Translate

venerdì 18 settembre 2020

46 - "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" ("The Poisoned Chocolates Case", 1929) di Anthony Berkeley

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore
Sono sicuro che, almeno una volta nella vita, ognuno di noi ha pensato che gli sarebbe piaciuto cimentarsi nella risoluzione di un caso di omicidio. Certo, magari non uno verificatosi all'interno della propria sfera di conoscenze (a meno che la vittima non sia un nostro nemico o comunque una persona che desidereremmo veder scomparire dalla faccia della Terra); ma indagare su di un delitto che non ci tocchi nel personale, che possa metterci alla prova e testare la nostra materia grigia, potrebbe essere indubbiamente una sfida interessante da affrontare. Pensate: vi trovate davanti a un assassinio perpetrato a sangue freddo; siete incaricati di risolvere l'enigma di questa morte, di scoprire cosa abbia spinto un essere umano come voi a compiere un gesto tanto estremo, di vagliare tutte le ipotesi e di trovare un movente adatto alla personalità del colpevole, il quale ovviamente deve aver avuto l'opportunità, la forza di volontà necessaria e una coscienza abbastanza deviata e suggestionabile da non tradirsi. Intesa come una prova di abilità, dal punto di vista accademico, anche io trovo che qualcosa del genere sarebbe un utile e ingegnoso test per vagliare le nostre competenze fisico-psicologiche. D'altro canto, tuttavia, sono consapevole che l'indagine su di un crimine violento non debba essere presa alla leggera ed affidata al primo dilettante che passa per la strada: gli errori non sono ammessi, quando si deve decidere tra mille ansie se uno sia innocente oppure colpevole, e se l'inquirente fa un passo falso, ciò può perseguitarlo fino alla fine dei suoi giorni. Inoltre, bisogna avere una preparazione specialistica e soprattutto sviluppare una certa dimestichezza nel corso degli anni, prima di potersi dire qualificati a compiere un tale compito gravoso. Per cui, io preferisco dedicarmi agli omicidi fittizi che ci offre la classica crime story, entusiasmanti tanto quanto quelli della vita reale, ma senza pressioni di sorta e preoccupazioni. Infatti, come forse avrete ormai capito leggendo le mie recensioni, per quanto mi riguarda i delitti degli autori della tradizione gialla classica hanno, in fondo, molti aspetti in comune con i loro fratelli nella vita di tutti i giorni. E questo non deriva solo dal fatto che molti di essi sono stati ricalcati su assassinii verificatesi sul serio negli ultimi centocinquant'anni; dietro a questa convinzione c'è molto di più.

Ad esempio, i moventi che spingono i colpevoli letterari a macchiarsi di crimini orrendi molto spesso sono gli stessi che emergono dalle confessioni delle loro controparti in carne ed ossa. Come non accostare la figura di X, avvocato disperato e alla ricerca di un mezzo qualsiasi per tirare avanti, con Y, l'uomo di legge che da avvelenato il collega o il coniuge per ereditarne i beni? Oppure le caratteristiche psicologiche di un personaggio dei primi del Novecento, così simili a quelle del nostro vicino di casa: sono convinto che il delitto non invecchi mai e tenda a ripetersi di volta in volta, assumendo forme sempre diverse, assieme alle sue premesse e cause scatenanti; per cui, non trovo ci sia poi questa gran differenza tra i ragionamenti che potesse fare il signor Tale nel 1920, e quelli del signor Quale un secolo dopo. Soprattutto, però, ciò che avvicina il delitto fittizio a quello reale è il fatto che spesso e volentieri le cose non appaiano mai come dovrebbero essere. Nel senso che, sia in un caso che in un altro, può passare molto tempo prima che l'assassino venga identificato e catturato, e nel frattempo vengono sospettate tante altre persone. Certo, di norma nel romanzo giallo si tende a impostare fin dall'inizio una certa linea investigativa, a selezionare gli indizi e a far combaciare le deduzioni così da poter giungere a un finale soddisfacente sotto tutti i punti di vista, che rispetti le premesse. Cosa che porterà comunque a una serie di sospetti verso innocenti, piste false e fraintendimenti. Però non sempre è tutto così lineare. In alcuni casi, il bello sta proprio nel trovarsi davanti a una situazione in cui non si può sapere dove si andrà a parare, in continuo capovolgimento nel sottolineare aspetti differenti dell'omicidio, illuminati dal'autore di volta in volta, così da ritenere prima uno e poi l'altro un probabile assassino. Questa pratica, non a caso, fu messa in pratica e sfruttata nel migliore dei modi da colui il quale considerava la giustizia come qualcosa di fallace, e possedeva una grande capacità nel mettere in ridicolo il prossimo e un senso dell'ironia cinico e sarcastico "fino al punto di indecenza": Anthony Berkeley. E nel romanzo che recensisco oggi, "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" (Polillo Editore, 2002), questa particolare concezione del crimine, questo divertimento nel prendersi gioco delle convenzioni e dei metodi attraverso cui i giallisti irretiscono i loro lettori, trova un'applicazione ad oggi ineguagliata, che mette in mostra come le soluzioni di un delitto possano essere infinite, se i personaggi apprendono le informazioni di pari passo con chi legge, quando soltanto un piccolo tassello viene aggiunto al quadro generale delle prove oppure una testimonianza viene confermata o smentita. Si tratta di una sfida aperta a chiunque desideri mettersi alla prova, proprio come se fosse un caso di omicidio nella vita reale: vi sentite abbastanza abili da risolvere il mistero? Ebbene, accomodatevi e aguzzate l'ingegno.

