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venerdì 11 settembre 2020

45 - "Arsenico" ("As a Thief in the Night", 1928) di Richard Austin Freeman

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore

Come forse avrete capito, se tenete d'occhio le recensioni che pubblico su Three-a-Penny, la mia esperienza di lettore di romanzi gialli classici segue una sorta di schema abbastanza definito, regolato sì dall'arbitraria voglia di leggere un dato titolo, ma soprattutto dalle stagioni meteorologiche che si alternano nel corso dell'anno. Non che questa sia una prerogativa esclusiva del sottoscritto: da quanto riesco a capire, leggendo di qua e di là sul web, siamo in tantissimi a mettere in atto questa pratica, facendo le nostre scelte un po' in un senso e un po' in un altro. Da parte mia, io mi sforzo di rispettare questa suddivisione per periodi nel modo più rigoroso possibile; non fosse solo per riuscire a calarmi nelle storie che leggo con maggiore facilità. Pertanto, con la fine dell'estate, ho accantonato le storie ambientate in luoghi esotici e vacanzieri, dove i viaggi di piacere e gli alberghi di lusso abbondano, per tornare a quello che forse è il mio amore più grande: i racconti in cui dominano il senso del gotico e le atmosfere si fanno più minacciose, oppure dove si trova uno spiccato contrasto tra il clima confortevole dei salotti riscaldati dalle luci soffuse, e quello terrorizzante al di là delle finestre sbarrate contro la notte. Le foreste scosse dalla pioggia e dal vento, i promontori sul mare in tempesta, le città nebbiose e misteriose, per non parlare delle bufere di neve che isolano avite dimore di campagna (ma questo è più indicato per i mesi di novembre e dicembre); tutto ciò, a mio parere, riesce a dare una marcia in più, a sottolineare la drammaticità delle tragedie che si verificano nella tradizionale crime story, e a infondere nel lettore quel brivido caratteristico nel giallo di stampo anglosassone, mentre egli siede accanto al fuoco e ascolta le gocce picchiettare sui vetri. Forse anche per questo motivo, da molti anni a questa parte, settembre è diventato uno dei mesi che preferisco in assoluto e questo genere di storie mi affascina in modo particolare. Immaginate un corridoio oscuro, in cui si deve farsi strada grazie alla luce di una candela, intermittente e generatrice di ombre mobili su muri e curve ad angolo; oppure di avanzare a tentoni in mezzo a un banco di nebbia all'apparenza solida e impenetrabile, o sotto scrosci battenti che impediscono di orientarsi con chiarezza: nonostante siano classificate come piene di cliché, tali situazioni riescono ancora a suscitare in me grande emozione.

Si possono fare tanti esempi su questo tipo di romanzo del mistero: nel genere metropolitano, mi viene in mente "L'Arte di Uccidere" di John Dickson Carr, in cui il giudice istruttore Henri Bencolin si trova coinvolto in un mistero che vede svolgersi la maggior parte delle indagini all'interno di un edificio terrorizzante, calato in una Londra spettrale; "Svanita nel Nulla" e "Qualcuno ti Osserva", esemplari tipici della narrativa di Ethel Lina White, mettono in scena ossessioni che spaziano da caseggiati a dimore isolate, in cui i personaggi sono perseguitati e devono mettersi in salvo; "Poirot e la Strage degli Innocenti" di Agatha Christie e "Notti di Halloween" di Leo Bruce sfruttano le caratteristiche della festa di Ognissanti (zucche intagliate e ghignanti, maschere paurose, armi giocattolo, visite a cimiteri e in generale l'atmosfera di terrore) per esaltare le loro storie in villaggi rurali; "Come in uno Specchio" di Helen McCloy prende in prestito elementi del folklore e della tradizione dei tempi bui, per proiettare spettri in una scuola femminile del presente e dare vita a una vicenda in cui non si distinguono più finzione e realtà. Ognuno di questi libri, a modo suo, traccia una rappresentazione della società e del mondo che ci circonda, e lo fa dipingendo situazioni dove non mancano i brividi sul piano delle emozioni forti. Tuttavia, come dicevo sopra, non di solo terrore si va avanti. Anche il contrasto tra ciò che è confortevole e ciò che mette disagio gioca spesso un ruolo di primo piano all'interno di un romanzo del mistero. Questo è un carattere che molte volte ho trovato nella narrativa di un autore in particolare: Richard Austin Freeman. Con il suo stile un po' antico ma melodrammatico, egli è riuscito a tratteggiare momenti pregni di drammaticità, infondendo un forte senso della realtà a situazioni che dovevano apparire fantascientifiche agli occhi dei suoi lettori di inizio Novecento, ma senza per questo rinunciare a inserire una dose di ironia o leggerezza per stemperare l'atmosfera o descrivere passaggi dove il sentimento, scollato dalla sua componente intimidatoria, attira tutta l'attenzione sul proprio lato romantico. In "L'Occhio di Osiride" avevo fatto un discorso simile, e anche col romanzo di oggi, "Arsenico" (Polillo Editore, 2016), ritenuto come un altro tra i suoi capolavori, ripeto questo concetto. Nell'indagine sull'efferato omicidio di un malato cronico, infatti, si alternano passaggi dove emerge la malvagità dell'assassino e la ragione pare lasciare il posto a un'anarchia di paura e sospetto, con altri in cui si nota quanto sia ingiusto considerare i personaggi e gli scenari domestici creati dall'autore come incapaci di trasmettere emozioni. Non di sole scienza e inchiesta è piena l'opera di Freeman: pure la parte meno materialista, quella legata alla sfera del sentimento, spicca per restituire al lettore un ritratto a tutto tondo del delitto e dei suoi protagonisti.

