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Visualizzazione post con etichetta Richard Austin Freeman. Mostra tutti i post
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venerdì 11 settembre 2020

45 - "Arsenico" ("As a Thief in the Night", 1928) di Richard Austin Freeman

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore

Come forse avrete capito, se tenete d'occhio le recensioni che pubblico su Three-a-Penny, la mia esperienza di lettore di romanzi gialli classici segue una sorta di schema abbastanza definito, regolato sì dall'arbitraria voglia di leggere un dato titolo, ma soprattutto dalle stagioni meteorologiche che si alternano nel corso dell'anno. Non che questa sia una prerogativa esclusiva del sottoscritto: da quanto riesco a capire, leggendo di qua e di là sul web, siamo in tantissimi a mettere in atto questa pratica, facendo le nostre scelte un po' in un senso e un po' in un altro. Da parte mia, io mi sforzo di rispettare questa suddivisione per periodi nel modo più rigoroso possibile; non fosse solo per riuscire a calarmi nelle storie che leggo con maggiore facilità. Pertanto, con la fine dell'estate, ho accantonato le storie ambientate in luoghi esotici e vacanzieri, dove i viaggi di piacere e gli alberghi di lusso abbondano, per tornare a quello che forse è il mio amore più grande: i racconti in cui dominano il senso del gotico e le atmosfere si fanno più minacciose, oppure dove si trova uno spiccato contrasto tra il clima confortevole dei salotti riscaldati dalle luci soffuse, e quello terrorizzante al di là delle finestre sbarrate contro la notte. Le foreste scosse dalla pioggia e dal vento, i promontori sul mare in tempesta, le città nebbiose e misteriose, per non parlare delle bufere di neve che isolano avite dimore di campagna (ma questo è più indicato per i mesi di novembre e dicembre); tutto ciò, a mio parere, riesce a dare una marcia in più, a sottolineare la drammaticità delle tragedie che si verificano nella tradizionale crime story, e a infondere nel lettore quel brivido caratteristico nel giallo di stampo anglosassone, mentre egli siede accanto al fuoco e ascolta le gocce picchiettare sui vetri. Forse anche per questo motivo, da molti anni a questa parte, settembre è diventato uno dei mesi che preferisco in assoluto e questo genere di storie mi affascina in modo particolare. Immaginate un corridoio oscuro, in cui si deve farsi strada grazie alla luce di una candela, intermittente e generatrice di ombre mobili su muri e curve ad angolo; oppure di avanzare a tentoni in mezzo a un banco di nebbia all'apparenza solida e impenetrabile, o sotto scrosci battenti che impediscono di orientarsi con chiarezza: nonostante siano classificate come piene di cliché, tali situazioni riescono ancora a suscitare in me grande emozione.

Si possono fare tanti esempi su questo tipo di romanzo del mistero: nel genere metropolitano, mi viene in mente "L'Arte di Uccidere" di John Dickson Carr, in cui il giudice istruttore Henri Bencolin si trova coinvolto in un mistero che vede svolgersi la maggior parte delle indagini all'interno di un edificio terrorizzante, calato in una Londra spettrale; "Svanita nel Nulla" e "Qualcuno ti Osserva", esemplari tipici della narrativa di Ethel Lina White, mettono in scena ossessioni che spaziano da caseggiati a dimore isolate, in cui i personaggi sono perseguitati e devono mettersi in salvo; "Poirot e la Strage degli Innocenti" di Agatha Christie e "Notti di Halloween" di Leo Bruce sfruttano le caratteristiche della festa di Ognissanti (zucche intagliate e ghignanti, maschere paurose, armi giocattolo, visite a cimiteri e in generale l'atmosfera di terrore) per esaltare le loro storie in villaggi rurali; "Come in uno Specchio" di Helen McCloy prende in prestito elementi del folklore e della tradizione dei tempi bui, per proiettare spettri in una scuola femminile del presente e dare vita a una vicenda in cui non si distinguono più finzione e realtà. Ognuno di questi libri, a modo suo, traccia una rappresentazione della società e del mondo che ci circonda, e lo fa dipingendo situazioni dove non mancano i brividi sul piano delle emozioni forti. Tuttavia, come dicevo sopra, non di solo terrore si va avanti. Anche il contrasto tra ciò che è confortevole e ciò che mette disagio gioca spesso un ruolo di primo piano all'interno di un romanzo del mistero. Questo è un carattere che molte volte ho trovato nella narrativa di un autore in particolare: Richard Austin Freeman. Con il suo stile un po' antico ma melodrammatico, egli è riuscito a tratteggiare momenti pregni di drammaticità, infondendo un forte senso della realtà a situazioni che dovevano apparire fantascientifiche agli occhi dei suoi lettori di inizio Novecento, ma senza per questo rinunciare a inserire una dose di ironia o leggerezza per stemperare l'atmosfera o descrivere passaggi dove il sentimento, scollato dalla sua componente intimidatoria, attira tutta l'attenzione sul proprio lato romantico. In "L'Occhio di Osiride" avevo fatto un discorso simile, e anche col romanzo di oggi, "Arsenico" (Polillo Editore, 2016), ritenuto come un altro tra i suoi capolavori, ripeto questo concetto. Nell'indagine sull'efferato omicidio di un malato cronico, infatti, si alternano passaggi dove emerge la malvagità dell'assassino e la ragione pare lasciare il posto a un'anarchia di paura e sospetto, con altri in cui si nota quanto sia ingiusto considerare i personaggi e gli scenari domestici creati dall'autore come incapaci di trasmettere emozioni. Non di sole scienza e inchiesta è piena l'opera di Freeman: pure la parte meno materialista, quella legata alla sfera del sentimento, spicca per restituire al lettore un ritratto a tutto tondo del delitto e dei suoi protagonisti.

King's Bench Walk, Londra, strada in
cui abita il professor Thorndyke,
ritratta in una cartolina d'epoca

Tutto inizia quando il reverendo Amos Monkhouse, in viaggio dalla lontana parrocchia in cui risiede, si reca in visita al fratello nella sua grande casa di Londra. Quest'ultimo, Harold, ha sempre sofferto di salute cagionevole, ma negli ultimi tempi pare patire più del solito a causa di una malattia incapace da identificarsi con sicurezza. Come si scoprirà una volta consultato il medico, il dottor Dimsdale, tra i sintomi vi sono difficoltà respiratorie, un'insofferenza cardiaca che gli impedisce addirittura di alzarsi dal letto, e tutta una serie di altri piccoli disturbi che, sommati insieme, lasciano il malato impotente pur non essendo da imputare a un malessere preciso e definito. Resosi conto della situazione, Monkhouse non è per nulla tranquillo; non solo per la brutta cera di Harold, ma soprattutto perché in casa, al momento del suo arrivo, ha trovato con immenso sconcerto soltanto un amico di famiglia, Rupert Mayfield, e alcune domestiche; mentre la moglie di suo fratello si è recata nel Kent per sostenere la causa delle suffragette in cui milita, la nipote acquisita Madeline insegna a scuola e il segretario Wallingford è in giro per la città per affari. Come è possibile assicurare un'adeguata cura per il malato, se nessuno sembra volersi preoccupare di lui? Così, assecondato da Dimsdale e Mayfield (il quale funge da narratore della storia), Monkhouse si affretta a consultare uno specialista affinché trovi un rimedio per il fratello. A questo punto, Mayfield intraprende un viaggio di lavoro e si allontana da Londra, augurandosi che tutto possa risolversi per il meglio nonostante serbi nel cuore un certo timore... Timore che, non appena torna a casa, si rivela fondato: proprio la sera prima del suo rientro, Harold Monkhouse viene a mancare nella sua camera da letto, mentre legge un libro a lume di candela per non disturbare gli altri abitanti dell'edificio. Pure Barbara, la moglie del morto, ha fatto ritorno proprio quella mattina, senza riuscire a dare l'ultimo saluto al consorte; pertanto Mayfield, da amico di famiglia ed esecutore testamentario, decide di sollevare dall'amica le responsabilità aggravate dal lutto, prende in mano la faccenda e si fa portavoce per gli abitanti della casa, organizzando ogni cosa per assicurare un funerale degno per Harold. In fondo, tutti sono troppo sconvolti per riuscire a far fronte agli impegni e lui è lieto di potersi rendere utile, soprattutto grazie al proprio ruolo di avvocato.

Sfortunatamente, però, il giorno della cerimonia si presenta alla porta di casa un poliziotto che convoca i residenti a un'inchiesta che si terrà due giorni dopo, affermando che ogni altro impegno in vista della sepoltura è stato rinviato a una data da stabilirsi. Cosa può essere successo di tanto grave? Ebbene, come scopriranno ben presto i residenti di casa Monkhouse, Harold è stato ucciso freddamente grazie alla ripetuta somministrazione di arsenico, con molta probabilità sfruttando il cibo o la medicina ingeriti di volta in volta ogni giorno. Così, di punto in bianco Barbara, Madeline, Wallingford, le domestiche e lo stesso Mayfield vengono sospettati di essere assassini, piombando in un incubo ad occhi aperti che li vede piegarsi a fastidiosi interrogatori e perquisizioni da parte della polizia. Come risolvere la situazione facendo meno danni possibili? Per fortuna, Mayfield conosce l'uomo giusto per occuparsi del caso in fretta e senza suscitare scandali: il professor Evelyn Thorndyke, anatomopatologo e medico legale, il quale una volta interpellato si dice lieto di poter dare una mano al suo amico di lunga data. Così, l'investigatore si mette all'opera e, grazie al proprio ingegno di carattere matematico e alle apparecchiature di cui dispone, inizia a sondare il mistero della morte di Harold Monkhouse con metodo e criterio. L'unico problema è che, a suo dire, la soluzione del caso si trova nel passato, dove la scienza e i mezzi di cui dispone faticano a farsi strada. È forse possibile aggirare tale scoglio? Grazie a una serie di fortuite coincidenze e all'infaticabile ingegno di cui dispone, capace di selezionare la verità dalla menzogna e gli indizi vitali da ciò che li nasconde all'occhio inesperto degli altri, Thorndyke riuscirà a istruire un'accusa fondata e inattaccabile contro un insospettabile colpevole; anche se, per farlo, dovrà recare un grosso dolore al suo amico avvocato, legato a molti degli abitanti di casa Monkhouse da un sincero affetto.

Suggestiva copertina di un'edizione in
lingua originale di "Arsenico"

Come era stato con "L'Occhio di Osiride", anche nel caso di "Arsenico" ci troviamo di fronte a un romanzo giallo che risente ancora di una tradizione posteriore a quella della Golden Age della classica crime story, nonostante esso sia stato scritto nel 1928 (lo stesso anno, per fare un paragone, furono dati alle stampe "Bellona Club" di Dorothy L. Sayers e "Delitti di Seta" di Anthony Berkeley). Questo, tuttavia, non vuol significare che le vicende raccontate siano noiose. Anzi, nello stile tipico di Freeman, in questo libro troviamo una narrazione differente da quella dei titoli sopra citati, in cui spiccano in modo chiaro la capacità e l'intenzione dell'autore di voler evocare il mondo affascinante e suggestivo (nonché imperfetto) della fine dell'età Vittoriana, attraverso piccoli scorci sulla quotidianità del tempo e sulle vite di persone che ormai sono morte e sepolte da moltissimo tempo, ma allo stesso tempo, come imprigionate nell'ambra, ancora reali e tangibili agli occhi del lettore. Al di là dell'enigma puro, ciò che importa a Freeman è il tratteggio della società e della realtà dell'Inghilterra del suo tempo, restituito non come qualcosa di relegato a un passato freddo e asettico "da libro di storia", ma vivo nei ricordi di chi lo ha vissuto in prima persona: in sintesi, qui non sono i Grandi Avvenimenti a dominare la scena, con la loro pomposità, ma piuttosto azioni come la compilazione di un diario giorno per giorno, oppure il rapporto tra conoscenti e innamorati, tra gentiluomini e garbate signorine, fatto di inchini formali e toni lirici, ritratti di vie scomparse assieme ai loro abitanti nati e stabilitasi proprio lì da tempi immemori, descrizioni di dimore signorili e di quartieri ormai evolutesi in qualcosa di più moderno; tutte cose le quali possono essere rievocate dal lettore comune e assaporate con un pizzico di nostalgia e di tenerezza. Esse ci parlano di un'epoca passata e ormai cancellata dal progresso, che riesce ancora a vivere davanti ai nostri occhi, all'interno di queste ignare "biografie civiche" dell'autore, il quale ha destinato al futuro un'eredità preziosissima di frammenti che compongono un mosaico sulla tradizione, tanto rigoroso non solo da soddisfare la mera curiosità ma addirittura da restituire un ritratto veritiero dell'evoluzione della società, senza tralasciare fatti che altrimenti sarebbero andati perduti nelle pieghe del tempo. Il tutto, tra l'altro, in un modo che è riuscito a resistere alla prova del tempo, conservando un certo fascino e mescolando enigmi innovativi e una narrazione suggestiva che dimostrano chiaramente come il genere giallo riesca ancora a resistere a più di un secolo dalla sua nascita.