Piccadilly Circus at night, Frederick Lawrence Tavaré
(1847-1930) che raffigura il luogo in cui è passato l'assassino
di Joan Bendix
Tutto ha inizio in una sera come tante altre, in una stanza non meglio identificata, poco dopo la metà di novembre. Attorno a una tavola imbandita, sette personaggi siedono in compagnia e godo l'un l'altro dell'allegria reciproca e del buon cibo che hanno assaporato. Sono i membri del Circolo del Crimine, un'associazione fondata dall'investigatore dilettante Roger Sheringham, la cui funzione sarebbe quella di riunire sotto a un'unico nome i migliori criminologi dell'Inghilterra (se non del mondo) e permettere loro di potersi confrontare da pari a pari, stimolando le reciproche cellule grigie. Ci sono un celebre avvocato, Sir Charles Wildman; una commediografa di successo, la signora Mabel Fielder-Flemming; una scrittrice arguta che meriterebbe più del successo che le viene attribuito, Alicia Dammers; il migliore scrittore di romanzi gialli in circolazione, Morton Harrogate Bradley; il mite avvocato Ambrose Chitterwick; lo stesso Sheringham e l'ospite d'onore della serata, nientemeno che l'ispettore capo Moresby di Scotland Yard. Quest'ultimo è il primo di una serie di ospiti che il presidente intende presentare agli altri componenti del gruppo; tutti esperti di crimine, come si addice a una congrega di tale livello, in modo da generare discussioni e, quando possibile, istruire nell'arte del delitto fittizio. In questa particolare occasione, tuttavia, Sheringham ha chiesto al suo amico Moresby di presenziare alla riunione del Circolo del Crimine anche per un altro motivo: come si affretta a spiegare con eccitazione a malapena contenuta, infatti, col benestare della polizia ha intenzione di proporre ad ognuno dei membri una sfida, legata a un fatto di cronaca recente. Pochi giorni prima, si è verificato uno strano delitto che ha visti coinvolti alcuni personaggi in vista della società inglese. Mentre si trovava al club di cui è membro, il signor Graham Bendix aveva incrociato per caso Sir Eustace Pennefather, un baronetto di mezz'età conosciuto per avere la cattiva abitudine di correre dietro alle donne, e sempre per una coincidenza quest'ultimo aveva regalato una scatola di cioccolatini all'altro, la quale era arrivata per posta come dono da parte di una fabbrica di dolciumi. Una volta giunto a casa, Bendix aveva consegnato quella stessa scatola alla moglie come pegno per una scommessa persa; e non aveva certo sospettato che i cioccolatini in essa contenuti fossero stati alterati con il nitrobenzolo, un veleno usato spesso per la preparazione di dolci di qualità scadente. Pertanto, la donna ne aveva ingoiati quasi una decina di fila, si era sentita male mentre il marito si trovava nella City ed era morta poco tempo dopo.

All'apparenza, il caso sembra essere opera di un pazzo: tutti sanno che Sir Eustace ha attirato su di sé più di un motivo per essere eliminato; non ultima, proprio la sua cattiva fama di donnaiolo. In un paese in cui l'epoca vittoriana ha lasciato pesanti strascichi e tende a restare viva nelle menti degli abitanti, in pochi si stupirebbero se venissero a sapere che qualche amante delusa avesse deciso di togliere di mezzo un parassita tale e quale Pennefather, vizioso e alla continua ricerca di mezzi economici per sovvenzionare i propri peccati. Pure la polizia, dopo aver fatto le dovute indagini di routine, si è convinta che la soluzione debba essere di questo tipo; anche perché gli indizi materiali, a parte la scatola coi cioccolatini, la carta che la avvolgeva e una lettera di accompagnamento del tutto anonima, scarseggiano. Eppure, Roger Sheringham è alla continua ricerca di qualcosa che possa alimentare le discussioni e il confronto nel suo Circolo del Crimine; per cui, perché non provare a risolvere il delitto? Scotland Yard ha archiviato le indagini al riguardo, e Moresby (nonostante qualche riserva sul successo che possa derivare da una simile iniziativa) è d'accordo nell'accordare il permesso a che alcuni sconosciuti si cimentino nell'impresa. Così, tra il generale entusiasmo e qualche piccola titubanza da parte del mite e gentile Chitterwick, ognuno dei membri dell'associazione intraprende una pista differente, partendo dalle stesse premesse ma giungendo a una soluzione ogni volta diversa. E il bello è che tutti quanti riescono a sostenere una teoria che, pur in qualche modo confutata dalle critiche degli altri, potrebbe rivelarsi esatta. Quindi, ci sono ben sei soluzioni al caso sull'omicidio di Joan Bendix: quale sarà quella giusta? Soltanto alla fine tutte le carte saranno messe in tavola...