King's Bench Walk, Londra, strada in
cui abita il professor Thorndyke,
ritratta in una cartolina d'epoca

Tutto inizia quando il reverendo Amos Monkhouse, in viaggio dalla lontana parrocchia in cui risiede, si reca in visita al fratello nella sua grande casa di Londra. Quest'ultimo, Harold, ha sempre sofferto di salute cagionevole, ma negli ultimi tempi pare patire più del solito a causa di una malattia incapace da identificarsi con sicurezza. Come si scoprirà una volta consultato il medico, il dottor Dimsdale, tra i sintomi vi sono difficoltà respiratorie, un'insofferenza cardiaca che gli impedisce addirittura di alzarsi dal letto, e tutta una serie di altri piccoli disturbi che, sommati insieme, lasciano il malato impotente pur non essendo da imputare a un malessere preciso e definito. Resosi conto della situazione, Monkhouse non è per nulla tranquillo; non solo per la brutta cera di Harold, ma soprattutto perché in casa, al momento del suo arrivo, ha trovato con immenso sconcerto soltanto un amico di famiglia, Rupert Mayfield, e alcune domestiche; mentre la moglie di suo fratello si è recata nel Kent per sostenere la causa delle suffragette in cui milita, la nipote acquisita Madeline insegna a scuola e il segretario Wallingford è in giro per la città per affari. Come è possibile assicurare un'adeguata cura per il malato, se nessuno sembra volersi preoccupare di lui? Così, assecondato da Dimsdale e Mayfield (il quale funge da narratore della storia), Monkhouse si affretta a consultare uno specialista affinché trovi un rimedio per il fratello. A questo punto, Mayfield intraprende un viaggio di lavoro e si allontana da Londra, augurandosi che tutto possa risolversi per il meglio nonostante serbi nel cuore un certo timore... Timore che, non appena torna a casa, si rivela fondato: proprio la sera prima del suo rientro, Harold Monkhouse viene a mancare nella sua camera da letto, mentre legge un libro a lume di candela per non disturbare gli altri abitanti dell'edificio. Pure Barbara, la moglie del morto, ha fatto ritorno proprio quella mattina, senza riuscire a dare l'ultimo saluto al consorte; pertanto Mayfield, da amico di famiglia ed esecutore testamentario, decide di sollevare dall'amica le responsabilità aggravate dal lutto, prende in mano la faccenda e si fa portavoce per gli abitanti della casa, organizzando ogni cosa per assicurare un funerale degno per Harold. In fondo, tutti sono troppo sconvolti per riuscire a far fronte agli impegni e lui è lieto di potersi rendere utile, soprattutto grazie al proprio ruolo di avvocato.

Sfortunatamente, però, il giorno della cerimonia si presenta alla porta di casa un poliziotto che convoca i residenti a un'inchiesta che si terrà due giorni dopo, affermando che ogni altro impegno in vista della sepoltura è stato rinviato a una data da stabilirsi. Cosa può essere successo di tanto grave? Ebbene, come scopriranno ben presto i residenti di casa Monkhouse, Harold è stato ucciso freddamente grazie alla ripetuta somministrazione di arsenico, con molta probabilità sfruttando il cibo o la medicina ingeriti di volta in volta ogni giorno. Così, di punto in bianco Barbara, Madeline, Wallingford, le domestiche e lo stesso Mayfield vengono sospettati di essere assassini, piombando in un incubo ad occhi aperti che li vede piegarsi a fastidiosi interrogatori e perquisizioni da parte della polizia. Come risolvere la situazione facendo meno danni possibili? Per fortuna, Mayfield conosce l'uomo giusto per occuparsi del caso in fretta e senza suscitare scandali: il professor Evelyn Thorndyke, anatomopatologo e medico legale, il quale una volta interpellato si dice lieto di poter dare una mano al suo amico di lunga data. Così, l'investigatore si mette all'opera e, grazie al proprio ingegno di carattere matematico e alle apparecchiature di cui dispone, inizia a sondare il mistero della morte di Harold Monkhouse con metodo e criterio. L'unico problema è che, a suo dire, la soluzione del caso si trova nel passato, dove la scienza e i mezzi di cui dispone faticano a farsi strada. È forse possibile aggirare tale scoglio? Grazie a una serie di fortuite coincidenze e all'infaticabile ingegno di cui dispone, capace di selezionare la verità dalla menzogna e gli indizi vitali da ciò che li nasconde all'occhio inesperto degli altri, Thorndyke riuscirà a istruire un'accusa fondata e inattaccabile contro un insospettabile colpevole; anche se, per farlo, dovrà recare un grosso dolore al suo amico avvocato, legato a molti degli abitanti di casa Monkhouse da un sincero affetto.