Pertanto, detto ciò, nonostante il fatto che Richard Austin Freeman appartenga a una generazione anagrafica posteriore a quella degli esponenti della Golden Age del giallo anglosassone, io non trovo che questo autore abbia qualcosa da invidiare ai suoi colleghi più giovani. Voglio dire, se la sua opera può suggerire un carattere improntato su uno stile e una caratterizzazione dei personaggi un po' datati, ciò non significa che il risultato finale sia meno interessante di quanto si potrebbe sperare, nel momento in cui ci avviciniamo a essa. Si è visto in "L'Occhio di Osiride", ma ciò appare chiaro pure in "Arsenico", il quale può essere incluso in quei romanzi gialli che definisco "antiquati" in senso positivo; non superati e vetusti da apparire fin troppo macchinosi e complicati da digerire, quanto capaci di sfruttare la tradizione in modo da accrescere il proprio valore intrinseco. Nell'altro romanzo di Freeman che avevo recensito, li avevo paragonati a scrivanie d'epoca accostate a tavoli dal design moderno, e oggi ribadisco il concetto: magari a prima vista le prime possono apparire un po' fuori luogo rispetto ai secondi e non reggere il confronto, ma non si può negare il fatto che i gialli di Freeman (le scrivanie), allo stesso modo di quelli di J. Jefferson Farjeon, riescano ad esercitare un'attrazione irresistibile per i lettori nostalgici (i compratori di mobili d'epoca) e costituiscano piacevoli esempi di period novel, ovvero quei romanzi dove, attraverso uno stile onirico che pare attraversare le nebbie del tempo, viene ritratto un certo stile di vita, con i suoi pregi e i suoi difetti. Ecco, "Arsenico" intrattiene con una sorta di semplicità apparente, dal momento che, in realtà, ci troviamo di fronte a complesse opere dove i dettagli contano e ogni cosa (ambientazione, caratterizzazione dei personaggi, stile, mistero) viene tenuta insieme da un collante "alla Dickens", solida contro lo scorrere del tempo e la fugacità delle mode. Se prestiamo attenzione, infatti, nel romanzo che recensisco oggi troviamo gli stessi elementi che risaltano all'interno delle altre opere di Freeman e gli hanno permesso di sopravvivere tanto a lungo: una scrittura improntata su un linguaggio specialistico, ma che non rinuncia a un pizzico di ironia e a un tono nostalgico e mai banale, attenta e coinvolgente a modo suo; una grande attenzione al rapporto instaurato tra i personaggi, fatto di interazioni numerose che si inseriscono in modo perfetto a spezzare i momenti più seriosi dell'indagine e infonde nei protagonisti una certa umanità; un enigma in grado di soddisfare i lettori più esigenti, dal momento che è imperniato su un metodo d'indagine scientifico ma non per questo soporifero e poco appassionante; un abile uso delle descrizioni degli ambienti che fanno da sfondo alle vicende raccontate, capaci di proiettare chi legge direttamente dentro le pagine e di dare uno spessore alle azioni che si svolgono sulla scena. E nonostante si tenda a criticare l'autore (e il suo investigatore Thorndyke) per un certo atteggiamento gelido e fin troppo tecnico (giustificato se ci si sofferma soltanto sull'esposizione del mistero in sé), bisognerebbe sottolineare quanto un simile giudizio sia riduttivo quando si prende in considerazione ciò che circonda il caso stesso di cui uno è creatore e l'altro risolutore: il buon professore sarà anche il prototipo del detective declinato sulla figura del medico legale, come il suo inventore, ma non bisogna dimenticare che egli riesce a dare prova di possedere un cuore sensibile a sentimenti come l'amore e la fedeltà. E che Freeman, nel dipingere le allegre vie della città, nel tratteggio dei dialoghi brillanti, nel toccare alcuni temi in particolare e nel descrivere il complesso ed emozionante rapporto tra individui, non è da meno.

Grafico tecnico-scientifico tracciato da Thorndyke sul
caso di Monkhouse (non ho messo la didascalia che
spiegava per non incorrere in spoiler)

Con questo discorso, però, non voglio far passare in alcun modo il messaggio che i mysteries di Freeman siano tutti uguali. Ho citato in parte "L'Occhio di Osiride" per sostenere le mie argomentazioni, non tanto per evidenziare come certi aspetti siano stati copiati tali e quali in "Arsenico". L'opera dell'autore, in realtà, è sì fondata sui quattro aspetti che ho menzionato qui sopra, ma di volta in volta sembra concentrarsi più su uno di essi che sempre sugli stessi. "L'Occhio di Osiride", infatti, a mio parere tende a mettere in luce soprattutto il rapporto sentimentale tra il dottor Berkeley e Ruth Bellingham (pur senza minimizzare la parte sull'enigma, sia chiaro); mentre il romanzo che recensisco oggi pone l'accento sui caratteri scientifici del delitto e sulle varianti che costituiscono le sue possibili soluzioni. Non per niente, Freeman si rifece a un caso reale per ispirarsi nella creazione della trama di "Arsenico", la quale risulta più articolata e complessa di quella sull'omicidio di Bellingham. In particolare, sfruttò il classico enigma di epoca Vittoriana che vide come protagonista la giovane Florence Maybrick. Nata Chandler, in Alabama, questa diciannovenne bellezza del sud, con i riccioli dorati e gli occhi dal color delle viole, si era innamorata e sposata con un uomo inglese di ventitré anni più vecchio di lei, James Maybrick. Costui, un omone che aveva fatto fortuna come agente del cotone, l'aveva condotta in Inghilterra e insieme si erano stabiliti a Battlecrease House, a Liverpool, dove lei aveva dato alla luce un figlio e una figlia. Tutto era andato bene, fino a quel momento; poi, con grande sconcerto, Florence aveva scoperto che lui si era fatto numerose amanti e che una di esse gli aveva dato addirittura cinque pargoli. Una faccenda a dir poco traumatizzante; aggravata dal fatto che, mentre la mentalità del tempo concedeva all'uomo qualche scappatella, alle donne ciò non era permesso nel modo più categorico. Florence aveva provato a ad imitare il marito, per trovare un po' di conforto, ma ciò che aveva ricevuto in cambio era stato un vestito strappato e un occhio nero. Pertanto, immaginate quale dovesse essere l'atmosfera a Battlecrease House; una casa dove il focolare domestico era influenzato da bugie e sinistri sospetti, e tutti quanti erano in qualche modo ostili verso la giovane intrusa americana. Quest'ultima, alla fine, sembrò decidersi a compiere un gesto drastico: nonostante gli occhi di tutti puntati addosso, comprò alcuni fogli di carta moschicida e, dopo averli immersi nell'acqua, ne estrasse l'arsenico per farsene a suo dire una crema facciale. La conseguenza, però, fu che da quel momento Maybrick iniziò a soffrire di una strana gastrite, e poco dopo vennero scoperte, da parte del fratello dell'uomo, alcune lettere compromettenti scritte da Florence a un amante segreto. Il giorno seguente tale rivelazione, la ragazza fu vista maneggiare una bottiglia di estratto di manzo nella stanza del marito; e nel giro di ventiquattr'ore, Maybrick morì misteriosamente. La cosa, com'è ovvio, suscitò un gran clamore e Florence venne accusata di essere un'assassina, nonostante non ci fossero prove materiali del fatto che l'arsenico fosse la causa del decesso di Maybrick. Il processo fu una prova durissima per la ragazza, sbeffeggiata dalla stampa e ingiuriata da un giudice che qualche tempo dopo venne rinchiuso in un manicomio; ma il momento peggiore fu sapere di essere condannata a morte e ascoltare ogni giorno gli operai intenti alla costruzione del proprio patibolo... Patibolo che, alla fine, restò inutilizzato. Già, perché la condanna di Florence venne commutata in una sentenza di reclusione a vita per un'accusa che non le venne mai imputata: la somministrazione dell'arsenico. Per quindici anni dovette attendere che la "giustizia" facesse il proprio corso, prima di vedersi libera di tornare in Connceticut, dove sembra si sia ritirata fino alla fine dei suoi giorni, terrorizzata che la gente di Battlecrease House potesse rintracciarla.

Considerata questa premessa, penso si capisca benissimo in cosa "Arsenico" sia diverso da "L'Occhio di Osiride". Se in quest'ultimo caso l'idea per la creazione dell'enigma derivò soltanto in modo marginale dal caso di true crime di Parkman-Webster, e l'interesse attorno al quale si sviluppa l'indagine riguarda soprattutto il sentimento nato tra Berkeley e Ruth Bellingham e le sue conseguenze in relazione al mistero, nel romanzo recensito oggi il parallelo con la triste vicenda di Florence Maybrick, assieme all'azione sulla scena del delitto, le inchieste volte alla scoperta del colpevole, gli esperimenti di Thorndyke e tutto ciò che deriva e ha a che fare con esso (legge, medicina, scienza, meccanica) occupano un ruolo decisamente più importante. Certamente, come ho detto, ci sono molte affinità tra i due titoli, come lo schema ripetitivo del "protagonista giovane e innamorato di una ragazza bisognosa di comprensione", gli ostacoli all'apparenza insormontabili tra loro, il sospetto che si insinua nella relazione; per non parlare di quegli aspetti legati alla forma, come le dettagliate descrizioni degli ambienti, lo stile pieno di digressioni di Freeman (pp. 7-9, 14-15, 21-23, 29, 41, 66-69, 75, 89, 93-94, 101-102, 109-110, \120-126, 129-130, 133, 140-141, 143-146, 168-169, 175-176, 183, 187-188, 100-202, 212-216, 219, 253) e le frequenti osservazioni di carattere legale, medico e scientifico (pp. 147-160, 178-179, 181-185, 204-207, 234-249, 255-258). Tutto ciò, tuttavia, in "Arsenico" sembra fare "da contorno" alle indagini vere e proprie di Thorndyke, dove si pone grande importanza riguardo la somministrazione del veleno, le azioni che ognuno dei personaggi potrebbe aver messo in atto per alterare il cibo oppure la medicina del malato, all'opportunità e al movente che ognuno dei sospettati poteva avere per giustificare un assassinio. In sintesi, in "L'Occhio di Osiride" assistiamo più alla nascita dell'amore sbocciato tra il protagonista e la sua amata, che all'inchiesta della polizia e di Thorndyke snodatasi di pari passo; in "Arsenico", invece, vediamo in atto il contrario, con un caso poliziesco tanto complesso ed elaborato da mettere in secondo piano il rapporto (comunque importante ai fini della soluzione finale) tra Mayfield e Barbara Monkhouse. Sono il metodo scientifico (e quello della polizia, cap. 7), la mente analitica, di Thorndyke, gli esperimenti che egli conduce nel suo laboratorio, i processi giuridici e le procedure ministeriali, la prassi della polizia, i sopralluoghi a conferire spessore a quest'ultimo mystery; l'amore, la gelosia, l'odio e le ossessioni giocano un ruolo sì decisivo, ma pur sempre secondario. In questo Freeman si è dimostrato un degno rappresentante della scuola della Golden Age di stampo inglese: oltre a essere interessato e ad affidarsi a casi reali per la realizzazione di trame originali da impiegare nei suoi libri, come fecero i membri del Detection Club, egli ha infuso una particolare cura nel perfezionamento dei dettagli materiali dei suoi delitti fittizi; cosa che lo ha reso uno tra i più importanti ed innovatori esponenti del genere fin dai primi tempi di esistenza dell'associazione.