Christiana Edmunds, nata nel 1828 e morta
nel 1907, nota come "L'Avvelenatrice dei
Cremini al Cioccolato"

"Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" si presenta dunque come una prova d'abilità: per i protagonisti, sottoposti a una sfida che li costringerà a mettere in pratica una serrata indagine di tipo induttivo, deduttivo o misto; per il lettore, il quale si calerà nei personaggi e svilupperà di volta in volta teorie differenti; per lo stesso autore, che si è sforzato di dare vita a una storia affascinante, capace di sconcertare e sorprendere con i suoi innovativi guizzi d'ingegno. Cosa che, tra l'altro, egli è riuscito a fare benissimo. Non che ci fossero poi chissà quali dubbi, visto che Anthony Berkeley è uno tra i più grandi scrittori di crime novels di tutti i tempi. Fu grazie a lui e alla sua fantasia sterminata (forse fin troppo, per certi versi) che il romanzo giallo anglosassone riuscì ad attingere nuova linfa dalla società del primo Novecento e continuò a prosperare per tantissimo tempo, dal momento che lui per primo ipotizzò un prototipo del giallo psicologico come lo intendiamo noi oggi, grazie ai libri che firmò come Francis Iles. E se questa carica di novità si poteva già scorgere in carattere embrionale in "Dov'è Cicely?", oppure nei libri precedenti della serie di Sheringham come "Uno Sparo in Biblioteca", nel romanzo di oggi essa emerge splendidamente, dal momento che non solo l'autore riuscì a capovolgere ancora una volta le regole della partita all'interno del racconto, ma anche a prendersi gioco delle strutture del mystery classico; nonostante ancora non avesse l'intenzione di spazzare via ogni limite e toccare la perfezione come in "L'Omicidio è un'Affare Serio" a firma Iles. Infatti "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati", pur presentando delle caratteristiche ancora legate alla tradizione, mette in mostra una concezione del romanzo del mistero che sta allontanandosi da quella di Christie e Sayers, per citare due nomi a caso. Nonostante l'uso di cioccolatini come mezzo di morte (derivato dal caso di Christiana Edmunds), il cliché secondo cui i dilettanti si interessano di un caso "ufficialmente" delegato alla polizia, e il fatto che la storia venga presentata come una sorta di gioco di abilità per il lettore (pp. 12-15, 41-42, 46-47, 102-103, 143-144, 163-164, 215-219), per la prima volta qui non viene messa in discussione soltanto l'infallibilità dell'investigatore (tema già trattato fin dal primo libro della serie di Sheringham), ma pure la certezza di quanto emerge nella costruzione delle vicende e sull'onnipotenza degli autori. Fino ad allora, tutti gli scrittori che avevano deciso di cimentarsi nella stesura di un libro di questo genere avevano fatto in modo di sottolineare il fatto che le conclusioni a cui i loro detective erano giunti fossero inoppugnabili: se un dato indizio sembrava suggerire che qualcosa fosse accaduto in un certo modo, allora di sicuro quella cosa doveva essersi verificata secondo la teoria avanzata dall'ideatore degli eventi raccontati, per bocca degli inquirenti. I ragionevoli dubbi che una persona poteva nutrire nella propria mente dovevano essere tralasciati: se da un fatto era stata tratta una deduzione, quella stessa era invariabilmente giusta, qualunque cosa accadesse, poiché l'investigatore era in qualche modo onnisciente.