Suggestiva copertina di un'edizione in
lingua originale di "Arsenico"

Come era stato con "L'Occhio di Osiride", anche nel caso di "Arsenico" ci troviamo di fronte a un romanzo giallo che risente ancora di una tradizione posteriore a quella della Golden Age della classica crime story, nonostante esso sia stato scritto nel 1928 (lo stesso anno, per fare un paragone, furono dati alle stampe "Bellona Club" di Dorothy L. Sayers e "Delitti di Seta" di Anthony Berkeley). Questo, tuttavia, non vuol significare che le vicende raccontate siano noiose. Anzi, nello stile tipico di Freeman, in questo libro troviamo una narrazione differente da quella dei titoli sopra citati, in cui spiccano in modo chiaro la capacità e l'intenzione dell'autore di voler evocare il mondo affascinante e suggestivo (nonché imperfetto) della fine dell'età Vittoriana, attraverso piccoli scorci sulla quotidianità del tempo e sulle vite di persone che ormai sono morte e sepolte da moltissimo tempo, ma allo stesso tempo, come imprigionate nell'ambra, ancora reali e tangibili agli occhi del lettore. Al di là dell'enigma puro, ciò che importa a Freeman è il tratteggio della società e della realtà dell'Inghilterra del suo tempo, restituito non come qualcosa di relegato a un passato freddo e asettico "da libro di storia", ma vivo nei ricordi di chi lo ha vissuto in prima persona: in sintesi, qui non sono i Grandi Avvenimenti a dominare la scena, con la loro pomposità, ma piuttosto azioni come la compilazione di un diario giorno per giorno, oppure il rapporto tra conoscenti e innamorati, tra gentiluomini e garbate signorine, fatto di inchini formali e toni lirici, ritratti di vie scomparse assieme ai loro abitanti nati e stabilitasi proprio lì da tempi immemori, descrizioni di dimore signorili e di quartieri ormai evolutesi in qualcosa di più moderno; tutte cose le quali possono essere rievocate dal lettore comune e assaporate con un pizzico di nostalgia e di tenerezza. Esse ci parlano di un'epoca passata e ormai cancellata dal progresso, che riesce ancora a vivere davanti ai nostri occhi, all'interno di queste ignare "biografie civiche" dell'autore, il quale ha destinato al futuro un'eredità preziosissima di frammenti che compongono un mosaico sulla tradizione, tanto rigoroso non solo da soddisfare la mera curiosità ma addirittura da restituire un ritratto veritiero dell'evoluzione della società, senza tralasciare fatti che altrimenti sarebbero andati perduti nelle pieghe del tempo. Il tutto, tra l'altro, in un modo che è riuscito a resistere alla prova del tempo, conservando un certo fascino e mescolando enigmi innovativi e una narrazione suggestiva che dimostrano chiaramente come il genere giallo riesca ancora a resistere a più di un secolo dalla sua nascita.