Richard Austin Freeman, nato nel
1862 e morto nel 1943

A questo proposito, sorprende molto venire a sapere che Richard Austin Freeman fu forse il primo "vero" scrittore di romanzi gialli, intesi come un misto tra cruciverba mentale e strumento di descrizione sociale. E fa ancor più sensazione il fatto che, considerando la mole di romanzi e racconti che egli pubblicò nella sua lunga vita, la sua passione per la scrittura ebbe inizio non dalla semplice vocazione, quanto piuttosto da un forte senso di disperazione. L'autore, infatti, nato a Londra nel 1862 e con un passato di medico otorinolaringoiatra, dopo un'esperienza nel servizio coloniale e il matrimonio con Annie Elizabeth Edwards si ritrovò di punto in bianco a dover affrontare una lunga malattia contratta nel continente nero, con la conseguenza di dover rimpatriare al più presto e trovare una nuova occupazione, che si adattasse ai suoi disturbi frequenti e gli permettesse di sopravvivere. La svolta arrivò con un impiego presso la prigione di Holloway, dalla quale trasse cognizioni di procedura penale e psicologia criminale, ma soprattutto con la decisione in extremis (in seguito all'abbandono definitivo della professione) di darsi alla scrittura. Dopo aver raccontato la sua esperienza africana in un volume di genere diverso, nel 1902 esordì nella narrativa gialla con una serie di avventure con protagonista una sorta di furfante gentiluomo, artista della truffa e maestro del travestimento di nome Romney Pringle, scritte in collaborazione con un amico medico. Il genere dovette riuscirgli a genio, poiché appena cinque anni dopo iniziò a sfornare gialli su gialli con protagonista John Evelyn Thorndyke, il primo investigatore scientifico della storia dopo Sherlock Holmes, entrando prepotentemente nella storia della crime novel. Con il suo esordio dal titolo "L'Impronta Scarlatta" (1907), infatti, fondò il cosiddetto "giallo scientifico", in cui contano soprattutto le prove ricavate dalle analisi di laboratorio e da ricerche sulle prove materiali, senza affidarsi allo studio della psicologia. Thorndyke, uomo di grande avvenenza (al contrario dei "mostri di bruttezza" partoriti dalla mente dei colleghi del suo inventore), istruito in una quantità incredibile di materie e sempre padrone di sé permetterà a Freeman di dominare per quasi venticinque anni la scena del giallo classico, apparendo in ben 21 romanzi e 42 racconti, tra i quali vanno citati "L'Occhio di Osiride", "Il Testimone Muto", "L'Affare D'Arblay" insieme ai brevi "Il Caso Oscar Brodski" e "The Singing Bone"; quest'ultimo per un motivo ben preciso. Con questa storia, infatti, il medico prestato alla letteratura diede il proprio secondo contributo alla storia del mystery classico creando l'inverted story; ovvero, quella tecnica secondo cui il colpevole del crimine-omicidio è già noto al lettore e il gusto del racconto non sta tanto nella scoperta di "chi-l'ha-fatto", quanto del "come-è-stato-fatto" (un po' alla maniera del Tenente Colombo). Già questo mette in luce quanto fosse importante per Freeman lo studio del metodo utilizzato dal colpevole per perpetrare il suo delitto: addirittura, egli si impegnò a sviluppare e testare numerose tecniche criminali.

Grande esperto di procedure legali e di true crime (oltre ad inserire casi reali nei suoi gialli, analizzò a fondo il mistero di Croydon), innovativo finché mori nel 1943, promotore dell'autorità della chimica e della biologia applicate alle indagini, oltre che sostenitore dell'eugenetica (al contrario di moltissimi colleghi giallisti), Richard Austin Freeman è stato un grande giallista, resta uno dei pochi autori di polizieschi dell’epoca Edoardiana ad essere letto ai giorni nostri, assieme a G.K. Chesterton ed E. C. Bentley e, cosa ancor più rara, un'esponente del giallo degli albori come di quello della Golden Age. Oltre a quelli di Chandler, il quale lo riteneva "un magnifico artista" che "non ha eguali", riuscì ad ottenere anche gli elogi di George Orwell, il quale considerava la crime story della Golden Age come troppo moderna, al contrario di quella più formale e "antiquata" da lui rappresentata: "Ricordi la nostra passione per R. Austin Freeman? Io non l'ho mai davvero dimenticata, e penso che dovrei leggere tutti i suoi libri eccetto alcuni dei suoi ultimi" osservò quest'ultimo in una lettera a un'amica nel 1949, senza contare le numerose citazioni alle opere del suo idolo che fece in altri saggi. Per quanto mi riguarda, Golden Age e giallo degli inizi non fa differenza, se si tratta di opere di valore come "Arsenico": un eccezionale romanzo che, nonostante all'inizio possa apparire troppo lento, trova i propri punti di forza non solo nell'enigma di prima qualità, ma pure nel suo essere un po' antiquato e nella gran quantità di argomenti che vengono toccati nel corso della narrazione. Già; perché Freeman non si limitò a far fare semplici affermazioni di carattere superficiale al suo Thorndyke: lo fece agire in modo molto più attivo. Scienza forense, pratica legale, meccanica, medicina sono i temi più importanti toccati nelle indagini dell'investigatore, vengono trattati con un riguardo quasi reverenziale e restituiti al lettore in un linguaggio sì specialistico, ma senza usare toni troppo altezzosi e permettendo a chiunque di comprendere i passaggi più insidiosi.

Spesso, nei mysteries contemporanei, mi sono reso conto di come la "sostanza" sia debole e fiacca, poiché mancante di una base stabile e salda per quanto riguarda il fattore stilistico e contenutistico; nel caso di questo libro, invece, mi è sembrato che l'autore sapesse molto bene di che cosa stava parlando e avesse tutte le intenzioni di renderlo noto ai suoi lettori: lo dimostrano non solo i continui riferimenti alla legge (capp. 4-5-6 sull'inchiesta e pp. 31-32, 36-40, 110-118, 157) e alla medicina (pp. 12-14, 17-18, 24, 26, 78-81, 94-98, 101-105, 135-137, 160-162, 184-185, 236-237, 243-244, 248, 251-254), i quali portarono allo sviluppo di nuove tecniche da applicare alle indagini e influenzarono autori come Dorothy L. Sayers, J.J Connington e John Rhode; ma anche le parti in cui i personaggi entrano in rapporto l'uno con l'altro, a volte leggere ed altre meno, così da mutare la pesantezza di uno stile dalle descrizioni troppo dettagliate. In particolare, la  complessa e lunga questione riguardo l'arsenico (pp. 45-55, 57-65, 68-73), in qualche modo vero protagonista delle vicende, tenderebbe a diventare fin troppo astrusa per i profani e quindi ad annoiare; pertanto, Freeman si è reso conto di dover smorzare i toni e ha fatto in modo di dare il giusto pizzico di ingenuità a Mayfield affinché Thorndyke possa fare qualche battuta su di lui (come nel caso del cavallo di Troia, cap. 10). A questa serie di argomenti utili a sostenere la propria indagine fittizia, inoltre, l'autore ha affiancato un metodo ineccepibile, forse ancora troppo "ingenuo" per ingannare al meglio i lettori più abili (la cerchia dei sospetti è molto ristretta), ma perfetto in un romanzo di questo tipo, dove le innovazioni scientifiche dovevano sembrare degne di orizzonti fantastici. Come i suoi successori, infatti, Freeman si diede da fare per creare trame basate su soluzioni verificabili in laboratorio, solide e sicure, con una forte identità; sviluppò nuovi metodi delittuosi ("Se non fosse che l'autore è un medico, si potrebbe essere inclini a dubitare che gli omicidi in questa storia avrebbero potuto essere compiuti nel modo in cui li descrive" osservò addirittura il New York Times proprio riguardo "Arsenico") e spesso ideò i suoi omicidi fittizi ispirandosi a delitti reali. Ma soprattutto era deciso a dare più importanza alle modalità di uccisione, il punto forte dei casi di Thorndyke, sempre perfettamente logico e ispirato a criteri scientifici, a discapito delle sottigliezze psicologiche della Golden Age. Per questo motivo alcuni non apprezzano appieno l'opera di Freeman; in ogni caso, nonostante ciò, da parte mia mi sento più che disposto a perdonargli qualche piccola imperfezione.

Illustrazione che rappresenta Thorndyke
con il suo aiutante e biografo Christopher
Jervis in un disegno di H.M. Brock,
pubblicato sul "Pearson's Magazine"
nel 1909

Ma non è finita qui. A rinforzo dell'enigma e della storia in sé, infatti, l'autore mise alcuni ulteriori paletti di sostegno. Ad esempio, l'unione tra ambientazione e stile narrativo, come le passeggiate infinite di Mayfield in solitaria oppure in compagnia di Barbara o Madeline, diedero vita a visioni che al momento in cui il romanzo venne pubblicato (ma non solo) potevano essere rivissute nella realtà. Le immagini evocate da questi passaggi lirici contribuirono a creare la giusta atmosfera in cui calare le vicende tratteggiate, grazie a toni pratici che le caratterizzavano con minuziosa precisione e le rendevano familiari a chi leggeva, oltre che più intime (pp. 18-19, 21, 39, 41-42, 89, 9293, 97, 99-101, 104, 110, 144-147, 149, 169, 171, 174, 179-180, 188-189, 196-197, 209-216, 220). In tono nostalgico, dove si percepisce come la guerra e il Destino fatale abbiano esercitato una pressione non indifferente, osserviamo questa società che si spiega davanti ai nostri occhi; i parchi semi-deserti del periodo autunnale e invernale quando l'aria si fa più tagliente; le grandi case signorili di una volta, gelide e illuminate da un sistema elettrico che funzionava a scatti, dove per riscaldare le stanze bisognava affidarsi ai camini e la gente trascorreva le giornate a rammendare e a studiare; le vie della città brulicanti di vita durante il giorno, mentre alla notte si aggiravano soltanto i malviventi e la gente equivoca. Tutto ciò ci aiuta a visualizzare con la mente le ambientazioni, permettendoci di visitare il Temple del primo Novecento, oppure i cimiteri deserti e desolati della periferia, e restituendoceli come se fossero ancora in quello stato, con la loro fauna caratteristica di gentiluomini inamidati, di impiegati nevrotici e di signore della borghesia medio-alta con un contegno sussiegoso e altero. Costoro danno un tocco in più alle descrizioni, ce le fanno rivivere mentre agiscono, non restituiscono immagini a due dimensioni ma scenette vivaci e suggestive, tratteggiate secondo lo stile inimitabile che solo quegli autori nati in pieno Ottocento (come Freeman) possono vantare come una propria caratteristica: solenne, quasi pesante in quanto a dettagli, eppure proprio con una marcia in più grazie a questi ultimi, i quali contribuiscono a renderlo piena di sfaccettature e a dargli profondità.

