Copertina dell'edizione integrale, pubblicata nel Giallo Mondadori n. 2748 |
Più mi confronto con altri appassionati di crime story classica, più mi rendo conto di come questo genere letterario presenti una natura particolare. Da un lato, infatti, esso unisce un grandissimo numero di lettori con gusti molto diversi tra loro, grazie alla vastità di sottogeneri di cui è composto: ce n'è per tutti i tipi, da chi predilige romanzi in cui l'enigma viene trattato con rigoroso fair play dall'autore, a chi desidera semplicemente trascorrere qualche ora a provare sulla propria pelle i brividi di terrore, a chi si lascia affascinare dalle ambientazioni e dalla caratterizzazione dei personaggi, al punto da immedesimarsi nelle vicende che sta leggendo. Allo stesso tempo, tuttavia, poiché ognuno concepisce il "giallo" in modo differente dall'altro e sostiene che il proprio preferito sia il migliore, com'è comprensibile in una società variegata come la nostra, a volte questa "unità" viene meno e possono nascere agguerrite discussioni riguardo un certo titolo o autore, in cui il Tale loda e il Talaltro critica. Questa, per me, è forse la caratteristica più affascinante del genere mystery; quella che, assieme al suo essere intrinsecamente innovativo, gli ha permesso di restare popolare anche dopo un secolo dalla sua nascita: il continuo dibattito ha alimentato il suo sviluppo, dando vita a scambi di idee (accettabili se espresse nel segno di un'esposizione pacata) e a singolari incontri-scontri dai quali, talvolta, possono scaturire nuove conoscenze. Ad esempio, più di una volta mi è capitato di entrare in contatto con persone che, al contrario di quanto pensassi io, hanno bocciato il libro di uno scrittore che avevo promosso, o viceversa. Questo, però, non mi ha impedito di cercare di capire le ragioni del loro giudizio e, alla fin fine, tali occasioni si sono rivelate utili a comprendere un punto di vista diverso dal mio, hanno dato avvio a nuovi rapporti di amicizia e hanno messo in luce alcuni aspetti della trama e dello stile che non avevo colto, arricchendo il mio giudizio finale.
Anche con la mia ultima lettura, "Gli Occhi Verdi del Gatto" di Dorothy L. Sayers (Il Giallo Mondadori n. 2748, 2001), si è verificato un confronto di questo tipo. Mentre io l'ho apprezzato molto, un amico fan del giallo classico l'ha bocciato, pur ammettendo che le premesse facevano sperare in un romanzo migliore. Non che sia stata proprio una sorpresa; la Sayers è famosa per la sua capacità di dividere le opinioni dei lettori, visti l'uso di uno stile complesso (ma non per questo astruso), in cui i dettagli della vita quotidiana vengono descritti in modo dettagliato, e la scrittura di lunghe porzioni di testo che esulano dall'enigma in sé. Quindi mi aspettavo alcune critiche, tenuto conto pure del fatto che il mio amico predilige gialli in cui il focus è più concentrato sull'indagine. Eppure, da parte mia, sono del tutto convinto che anche stavolta lei abbia confezionato un romanzo giallo molto valido; forse non ai livelli di "Il Segreto delle Campane", ma comunque di alta qualità, con un investigatore dilettante simpatico, false piste in abbondanza, indizi disseminati tra le righe e un racconto affascinante. Se vi ho incuriosito, allora lasciate che mi spieghi meglio qui sotto, dopo aver delineato la trama a grandi linee.