Pertanto, detto ciò, nonostante il fatto che Richard Austin Freeman appartenga a una generazione anagrafica posteriore a quella degli esponenti della Golden Age del giallo anglosassone, io non trovo che questo autore abbia qualcosa da invidiare ai suoi colleghi più giovani. Voglio dire, se la sua opera può suggerire un carattere improntato su uno stile e una caratterizzazione dei personaggi un po' datati, ciò non significa che il risultato finale sia meno interessante di quanto si potrebbe sperare, nel momento in cui ci avviciniamo a essa. Si è visto in "L'Occhio di Osiride", ma ciò appare chiaro pure in "Arsenico", il quale può essere incluso in quei romanzi gialli che definisco "antiquati" in senso positivo; non superati e vetusti da apparire fin troppo macchinosi e complicati da digerire, quanto capaci di sfruttare la tradizione in modo da accrescere il proprio valore intrinseco. Nell'altro romanzo di Freeman che avevo recensito, li avevo paragonati a scrivanie d'epoca accostate a tavoli dal design moderno, e oggi ribadisco il concetto: magari a prima vista le prime possono apparire un po' fuori luogo rispetto ai secondi e non reggere il confronto, ma non si può negare il fatto che i gialli di Freeman (le scrivanie), allo stesso modo di quelli di J. Jefferson Farjeon, riescano ad esercitare un'attrazione irresistibile per i lettori nostalgici (i compratori di mobili d'epoca) e costituiscano piacevoli esempi di period novel, ovvero quei romanzi dove, attraverso uno stile onirico che pare attraversare le nebbie del tempo, viene ritratto un certo stile di vita, con i suoi pregi e i suoi difetti. Ecco, "Arsenico" intrattiene con una sorta di semplicità apparente, dal momento che, in realtà, ci troviamo di fronte a complesse opere dove i dettagli contano e ogni cosa (ambientazione, caratterizzazione dei personaggi, stile, mistero) viene tenuta insieme da un collante "alla Dickens", solida contro lo scorrere del tempo e la fugacità delle mode. Se prestiamo attenzione, infatti, nel romanzo che recensisco oggi troviamo gli stessi elementi che risaltano all'interno delle altre opere di Freeman e gli hanno permesso di sopravvivere tanto a lungo: una scrittura improntata su un linguaggio specialistico, ma che non rinuncia a un pizzico di ironia e a un tono nostalgico e mai banale, attenta e coinvolgente a modo suo; una grande attenzione al rapporto instaurato tra i personaggi, fatto di interazioni numerose che si inseriscono in modo perfetto a spezzare i momenti più seriosi dell'indagine e infonde nei protagonisti una certa umanità; un enigma in grado di soddisfare i lettori più esigenti, dal momento che è imperniato su un metodo d'indagine scientifico ma non per questo soporifero e poco appassionante; un abile uso delle descrizioni degli ambienti che fanno da sfondo alle vicende raccontate, capaci di proiettare chi legge direttamente dentro le pagine e di dare uno spessore alle azioni che si svolgono sulla scena. E nonostante si tenda a criticare l'autore (e il suo investigatore Thorndyke) per un certo atteggiamento gelido e fin troppo tecnico (giustificato se ci si sofferma soltanto sull'esposizione del mistero in sé), bisognerebbe sottolineare quanto un simile giudizio sia riduttivo quando si prende in considerazione ciò che circonda il caso stesso di cui uno è creatore e l'altro risolutore: il buon professore sarà anche il prototipo del detective declinato sulla figura del medico legale, come il suo inventore, ma non bisogna dimenticare che egli riesce a dare prova di possedere un cuore sensibile a sentimenti come l'amore e la fedeltà. E che Freeman, nel dipingere le allegre vie della città, nel tratteggio dei dialoghi brillanti, nel toccare alcuni temi in particolare e nel descrivere il complesso ed emozionante rapporto tra individui, non è da meno.

Grafico tecnico-scientifico tracciato da Thorndyke sul
caso di Monkhouse (non ho messo la didascalia che
spiegava per non incorrere in spoiler)

Con questo discorso, però, non voglio far passare in alcun modo il messaggio che i mysteries di Freeman siano tutti uguali. Ho citato in parte "L'Occhio di Osiride" per sostenere le mie argomentazioni, non tanto per evidenziare come certi aspetti siano stati copiati tali e quali in "Arsenico". L'opera dell'autore, in realtà, è sì fondata sui quattro aspetti che ho menzionato qui sopra, ma di volta in volta sembra concentrarsi più su uno di essi che sempre sugli stessi. "L'Occhio di Osiride", infatti, a mio parere tende a mettere in luce soprattutto il rapporto sentimentale tra il dottor Berkeley e Ruth Bellingham (pur senza minimizzare la parte sull'enigma, sia chiaro); mentre il romanzo che recensisco oggi pone l'accento sui caratteri scientifici del delitto e sulle varianti che costituiscono le sue possibili soluzioni. Non per niente, Freeman si rifece a un caso reale per ispirarsi nella creazione della trama di "Arsenico", la quale risulta più articolata e complessa di quella sull'omicidio di Bellingham. In particolare, sfruttò il classico enigma di epoca Vittoriana che vide come protagonista la giovane Florence Maybrick. Nata Chandler, in Alabama, questa diciannovenne bellezza del sud, con i riccioli dorati e gli occhi dal color delle viole, si era innamorata e sposata con un uomo inglese di ventitré anni più vecchio di lei, James Maybrick. Costui, un omone che aveva fatto fortuna come agente del cotone, l'aveva condotta in Inghilterra e insieme si erano stabiliti a Battlecrease House, a Liverpool, dove lei aveva dato alla luce un figlio e una figlia. Tutto era andato bene, fino a quel momento; poi, con grande sconcerto, Florence aveva scoperto che lui si era fatto numerose amanti e che una di esse gli aveva dato addirittura cinque pargoli. Una faccenda a dir poco traumatizzante; aggravata dal fatto che, mentre la mentalità del tempo concedeva all'uomo qualche scappatella, alle donne ciò non era permesso nel modo più categorico. Florence aveva provato a ad imitare il marito, per trovare un po' di conforto, ma ciò che aveva ricevuto in cambio era stato un vestito strappato e un occhio nero. Pertanto, immaginate quale dovesse essere l'atmosfera a Battlecrease House; una casa dove il focolare domestico era influenzato da bugie e sinistri sospetti, e tutti quanti erano in qualche modo ostili verso la giovane intrusa americana. Quest'ultima, alla fine, sembrò decidersi a compiere un gesto drastico: nonostante gli occhi di tutti puntati addosso, comprò alcuni fogli di carta moschicida e, dopo averli immersi nell'acqua, ne estrasse l'arsenico per farsene a suo dire una crema facciale. La conseguenza, però, fu che da quel momento Maybrick iniziò a soffrire di una strana gastrite, e poco dopo vennero scoperte, da parte del fratello dell'uomo, alcune lettere compromettenti scritte da Florence a un amante segreto. Il giorno seguente tale rivelazione, la ragazza fu vista maneggiare una bottiglia di estratto di manzo nella stanza del marito; e nel giro di ventiquattr'ore, Maybrick morì misteriosamente. La cosa, com'è ovvio, suscitò un gran clamore e Florence venne accusata di essere un'assassina, nonostante non ci fossero prove materiali del fatto che l'arsenico fosse la causa del decesso di Maybrick. Il processo fu una prova durissima per la ragazza, sbeffeggiata dalla stampa e ingiuriata da un giudice che qualche tempo dopo venne rinchiuso in un manicomio; ma il momento peggiore fu sapere di essere condannata a morte e ascoltare ogni giorno gli operai intenti alla costruzione del proprio patibolo... Patibolo che, alla fine, restò inutilizzato. Già, perché la condanna di Florence venne commutata in una sentenza di reclusione a vita per un'accusa che non le venne mai imputata: la somministrazione dell'arsenico. Per quindici anni dovette attendere che la "giustizia" facesse il proprio corso, prima di vedersi libera di tornare in Connceticut, dove sembra si sia ritirata fino alla fine dei suoi giorni, terrorizzata che la gente di Battlecrease House potesse rintracciarla.