Si trattava di un sotterfugio che prevedeva una fortuna piuttosto sfacciata, secondo Berkeley; e tutti dovrebbero sapere che i protagonisti di romanzi gialli classici possono essere tante cose, ma mai tanto baciati dalla Buona Sorte da vedersi piombare il colpevole tra le braccia aperte, senza dover prima incastrarlo. Pertanto, egli decise di fare qualcosa per scacciare questo spettrale fantasma dalle coscienze dei giallisti, intimoriti dalle accuse che potevano essere rivolte loro in tal senso, e dei lettori più critici: ovvero, letteralmente fece "esplodere il poliziesco di classe esponendo i limiti dei trucchi che gli scrittori di genere giocavano ai lettori" (come sottolinea Martin Edwards) e provò ad ideare una storia in cui nessuno, all'apparenza nemmeno l'autore in persona, sapesse chi era il colpevole. Egli, infatti, avrebbe dovuto dimostrare al suo pubblico esigente e interessato quanto fosse impossibile riuscire a mantenere i sospetti su si una data persona per più di qualche capitolo. Così, Berkeley decise di mettere alla prova la sua abilità, e presumo si sia domandato come avrebbe potuto trasformare la sua idea in qualcosa di reale. Forse proprio il riferimento alla realtà gli diede la risposta che cercava: infatti, forse non ve ne siete resi conto, ma ogni giorno esistono delitti reali che restano senza un colpevole. Magari c'è questo signore distinto e gentile, che secondo i vicini di casa si comporta sempre correttamente e non fa male a una mosca, il quale di punto in bianco si rende conto di odiare a morte qualcuno. Il signor X, che teme le conseguenze delle azioni di un pericolo pubblico come il suo fantomatico nemico, si ingegna e gli spedisce una scatola di cioccolatini avvelenati (oppure un libro con le pagine impregnate di veleno, una bottiglia di succo alterata con il detersivo, un pacchetto con all'interno un meccanismo che lo farà esplodere...) per metterlo a tacere per sempre. Il piano, accurato fin nei minimi dettagli, riesce e non esistono prove per incastrarlo. Pertanto, il nostro X torna alla vita di prima, sorridendo alla gente che incontra per strada e in pace con la propria coscienza, dal momento che ha fatto un favore all'umanità. Detto così, potrà sembrarvi fantascientifico; però vi assicuro che tutto ciò accade più di quanto crediamo. Perché allora, avrà pensato Berkeley, non sfruttare un caso del genere per il proprio delitto? Ognuno può fare le congetture che gli sembrano opportune, montando l'accusa in base agli indizi disponibili e a quelli che riesce a raccogliere per conto suo: il risultato probabilmente con cambierà e l'assassino rimarrà libero. In questo modo, egli ha costruito un delitto dove gli indizi materiali fossero ridotti all'essenziale (ma solo alla partenza, poi se ne sarebbero potuti aggiungere all'occorrenza) e le stesse considerazioni da farsi nella ricerca della risoluzione fossero infinite. Oltretutto, questa trama sarebbe risultata adatta a sviluppare alcuni aspetti-chiave cari alla narrativa di Berkeley: gli avrebbe permesso di criticare la giustizia e mettere in luce quanto essa fosse fallace, di prendersi gioco dei metodi di scrittura dei suoi colleghi, tanto presi nel loro ruolo da non vedere i limiti che si auto-imponevano, e di fare quei commenti al vetriolo che la sua vena sarcastica bramava e mettere in luce la propria intelligenza. Probabilmente nessuno sarebbe riuscito a dare vita a un romanzo giallo tanto astuto e machiavellico; e infatti ancora oggi "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" resta un magistrale tour de force ineguagliato.

Anthony Berkeley Cox, nato nel
1893 e morto nel 1971

Questo capolavoro del romanzo giallo classico, oltre a rispecchiare molto bene la concezione di romanzo giallo che aveva l'autore, ci mostra 
chi fosse veramente Anthony Berkeley Cox (nonostante non ci troviamo ancora ai livelli di "L'Omicidio è un Affare Serio", dove egli anticipò i tempi e cambiò le regole della tradizionale partita tra lettore e autore di gialli). Nato nel 1893 come la sua controparte femminile Dorothy L. Sayers, Berkeley fu un personaggio talmente complesso che probabilmente nessuno riuscirà mai a comprenderlo appieno, anche se più di una persona ha tentato di decifrare il mistero della sua esistenza. Tra le altre cose, vi consiglio di leggere "The Golden Age of Murder" di Martin Edwards, in cui quest'ultimo fa molte interessanti riflessioni su quanto le vicende fittizie e la personalità e mentalità dei personaggi stessi siano state modellate sulla vita reale dell'autore, passandole come al microscopio. Problematico, affetto da un fortissimo complesso di inferiorità nei confronti delle donne (probabilmente dovuto al fatto di essere sempre stato considerato, dalla madre autoritaria, più "tardo" rispetto al fratello Stephen e alla sorella Cynthia), inguaribile donnaiolo, misantropo e affettuoso di volta in volta, ma allo stesso tempo geniale innovatore della crime story britannica, questo strano individuo era capace di spiazzare gli interlocutori con i suoi repentini cambi di umore e idee. Probabilmente fu la guerra a dare il colpo di grazia al suo fragile equilibrio mentale: ritornato dai campi di battaglia, la sua salute fisica e psichica si aggravò e mise in luce quanto il conflitto l'avesse indebolita, tanto quanto l'intelligenza e la creatività erano invece solide. Aveva trascorso un'infanzia segnata dall'infelicità, tra fratelli considerati molto più dotati di lui e genitori non propriamente affettuosi, e la somma dei suoi traumi finì per generare in lui un atteggiamento schizofrenico, che si abbatteva sul prossimo di continuo, soprattutto quando interagiva con esponenti del sesso femminile, e che egli stesso tentò di esorcizzare attraverso la scrittura. Rinchiuso nelle sue proprietà di Monmouth House e The Platts, trascorreva le proprie giornate a riflettere su un'esistenza travagliata e a riversare fin dal principio nei romanzi gialli (già in "Dov'è Cicely?", del 1927, e nel primo volume della serie con protagonista lo scostante Roger Sheringham, "Uno Sparo in Biblioteca" del 1925, si possono rilevare alcune idee innovative sull'enigma e sulla concezione che aveva del genere letterario) le proprie frustrazioni, generando un'aura di mistero attorno a sé e alimentando la propria insoddisfazione.