L'altro grande sostegno per la storia di "Arsenico" e per l'opera dell'autore, invece, è dato dalla caratterizzazione dei personaggi. Senza dubbio un po' datati nei comportamenti, tra inchini e atteggiamenti vittoriani sull'ostentazione dei proprio sentimenti, essi restituiscono un'immagine vagamente retrò di educato garbo, come se stessimo leggendo le memorie di una vecchia zia, e trovano il loro compimento nel rapporto ingessato degli uni verso gli altri: i costumi li costringono ad adeguarsi a un rispetto esteriore delle convenzioni, ma dalle loro parole e dai toni con cui le esprimono percepiamo come essi posseggano un'anima ben più viva di quella delle mere marionette. Hanno una personalità solida, sono ben caratterizzati, e ciò indica come Freeman non fosse l'individuo gelido che il lettore medio immagina, basandosi sul suo essere un dottore vittoriano. "Saremmo dei cattivi biologi, e dei medici ancora peggiori se sottovalutassimo l'importanza di quella che è la funzione principale della natura [...] l'importanza vitale del sesso" e del sentimentalismo, spiegò per bocca di Thorndyke in "L'Occhio di Osiride": direi che è riuscito a mettere in pratica le sue parole, soprattutto vedendo quanto il professore stesso si senta coinvolto a livello emotivo nell'indagine di cui si occupa (pp. 123, 203-204, 261-263). Ma non solo il sentimento, anche l'ironia è una componente importante nei suoi personaggi: la ritroviamo soprattutto in Thorndyke e nel suo assistente Polton, ma pure Madeline dà prova di possederne in quantità. In "Arsenico", tuttavia, a trovare maggiore spazio sono l'amore perduto e l'ossessione che ne deriva (pp. 9-10, 20-21, 22-26, 33-34, 107-109, 165-166, 170, 172-173, 217, 220-224, 228-229, 231-232): quelli di Mayfield e Barbara verso Stella Keene, quelli di Wallingford per Barbara, quelli di Mayfield verso Barbara e viceversa. Nello sviluppo delle loro relazioni, divampano le passioni in modo meno manifesto di quanto accada ai giorni nostri, ma non per questo meno violentemente. Soprattutto i personaggi femminili (pp. 35-38, 68-73, 188, 191-192) appaiono soggetti a questo sconvolgimento interiore (e il disprezzato e debole Wallingford), come se l'autore fosse ancora legato a un'immagine datata della donna e non riuscisse ad accettare l'emancipazione femminile che stava prendendo sempre più piede (vedasi i commenti sulle suffragette alle pp. 8, 10-11). Però, allo stesso tempo, egli ha ritratto la figura di Madeline come una ragazza in carriera, con una propria professione e ambiziosa, che non trascura la soddisfazione dei propri bisogni sentimentali. Forse la sua educazione vittoriana tentava di ribellarsi all'idea di questo nuovo ruolo femminile nella società. In ogni caso, i protagonisti sono attori in carne ed ossa i quali, nonostante alcune caratteristiche stereotipate, agiscono e vivono con trasporto gli eventi contenuti in "Arsenico". Essi sono una parte importante in questo romanzo basato soprattutto sull'enigma; senza le loro personalità, sono convinto che gran parte del mistero sulla morte di Harold Monkhouse avrebbe perso molto del suo fascino. E di conseguenza "Arsenico" non sarebbe risultato il grande romanzo giallo che in effetti è.

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venerdì 28 agosto 2020

44 - "Assassinio nel Labirinto" ("Murder in the Maze", 1927) di J.J. Connington

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore

Tra le materie che hanno caratterizzato e contribuito all'affermazione del romanzo giallo classico nel corso degli anni, la Scienza è stata sicuramente di fondamentale importanza. Infatti, senza contare i numerosi mezzi letali che è stata in grado di fornire agli assassini fittizi, essa, sin dal Rinascimento, con gli esperimenti di Leonardo Da Vinci sulle macchine e i suoi progetti ingegneristici, ma soprattutto con la definizione del metodo scientifico da parte di Galileo Galilei nel 1600, si è prestata alla formulazione di teorie matematiche e di ipotesi logiche suffragate da una serie di prove concrete e tangibili, in un modo che ricorda molto da vicino le procedure razionali e formali degli investigatori dilettanti delle crime novels all'inglese e dei poliziotti in carica a Scotland Yard. Questi segugi, forti delle proprie capacità intellettuali, applicarono il cosiddetto "metodo deduttivo" per sondare fenomeni della vita reale come furti, omicidi e altri delitti contro la giustizia, prendendo spunto proprio da questi "antenati degli scienziati", e condussero le loro indagini in modo tale che, in fatto di accuratezza e disciplina, esse possono essere paragonate a veri e propri esperimenti in laboratorio. Analizzavano il problema, ipotizzavano come dovessero essersi svolti i fatti, deducevano dagli indizi raccolti se le premesse potevano essere mantenute ed infine controllavano se i risultati corrispondevano alla soluzione immaginata; proprio come se dovessero esaminare al microscopio la reazione di un bacillo a una data sostanza. E sebbene, con il passare del tempo, a questo razionale modo di agire venne accostato sempre più di frequente l'approfondimento della psicologia, così che poco a poco la dimostrazione scientifica del delitto venne sostituita da studi di moventi di natura psichiatrica e impulsiva che non potevano essere ascritti a delle regole matematiche, la spina dorsale del racconto investigativo restò comunque quella delle origini, basata sulla raccolta di prove inequivocabili da presentare di fronte a una giuria.

Uno dei primi ad adottare "il Metodo" fu ovviamente Sherlock Holmes, il Grande Detective per eccellenza; non per niente il suo autore, Arthur Conan Doyle, era conosciuto soprattutto per essere un eminente dottore e la sua formazione, di conseguenza, doveva molto ai suoi professori di università, come il famoso Joseph Bell, al quale si sarebbe ispirato proprio per dare vita al misantropo di Baker Street. I sopralluoghi delle scene del delitto che egli effettuava, in occasione di un nuovo caso, si rivelavano sempre fertili fonti di oggetti da analizzare, come i mozziconi di sigarette e qualche brandello di tessuto abbandonato dal criminale di turno, ed esclusivamente su tali oggetti si articolavano le sue soluzioni, senza scostarsi mai da fatti concreti e verificabili in laboratorio. Pure il dottor John Evelyn Thorndyke, creato dalla penna di Richard Austin Freeman, seguì le orme della scienza tracciate dal suo illustre predecessore: patologo, eminente studioso di chimica e fisica residente a King's Bench Walk, costui era anche un magistrato e un investigatore a tempo perso, caratterizzato da un certo senso di integrità vittoriana e dotato di spirito critico e cieca fede nelle capacità della scienza; cosa che lo aveva spinto addirittura a creare una stanza apposita, in cui effettuare gli esperimenti necessari a dimostrare la propria tesi di colpevolezza su un dato sospetto. I membri stessi del Detection Club, da instancabili perfezionisti nell'arte dell'ideazione del delitto perfetto, costituirono un altro esempio di detective scientifico: non solo alle cene periodiche dei soci invitavano spesso eminenti studiosi e scienziati, i quali presentavano una lunga conferenza sugli aspetti delittuosi delle loro professioni e offrivano il proprio punto di vista riguardo i dubbi dei loro anfitrioni, ma agivano in prima persona per raccogliere le informazioni di cui avevano bisogno. ad esempio Dorothy L. Sayers, per fare un nome, durante la stesura di "Il Caso Harrison" assillò letteralmente il suo compagno di scrittura, Robert Eustace, riguardo gli aspetti medici delle trame dei libri di Wilkie Collins e sollevò un acceso dibattito sull'arsenico e le conseguenze di un avvelenamento attraverso di esso, oltre a struggersi per dare alla loro opera congiunta una forma fisica degna dell'idea originale.

Il personaggio più inusuale tra quelli appartenenti al genere degli investigatori col pallino per le scienze pure, tuttavia, resta Sir Clinton Driffield, il protagonista dei mysteries dell'austero professor Alfred Walter Stewart, alias J.J. Connington. Compagno di Sayers e Eustace all'interno del circolo londinese di scrittori, costui fu uno dei più sottovalutati narratori di romanzi del mistero della storia, insieme a John Rhode e Freeman Wills Crofts, poiché i suoi romanzi vennero a lungo considerati noiosi a causa dell'apparente "monotonia" delle loro trame. Come la maggior parte dei cliché sulla crime fiction classica, anche in questo caso il giudizio si è rivelato affrettato e superficiale, e per dimostrarvelo oggi ho deciso di recensire il libro in cui egli fece comparire per la prima volta il suo investigatore, ovvero "Assassinio nel Labirinto" (Polillo Editore, 2004). Oltretutto, questo libro si presta benissimo a concludere la mia rassegna sul giallo estivo-vacanziero, dal momento che esso è ambientato in una casa di campagna in piena bella stagione, in cui si verifica una serie all'apparenza inspiegabile di crimini. Tuttavia, non lasciatevi ingannare dalle premesse: qui la storia ha ben poco di spensierato e solare; l'oscurità trapela tra le righe come se fosse un veleno e la crudeltà e una certa asprezza nei toni stanno al centro delle vicende.

Labirinto di Hampton Court, simile a quello di Whistlefield
La storia si apre in un afoso pomeriggio estivo, a Whistlefield, la tenuta di campagna di proprietà del ricco Roger Shandon. Laggiù sono riuniti tutti i membri della famiglia (insieme ad alcuni ospiti e domestici), e la situazione sta generando un forte clima di tensione che lui e suo fratello gemello Neville sembrano sopportare a malapena; tanto che, ben presto, i due decidono di cercare un posto tranquillo per occuparsi dei propri affari privati, dove non essere assillati dai problemi dei loro rumorosi e noiosi parenti: Roger, il quale si è arricchito attraverso mezzi ignoti, è infatti preoccupato per le spese crescenti e vuole mettere fine una volta per tutte a quelle superflue (come il mantenimento di parenti del calibro del fratello Ernest e dei nipoti Arthur e Sylvia); Neville, invece, da avvocato coscienzioso, intende perfezionare la sua ultima arringa senza il pericolo di essere infastidito o minacciato. I due si dirigono verso l'attrazione della tenuta, un grande labirinto che solo i membri stretti della famiglia sono in grado di vincere, ed entro breve ognuno si installa in uno dei due centri dell'immenso gioco di astuzia. Quando anche due ospiti di Whistlefield, la signorina Vera Forrest e il signor Howard Torrence, ignari della presenza dei gemelli, decidono di entrare nel labirinto per sfidarsi a risolverlo, il dramma ha inizio: qualche minuto dopo il via alla gara, infatti, tra le alte siepi impenetrabili risuonano un colpo di fucile ad aria compressa e un grido, seguito quasi subito da un'altra coppia di rumori simili. Entro poco tempo vengono rinvenuti i cadaveri dei gemelli Shandon, uccisi da alcune freccette avvelenate, e con uno sforzo notevole, Vera riesce a trovare una via d'uscita dalla sua prigione e a dare l'allarme alla tenuta. Immediatamente viene convocata la polizia, e con essa giunge sul posto un giovane uomo con un cane al seguito: si tratta di Sir Clinton Driffield, nientemeno che il capo della polizia, il quale è in visita all'amico Wendover ed è stato arruolato a forza mentre stava passando qualche ora a riposare insieme allo Squire.

Questo signore dall'aspetto ordinario e dai modi riservati capisce subito di trovarsi di fronte a un delitto orchestrato quasi alla perfezione, e si impegna a raccogliere quanti più indizi possibili per inchiodare il colpevole prima che quello possa nuocere ad altre persone. Mentre Driffield sta indagando in prima linea tra le testimonianze reticenti di tutti i membri della casa, infatti, il misterioso assassino sembra intenzionato ad eliminare tutti i membri della famiglia Shandon, prendendo di mira prima Ernest, l'unico fratello superstite, e poi i nipoti degli assassinati, il semi invalido Arthur Hawkhurst e sua sorella Sylvia. Chi sarà questo elusivo personaggio? La presenza nella casa di un misterioso segretario, Ivor Stenness, complica le cose, in una faccenda dove solo all'apparenza sembra che tutto sia tranquillo e pacifico, e Driffield capisce che solo grazie al proprio metodo investigativo riuscirà a risolvere il mistero. Così, con l'aiuto di Wendover, si mette in caccia di una preda ostinata e pericolosa, basandosi sulla scienza come un moderno Sherlock Holmes e senza rivelare a nessuno le proprie mosse e i suoi pensieri; finché la soluzione arriverà proprio dove la tragedia ha avuto inizio: nel labirinto di Whistlefield, trappola mortale per gli Shandon e il loro assassino. 

