racconta: solide come sono al limite della pedanteria, risultano caratterizzate da una precisione minuziosa, che rende molto "familiare" e intimo il racconto. Con un tono un po' nostalgico, in cui sembra già affacciarsi lo spettro della Grande Guerra e di un Destino fatale (non bisogna dimenticare che "L'Occhio di Osiride risale al 1911, tre anni prima dello scoppio del primo conflitto mondiale), ci viene presentata la Londra dell'Età Edoardiana, quella che va dal 1901 (anno di morte della regina Vittoria) al 1914. Immaginate: a quel tempo, nella società si andava diffondendo l’onda positivista e la scienza acquisiva sempre più importanza; la gente nutriva ancora una grande fiducia nel futuro, anche se era diffusa la povertà (come si evince dai numerosi cenni sparsi nel libro, a pp. 25, 39, 47, 125, o dall'impiego misero di Ruth Bellingham come "approvvigionatrice letteraria" alle pp. 46-49) e tutti si sforzavano a dare il meglio di sé, dal semplice medico condotto o operaio al professore. Difficile non ritrovare questi caratteri negli allegri quadretti di luoghi come Fetter Lane o Nevill's Court (quest'ultima antica zona di Londra venne distrutta nei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, quindi la sua descrizione assume ancor più importanza) alle pp. 15-16, 57, 245-246. Tutto ciò ci aiuta a visualizzare con la mente le ambientazioni, permettendoci di entrare nella biblioteca o nelle sale del British Museum (pp. 67-70, 94-100) o di percorrere King's Bench Walk (p. 237), Cosmo Place (pp. 74-75), Heathcote Street (pp. 206-211), Gough Street e Wine Office Court (pp. 205-206), oppure sederci in piccole locande di campagna (p. 161).

Oltre alle semplici descrizioni, inoltre, questi luoghi sono spesso dotati della loro fauna caratteristica, fatta di cittadini diversissimi, contadini e locandieri che danno un tocco in più alle descrizioni, gente semplice ritratta mentre compie il proprio rituale quotidiano, il quale ci restituisce usi e costumi dei cittadini del tempo e ci permette di immedesimarci in loro. La suggestione che si ricava dall'insieme di questi due aspetti (contenuti e ambientazione) si somma poi alla scrittura, la quale possiede quella solida costruzione che gli autori nati in pieno Ottocento possono vantare come una propria caratteristica: solenne, quasi pesante in quanto a dettagli, eppure proprio con una marcia in più grazie a questi ultimi, che contribuiscono a renderla piena di sfaccettature e a darle profondità. Le digressioni, che sembrerebbero appesantire il tutto, in realtà sono affascinanti, arricchiscono la trama e ci accompagnano nelle varie situazioni; in modo simile a quelle usate da Sayers e Michael Gilbert in "Il Segreto delle Campane" e "C'è un Cadavere dall'Avvocato", l'autore inserisce una serie di osservazioni che esulano dalla risoluzione dell'enigma (una su tutte, gli splendidi paragrafi sulla mummia di Artemidoro alle pp. 95-100, e la descrizione del metodo di imbalsamazione alle pp. 298-201), pur tuttavia senza far perdere il filo della narrazione al lettore. Certamente, non a tutti può interessare lo svolgimento di un processo o una lezione sugli Egizi o sul distoma epatico; chi presta più attenzione all'enigma e meno ad ambientazione troverà tutto quanto pesante e inutile; da parte mia però trovo che ciò restituisca un pezzetto del momento in cui il romanzo fu scritto, permettendo una maggior identificazione nei personaggi e nei luoghi descritti, senza contare che si ricava la sensazione di leggere qualcosa per cui valga la pena e che non sia superficiale. Oltre ai romanzi già citati, "L'Occhio di Osiride" mi ha ricordato un po' anche "La Pietra di Luna" di Wilkie Collins, con le sue divagazioni che per alcuni distraggono ma per altri sono un motivo in più per continuare la lettura: non si sa mai cosa può essere introdotto nella pagina seguente, magari sarai sorpreso dal racconto di cose che oggi non esistono più, e io lo considero un valore aggiunto. Uno stile tanto articolato, insomma, mette in luce il grande talento degli autori della scuola vittoriana (tra cui inserisco anche Freeman) nel saper creare un piccolo universo a parte; d’altro canto, però, l'appartenere alla generazione più anziana di scrittori di crime novels non fu solo fonte di vantaggi.