Si prendeva gioco della giustizia, considerandola fallace e inutile per dirimere le questioni vitali degli uomini; intrecciava relazioni e flirt illudendosi di aver trovato l'anima gemella e finendo sempre per rendersi conto di essersi sbagliato; si lamentava del Governo e degli addetti statali dopo un'infelice esperienza lavorativa in un ufficio governativo: riuscì a fare tutto questo mentre ideava misteri strabilianti, dando nuova linfa al giallo all'inglese, tratteggiando con tono cinico i personaggi e le loro debolezze e mettendo in ridicolo le convinzioni più radicate della sua epoca. "I giorni del vecchio enigma poliziesco, basato interamente sulla trama e senza connotazione dei personaggi e concessioni allo stile e allo humor, sono, se non contati, in ogni caso nelle mani del pubblico" sostenne nella prefazione di "Gioco Mortale", il suo secondo romanzo, aggiungendo che "il romanzo giallo si sta sviluppando in un genere narrativo con un interesse più accentuato sul crimine, che tiene avvinto il lettore facendo leva non tanto sugli elementi matematici quanto su quelli psicologici". Tale convinzione, pertanto, non poté che indurlo a compiere l'ennesima pazzia: per il gusto di cambiare le solite regole noiose, infatti, arrivò a rovesciare completamente i canoni del giallo all'inglese, inducendo gli assassini a diventare le vittime, gli assassinati crudeli aguzzini, giudici dall'aria paterna figure lugubri e molto altro. Tuttavia, il suo gusto per il mistero finì ancora una volta per toccare l'esagerazione, tanto da indurlo a non rivelare mai niente di sé senza sotterfugi: non concedette interviste né autografi gratuiti e si divertì a confondere anche gli amici fornendo opinioni che cozzavano spesso tra loro, godendo nel mantenere uno stretto riserbo sulla sua vita privata al punto che solo di recente alcuni fatti della sua vita sono venuti alla luce.

In ogni caso, l'utilizzo della narrativa del mistero come mezzo per andare incontro e mettere freno alle proprie manie non dovette andare del tutto a buon fine, visto che il suo atteggiamento non mutò in meglio; anzi, con il passare degli anni purtroppo peggiorò e la sua mente divenne sempre più instabile, tanto che Julian Symons raccontò di averlo incontrato in un paio di occasioni e, in entrambe, si verificarono strane circostanze: una volta, un chiodo arrugginito sbucò dal suo piatto di minestra (lo aveva lasciato cadere qualcuno per sbaglio o lo aveva infilato lì lui stesso?) e un'altra interruppe addirittura la conversazione, mettendosi una maschera sulla faccia, gonfiando una pallina di gomma e facendo profondi respiri. Ma, in fondo, Anthony Berkeley non era quel mostro che fin qui può esservi parso: era un compagno che, per quanto un po' inquietante, si dimostrò insolito e sorprendente. Brillante romanziere, capace di creare atmosfere ricche di sfumature misteriose e trame complesse, oltre ad innovare il romanzo giallo con le sue trame in anticipo sui tempi, riuscì a rivoluzionare anche la concezione del detective tradizionale con l'introduzione, in "Uno Sparo in Biblioteca", di Roger Sheringham, un individuo scontroso, maleducato, fallace e abbastanza sconveniente il quale, prima di arrivare alla soluzione, finisce per sospettare di quasi tutti. Berkeley era uno che avrebbe potuto vantare e strombazzare una personalità fuori dal comune, però decise di non farlo. Amava indossare i panni di personaggi curiosi, spesso misogini e burberi, come se fosse sempre sul palcoscenico; a volte litigava con foga con alcuni membri del Detection Club, che contribuì a fondare fin dai primi giorni (una volta mi sarebbe piaciuto assistere a un suo incontro-scontro con Dorothy L. Sayers), ma in molti affermarono con convinzione che sotto sotto amava incoraggiare i giovani scrittori e, cosa da non dimenticare, possedeva una percezione della realtà fuori dal comune. La stessa identità di Francis Iles, con cui firmò "L'Omicidio è un Affare Serio", "Il Sospetto" (da cui Hitchcock trasse un film che, per quanto ben fatto, non riesce a rendere l'idea della grandezza del libro da cui è stato tratto) e "As For the Woman" rimase un incognita che venne svelata solo dopo la sua morte; una maschera che amava portare più di ogni altra, poiché era nata dal ricordo di un vecchio antenato, un contrabbandiere che veniva considerato una pecora nera dalla famiglia. Proprio il tipo che lui avrebbe preso in simpatia fin da subito e al quale avrebbe accordato la disponibilità per combinare qualche astuto ed eclatante scherzo.