Giocatori di carte ritratti sulla scatola di un mazzo da gioco
per bridge, simili ai partecipanti alla partita di Whistlefield

La vicenda, tratteggiata in questi termini, può indurre il lettore a classificarla immediatamente tra le altre, simili, che caratterizzano il sottogenere trito e ritrito del "delitto della casa di campagna". Eppure, in realtà, essa è caratterizzata da una serie di irregolarità che la rendono atipica ed interessante agli occhi degli appassionati di romanzi gialli. In primo luogo, infatti, si nota subito come, a differenza della solita atmosfera generale più o meno idilliaca, "Assassinio nel Labirinto" conservi una certa asprezza e prosaicità di fondo. In questo romanzo, è l'oscurità a farla da padrone (pp. 98-100, 110-113, 191-202, 212-213, 226): essa viene accentuata dalla tensione, nei momenti in cui l'assassino colpisce (pp. 37-46, 190-195), e in gran parte delle vicende aleggia una certa atmosfera da brivido, in cui si scontrano l'umorismo nero del capo della polizia con l'ingenuità del suo compagno di indagini, e l'atteggiamento all'apparenza un po' sciocco di Driffield con l'acume di cui da prova nei momenti del bisogno. Non ci sono grandi passaggi di simpatica empatia tra narratore e lettore come nelle solite, confortevoli crime novels, pur essendo presenti i divertenti battibecchi tra Wendover e Sir Clinton; al contrario, ci troviamo di fronte a un modo di raccontare che, per quanto sia facile e veloce in quanto a stile, in fatto di tono assomiglia più a quello di un saggio, in cui il narratore vuole mantenere una certa distanza da chi legge. Gli stessi argomenti affrontati (medicina, balistica, vivisezione) introducono una certa freddezza e asperità nel racconto. Poi, ad eccezione di una piccola parte, nel libro il sentimento non viene mai menzionato e i suoi protagonisti sembrano mossi solo da intenti ragionati, simili a macchine o pedine di una scacchiera (pp. 180-183); inoltre l'ambientazione, a parte la scena del delitto (il labirinto e il giardino di Whistlefield), non viene rappresentata nel dettaglio, come se per l'autore non fosse stato importante tratteggiare con attenzione i luoghi, ma piuttosto la lucidità del metodo d'indagine e quello del colpevole per perpetrare la morte alle sue vittime designate. Il contorno non aveva la stessa importanza dei fatti nudi e crudi, per il professor Stewart; a lui interessava soprattutto presentare un delitto da risolvere, che apparisse reale, fatto bene, scientifico e dotato di indizi (non per niente, in "Assassinio nel Labirinto", le prove materiali come freccette, ragnatele, vasetti, fucili, libretti per gli assegni abbondano in gran quantità).

Pertanto, una volta entrati nel pieno della vicenda, non dobbiamo aspettarci chissà quale capolavoro sullo stile dei romanzi della Sayers, ma né più né meno che una sfida capace di mettere alla prova il nostro intelletto; cosa che ho l'impressione i critici non abbiano fatto, decretando così che i suoi gialli fossero declassati a opere di serie B. Come alcuni disprezzano le vicende in cui ci sono troppe parti descrittive, allo stesso modo ci saranno quelli che non tollerano quelle troppo scarne; ebbene, lasciatemi dire che entrambi commettono un grosso errore. A mio parere, infatti, il tradizionale romanzo giallo anglosassone è intrigante proprio per questo suo variare di continuo, tanto nei temi quanto nella struttura o in stile: ci sono i delitti che si verificano nella casa di campagna, quelli al villaggio, quelli al campus universitario, quelli a teatro, quelli urbani; quelli dove si conosce già il colpevole, quelli che hanno tanti colpevoli, quelli dove il colpevole è la vittima stessa, ecc... A parte pochissime eccezioni, a me sono sempre piaciuti i mysteries che mi sono capitati sotto mano; anche solo per un motivo, ho apprezzato il modo in cui hanno saputo coinvolgermi, e questo "Assassinio nel Labirinto" non ha fatto eccezione. Se diamo un'occhiata approfondita all'enigma, infatti, ci troviamo davanti a un lavoro di fair-play e di misdirection non comune: fermo restando che il colpevole di questa prima prova di Connington nel campo del mystery resta abbastanza prevedibile, non ci possiamo lamentare per l'ingegnosità dimostrata nell'ideazione degli omicidi e della loro soluzione. Il fatto stesso di ambientare i fattacci dentro una prova di intelligenza come un labirinto dovrebbe farci capire come l'autore intendesse creare qualcosa di simile a una memorabile sfida logica; l'uso delle freccette avvelenate è stato un espediente intelligente da usare come arma del delitto, poiché non preclude che il colpevole sia una donna; l'inserimento di esempi di delitti accaduti sul serio (come quello di Maitre Fernand-Gustave-Gaston Labori, colpito alla schiena mentre andava in tribunale ad interrogare il generale Mercier durante l'affare Dreyfus, oppure quelli di Crippen, Deeming, Burke e Hare, pp. 84, 123, 151, 165-167, 185, 275, 290, 294), la quantità enorme di false piste e nozioni scientifiche che ci viene data in pasto, insieme agli esperimenti compiuti da Sir Clinton, rendono più reale l'indagine e ci inducono a riflettere sulla soluzione da dare, ma allo stesso tempo sono anche indice del voler "giocare pulito" di Connington, senza barare nascondendo le prove; insomma, tutto è tenuto in considerazione in vista dello scioglimento finale.

Inoltre, cosa da non trascurare affatto nell'analisi di "Assassinio nel Labirinto", Sir Clinton Driffield non è un anonimo ispettore, simile a tanti altri: in un primo momento egli si accontenta di apparire un po' sciocco, per confondere l'omicida, ma in seguito non fa sconti per far rispettare la giustizia; anzi, in qualche modo va oltre il suo ruolo "ufficiale" per assicurare il trionfo del bene sul male. "Sui giornali, di tanto in tanto si sente parlare di misteri non spiegati, delitti irrisolti, inefficienza della polizia e via di questo passo. Ora vi sottopongo un problema. Supponete di dover indagare su qualche caso diabolico come quello di Jack lo Squartatore. E supponete di aver scoperto, alla fine, che il criminale era un pazzo come, ovviamente, nel caso di Jack lo Squartatore. Infine, supponete che la sua follia sia stata scoperta e che lui sia stato messo in manicomio dopo il suo ultimo delitto. Che cosa fareste? [...] Perché non potreste farlo impiccare, dato che non è sano di mente. [...] In questo caso, il risultato sarebbe solo quello di gettare fango sulle persone a lui vicine [...]. Ci sono alcuni cani che dormono e che è meglio non svegliare." Questo è il suo innovativo e sconcertante punto di vista, e probabilmente anche quello del suo autore: farsi giustizia da sé, quando essa rischia di fallire, può apparire come una via di fuga accettabile (pp. 209, 227-235, 298-250, 254-268, 295-296, 298).

Alfred Walter Stewart, alias J.J.
Connington, nato nel 1880 e morto
nel 1947

Senza dubbio, essa è un'idea tanto rivoluzionaria quanto lo fu lo stesso Alfred Walter Stewart, lo scienziato che si nascondeva dietro lo pseudonimo di J.J. Connington. Nato nel 1880, egli fu un ometto piccolino e all'apparenza senza pretese, ma in realtà era considerato come un uomo austero e competente. Scozzese, figlio del dean of faculties della Glasgow University, Stewart aveva intrapreso gli studi proprio presso quell'istituto, per poi proseguirli a Marburg e all'University College di Londra, approdando infine alla Queen's University di Belfast. L'educazione che gli venne impartita fece di lui un esperto di chimica, fisica, balistica e altre discipline scientifiche; cosa che gli permise di diventare un rinomato docente a Belfast, fin dal 1901 quando era ventiduenne. Ad eccezione di alcuni anni trascorsi a insegnare a Glasgow, Stewart sarebbe rimasto di ruolo in quella città fino al suo ritiro dall'insegnamento e dalla carriera accademica, diventando prima cattedratico di chimica e infine capo del suo dipartimento. Tra l'altro, egli fu pure un ricercatore con all'attivo un certo numero di saggi e libri di testo, sullo stile di "Recent Advances in Organic Chrmistry" e "Stereochemistry", alcuni tra i suoi testi più conosciuti nel campo della scienza. Tuttavia, l'esimio professore voleva fare anche qualcosa che lo distraesse dal lavoro in laboratorio; per cui, nei pochi momenti di libertà, spesso a tarda notte, decise di assumere le vesti di un capace giallista e diede vita a J.J. Connington, il quale escogitava ingegnosi delitti avvalendosi della vasta erudizione matematica e chimica della sua personalità primaria. In questo modo, Stewart mise a frutto la propria spiccata intelligenza, un pungente senso dell'umorismo e l'audacia del novellino per dare inizio a una serie investigativa che avrebbe appassionato moltissimi lettori. E pensare che la sua avventura nella fiction era partita da un thriller fantascientifico dal titolo "Nordenholt's Million", il quale però non aveva ottenuto il successo che avrebbe poi arriso ai romanzi gialli. A differenza delle altre opere di genere inventate di sana pianta, infatti, i suoi mysteries dimostrarono quanto fosse capace e abile nell'ideare trame avvincenti e ricche di suspense, in cui gli indizi materiali e il pensiero freddo e scientifico venivano impiegati al meglio. Con "Death at Swaythling Court" e "Il Talismano dei Dangerfield" diede quindi il via a questa nuova sfida, ottenendo grandi consensi, e con il romanzo successivo intitolato "Assassinio nel Labirinto" introdusse la figura del protagonista della maggior parte delle sue opere nonché personaggio per eccellenza: Sir Clinton Driffield.

Quest'ultimo, a differenza di molti suoi colleghi letterari, è il capo della polizia di una contea immaginaria, spesso alle prese con casi che coinvolgono membri dell'aristocrazia terriera; uomo riservato e all'apparenza ordinario, ma capace di dare sfoggio di un'acuta intelligenza e uno spirito di osservazione con pochi pari, oltre che consapevole dei propri limiti (pp. 62-72, 76-80, 95-98, 103-104, 133-134, 137, 143-147, 151-152, 156, 161, 166, 183, 187, 195-196, 205-206, 209, 218). Nonostante fosse meno cordiale ad accattivante dell'altro personaggio ricorrente delle storie di Connington, l'avvocato Mark Brand apparso in "The Counselor" e "Four Defences", Sir Clinton riuscì a conquistare una vasta fetta di lettori di gialli, tanto che Stewart si ritrovò ad utilizzarlo fino a quando dovette ritirarsi dall'insegnamento a causa di alcuni problemi cardiaci e, dopo la pubblicazione di alcuni saggi raccolti in "Alias J.J. Connington", morì nel 1947. Questa cosa forse si può spiegare nel fatto che il personaggio fittizio assomigliava in qualche modo molto al suo creatore in carne ed ossa, il quale conservò sempre un punto di vista abbastanza pessimista e disincantato del mondo. Un atteggiamento che, nel personaggio, si può ritrovare nei romanzi più famosi in cui è protagonista, come "Il Caso con Nove Soluzioni", "Otto Innocenti e un Colpevole", "Le Tre Meduse", "Orme sulla Sabbia" e "The Eye in the Museum"; mentre nella figura di Stewart si riscontra nelle numerose sfide impegnative che affrontò nel corso della propria esistenza: ad esempio, la ragazza con cui era fidanzato a venticinque anni morì all'improvviso, pochi giorni prima delle nozze; più avanti, invece, dovette essere operato alle cataratte e rischiò di diventare cieco. Furono questi ostacoli, mescolati alla propria formazione scientifica, a indurire la sua visione del mondo e che lo indussero a tralasciare i sentimentalismi nei suoi romanzi gialli, dove sono altri gli aspetti a cui viene dato maggiore risalto.