In apertura di romanzo, ci troviamo in Francia. Lord Peter Wimsey ha trascorso alcuni mesi di vacanza all'estero, per rimettersi dall'ultimo caso risolto, e con calma sta facendo ritorno in Inghilterra, dopo aver assaporato la bellezza della Corsica e i piaceri del dolce far niente assieme al fedele Bunter. Mentre alloggia all'Hotel Meurice di Parigi, tuttavia, Sua Signoria viene riportato alla realtà dall'improvvisa notizia che suo fratello Gerald, il Duca di Denver, è stato messo sotto accusa di omicidio da parte di un tribunale inglese. Da quanto spiega il resoconto del Times in cui Lord Peter ha appreso la scioccante notizia, il nobiluomo avrebbe presumibilmente ammazzato a sangue freddo un certo Denis Cathcart, il fidanzato della sorella minore Mary, mentre si trovava nella tenuta di Riddlesdale assieme a loro due e ad alcuni amici intimi, forse a causa di un regolamento di conti legato ai sensi di onore e onestà caratteristici dell'aristocrazia britannica. Wimsey è sicuro che ci debba essere stato un errore e vuole assicurarsi che l'indagine, affidata al suo amico Charles Parker e atta ad accertare chi sia il sicuro colpevole dell'omicidio di Cathcart, venga condotta con massimo rigore e attenzione; quindi prende un volo per Londra e si affretta a raggiungere la casa in cui sono ancora radunati tutti i testimoni del fattaccio, al fine di intraprendere un'inchiesta personale. Laggiù, i fatti che vengono alla luce dai primi interrogatori non prospettano nulla di buono. Innanzitutto, l'arma che ha ucciso Cathcart appartiene senza alcun dubbio al Duca di Denver; il ché non costituisce una prova schiacciante, poiché essa veniva riposta in un cassetto accessibile a tutti gli ospiti, ma lancia comunque un'ombra di sospetto sulla figura di Gerald. Poi, si scopre che il nobiluomo aveva litigato con la vittima la sera stessa del delitto, in presenza dei signori Marchbanks, Pettigrew-Robinson e del maggiore Arbuthnot. Pare che Cathcart fosse stato accusato di essere un baro, e che il duca avesse tutte le intenzioni di mettere fine alla relazione in corso tra lui e sua sorella.
Una brutta faccenda, che peggiora quando un'altra testimone afferma di aver sentito uno sparo più o meno nello stesso momento in cui Gerald si trovava fuori di casa, forse nei pressi della scena del delitto, davanti al padiglione di caccia, e lui stesso rifiuta di difendersi dall'accusa di omicidio e di dare alcuna spiegazione sui propri movimenti durante la serata fatale. Inoltre Mary Wimsey, dapprima desiderosa di aiutare i poliziotti, all'improvviso non sembra più così ansiosa di scoprire chi abbia ammazzato il suo promesso sposo e ha adottato la stessa tattica del fratello più vecchio; ovvero, non rispondere ad alcuna domanda. Stanno entrambi cercando di proteggere la propria famiglia da un terribile scandalo? Tuttavia, non tutto quadra con l'accusa rivolta al Duca di Denver: ad esempio, di chi sono quelle tracce che portano da un capo all'altro del bosco della tenuta? Forse dello sconosciuto che è passato rombando, a bordo di un sidecar, davanti al cancello sorvegliato dal guardiacaccia? Cosa dire, poi, di quel ciondolo a forma di gattino dagli occhi verdi che è stato rinvenuto sul luogo del delitto? C'entra forse col caso la figura di una bella signora, prigioniera in una fattoria non molto lontana da Riddlesdale? Wimsey sente che tutto quanto deve essere legato da una spiegazione semplice, razionale e comprensibile; compreso il comportamento ambiguo della vittima, Denis Cathcart, il quale ha fatto sparire dal proprio conto ingenti somme di denaro. Per questo motivo, affiancato da Parker, si lancerà in una caccia diversa da quelle che di solito avvengono a Riddlesdale, ma altrettanto pericolosa, e rischierà la vita più di una volta al fine di raggiungere la verità, alla ricerca di confessioni, di peccati segreti e di prove sfuggenti in Francia e in America; mentre Gerald si presenterà davanti a una Corte di suoi Pari per subire il giusto processo che la Costituzione inglese assicura ai nobili accusati. Tuttavia, bisognerà aspettare fino alla fine del procedimento giuridico per comprendere appieno quale sia la soluzione del caso, sorprendente, inaspettata e densa di colpi di scena.