Copertina di "The Poisoned Chocolates
Case" pubblicato dalla British Library
Crime Classics

Fatta questa premessa, credo che chiunque abbia letto "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" potrà 
riscontrare molte somiglianze tra le vicende raccontate nel romanzo e la narrativa di Berkeley. A parte alcuni dettagli, infatti, come negli altri mysteries dell'autore troviamo una sorta di "marchio", un concentrato di novità e audacia che si mescola a cenni biografici e convinzioni personali, tra temi trattati e personaggi simili a individui che ebbero un forte legame con la sua persona. Prendiamo in considerazione ogni punto, con ordine. Innanzitutto, è chiaro che Berkeley ha attinto alla propria esperienza di vita, ispirandosi a un primitivo Detection Club per dare vita al Circolo del Crimine che raduna i protagonisti della storia (pp. 7-13, 102-103, 106-107, 178, 184-186). Prima di diventare un'associazione vera e propria, infatti, il Club consisteva in una serie di riunioni-cene a cui partecipavano i membri proprio a casa dell'autore di questo libro. Si trattava di occasioni informali, dove si tendeva a mangiare assieme e a discutere una volta terminato il pasto; in qualche modo, proprio come accade in "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati". Inoltre, la caratteristica di invitare ospiti illustri per trattare argomenti di comune interesse (come nel caso di Moresby all'interno del racconto fittizio) è un altro cenno all'abitudine sviluppata dal circolo di convocare di volta in volta qualcuno che potesse contribuire a generare discussione utile per far interagire gli invitati. Per non parlare della varietà di personalità di cui era composto il Detection Club e del carattere elitario di questi incontri, ai quali potevano partecipare soltanto i migliori esperti di criminologia dell'Inghilterra (a parte pochissime eccezioni): nel romanzo, solo sei persone hanno superato la durissima prova per potersi unire a Sheringham e i suoi compagni. Infine, vorrei sottolineare una curiosità: ho notato come i personaggi di "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" presentino alcune somiglianze fisiche e caratteriali con alcuni tra i reali membri fondatori del Club londinese. Sir Charles Wildman è un signore austero, solenne, che affronta l'indagine da un punto di vista un po' antico e porta un paio di occhiali legati a un filo nero... proprio come usava fare G.K. Chesterton, il primo Presidente dell'associazione. La signora Mabel Fielder Flemming, al contrario, è una donna robusta, che ama portare cappellini stravaganti e ha l'aria di una cuoca, oltre a prediligere un approccio al crimine che abbia a che fare con il melodramma e che esercita una sorta di amore-odio per il sentimento... come Dorothy L. Sayers, la nemica-amica di Berkeley. Morton Harrogate Bradley presenta alcune delle caratteristiche dell'autore stesso, ma sembra lasciarsi mettere nel sacco un po' troppo per essere un ritratto spiccicato di quest'ultimo; e poi quel riferimento (pp. 64-65) al rischio di un'accusa per diffamazione, così caratteristico del modo di comportarsi di Milward Kennedy, in seguito accusato e portato in tribunale per tale motivo, mette la pulce nell'orecchio... Alicia Dammers, all'inizio, mi ha dato da pensare. Credevo fosse stata ispirata da Sayers, con la sua freddezza e il disprezzo radicato contro gli uomini; ma poi, quando ho letto delle sue critiche alla teoria di Sheringham, ho capito che molto probabilmente ella è stata ricalcata su E.M. Delafield, la sola donna che riuscì a mettere davvero in difficoltà Anthony Berkeley. Le caratteristiche c'erano tutte (pp. 187-188, 231-232). Poi, com'è ovvio, Sheringham è Berkeley: burbero, ironico fino ad essere cinico, critico verso la giustizia, interessato di criminologia e di psicologia, entusiasta di essere il Presidente del Circolo del Crimine ma non all'altezza per gestirlo; in fatto di caratteristiche fisiche e psicologiche i due sono identici. Infine Ambrose Chitterwick, che non sono riuscito a far combaciare con nessuno. Ecco, forse poteva assomigliare ad Agatha Christie in fatto di timidezza e astuzia nascosta. In ogni caso, sono convinto che per la creazione dei protagonisti di "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati", Berkeley prese ispirazione da persone con cui era in qualche modo in contatto (pp. 8, 11, 13, 15, 42-43, 56-57, 64-68, 79-81, 84-88, 91-99, 109, 112-113, 121, 123, 126-127, 135, 143-145, 162, 166, 175-176, 187-188).