Come dicevo sopra, infatti, sono i fatti ad occupare il ruolo principale nelle storie che Stewart inventava (come in "Assassinio nel Labirinto"). Gli indizi materiali, la freddezza e l'acume dello scienziato e dell'investigatore che ripone piena fiducia soltanto nelle sue dimostrazioni in laboratorio, la mancanza di un'empatia e di una comprensione per il colpevole, l'importanza data alla medicina e alle altre scienze pure (pp. 72-73, 75, 98-106, 115-117, 213-214, 282) sono solo alcuni degli aspetti tradizionali della sua narrativa. I personaggi, raffigurati come pedine su di una scacchiera, hanno poca personalità e sono prevalentemente gelidi e sgradevoli, ad accentuare ancora di più il carattere materiale dei suoi romanzi (basta pensare a Stenness e agli Shandon in "Assassinio nel Labirinto"). L'oscurità della pazzia viene messa contro la luce della ragione, unico strumento capace di scacciare le ombre del crimine e del delitto, e soltanto l'utilizzo di un metodo ragionato può condurre alla scoperta della verità. In ogni caso, tuttavia, ciò non deve far pensare che i romanzi gialli di Connington siano del tutto privi di elemento umano: esso è pur sempre ridotto rispetto ad altre opere, su questo non c'è dubbio; però ho riscontrato come l'interazione tra esseri viventi venga tenuta in grande considerazione dell'autore. A far colpo è soprattutto il rapporto instaurato tra il protagonista Sir Clinton e il suo amico Wendover. Questa è una strana coppia, differente dal solito duo "investigatore onnisciente-spalla"; in questo caso, infatti, lo Squire fa osservazioni che spesso possono rivelarsi utili in vista della soluzione finale, al contrario del solito Watson un po' ottuso (pp. 95-98, 108-109, 111-113, 127-131, 146-147...); e le sue teorie non sono affatto sciocche, tanto che qualche volta Driffield si spinge ad incoraggiarlo per arrivare alla soluzione e sembra sorpreso dall'acume del suo amico, come se si vergognasse di dover respingere le sue idee e fosse consapevole di non essere infallibile. Inoltre, i vivaci dialoghi tra i due sono divertenti e simpatici, e la relazione tra loro è uno degli aspetti migliori dei libri in cui essi sono presenti. La cosa vale anche in "Assassinio sul Labirinto", dove Clinton e Wendover giocano la partita su una sorta di piano quasi paritario ed "esclusivo", senza interruzioni da parte di altri personaggi, alla ricerca congiunta di un assassino astuto e diabolico.

In ogni caso, non bisogna trascurare il fatto che la polizia occupi una certa importanza all'interno della storia: i suoi metodi, la cosiddetta routine, viene brevemente descritta e aiuta Clinton nel suo compito, simile a uno strumento nelle capaci mani del capo della polizia (pp. 65, 68-72, 70-72, 76, 141-143, 149-150, 174-175, 247-248, 259). Strumento che però, sembra suggerire l'autore, può trasformarsi nelle mani di chi lo utilizza. Questa tendenza (di Stewart e quindi pure di Driffield) nel considerare la Giustizia di cui si è alfieri come qualcosa che può portare disagi a cui si potrebbe fare a meno, e che può essere perfezionata dall'individuo solitario, mette in luce ancora una volta quella visione che si stava facendo largo nel Detection Club e nella crime story della Golden Age, secondo cui la legge e il ruolo che essa gioca nello stabilire l'innocenza oppure la colpevolezza di un imputato si possa rivelare fallace. Si tratta di un discorso innovativo, se consideriamo che "Assassinio nel Labirinto" fu scritto nel 1927, il quale viene affrontato in modo ancora più forte per il semplice fatto che sia un capo della polizia a porsi delle domande sull'efficacia dell'organo di cui si fa strumento. Finché sono i dilettanti a ponderare sulla questione, è un conto; ma se a farlo è una tra le cariche più importanti delle forze dell'ordine, le considerazioni che ne scaturiscono hanno una forza doppia, perché mettono in mostra quanto siano labili le fondamenta su cui è stato costruito il sistema giudiziario. La storia e la conclusione di "Assassinio nel Labirinto", pertanto, rappresentano sì un tipico esempio di come la scienza e la ragione possano avere la meglio sul delitto, ma anche di come esse possano conferire fin troppi poteri all'uomo deciso a far rispettare la legge. Come trovare il giusto compromesso nell'esecuzione del proprio compito? Sir Clinton afferma di non avere alcun rimorso di coscienza per come tutto quanto si è risolto, dal momento che lui ha dato la possibilità al colpevole di arrendersi; eppure colpisce la sua freddezza nell'aver eseguito la funzione che la Giustizia pare avergli attribuito. In fondo, ha solo accelerato l'opera del boia. Penso che sia questo fascino oscuro, questo compromesso tra il thriller puro e il giallo deduttivo, ad aver permesso a Sir Clinton e all'opera di Connington di conquistare larga fama tra i lettori di romanzi gialli. In questo, come nel fatto che la tensione venga sfruttata per accrescere la potenza del racconto, Connington precedette i tempi, confermandosi uno dei giallisti più abili (e sottovalutati) della Golden Age.


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venerdì 10 luglio 2020

38 - "C'è un Cadavere dall'Avvocato" ("Smallbone Deceased", 1950) di Michael Gilbert

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore

Per me, il mondo della legislatura e della burocrazia è (e probabilmente rimarrà) un mondo ignoto e nebuloso. Pur avendo una mente logica, non sono mai riuscito a cogliere tutte le sfaccettature che caratterizzano la Legge e ad apprezzare il piacere nell'individuare cavilli e memorizzare frasi fatte, come alcuni invece fanno. Ad esempio, qualche anno fa ho provato a preparare un concorso per bibliotecario, per il gusto di tentare una strada diversa e mettere a frutto i numerosi anni in cui ho fatto volontariato in un ente pubblico: ebbene, dopo un mese di sforzi e mal di testa, ho deciso di rinunciare all'impresa, di fronte alla mia evidente incapacità di assimilare concetti espressi in un linguaggio astruso e assurdamente complicato. Finché si è trattato di concentrarsi su concetti che potevano essere espressi in altre parole, tutto è andato bene; è stato quando le definizioni hanno assunto un tono pomposo e al limite dell'indecifrabile che le cose si sono complicate. Forse il rifiuto di memorizzare non era dovuto solo al modo in cui erano state presentate le nozioni (immagino che tutto ciò sia un retaggio della tradizione, la quale vedeva il linguaggio giudiziario come qualcosa di riservato a pochi eletti, e quindi giustificato nel suo essere "elevato" fino all'esasperazione); forse si trattava di una predisposizione naturale che qualcuno nutre nella propria natura e modo di essere, oppure c'entrava il fatto che la mia esperienza come volontario di biblioteca non fosse stata del tutto caratterizzata da aspetti positivi, diminuendo così il mio interesse in ciò che studiavo.

In ogni caso, per quanto mi riguarda, questo sistema per tramandare i concetti appare ancora oggi tutt'altro che comodo e appetibile, per cui credo proprio che i dubbi piaceri della legislatura resteranno lontane ombre sul mio percorso di vita; eccezion fatta, ovviamente, nel momento in cui si tratta di imbattersi in essi durante la lettura di un romanzo giallo. Perché se c'è qualcosa che, contro ogni previsione, è riuscita ad avvicinarmi all'arcano sapere della solenne compilazione di atti notarili e della redazione di testamenti, e a provocare in me un genuino interesse, è stata proprio la crime story classica. Come abbiamo visto, all'interno di questo genere letterario, spesso vengono affrontati argomenti che non ci si aspetterebbe mai di trovare: dall'innovativo tratteggio del ruolo della donna, in tempi ancora relativamente oscuri (vedasi "L'Inquilino del Piano di Sopra" di Harriet Rutland), a temi considerati tabù ancora oggi, come l'omosessualità e l'amore platonico; dalla descrizione minuziosa della vita di città e campagna, tra scandali piccoli e grandi che potrebbero verificarsi ai nostri giorni ("Il Segreto delle Campane" di Dorothy L. Sayers è un ottimo esempio), al resoconto puntiglioso di eventi storici come in "La Figlia del Tempo" di Josephine Tey, il mystery ci permette di immergerci in contesti disparati ma attinenti alla realtà, di "vivere" i ruoli dei personaggi come se fossimo loro stessi, in un linguaggio accessibile a tutti e trasmettendoci così una sorta di conoscenza diretta di quanto andiamo a leggere. Quando si tratta di giustizia, poi, il tradizionale romanzo giallo offre un vasto campionario di situazioni, e il mondo della legislatura e della Legge inglese occupa da sempre un posto molto importante all'interno del genere.

Forse, il motivo di questo successo è dato dal fatto che sono tantissimi gli autori provenienti da questo emisfero a me quasi sconosciuto, che si sono dedicati sia alla professione forense sia alla narrativa fittizia: oltre al famoso Erle Stanley Gardner, ideatore delle avventure dell'avvocato americano Perry Mason, ci sono il britannico Cyril Hare, con i suoi romanzi basati su questioni concernenti aspetti poco conosciuti della Legge inglese, come "Un Delitto Inglese", e in tempi più recenti il critico Martin Edwards, il quale ha iniziato conducendo una doppia carriera di avvocato e scrittore, per poi abbandonare la prima in favore della seconda. Costoro sono senza dubbio grandi esperti di legislatura e burocrazia, avendo conseguito studi approfonditi ed esperienze sul campo, e sanno per certo quello di cui parlano; per cui, quando ci apprestiamo a leggere qualche libro scritto da questi autori, mettiamo insieme la capacità del giallo classico di catapultarci con semplicità nelle situazioni che esso descrive e le conoscenze che ci trasmette chi lo scrive. Credo sia questo il motivo per cui, anche se mi imbatto in una questione legale complessa dentro una storia del mistero, riesco comunque a provare interesse riguardo a questioni che, se affrontate al di fuori della finzione, mi annoierebbero. Uno degli esempi più chiari di questa "magia" messa in atto dal classico romanzo giallo è costituita da un libro scritto da un altro celebre esponente di questi scrittori "dalla doppia vita": il britannico Michael Gilbert, infatti, nel 1947 diede vita a "C'è un Cadavere dall'Avvocato" (Polillo Editore, 2004), una storia deliziosa che racconta alla perfezione come dovesse essere la vita all'interno di uno studio legale della City di Londra, mettendo in mostra l'attività di un avvocato attraverso l'uso di termini specifici pur senza stufare chi legge. In mezzo alla frenetica redazione di atti e testamenti, infatti, troviamo un vivace ritratto di quella caotica quotidianità che caratterizza ogni ufficio che si rispetti, tra gossip e gelosie professionali; con l'aggiunta di un mistero astuto, che soddisfa allo stesso tempo l'appassionato di crime e l'occasionale lettore.