Considerata questa premessa, penso si capisca benissimo in cosa "Arsenico" sia diverso da "L'Occhio di Osiride". Se in quest'ultimo caso l'idea per la creazione dell'enigma derivò soltanto in modo marginale dal caso di true crime di Parkman-Webster, e l'interesse attorno al quale si sviluppa l'indagine riguarda soprattutto il sentimento nato tra Berkeley e Ruth Bellingham e le sue conseguenze in relazione al mistero, nel romanzo recensito oggi il parallelo con la triste vicenda di Florence Maybrick, assieme all'azione sulla scena del delitto, le inchieste volte alla scoperta del colpevole, gli esperimenti di Thorndyke e tutto ciò che deriva e ha a che fare con esso (legge, medicina, scienza, meccanica) occupano un ruolo decisamente più importante. Certamente, come ho detto, ci sono molte affinità tra i due titoli, come lo schema ripetitivo del "protagonista giovane e innamorato di una ragazza bisognosa di comprensione", gli ostacoli all'apparenza insormontabili tra loro, il sospetto che si insinua nella relazione; per non parlare di quegli aspetti legati alla forma, come le dettagliate descrizioni degli ambienti, lo stile pieno di digressioni di Freeman (pp. 7-9, 14-15, 21-23, 29, 41, 66-69, 75, 89, 93-94, 101-102, 109-110, \120-126, 129-130, 133, 140-141, 143-146, 168-169, 175-176, 183, 187-188, 100-202, 212-216, 219, 253) e le frequenti osservazioni di carattere legale, medico e scientifico (pp. 147-160, 178-179, 181-185, 204-207, 234-249, 255-258). Tutto ciò, tuttavia, in "Arsenico" sembra fare "da contorno" alle indagini vere e proprie di Thorndyke, dove si pone grande importanza riguardo la somministrazione del veleno, le azioni che ognuno dei personaggi potrebbe aver messo in atto per alterare il cibo oppure la medicina del malato, all'opportunità e al movente che ognuno dei sospettati poteva avere per giustificare un assassinio. In sintesi, in "L'Occhio di Osiride" assistiamo più alla nascita dell'amore sbocciato tra il protagonista e la sua amata, che all'inchiesta della polizia e di Thorndyke snodatasi di pari passo; in "Arsenico", invece, vediamo in atto il contrario, con un caso poliziesco tanto complesso ed elaborato da mettere in secondo piano il rapporto (comunque importante ai fini della soluzione finale) tra Mayfield e Barbara Monkhouse. Sono il metodo scientifico (e quello della polizia, cap. 7), la mente analitica, di Thorndyke, gli esperimenti che egli conduce nel suo laboratorio, i processi giuridici e le procedure ministeriali, la prassi della polizia, i sopralluoghi a conferire spessore a quest'ultimo mystery; l'amore, la gelosia, l'odio e le ossessioni giocano un ruolo sì decisivo, ma pur sempre secondario. In questo Freeman si è dimostrato un degno rappresentante della scuola della Golden Age di stampo inglese: oltre a essere interessato e ad affidarsi a casi reali per la realizzazione di trame originali da impiegare nei suoi libri, come fecero i membri del Detection Club, egli ha infuso una particolare cura nel perfezionamento dei dettagli materiali dei suoi delitti fittizi; cosa che lo ha reso uno tra i più importanti ed innovatori esponenti del genere fin dai primi tempi di esistenza dell'associazione.