In secondo luogo, nello stile tipico dell'autore, in questo straordinario romanzo del mistero il true crime, grande passione di Berkeley, occupa un ruolo molto importante (pp. 39, 53, 69, 82-83, 126-137, 143, 146-147, 164, 179, 209). A suffragio delle teorie di ognuno dei partecipanti alla sfida lanciata da Sheringham, i personaggi si sforzano di trovare corrispondenze reali con le loro ipotesi di soluzione: vengono citati, tra l'altro, il caso di Christiana Edmunds, l'"Avvelenatrice dei Cremini al Cioccolato" che avvelenò un mucchio di persone prima di essere fermata proprio grazie a dolci che comprava, alterava con la stricnina e poi riportava in negozio senza essere scoperta; il caso di Marie Lafarge, accusata di aver ucciso il marito con l'arsenico; il caso Horwood-Tatam, in cui un pazzo ha inviato una scatola di cioccolatini avvelenati a un commissario di polizia per ucciderlo; insieme a molti altri. Inoltre, in "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" si può trovare un tema molto caro a Berkeley: la fallibilità nelle sue molteplici declinazioni. Ad esempio, la figura del detective non è più quella onnisciente "alla Poirot", dove le conclusioni a cui egli giunge dettano legge, ma spesso e volentieri l'investigatore si scontra con teorie errate e segue false piste, con la conseguenza di risultare un po' ridicolo. In questo caso specifico addirittura tale segno distintivo viene portato all'esasperazione, dato che ben cinque criminologi sbagliano nel trovare la soluzione del mistero: non solo Sheringham, quindi, si trova a cadere in errore, ma pure altri quattro illustri rappresentanti del mondo della criminologia migliore. È questo continuo cambio di bersaglio l'ennesimo segno del segreto divertimento di Berkeley nel tormentare giocosamente e prendere in giro il prossimo. Ma non solo: Berkeley ha fatto in modo di includere la maggior parte di approcci al mistero, passando da quello induttivo a quello deduttivo, per poi mescolarli insieme, stravolgerli, farli a pezzi e ricomporli. Per ognuna delle forze della legge che agiscono (non solo dei personaggi) ha modellato un metodo specifico, che potesse rispecchiare i pregi e i difetti di ognuno:
  • Polizia: metodo (pp. 30-33), scoperte (pp. 31-32, 34, 36-37), teoria (pp. 35, 38-39), critica (p. 41)
  • Sir Charles Wildman: metodo (pp. 55-64), teoria (pp. 61-64, 70-73), critica (pp. 73-78)
  • Mabel Fielder-Flemming: metodo (pp. 80-84, 86-89, 92-95), teoria (pp. 96-100), critica (pp. 104-106)
  • Morton Harrogate Bradley: metodo (pp. 122-123, 130-131, teoria (pp. 128- 130, 133-135, 138-151), critica (pp. 143-144, 151-152)
  • Roger Sheringham (modellato sulla soluzione fornita dal racconto "Il Caso Vendicatore", da cui è tratto "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati"): metodo (pp. 153-154, 157-161, 165-171), teoria (pp. 171-189), critica (pp. 182-184)
  • Alicia Dammers: metodo (pp. 188-195), teoria (pp. 195-199, 201-211), critica (pp. 215-221)
  • Ambrose Chitterwick: metodo (pp. 223-224), teoria (pp. 225-236), critica (p. 236)
E nel fare ciò, ha messo in chiaro un concetto innovativo e sconcertante: niente è al riparo da una critica che spazzi via il castello di carte costruito dall'ingegnoso investigatore. Pertanto, il risultato è che ci sarà sempre qualcosa (una testimonianza, una prova rinvenuta per caso, una coincidenza) che potrà scombinare le carte in tavola, ed esisteranno infinite soluzioni a un problema all'apparenza facile da risolvere. Pensate che questo assioma ha assunto un carattere talmente forte che Christianna Brand, autrice di gialli classici, e lo stesso Martin Edwards sono riusciti a ricavare un'ulteriore soluzione a testa (nel 1979 e nel 2016) dai dati forniti da Berkeley, segnalando un colpevole ancora diverso da quelli noti! L'incertezza regna sovrana in "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati", il quale non racconta tanto una storia sull'indagine pura, quanto sulla sua interpretazione e sulle sue variabili (non per niente si inizia a sbrogliare la soluzione del caso già dal cap. 5 e l'ambientazione, di solito importante per il tratteggio della vicenda, resta quasi sempre la stessa e non viene descritta). Di conseguenza, ciò illustra quanto la fallacia tocchi pure gli autori stessi di romanzi gialli (pp. 76-77, 93, 121-122, 128, 130-131, 133-134, cap. 11), mettendo in mostra quanto essi siano ciechi di fronte all'illusione di creare storie perfette: come dimostrato, non esistono indagini in cui si abbiano soltanto certezze, e chi non si rende conto di ciò continuerà ad ingannarsi e ad ignorare il fatto che un delitto può avere infinite risoluzioni, e sta allo scrittore decidere cosa mettere in luce e cosa nascondere.