Piccadilly in Rain by Frederic Marlett Bell-Smith
(1846-1923), raffigurante uno degli scenari di "C'è un Cadavere
dall'Avvocato"
La storia inizia descrivendo una pomposa cena in un prestigioso ristorante di Londra, durante la quale sono stati riuniti i soci e i dipendenti del celebre studio legale Horniman, Birley & Craine e dei suoi satelliti minori. Accanto alle personalità più dimesse delle sedi di periferia e fuori città, spiccano quelle delle persone che quotidianamente si trovano a contatto con i capi dello studio; eppure, da alcune settimane si percepisce un grande vuoto nelle file della compagnia. Il fondatore storico della firma, Abel Horniman, è deceduto per cause naturali mentre si trovava alla sua scrivania di Lincoln's Inn, e la serata indetta per rinsaldare i contatti tra i dipendenti viene sfruttata come pretesto per celebrare il defunto egregio, con tanto di discorsi soporiferi e commenti sarcastici sotto i baffi. Seduto al suo posto, il giovane Henry Bohun ascolta gli uni e gli altri con pari interesse, poiché è appena arrivato ed è intenzionato a farsi un'idea più chiara possibile del campo in cui si è immerso. Con un passato da ricercatore statistico, si è dedicato agli studi di giurisprudenza e adesso è riuscito ad ottenere una sorta di apprendistato da Horniman, Birley & Craine, dove intende iniziare a costruirsi una carriera di tutto rispetto... sempre che ciò gli venga permesso. Fin dalle presentazioni con gli altri partecipanti alla festa, infatti, percepisce una sorta di scala sociale; niente di troppo snob, sia chiaro, però il fatto di essere l'ultimo arrivato si fa un po' sentire. Ovviamente Bohun ha già incontrato Birley (un vecchiaccio acido e ipocondriaco) e Craine (un tizio lascivo che si diverte a flirtare con le giovani segretarie) quando è stato assunto. Gli altri colleghi non sono da meno, in quanto a stranezze: il più affabile sembra essere John Cove, il braccio destro di Craine, un giovanotto tutto sarcasmo e cinismo che si impegna più a intrattenere brevi relazioni con le ragazze dello studio che a lavorare, e considera la sua esperienza come dipendente di una noia mortale; Eric Duxford, da parte sua, appare flemmatico e fin troppo sfuggente, dal momento che si vocifera si assenti spesso dal lavoro da un momento all'altro. Il nuovo socio della ditta, Bob Horniman, si presenta come un ragazzo nervoso e più che deciso ad appoggiarsi alla solida signorina Cornel, la segretaria del suo defunto padre, una donnetta pratica ed efficiente che mette in ombra il suo operato. Chiudono il gruppo le altre segretarie (la signorina Chittering, dedita al benessere dell'irritabile Birley; la signorina Bellbas, che tenta di sfuggire alle grinfie di Craine e Cove; e la signorina Mildmay, avvenente famme fatale dall'animo focoso alle dipendenze di Duxford) e un paio di uscieri/archivisti i cui uffici si trovano nei sotterranei dello studio.

"Una strana fauna" pensa Bohun, mentre torna a casa; "proprio quel tipo di ricettacolo in cui si mescolano odi e gelosie e possono scoppiare bombe da un momento all'altro". Infatti, già dal mattino seguente, in ufficio tira un'aria tesa: Bob Horniman viene redarguito da Birley riguardo un ritardo sulle verifiche di un fondo affidato al defunto Abel. Come mai nessuno si è preoccupato di rintracciare l'altro fiduciario del Fondo Ichabod Stokes, a cui è stato affidato mezzo milione di sterline? Eppure il signor Smallbone, un piccoletto viscido con la cattiva abitudine di scovare scandali all'interno della vita degli altri e renderli pubblici, nonostante si renda spesso irrintracciabile quando serve, si presenta puntuale a movimentare la vita da Horniman, Birley & Craine. Mentre vengono mobilitati mari e monti alla sua ricerca, si decide di dare un'occhiata agli incartamenti del fondo... con la conseguenza di inciampare nel suo cadavere, chiuso ermeticamente nella scatola destinata ai documenti relativi a Ichabod Stokes. Come egli possa essere finito lì dentro è un mistero; tanto più che il contenitore in cui è stato rinvenuto il cadavere si trovava nell'ufficio appartenente al defunto Abel Horniman, integerrimo esempio di avvocato sul quale non sembra essersi mai posato alcun sospetto di natura criminale. La faccenda, quindi, risulta molto imbarazzante per la gente che lavora da Birley, Horniman e Craine; sia perché un'ombra di dubbio viene a gettarsi sul buon nome dell'azienda, ma anche perché sembra proprio che nessuno al di fuori del defunto possa aver perpetrato il delitto, e calunniare un morto non è mai una bella cosa da fare. Tuttavia, ben presto le indagini dell'ispettore Hazlerigg (coadiuvato dall'aiuto ufficioso di Bohun) iniziano a suscitare nuovi sospetti... In un lento crescendo di tensione, inframmezzato da un altro delitto e dagli scontri-incontri tra i dipendenti dello studio legale, la faccenda si complicherà ancora di più, tra somme che non tornano e frivoli discorsi su borsette di coccodrillo e presagi funesti delle stelle; finché la verità non verrà alla luce e il colpevole si ritroverà a pagare una salata parcella.

Copertina dell'edizione inglese pubblicata
dalla British Library Crime Classics

È sempre un piacere immenso, quando capita di imbattersi in un classico romanzo giallo come "C'è un Cadavere dall'Avvocato". Questo tipo di mystery è il mio preferito in assoluto, poiché riesce a trasmettere al lettore una quantità di suggestioni e di aspetti della vita di inizio e metà Novecento, in modo vivace e ironico, che ben poca altra letteratura è stata in grado di tramandare. Una volta, P.D. James disse: "Puoi apprendere molto di più circa i costumi sociali dell'epoca in cui un giallo è stato scritto, di quanto tu possa fare dalla narrativa più pretenziosa". Non potrei essere più d'accordo con questo giudizio. A mio parere, infatti, il romanzo del mistero riesce a consegnarci un ritratto dettagliato e veritiero della società, degli usi e costumi, della vita e delle concezioni che si erano affermate (o lo stavano facendo) nel momento in cui esso si sviluppò in quella che viene definita come la sua "Golden Age", pur senza dare l'impressione di voler istruire e forzare il lettore ad apprendere. Questo è un discorso che è valso soprattutto quando ho presentato "Sotto la Neve" di J. Jefferson Farjeon, "Il Segreto delle Campane" di Dorothy L. Sayers oppure "L'Occhio di Osiride" di Richard Austin Freeman; ma potrebbe essere applicato pure all'insospettabile "Chi ha Ucciso Charmian Karslake?" di Annie Haynes, libro molto più ridimensionato degli altri tre titoli. Ognuno di essi racconta qualcosa e lo fa a modo suo: uno si sofferma sull'atmosfera misteriosa e rarefatta che aleggiava nelle case signorili di una volta, un altro sulla descrizione della vita nella campagna inglese tra gioie e dolori, un altro ancora sul rapporto tra due individui, immersi nella società vittoriana di una Londra che è scomparsa ma sopravvive nel ricordo tramandato. Nel suo piccolo, pure il libro di Haynes tratteggia una società stratificata in livelli sociali, popolata di individui aristocratici, arrampicatori che partono dal basso per raggiungere potere e gloria, e umili popolani che si accontentano della propria mediocrità. Tuttavia, fino a questo punto mi era capitato di imbattermi soltanto in questi "mondi" che, pur rappresentando un metro di giudizio attinente alla realtà del loro tempo, restano in qualche modo relegati a un passato che è irrimediabilmente antiquato (ad eccezione, forse, del romanzo di Sayers, poiché esistono ancora oggi realtà contadine come quella dei Fens).

Questa caratteristica peculiare della narrativa del mistero nel riportare in vita ciò che è trascorso attraverso piccoli gesti quotidiani, come la compilazione di un diario giornaliero, oppure con la rappresentazione del complesso rapporto tra conoscenti, fatto di inchini formali, parlandoci di un'epoca ormai cancellata dal passare del tempo, non si era mai spinta oltre. Giallisti quali lo stesso Freeman, ma anche Hare per restare in tema legislativo/notarile, si erano limitati a preservare questa eredità preziosissima e a farcela rivivere davanti ai nostri occhi, evitando che andasse dimenticata; il ché non è poco, sia chiaro. Nel romanzo di Gilbert, però, ho notato un aspetto davvero straordinario della storia che lui ci ha raccontato: ovvero, la capacità degli eventi (delittuosi e non) di poter essere trasportati e “vissuto” ai giorni nostri con ancor più naturalezza del solito. Mi spiego meglio. Molti di voi avranno qualche esperienza di come si lavora in un ufficio, pubblico o privato che esso sia. Conoscerete di sicuro il clima che di solito si respira in certi ambienti: le difficoltà a fare in modo che tutti vadano d'accordo, le gelosie professionali e i sottili sotterfugi attraverso i quali ognuno fa il proprio gioco e tenta di avvantaggiarsi sui colleghi, le pugnalate alle spalle e i pettegolezzi che vengono diffusi per screditare il prossimo, e molto altro ancora dovrebbero esservi in qualche modo familiari (se così non fosse, beati voi!). Ecco, la vicenda tratteggiata in "C'è un Cadavere dall'Avvocato" ricalca in pieno l'atmosfera di competizione e di doppiogiochismo che si respirerebbe in qualsiasi ente che più o meno chiunque di noi ha sentito sulla propria pelle (pp. 21, 25-30, 37-38, 48-56, 86-90, 113-120, 124-127, 134-150, 157-163, 176-178, 189-191, 202-203, 279-284). Ed è stata scritta nel 1950, più di mezzo secolo fa! Capirete quindi cosa intendo quando dico che, a mio modesto parere, il romanzo giallo classico riesce più di qualunque altra cosa nell'impresa titanica di trasportare ai giorni nostri quei microclimi che appartengono al passato.

Non si tratta di episodi accaduti nella realtà, altrimenti saremmo testimoni di innumerevoli delitti quasi perfetti e sarebbe un po' scoraggiante; però la finzione diventa uno strumento che trasferisce nel nostro presente qualcosa che è a tutti gli effetti reale, dal momento che noi ci identifichiamo nei personaggi e nelle situazioni che essi popolano e animano. Eppure, nel suo libro più di altri, Gilbert riesce a compiere il miracolo di rendere eterne le vicissitudini che si verificano attorno alla scoperta del cadavere di Smallbone; non soltanto, quindi, a tratteggiare un mondo reale che avremmo potuto "vivere" nel passato, se solo ci fossimo trovati in uno studio legale di Lincoln's Inn del 1950, ma addirittura uno che potremmo toccare con mano al giorno d'oggi, qualora decidessimo di servirci dell'opera di un pari di Horniman, Birley & Craine. In "Lord Peter e L'Altro", Sayers si è impegnata a tratteggiare l'immagine di un'agenzia pubblicitaria come Benson's con altrettanta cura di quella impiegata dal nostro esperto legale in "C'è un Cadavere dall'Avvocato"; eppure, nonostante tutta la sua abilità e competenza, non è riuscita a slegare questo luogo dal periodo storico in cui ha ambientato il suo libro. Gilbert, dal canto suo, ha invece reso immortale la creazione di Abel Horniman con un racconto tale da poter essere interpretato in qualunque epoca seguente alla sua pubblicazione. Forse ciò è dovuto al fatto che il tema principale su cui si snodano gli eventi, la legislatura e la redazione di atti, non sia cambiato più di tanto da un secolo a questa parte. Chi lo sa? In ogni caso, con "C'è un Cadavere dall'Avvocato" ci troviamo davanti a una storia che risulta sempre attuale, grazie alle strategie che il suo autore ha messo in atto.

Infatti, non solo abbiamo una descrizione della vita all'interno di uno studio legale, e la rappresentazione dei rapporti che si vengono a creare quando numerose personalità si ritrovano a condividere spazi chiusi in comunità, ma anche l'inserimento di scene di vita vivaci e ironiche, che magari non hanno alcun legame con la legge ma riescono comunque a dipingere al meglio quale debba essere l'atmosfera generale, e un fine tratteggio della psicologia di ogni individuo, delineata in modo da far risaltare ogni attore sulla scena e dargli vita propria. Paradossalmente (e questo può essere un punto a sfavore per qualcuno), in un primo momento il mistero sembra passare in secondo piano, rispetto allo sviluppo della vita da Horniman, Birley & Craine e alla dettagliata descrizione dell'operato della società. Tuttavia, io sono convinto che il caso debba gran parte del suo successo proprio all'attenzione che l'autore ha messo nel mostrare come fosse tribolata l'attività di un avvocato; l'indagine acquista ancora più spessore grazie alla trattazione veritiera e interessante dell'opera dei soci.