Richard Austin Freeman, nato nel
1862 e morto nel 1943

A questo proposito, sorprende molto venire a sapere che Richard Austin Freeman fu forse il primo "vero" scrittore di romanzi gialli, intesi come un misto tra cruciverba mentale e strumento di descrizione sociale. E fa ancor più sensazione il fatto che, considerando la mole di romanzi e racconti che egli pubblicò nella sua lunga vita, la sua passione per la scrittura ebbe inizio non dalla semplice vocazione, quanto piuttosto da un forte senso di disperazione. L'autore, infatti, nato a Londra nel 1862 e con un passato di medico otorinolaringoiatra, dopo un'esperienza nel servizio coloniale e il matrimonio con Annie Elizabeth Edwards si ritrovò di punto in bianco a dover affrontare una lunga malattia contratta nel continente nero, con la conseguenza di dover rimpatriare al più presto e trovare una nuova occupazione, che si adattasse ai suoi disturbi frequenti e gli permettesse di sopravvivere. La svolta arrivò con un impiego presso la prigione di Holloway, dalla quale trasse cognizioni di procedura penale e psicologia criminale, ma soprattutto con la decisione in extremis (in seguito all'abbandono definitivo della professione) di darsi alla scrittura. Dopo aver raccontato la sua esperienza africana in un volume di genere diverso, nel 1902 esordì nella narrativa gialla con una serie di avventure con protagonista una sorta di furfante gentiluomo, artista della truffa e maestro del travestimento di nome Romney Pringle, scritte in collaborazione con un amico medico. Il genere dovette riuscirgli a genio, poiché appena cinque anni dopo iniziò a sfornare gialli su gialli con protagonista John Evelyn Thorndyke, il primo investigatore scientifico della storia dopo Sherlock Holmes, entrando prepotentemente nella storia della crime novel. Con il suo esordio dal titolo "L'Impronta Scarlatta" (1907), infatti, fondò il cosiddetto "giallo scientifico", in cui contano soprattutto le prove ricavate dalle analisi di laboratorio e da ricerche sulle prove materiali, senza affidarsi allo studio della psicologia. Thorndyke, uomo di grande avvenenza (al contrario dei "mostri di bruttezza" partoriti dalla mente dei colleghi del suo inventore), istruito in una quantità incredibile di materie e sempre padrone di sé permetterà a Freeman di dominare per quasi venticinque anni la scena del giallo classico, apparendo in ben 21 romanzi e 42 racconti, tra i quali vanno citati "L'Occhio di Osiride", "Il Testimone Muto", "L'Affare D'Arblay" insieme ai brevi "Il Caso Oscar Brodski" e "The Singing Bone"; quest'ultimo per un motivo ben preciso. Con questa storia, infatti, il medico prestato alla letteratura diede il proprio secondo contributo alla storia del mystery classico creando l'inverted story; ovvero, quella tecnica secondo cui il colpevole del crimine-omicidio è già noto al lettore e il gusto del racconto non sta tanto nella scoperta di "chi-l'ha-fatto", quanto del "come-è-stato-fatto" (un po' alla maniera del Tenente Colombo). Già questo mette in luce quanto fosse importante per Freeman lo studio del metodo utilizzato dal colpevole per perpetrare il suo delitto: addirittura, egli si impegnò a sviluppare e testare numerose tecniche criminali.

Grande esperto di procedure legali e di true crime (oltre ad inserire casi reali nei suoi gialli, analizzò a fondo il mistero di Croydon), innovativo finché mori nel 1943, promotore dell'autorità della chimica e della biologia applicate alle indagini, oltre che sostenitore dell'eugenetica (al contrario di moltissimi colleghi giallisti), Richard Austin Freeman è stato un grande giallista, resta uno dei pochi autori di polizieschi dell’epoca Edoardiana ad essere letto ai giorni nostri, assieme a G.K. Chesterton ed E. C. Bentley e, cosa ancor più rara, un'esponente del giallo degli albori come di quello della Golden Age. Oltre a quelli di Chandler, il quale lo riteneva "un magnifico artista" che "non ha eguali", riuscì ad ottenere anche gli elogi di George Orwell, il quale considerava la crime story della Golden Age come troppo moderna, al contrario di quella più formale e "antiquata" da lui rappresentata: "Ricordi la nostra passione per R. Austin Freeman? Io non l'ho mai davvero dimenticata, e penso che dovrei leggere tutti i suoi libri eccetto alcuni dei suoi ultimi" osservò quest'ultimo in una lettera a un'amica nel 1949, senza contare le numerose citazioni alle opere del suo idolo che fece in altri saggi. Per quanto mi riguarda, Golden Age e giallo degli inizi non fa differenza, se si tratta di opere di valore come "Arsenico": un eccezionale romanzo che, nonostante all'inizio possa apparire troppo lento, trova i propri punti di forza non solo nell'enigma di prima qualità, ma pure nel suo essere un po' antiquato e nella gran quantità di argomenti che vengono toccati nel corso della narrazione. Già; perché Freeman non si limitò a far fare semplici affermazioni di carattere superficiale al suo Thorndyke: lo fece agire in modo molto più attivo. Scienza forense, pratica legale, meccanica, medicina sono i temi più importanti toccati nelle indagini dell'investigatore, vengono trattati con un riguardo quasi reverenziale e restituiti al lettore in un linguaggio sì specialistico, ma senza usare toni troppo altezzosi e permettendo a chiunque di comprendere i passaggi più insidiosi.