In terzo luogo, nel fornire molteplici soluzioni per un mistero, Berkeley si dimostra erede di E.C. Bentley, l'autore di "La Vedova del Miliardario", dove si verifica un caso simile; eppure, fa un passo avanti nel mettere un finale caratterizzato da quella stessa incertezza, in contrasto con la visione convenzionale secondo cui il compimento della vicenda del mistero è nel fatto che, alla fine, l'ordine viene ripristinato. Un altro esempio dell'ironia cinica di Berkeley; assieme al suo voler continuamente mettere in ridicolo i personaggi: grazie al suo tipico umorismo inglese, irriverente e cinico, egli si divertì a girare il coltello nelle debolezze degli attori sulla scena, portando alla luce manie, ossessioni, segreti e nefandezze di tutto questo gruppo di esseri umani, ognuno caratterizzato da pregiudizi e interessi personali da portare avanti senza curarsi delle conseguenze sugli altri. Se si ispirò a membri del Detection Club, mi auguro che nessuno di loro abbia notato le stesse somiglianze che ho individuato io: li avrebbe criticati ferocemente, se fosse stato davvero come sospetto, nonostante il suo intento fosse comunque quello di sottolineare quanto in generale fossero ingenui quei giallisti convinti di creare perfetti meccanismi a prova di critiche.

Infine, come ultimo punto caratteristico della sua narrativa, Berkeley fa in modo di prendersi gioco dei valori del suo tempo. Il sentimento critico si riflette nel ritratto che viene fatto della giustizia: egli fu sempre ossessionato dal fatto che il sistema giuridico inglese non fosse all'altezza delle aspettative e, di conseguenza, riuscisse solo a condannare le vittime e a salvare i colpevoli. Ebbene, anche in questo caso (nella spiegazione final, nella scoperta del colpevole nell'ironia della sorte che gioca al gatto col topo) si nota come l'autore avesse intenzione di sviluppare questo tema, benché non abbia raggiunto i livelli di sconcerto generati in romanzi successivi come, ad esempio, "L'Ultima Tappa" (pp. 11-13, 41, 49-53, 55-56, 64-69, 86, 88, 102-106, 114-115, 143-144). Altri sono poi gli elementi che riflettono la personalità dell'autore, a partire dalla concezione con cui vengono dipinte le donne (soprattutto la figura di Alicia Dammers, così simile a Delafield da suscitare questioni troppo lunghe da affrontare qui, ma non solo, vedasi cap. 15, pp. 155-160, 173-176, 231-232), passando per l'immagine del matrimonio che emerge dal racconto, non solo nella coppia dei Bendix e in quella di Pennefather, ma pure nella dedica al fratello Stephen (della cui moglie Berkeley era innamorato), e terminando in quel senso di inferiorità che prova Sheringham mentre Dammers demolisce la sua teoria. In questo modo, "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" risulta essere non solo uno strumento attraverso il quale Berkeley, ancora una volta, prova a dare sfogo alle proprie frustrazione e a rivelare se stesso; ma anche un capolavoro che al giorno d'oggi non ha eguali in fatto di qualità. Diversamente da quanto si possa pensare, con questo romanzo l'autore non voleva dare vita a un poliziesco fine a se stesso, ma piuttosto qualcosa che stava agli antipodi e che mettesse in luce quanto il genere fosse limitato dagli stessi autori e dalle loro idee poco progressiste. Non è scovare la soluzione più originale che interessa a Berkeley (anche se essa risulta comunque sbalorditiva, come la definì Julian Symons), quanto dimostrare quanto quest'ultima possa variare in base ai più piccoli cambiamenti e convincere il lettore che il colpevole, una volta individuato, potrebbe essere quello sbagliato. Un concetto che avrebbero potuto sviluppare assieme P.G. Wodehouse e Agatha Christie, secondo Martin Edwards; che ancora oggi suscita riflessioni e discussione e che ha permesso al romanzo e al suo creatore di entrare doverosamente nell'Olimpo del giallo (oltre che nelle più importanti liste dei migliori esemplari del genere, e nelle classifiche personali di critici rinomati, vedasi qui e qui).



Link all'edizione in lingua originale su Amazon

Nessun commento:

Posta un commento