Per concludere con una riflessione sull'enigma, infatti, Freeman si ritrovò ad usare in gran parte dei suoi gialli (compreso questo) lo schema ripetitivo del "giovane dottore innamorato di una paziente povera o bisognosa di comprensione, in un caso legato alla sua professione", riconoscendolo lui stesso a p. 126, magari focalizzando i sospetti su un gruppo talmente ristretto da rendere ingenua la scoperta del colpevole e peccando quindi di poca originalità in questo senso; bisogna comunque non essere troppo duri con lui e dargli atto che il mistero del romanzo risale all'alba della crime story e presenta notevoli innovazioni scientifiche che, al tempo della sua scrittura, dovettero sembrare degne di orizzonti fantastici (pp. 134, 138, ma soprattutto pp. 250-260 sugli esperimenti al British Museum e pp. 298-301 sulle tecniche di imbalsamazione). Sotto certi aspetti, mi spingerei addirittura ad affermare che questo romanzo si può considerare una sorta di prototipo anticipatore dei gialli che vennero in seguito, nel quale passato e futuro convivono in armonia. Come i suoi successori, infatti, Freeman si diede da fare per creare trame con una forte identità, sviluppò nuovi metodi delittuosi e spesso ideò i suoi delitti fittizi ispirandosi a delitti reali (nel caso di "L'Occhio di Osiride" cita apertamente il caso di George Parkman e John Webster, avvenuto a Boston, che ha portato all'impiccagione di un individuo colpevole grazie alle identificazioni effettuate sulle ceneri di un cadavere); ma era ancora deciso a dare più importanza alle modalità di uccisione, il punto forte dei casi di Thorndyke, sempre perfettamente logico e ispirato a criteri scientifici, a discapito delle sottigliezze psicologiche della Golden Age. Anche per questo motivo alcuni non apprezzano appieno l'opera di Freeman; in ogni caso, nonostante ciò, da parte mia mi sento più che disposto a perdonargli qualche piccola imperfezione.

Richard (Austin) Freeman, nato nel 1862 e
morto nel 1943
Considerando la mole di romanzi e racconti che Richard Austin Freeman pubblicò nella sua lunga vita, sorprende sempre molto venire a sapere che la sua passione per la scrittura ebbe inizio non dalla semplice vocazione, quanto piuttosto da un forte senso di disperazione. L'autore, infatti, nato a Londra nel 1862 e con un passato di medico otorinolaringoiatra, dopo un'esperienza nel servizio coloniale e il matrimonio con Annie Elizabeth Edwards si ritrovò di punto in bianco a dover affrontare una lunga malattia contratta nel continente nero, con la conseguenza di dover rimpatriare al più presto e trovare una nuova occupazione, che si adattasse ai suoi disturbi frequenti e gli permettesse di sopravvivere. La svolta arrivò con un impiego presso la prigione di Holloway, dalla quale trasse cognizioni di procedura penale e psicologia criminale, ma soprattutto con la decisione in extremis (in seguito all'abbandono definitivo della professione) di darsi alla scrittura. Dopo aver raccontato la sua esperienza africana in un volume di genere diverso, nel 1902 esordì nella narrativa gialla con una serie di avventure con protagonista una sorta di furfante gentiluomo, artista della truffa e maestro del travestimento di nome Romney Pringle, scritte in collaborazione con un amico medico. Il genere dovette riuscirgli a genio, poiché appena cinque anni dopo iniziò a sfornare gialli su gialli con protagonista John Evelyn Thorndyke, il primo investigatore scientifico della storia dopo Sherlock Holmes, entrando prepotentemente nella storia della crime novel. Con il suo esordio dal titolo "L'Impronta Scarlatta", infatti, fondò il cosiddetto "giallo scientifico", in cui contano soprattutto le prove ricavate dalle analisi di laboratorio e da ricerche sulle prove materiali, senza affidarsi allo studio della psicologia. Thorndyke, uomo di grande avvenenza (al contrario dei "mostri di bruttezza" partoriti dalla mente dei colleghi del suo inventore), istruito in una quantità incredibile di materie e sempre padrone di sé permetterà a Freeman di dominare per quasi venticinque anni la scena del giallo classico, apparendo in ben 21 romanzi e 42 racconti, tra i quali vanno citati "Arsenico", "Il Testimone Muto", "L'Affare D'Arblay" insieme ai brevi "Il Caso Oscar Brodski" e "The Singing Bone"; quest'ultimo per un motivo ben preciso. Con questa storia breve, infatti, il medico prestato alla letteratura diede il proprio secondo contributo alla storia del mystery classico creando l'inverted story; ovvero, quella tecnica secondo cui il colpevole del crimine-omicidio è già noto al lettore e il gusto del racconto non sta tanto nella scoperta di "chi-l'ha-fatto", quanto del "come-è-stato-fatto" (un po' alla maniera del Tenente Colombo). Già questo mette in luce quanto fosse importante per Freeman lo studio del metodo utilizzato dal colpevole per perpetrare il suo delitto: addirittura, egli si impegnò a sviluppare e testare numerose tecniche criminali.