Spesso, nei mysteries contemporanei, mi sono reso conto di come la "sostanza" sia debole e fiacca, poiché mancante di una base stabile e salda per quanto riguarda il fattore stilistico e contenutistico; nel caso di questo libro, invece, mi è sembrato che l'autore sapesse molto bene di che cosa stava parlando e avesse tutte le intenzioni di renderlo noto ai suoi lettori: lo dimostrano non solo i continui riferimenti alla legge (capp. 4-5-6 sull'inchiesta e pp. 31-32, 36-40, 110-118, 157) e alla medicina (pp. 12-14, 17-18, 24, 26, 78-81, 94-98, 101-105, 135-137, 160-162, 184-185, 236-237, 243-244, 248, 251-254), i quali portarono allo sviluppo di nuove tecniche da applicare alle indagini e influenzarono autori come Dorothy L. Sayers, J.J Connington e John Rhode; ma anche le parti in cui i personaggi entrano in rapporto l'uno con l'altro, a volte leggere ed altre meno, così da mutare la pesantezza di uno stile dalle descrizioni troppo dettagliate. In particolare, la  complessa e lunga questione riguardo l'arsenico (pp. 45-55, 57-65, 68-73), in qualche modo vero protagonista delle vicende, tenderebbe a diventare fin troppo astrusa per i profani e quindi ad annoiare; pertanto, Freeman si è reso conto di dover smorzare i toni e ha fatto in modo di dare il giusto pizzico di ingenuità a Mayfield affinché Thorndyke possa fare qualche battuta su di lui (come nel caso del cavallo di Troia, cap. 10). A questa serie di argomenti utili a sostenere la propria indagine fittizia, inoltre, l'autore ha affiancato un metodo ineccepibile, forse ancora troppo "ingenuo" per ingannare al meglio i lettori più abili (la cerchia dei sospetti è molto ristretta), ma perfetto in un romanzo di questo tipo, dove le innovazioni scientifiche dovevano sembrare degne di orizzonti fantastici. Come i suoi successori, infatti, Freeman si diede da fare per creare trame basate su soluzioni verificabili in laboratorio, solide e sicure, con una forte identità; sviluppò nuovi metodi delittuosi ("Se non fosse che l'autore è un medico, si potrebbe essere inclini a dubitare che gli omicidi in questa storia avrebbero potuto essere compiuti nel modo in cui li descrive" osservò addirittura il New York Times proprio riguardo "Arsenico") e spesso ideò i suoi omicidi fittizi ispirandosi a delitti reali. Ma soprattutto era deciso a dare più importanza alle modalità di uccisione, il punto forte dei casi di Thorndyke, sempre perfettamente logico e ispirato a criteri scientifici, a discapito delle sottigliezze psicologiche della Golden Age. Per questo motivo alcuni non apprezzano appieno l'opera di Freeman; in ogni caso, nonostante ciò, da parte mia mi sento più che disposto a perdonargli qualche piccola imperfezione.

Illustrazione che rappresenta Thorndyke
con il suo aiutante e biografo Christopher
Jervis in un disegno di H.M. Brock,
pubblicato sul "Pearson's Magazine"
nel 1909