Immagine della Camera dei Lord, in cui si svolge il processo finale di "Gli Occhi Verdi del Gatto" |
Proprio come gli altri mysteries di Dorothy L. Sayers, "Gli Occhi Verdi del Gatto" (attenzione: solo l'edizione con la traduzione di Grazia Griffini risulta completa) non fa eccezione e presenta una struttura articolata e complessa. Probabilmente alcuni di voi faranno fatica ad apprezzarlo, assieme al resto della sua opera: anche in questo caso, infatti, non ci troviamo di fronte a un semplice romanzo di genere, dove importano soltanto gli interrogatori degli indiziati e lo svolgimento dell'indagine, ma veniamo immersi in una narrazione in cui pure le descrizioni e le osservazioni della vita quotidiana, ritratte con uno stile caratteristico, brioso e mai banale da parte dell'autrice, conservano grande rilevanza ai fini della trama e del risultato finale. Senza dubbio, l'uso di questo linguaggio dettagliato e al limite del pedante costituisce uno dei punti di maggior forza della narrativa della Sayers, poiché capace di suscitare nella mente di chi legge immagini più vivide del solito; eppure, non si può fare a meno di notare che esso può pregiudicare il ritmo della storia e l'impatto che essa ha sui lettori, col risultato che alcuni finiscono per considerare noiose tutte queste digressioni. L'amico a cui facevo riferimento sopra, ad esempio, ha bocciato questo libro perché il resoconto del processo al Duca di Denver e la successiva introduzione dei testimoni principali dell'omicidio di Cathcart, riportati nella prima parte, gli sono sembrati pesanti da digerire e delineati con incuria, mentre il modo in cui è stato trattato il caso, a suo parere, ha contribuito a sbilanciare l'enigma dal centro del romanzo; tutto quanto gli è parso come sfocato, dalla delineazione a tutto tondo della psicologia dei personaggi alla presentazione degli indizi, con brevi momenti di svolta che, tutto sommato, finivano sempre per rivelarsi deludenti. Per non parlare della soluzione, "la peggiore che si potesse immaginare" secondo lui. Ora, forse le cose stanno davvero così: non mi leverei mai ad oracolo inconfutabile, sia ben chiaro.
Da parte mia, tuttavia, vorrei provare a mettere in luce perché la lettura di "Gli Occhi Verdi del Gatto", con tutte le sue piccole pecche, meriti comunque di essere presa in considerazione da tutti gli appassionati del genere giallo, grazie a due aspetti fondamentali del romanzo. Innanzitutto, desidero sottolineare quanto straordinario appaia ai miei occhi il talento della Sayers nel tratteggiare situazioni che, in altri frangenti, apparirebbero senza dubbio tediose. Le prime trenta pagine, ad esempio, in cui viene trattato a fondo il processo d'accusa al Duca di Denver, possono sembrare un po' fredde e schematiche e per questo motivo impedire alla storia di far presa fin da subito sul lettore, su questo sono d'accordo; ma dire che siano del tutto inutili mi sembra esagerato. I processi descritti in questo romanzo riescono ad essere piacevoli da seguire, anche se personalmente non nutro un particolare interesse per la pratica giuridica, che considero troppo ingessata e burocratica; essi vengono condotti con mano esperta e in modo da mantenere alta l'attenzione di chi legge, forniscono indizi utili per comprendere le azioni dei personaggi, a volte riescono addirittura a spezzare la tensione grazie all'intervento di qualche testimone indisciplinato. Inoltre, grazie al dibattito alla Camera dei Lord (pp. 114-115, insieme ai capp. 14-15-17-18), ci viene tramandato il dettagliato procedimento attraverso cui un Lord viene processato dai suoi Pari in Inghilterra. Una delle caratteristiche che preferisco delle crime novels classiche è proprio quella di riuscire a riportare ai giorni nostri un pezzetto di passato, con i suoi usi e costumi; perciò, come posso non apprezzare un coronamento all'indagine vera e propria come questo? Ma non è solo dal punto di vista tecnico che questi passaggi hanno suscitato il mio interesse; anche dal lato prettamente umano non sono da trascurare. L'atteggiamento dei giudici (soprattutto di Sir Impey) mette in luce l'astuzia innata di queste figure maniacali dal punto di vista del controllo delle prove e delle testimonianze; eppure, ciò non sovrasta del tutto l'affabilità e simpatia dei principi del foro che emergono nella loro quotidianità, al di fuori del ruolo istituzionale. Il delizioso scambio di battute riguardo una bottiglia di Porto (pp. 168-169), con i suoi riferimenti ironici e le amabili osservazioni, è solo una delle tante prove lampanti di questa doppia natura, che si possono trovare all'interno del capitolo 10 e, oltre tutto, mettono in mostra la capacità dell'autrice di tirare fuori dal cilindro inaspettati siparietti.