Grande esperto di procedure legali e di true crime (oltre ad inserire casi reali nei suoi gialli, analizzò a fondo il mistero di Croydon), innovativo finché mori nel 1943, promotore dell'autorità della chimica e della biologia applicate alle indagini, oltre che sostenitore dell'eugenetica (al contrario di moltissimi colleghi giallisti), Richard Austin Freeman è stato un grande giallista, resta uno dei pochi autori di polizieschi dell’epoca Edoardiana ad essere letto ai giorni nostri, assieme a G.K. Chesterton ed E. C. Bentley e, cosa ancor più rara, un'esponente del giallo degli albori come di quello della Golden Age. Oltre a quelli di Chandler, inoltre, riuscì ad ottenere anche gli elogi di George Orwell, il quale considerava la crime story della Golden Age come troppo moderna, al contrario di quella più formale e "antiquata" da lui rappresentata: "Ricordi la nostra passione per R. Austin Freeman? Io non l'ho mai davvero dimenticata, e penso che dovrei leggere tutti i suoi libri eccetto alcuni dei suoi ultimi" osservò quest'ultimo in una lettera a un'amica nel 1949, senza contare le numerose citazioni alle opere del suo idolo che fece in altri saggi. Per quanto mi riguarda, Golden Age e giallo degli inizi non fa differenza, se si tratta di opere di valore come questo "L'Occhio di Osiride": un eccezionale romanzo, da recuperare solo nell'edizione dei “Grandi del mistero”, nel "Classico del giallo n. 759" e nell'edizione Polillo, e una pietra miliare del poliziesco, importante e bellissimo per i numerosi motivi di cui vi ho parlato sopra. Certo, forse un po' datato nel comportamento dei suoi personaggi, i quali si inchinano ai nemici e agli amici con una frequenza a dir poco allarmante (pp. 23, 283) e evitano di ostentare pubblicamente i propri sentimenti da buoni vittoriani; eppure tutto ciò ha anche un'aria vagamente retrò, come di qualcosa di garbatamente educato che ricorda come si comportavano le vecchie zie quando erano giovani e i tempi erano diversi e bisognava mantenere un certo contegno altrimenti si faceva brutta figura e si arrossiva per l'imbarazzo. Il rapporto tra i personaggi (unico punto su quale dovevo ancora soffermarmi) presenta l'ultimo gioiello della corona costituito da "L'Occhio di Osiride": pur essendo un po' come dei manichini fatti muovere secondo uno schema ingessato, essi posseggono un'anima ben più viva di quella delle mere marionette. Hanno una personalità solida, sono ben caratterizzati, e ciò indica come Freeman non fosse l'individuo gelido che il lettore medio pensa di conoscere. "Saremmo dei cattivi biologi, e dei medici ancora peggiori se sottovalutassimo l'importanza di quella che è la funzione principale della natura [...] l'importanza vitale del sesso" e del sentimentalismo, spiegò per bocca di Thorndyke a p. 234 per poi mettere in pratica le sue parole.

L'ironia tra l'investigatore e Jervis umanizza personaggi che altrimenti apparirebbero freddi (pp. 29, 32, 55), le dispute tra Berkeley e miss Oman ci restituiscono allegri ritratti della quotidianità (pp. 63-64, 105-108), nel cap. 9 ci viene descritto Jellicoe in tutta la sua riservatezza; ma sono Berkeley e Ruth Bellingham su tutti, nello svilupparsi della loro storia d'amore, mentre vivono le passioni dei giovani innamorati in modo più riservato rispetto ai moderni, proprio a causa del comportamento di cui ho parlato prima, ma comunque in modo vivace, a rapire il cuore del lettore. La loro grande, vera e sentita storia d’amore (a partire dal loro incontro e proseguendo nell'idillio alle pp. 36, 49-50, 54, 95-100, 220-225, 228-230, 234, 263-265, 267, 283, 307), non invadente rispetto all'intreccio, si amalgama a dare un tocco in più al racconto. Non è come in altri romanzi, in cui la love story spesso finisce per ridondare rispetto alla trama o per risultare melensa: in questo caso tutto si combina alla perfezione. Martin Edwards, nel suo "The Golden Age of Murder", ha osservato che lo stesso Freeman fu un accanito dongiovanni: che il buon dottore abbia inserito qualche riferimento alla storia con Alice Bishop, la quale viene indicata come una sua possibile amante? Chissà. Certo è che, per un periodo, i due riuscirono addirittura a vivere insieme, sotto lo stesso tetto, nonostante la presenza di Elizabeth e del marito legittimo di Alice; quindi, si trattò ben più di una scappatella e l'autore avrebbe potuto considerarla una grande storia d'amore come quella di Berkeley e Ruth. Anche in questo Freeman fu un innovatore, in un certo senso. E se "l'interesse amoroso", abbellito dell'affascinante e stupenda figura della mummia di Artemidoro (la quale si può vedere ancora oggi al British Museum) può non essere apprezzato da tutti, come accadde con Sayers, è però innegabile che esso contribuisca a dare una marcia in più, grazie ai toni sognanti e romantici al limite dello stucchevole e alle sue rinunce in nome dell'amore e gli struggimenti, a un giallo che tiene testa ad opere ben più moderne e si può tranquillamente classificare come un capolavoro senza tempo, sospeso nel sogno di un mondo passato che guardava al futuro con speranza e fiducia.

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