Ma non è finita qui. A rinforzo dell'enigma e della storia in sé, infatti, l'autore mise alcuni ulteriori paletti di sostegno. Ad esempio, l'unione tra ambientazione e stile narrativo, come le passeggiate infinite di Mayfield in solitaria oppure in compagnia di Barbara o Madeline, diedero vita a visioni che al momento in cui il romanzo venne pubblicato (ma non solo) potevano essere rivissute nella realtà. Le immagini evocate da questi passaggi lirici contribuirono a creare la giusta atmosfera in cui calare le vicende tratteggiate, grazie a toni pratici che le caratterizzavano con minuziosa precisione e le rendevano familiari a chi leggeva, oltre che più intime (pp. 18-19, 21, 39, 41-42, 89, 9293, 97, 99-101, 104, 110, 144-147, 149, 169, 171, 174, 179-180, 188-189, 196-197, 209-216, 220). In tono nostalgico, dove si percepisce come la guerra e il Destino fatale abbiano esercitato una pressione non indifferente, osserviamo questa società che si spiega davanti ai nostri occhi; i parchi semi-deserti del periodo autunnale e invernale quando l'aria si fa più tagliente; le grandi case signorili di una volta, gelide e illuminate da un sistema elettrico che funzionava a scatti, dove per riscaldare le stanze bisognava affidarsi ai camini e la gente trascorreva le giornate a rammendare e a studiare; le vie della città brulicanti di vita durante il giorno, mentre alla notte si aggiravano soltanto i malviventi e la gente equivoca. Tutto ciò ci aiuta a visualizzare con la mente le ambientazioni, permettendoci di visitare il Temple del primo Novecento, oppure i cimiteri deserti e desolati della periferia, e restituendoceli come se fossero ancora in quello stato, con la loro fauna caratteristica di gentiluomini inamidati, di impiegati nevrotici e di signore della borghesia medio-alta con un contegno sussiegoso e altero. Costoro danno un tocco in più alle descrizioni, ce le fanno rivivere mentre agiscono, non restituiscono immagini a due dimensioni ma scenette vivaci e suggestive, tratteggiate secondo lo stile inimitabile che solo quegli autori nati in pieno Ottocento (come Freeman) possono vantare come una propria caratteristica: solenne, quasi pesante in quanto a dettagli, eppure proprio con una marcia in più grazie a questi ultimi, i quali contribuiscono a renderlo piena di sfaccettature e a dargli profondità.

L'altro grande sostegno per la storia di "Arsenico" e per l'opera dell'autore, invece, è dato dalla caratterizzazione dei personaggi. Senza dubbio un po' datati nei comportamenti, tra inchini e atteggiamenti vittoriani sull'ostentazione dei proprio sentimenti, essi restituiscono un'immagine vagamente retrò di educato garbo, come se stessimo leggendo le memorie di una vecchia zia, e trovano il loro compimento nel rapporto ingessato degli uni verso gli altri: i costumi li costringono ad adeguarsi a un rispetto esteriore delle convenzioni, ma dalle loro parole e dai toni con cui le esprimono percepiamo come essi posseggano un'anima ben più viva di quella delle mere marionette. Hanno una personalità solida, sono ben caratterizzati, e ciò indica come Freeman non fosse l'individuo gelido che il lettore medio immagina, basandosi sul suo essere un dottore vittoriano. "Saremmo dei cattivi biologi, e dei medici ancora peggiori se sottovalutassimo l'importanza di quella che è la funzione principale della natura [...] l'importanza vitale del sesso" e del sentimentalismo, spiegò per bocca di Thorndyke in "L'Occhio di Osiride": direi che è riuscito a mettere in pratica le sue parole, soprattutto vedendo quanto il professore stesso si senta coinvolto a livello emotivo nell'indagine di cui si occupa (pp. 123, 203-204, 261-263). Ma non solo il sentimento, anche l'ironia è una componente importante nei suoi personaggi: la ritroviamo soprattutto in Thorndyke e nel suo assistente Polton, ma pure Madeline dà prova di possederne in quantità. In "Arsenico", tuttavia, a trovare maggiore spazio sono l'amore perduto e l'ossessione che ne deriva (pp. 9-10, 20-21, 22-26, 33-34, 107-109, 165-166, 170, 172-173, 217, 220-224, 228-229, 231-232): quelli di Mayfield e Barbara verso Stella Keene, quelli di Wallingford per Barbara, quelli di Mayfield verso Barbara e viceversa. Nello sviluppo delle loro relazioni, divampano le passioni in modo meno manifesto di quanto accada ai giorni nostri, ma non per questo meno violentemente. Soprattutto i personaggi femminili (pp. 35-38, 68-73, 188, 191-192) appaiono soggetti a questo sconvolgimento interiore (e il disprezzato e debole Wallingford), come se l'autore fosse ancora legato a un'immagine datata della donna e non riuscisse ad accettare l'emancipazione femminile che stava prendendo sempre più piede (vedasi i commenti sulle suffragette alle pp. 8, 10-11). Però, allo stesso tempo, egli ha ritratto la figura di Madeline come una ragazza in carriera, con una propria professione e ambiziosa, che non trascura la soddisfazione dei propri bisogni sentimentali. Forse la sua educazione vittoriana tentava di ribellarsi all'idea di questo nuovo ruolo femminile nella società. In ogni caso, i protagonisti sono attori in carne ed ossa i quali, nonostante alcune caratteristiche stereotipate, agiscono e vivono con trasporto gli eventi contenuti in "Arsenico". Essi sono una parte importante in questo romanzo basato soprattutto sull'enigma; senza le loro personalità, sono convinto che gran parte del mistero sulla morte di Harold Monkhouse avrebbe perso molto del suo fascino. E di conseguenza "Arsenico" non sarebbe risultato il grande romanzo giallo che in effetti è.

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