In secondo luogo, poi, vorrei evidenziare la moderna varietà della narrativa che Sayers è in grado di infondere in ogni suo libro: spesso, i personaggi viaggiano in lungo e in largo per il mondo, al fine di risolvere un caso (come accade per la trasferta di Parker in Francia, al capitolo 4, e la doppia traversata oceanica da parte di Lord Peter nel finale di "Gli Occhi Verdi del Gatto"); più di una volta vengono inseriti differenti tipologie di testo, quali articoli di giornale (p. 67), lettere (pp. 81, 112), resoconti giuridici (cap. 1) e tabelle (pp. 187-188); si contano innumerevoli citazioni letterarie (fondamentali quelle al Manon Lescaut di Antoine Francois Prévost), anche senza considerare quelle poste all'inizio di ogni capitolo; non manca il riferimento a personaggi e casi reali, come quelli di Earl Ferrers e il celebre patologo Bernard Spilsbury; le ambientazioni spaziano dalla tenuta di Riddlesdale a Rue St. Honoré e Rue de la Paix, per poi tornare a villaggi di campagna simili al Fenchurch St. Paul di "Il Segreto delle Campane" o a club di simpatizzanti comunisti duri e puri (che l’autrice mette alla berlina, con un’arguzia impareggiabile). Sicuro, tali elementi possono risultare pomposi e "ridicolmente snob", come osserva il critico Julian Symons nel saggio "Bloody Murder", se messi tutti assieme; ma indicano in modo indiscutibile anche cultura, voglia di innovazione, elasticità e scorrevolezza. Niente viene lasciato al caso da parte della scrittrice: le rilevazioni scientifiche sono proprio come quelle che ci si aspetterebbe di veder essere messe in pratica dagli specialisti, ogni brano viene soppesato e perfezionato, i dialoghi sono espressi con vivacità e un tipo di linguaggio consoni al tono; per non parlare dei temi che lei ha saputo trattare in questo romanzo. Insomma, Dorothy L. Sayers si dimostra capace di unire più elementi della crime story del suo tempo, amalgamandoli in modo sorprendente e mai banale; sia nel descrivere una piacevole colazione tra personaggi quanto meno alto-borghesi, sia nel momento di ideare un enigma che, pur ancora imperniato sul "come" piuttosto che sul "chi", si dimostra all'altezza delle aspettative. "Gli Occhi Verdi del Gatto" non è forse l'opera migliore della Sayers, poiché ancora legato alla sua ostilità nei confronti del cosiddetto "interesse amoroso", a uno stile acerbo e al superficiale approfondimento del carattere di alcuni personaggi; però non riesco lo stesso a non considerare questo libro come una prova più che valida di mystery classico, oltre che una storia stupenda dal punto di vista dell'esistenza personale della sua autrice.
Dorothy Leigh Sayers, nata nel 1983 e morta nel 1957 |
La scrittura di "Gli Occhi Verdi del Gatto", infatti, risale a un momento molto difficile nella vita di Dorothy Leigh Sayers, nata a Oxford il 13 giugno 1893. Esso fu il frutto di un periodo di riposo forzato, durante il quale lei diede segretamente che alla luce nientemeno che un figlio illegittimo, nato dalla relazione con un tale di nome Bill White, il quale aveva già intrapreso un rapporto stabile con un'altra donna e non voleva avere niente e a che fare con lei e il bambino. Pur dotata di un precoce ingegno, che le permise di imparare il latino e il francese prima dei dieci anni, di diventare una poetessa esuberante (aveva un "fiammeggiante gusto nel vestire") mentre ancora studiava al Somerville College e di eccellere nel campo della pubblicità, Dorothy era pur sempre stata educata in una famiglia molto religiosa, da un padre e una madre che vedevano nel peccato la più grande sciagura; per questo motivo non disse loro niente a riguardo e prese la gravidanza inaspettata con un forte atteggiamento negativo. Vedeva in quel piccolo esserino, che amava con tutta se stessa, il frutto della propria cattiva condotta; e il complicato piano che riuscì a mettere in pratica per assicurare un avvenire al bambino servì ben poco a sollevare il peso dalla sua coscienza. Per tutta la vita serbò nel cuore il timore di essere scoperta e sbugiardata davanti al mondo intero, e non aiutò di certo il fatto che finì per sposarsi con un uomo dal carattere duro; soltanto la pubblicazione di raccolte, traduzioni e romanzi gialli con protagonista il suo aristocratico Peter Wimsey riuscivano a darle sporadici sprazzi di felicità, insieme agli eventi mondani cui partecipava ogni tanto, come la rappresentazione di una sua opera teatrale o una cena del Detection Club. Dorothy L. Sayers (pretese che la "L" del cognome della madre fosse sempre inserita tra nome e cognome sulla copertina dei suoi romanzi) prese molto a cuore quest'associazione e suoi membri: sostenne sempre fermamente che le opere dei suoi colleghi, come le sue, dovessero soddisfare alti standard in fatto di stile ed ingegnosità, così da "riportare la detective story al suo antico splendore", e strinse un forte legame di amicizia soprattutto con alcune delle sue colleghe più risolute, come Helen de Guerry Simpson. Tuttavia, nonostante ciò, non riuscì mai ad aprirsi con nessuno riguardo i propri tormenti personali e non rivelò mai ai suoi compagni di essere madre. Considerava quella gravidanza come un "amaro peccato", e trasformò l'esperienza disastrosa in un vero e proprio trauma: "Adesso sono spaventata da qualunque sentimento" avrebbe considerato più avanti. Quest'ultima, insieme al fallimento del proprio matrimonio, la frustrò a lungo finché, il 17 dicembre 1957, una trombosi coronaria mise termine alla sua movimentata esistenza.
Per quel giorno, tuttavia, aveva già smesso di scrivere crime novels; ma non di occuparsi dell'animazione del Detection Club e della sua attività di critico. Dimostrò un talento particolare nello stimolare gli altri a produrre il meglio che potevano, non da meno di quanto fece lei stessa. Tutti i suoi romanzi gialli dimostrano una capacità fuori dal comune nel capire le persone, i loro bisogni e i loro desideri; non ebbe paura di applicare la sua "straordinaria vitalità" per studiare gli ultimi ritrovati della scienza, e non si fece scrupoli ad inserire nei suoi libri tematiche e situazioni che, al momento in cui scrisse, dovettero fare molto scalpore; prime tra tutti quelle riferite al femminismo e alla fedeltà familiare. Proprio il concetto di famiglia risulta essere il punto cardine attorno a cui ruota "Gli Occhi Verdi del Gatto", allo stesso modo di come la semplice vita nelle campagne inglesi aveva costituito il pretesto e il fulcro della narrazione in "Il Segreto delle Campane". Oltre ad introdurre alcuni personaggi che sarebbero tornati nelle successive avventure di Lord Peter, come sua sorella Mary, Freddy Arbuthnot, Impey Biggs e altri, e a dare avvio all'idillio tra Mary e l’ispettore Parker, esso descrive appieno come i membri di un nucleo domestico sappiano relazionarsi l'uno con l'altro. Penso che, per la Sayers, sia stato un modo per tenere vivo nei proprio pensieri il ricordo del padre e della madre, per esprimere il desiderio di potersi costruire un focolare personale assieme all'uomo giusto e per sconfiggere la solitudine della sua forzata e volontaria segregazione. Il dramma familiare contribuisce a conferire al mistero un'aura di tensione e di drammaticità, che mette in luce il lato meno distaccato di Lord Peter e dei personaggi tipici della crime story classica. Sebbene quelli secondari non siano molto tratteggiati, infatti, i membri dei Wimsey vengono sviscerati a fondo, ci viene raccontato come essi reagiscono alla tragedia che si è abbattuta su di loro, ognuno con il proprio carattere singolare: Gerald e Mary, spaventati dal fatto di poter far del male alle persone che amano, decidono di non rivelare più alcun dettaglio riguardo al caso di omicidio; la duchessa madre, vero portento dell'età vittoriana trasportato a tempi più recenti, dimostra un atteggiamento risoluto ma comprensivo, come solo una madre può fare (da notare pp. 118-122 e 152-156); lo stesso Wimsey si trova a dover mettere da parte i propri sentimenti per portare a termine l'indagine di cui si è fatto carico e scagionare il fratello da tutte le accuse. Ma anche Parker, che mostra le prime avvisaglie di un interessamento più profondo nei confronti di Mary (pp. 215-216), e il fedele Bunter, con il suo comportamento sempre impeccabile ma non per questo freddo e distaccato, mostrano un'evoluzione nei loro sentimenti.
Proprio il maggiordomo costituisce uno dei personaggi più riusciti del libro, essendo a sua volta un segugio formidabile che raccoglie informazioni preziose dalla cameriera Ellen, grazie ai suoi modi affascinanti, e un elemento fondamentale per la sopravvivenza del suo signore. Il rapporto tra Bunter e Peter, infatti, è uno tra i più singolari della letteratura del mistero: a differenza di quello instaurato tra Poirot e Hastings, ad esempio, oppure tra Roderick Alleyn e "fratello" Fox, il legame tra loro non si basa solo su amicizia o complicità lavorativa, ma anche sul fatto che uno è tecnicamente padrone dell'altro. Eppure, ciò non sembra offrire ostacoli di alcuna sorta; Bunter è a tutti gli effetti alla pari con Peter, sia nel ruolo di investigatore sia di essere umano: un altro elemento che dimostra come la Sayers sia avanti sui suoi tempi. Anche se forse non ce ne accorgiamo spesso, lei ci ha consegnato numerosi personaggi non solo divertenti ma anche moderni, i quali si fanno veicolo di temi e messaggi molto profondi. Essi sono piccoli tasselli, all'apparenza insignificanti e molto spesso tediosi nel loro ruolo impettito, però ci parlano anche della vita reale e affrontano problemi senza dare facili risposte. L'amara riflessione sulla triste condizione della donna (soprattutto nelle campagne) ne hanno fatto un simbolo del femminismo (anche se lei odiava essere definita tale) e rappresenta uno degli elementi più importanti del romanzo, insieme al ruolo che questa figura può assumere all'interno della società (a mio parere, Mary Wimsey può essere vista come un prototipo di Harriet Vane, alter ego della stessa Sayers). "Gli Occhi Verdi del Gatto", insomma, risulta essere un giallo delizioso, con tocchi di humor e un ritmo che, seppur lento, non risulta sgradevole da seguire, con i suoi siparietti ben scritti e non irritanti, come ha osservato John Curran in "I Quaderni Segreti di Agatha Christie". Lo stesso finale, nella sua apparente semplicità, risulta coerente e suggestivo, con un pizzico di malinconia che me lo ha reso irresistibile. Mi rendo conto di essere forse troppo poco critico; però questo libro mi è piaciuto proprio tanto. E spero di avervi convinto di quanto esso, sotto sotto, sia meritevole di una lettura.
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