Michael Gilbert, nato nel
1912 e morto nel 2006

D'altro canto, non ci saremmo potuti aspettare niente di meno da un autore capace e versatile come Michael Gilbert. Nato nel 1912 a Londra, egli è stato uno dei massimi esponenti del giallo all'inglese e, come se questo non bastasse, pure un rinomato avvocato, capace di distinguersi sia in un campo che nell'altro. La legge e la letteratura furono nel suo destino fin da bambino, poiché era figlio di due scrittori e nipote di Sir Maurice Gwyer, presidente dell'Alta Corte di Giustizia in India, il quale fu la sua personale fonte d'ispirazione. Studiò giurisprudenza fino al conseguimento della laurea, nel 1937, e un anno dopo decise di mettere mano a un romanzo per tentare la carriera di autore; ma lo scoppio della guerra gli impedì di portarlo a termine e lo costrinse a mettere da parte i sogni, a favore di un posto come artigliere per l'esercito inglese. Tuttavia, ancora un volta il destino mise il suo zampino nel percorso del giovane Michael: mentre si trovava internato in un campo di prigionia italiano, egli si imbatté per caso in una copia di "Tragedy at Law" di Cyril Hare, un famoso mystery dove la parte da padrone la faceva proprio la giustizia e l'applicazione della legge, e ne rimase molto colpito. Una volta tornato in patria, infatti, ripensò a quella lettura fatta in Italia e, mentre svolgeva il proprio praticantato come avvocato, mise mano al suo romanzo incompiuto e lo portò a termine per il 1947, quando entrò a far parte dello studio Trower, Still & Feeling, col titolo "Close Quarters". In questo libro fece la sua comparsa l'ispettore Hazlerigg, il personaggio che accompagnò Gilbert per altre cinque avventure, e con esso iniziò la propria prosperosa carriera narrativa, la quale riuscì a conciliare con quella di avvocato scrivendo quasi sempre sul treno che lo portava dalla sua casa nel Kent fino all'ufficio di Londra. Come è naturale, nei suoi gialli una parte consistente della trama ruota attorno all'applicazione e allo svolgimento del ruolo dell'avvocatura: un esempio è dato dalla vicenda di "C'è un Cadavere dall'Avvocato", dove oltre ad Hazlerigg compare anche la figura dell'avvocato insonne Henry Bohun, poi ripreso in alcuni racconti, ma si possono citare pure quelle di "Death has Deep Roots" ("Il Caso Lamartine", "The Crack in the Teacup" e "The Queen Against Karl Mullen". Tuttavia, altrettanto degno di nota resta il resto della sua produzione mystery, che rivela una straordinaria versatilità: "Death in Captivity" racconta di un ingegnoso omicidio avvenuto in un campo di prigionia italiano; "The Etruscan Net" è basato sul contrabbando di oggetti d'arte; "The Night of the Twelfth" ruota attorno al classico delitto nella scuola, con una vena legata alla violenza nel mondo dell'infanzia. Senza dimenticare le numerose raccolte di racconti, come "Game without Rules", giudicata da Ellery Queen come la migliore in assoluto a tema spy dopo "Ashenden l'inglese" di Somerset Maugham, e la coppia dedicata al sergente anglo-spagnolo Patrick Petrella, in gran parte pubblicati pure sulla celebre "Ellery Queen Mystery Magazine".

Insomma, Michael Gilbert è stato uno tra i più capaci autori di romanzi gialli di sempre; si dedicò a lungo pure alla scrittura per il teatro, la televisione, la radio, e mentre si impegnava nel suo ruolo di avvocato (che gli consentì di rappresentare figure importanti come il Partito Conservatore, il governo del Bahrein e Raymond Chandler), vinceva premi su premi, dal Grand Master a Diamond Dagger. Se ne è andato nel 2006, dopo una vita lunga e piena di romanzi diversissimi tra loro. Tuttavia, "C'è un Cadavere dall'Avvocato" resta quello che viene ad oggi considerato come il suo capolavoro, inserito nelle liste delle migliori opere di genere da parte di H.R.F. Keating e Julian Symons. Il punto più forte della sua storia, come ho detto sopra, credo sia la capacità di riuscire a raccontare una vicenda capace di restare eterna nonostante gli anni che passano: potremmo immaginare che essa sia ambientata negli anni '50 del secolo scorso, oppure fare un balzo avanti di vent'anni, o ancora di trenta e accorgerci che, tutto sommato, la magia non si perde. Nella mia concezione, il compito di un avvocato o di un notaio è strettamente legato alla legislazione che, nella maggior parte dei casi, cambia di rado nel corso di un lustro; quindi il tratteggio dell'operato dei dipendenti e dei soci di Horniman, Birley & Craine, con l'assurdità tipica di un ente burocratico (costituito dal Sistema di Catalogazione Horniman) e la frenesia dettata dalla disperazione nello scovare una scappatoia, appare attinente alla realtà dei fatti del giorno d'oggi, pur tenendo conto del fatto che strumenti come stampanti, fax e fotocopiatrici sono entrate a far parte della routine da ufficio. Immagino proprio il socio di turno, occupato allo stesso modo di Bohun o di Craine, mentre deve impegnarsi a sbrogliare una questione legale, ricorrendo a qualche cavillo o al proprio ingegno e a una quantità indescrivibile di termini specifici, oppure nell'atto di scacciare la noia con un bel flirt con la segretaria, la quale probabilmente si farà sentire duramente.

"C'è un Cadavere dall'Avvocato", inoltre, non si limita al racconto veritiero dell'attività professionale degli affiliati allo studio, dimostrando una straordinaria capacità da insider dell'autore di dipingere un mondo ostico come quello dei fondi fiduciari e delle altre faccende burocratiche/legislative, con linguaggio sì complesso e specifico eppure comprensibile dal principiante (pp. 8, 10-12, 14, 16-19, 22-24, 31-34, 45-47, 56, 79, 81-84, 110-113, 123, 131-132, 146, 177-178, 193, 195, 198-202, 213-218, 221-223, 227-237); ma si addentra in una deliziosa e minuziosa descrizione di come dovesse essere la vita quotidiana (anch'essa attinente alla realtà) di un gruppo di lavoro occupato nella City, magari estranea alle questioni notarili. Penso, ad esempio, alle chiacchiere frivole e divertenti e ai battibecchi tra le segretarie, impegnate a scacciare la noia nel corso delle lunghe ore passate a battere a macchina e ad attendere l'ennesima chiamata per stenografare lettere: esse vengono tratteggiate in un modo che non può lasciarci indifferenti e suscita la nostra simpatia, soprattutto nei confronti delle signorine Chittering (angariata dal bilioso Birley, il cui passatempo pare quello di angustiare e tormentare chiunque gli si trovi a tiro) e Bellbas (impegnata ad analizzare l'oroscopo del giorno per mettersi in guardia dalle catastrofi). Oppure mi viene in mente la gelosia professionale tra John Cove ed Eric Duxford, dipinti con un carattere simile ma incapaci di simpatizzare l'uno per l'altro; nella mia personale esperienza, ho visto coi miei occhi qualcosa del genere e vi posso assicurare che niente potrebbe essere più vero di un simile resoconto tra scontri di personalità (per altri esempi, vedasi pp. 41-44, 67-74, 84-86, 91-93, 104-110, 127-130, 133, 164-166, 172-174, 179-186, 196-198, 209-212, 219-221, 223-226, 245-247, 258-264, 267-269, 278-279). Pur essendo un romanzo giallo solido e ben strutturato, mi spingerei ad affermare che il romanzo di Gilbert si potrebbe leggere soltanto per tutte queste piccole digressioni extra-enigma, le quali ci permettono di compiere un approfondito excursus tra episodi ironici e dialoghi talmente vacui da essere perfetti nel mondo della Legge. È questo che lo rende uno tra i più raffinati e astuti romanzi gialli ambientati in ambito legale: la capacità di dipanare la trama in mezzo a qualcosa di miracolosamente tangibile e reale, in bilico tra farsa e serietà. Non per niente, il critico Martin Edwards lo considera IL migliore in questo senso, alla pari con "Tragedy at Law" di Cyril Hare (per un sentito giudizio sull'autore, vi rimando a questo post del blog di Martin). Tuttavia, per alcuni può annoiare il troppo soffermarsi su temi pesanti. Questo influisce sul giudizio finale del romanzo? Affatto, poiché oltre alla riuscita descrizione della realtà di cui sopra "C'è un Cadavere dall'Avvocato" presenta tutto ciò che un appassionato del romanzo del mistero può chiedere; anzi, troviamo pure qualcosa in più. Abbiamo una resa delle ambientazioni magistrale, con il tratteggio di scenari chiaro e affascinante e un'atmosfera che richiama luoghi solidi e reali alla nostra mente, divisi tra allegria e tensione (per es. pp. 67-70, 166-169, 171); uno stile ironico, al limite del sarcasmo, il quale gioca sul dualismo tra l'astrusità del gergo burocratico e la frivolezza delle chiacchiere da gossip, e dà vita a un riuscitissimo matrimonio tra divertimento e serietà soprattutto nei dialoghi impeccabili all'insegna di uno humor accattivante; una rappresentazione dei personaggi azzeccata e, sebbene un po' caotica in un primo momento, approfondita così da permetterci di figurarceli ognuno con la propria spiccata personalità.

Anche questo tipo di descrizione, dove vengono alla luce particolari del carattere che nulla hanno a che fare col caso, contribuiscono a rendere veri e vivaci gli attori sulla scena e a sottolineare il senso di attinenza alla realtà che circonda il capolavoro di Gilbert (basti pensare alle manie di Birley, oppure al fin troppo reale maschilismo di alcuni tra i dipendenti maschi nei confronti delle sottomesse segretarie). In particolare, ovviamente, spiccano Hazlerigg e Bohun, caratterizzati il primo da un'empatia un po' insolita nel "classico" poliziotto da giallo classico e il secondo da una particolare malattia che gli impedisce di dormire per lungo tempo; ma sono soprattutto altri due i personaggi che lasciano il segno nel corso delle vicende. John Cove, da parte sua, si impegna a sottrarre la scena al nostra investigatore dilettante, compiendo azioni al limite della legalità, e a sferzare con i suoi commenti cinici le ipocrisie dei suoi colleghi; il sergente Plumptree, invece, costituisce il modello di agente dedito al proprio compito con la consapevolezza di essere un "pesce piccolo" ma, allo stesso tempo, la convinzione di poter fare la differenza tra il trionfo e la sconfitta della giustizia (e così sarà, infatti). Inoltre, l'attenzione data al lavoro della polizia (pp. 59-67, 101-104, 172, 179-188, 205-209, 212-213, 218-219, 238-242, 249-251) introduce un altro carattere peculiare del romanzo di Gilbert, poiché questo approccio dà vita a una vicenda in cui l'azione è divisa tra l'indagine di Hazlerigg, in forma di police procedural, e quella intrapresa da Bohun nella figura del tipico investigatore dilettante, più vicina alla tradizione. Ci troviamo di fronte a un tentativo di modernizzare un tipo di racconto che, nel 1950, stava iniziando a perdere mordente; e bisogna ammettere che l'autore ha fatto un buon lavoro, tra inserimento di elementi classici come la piantina della scena del delitto e un'attenzione all'innovativa trattazione psicologica della personalità dell'assassino, la quale dà vita a un mistero astuto che soddisfa sia l'appassionato sia il lettore occasionale. Il soffermarsi sulla descrizione veritiera dell'attività della polizia, comunque, si scontra con una certa tendenza a inserire alcuni momenti in cui viene parodiato il genere giallo (pp. 65, 93-97, 100-101, 108, 178-179); anche questo dovrebbe essere indice di cosa Gilbert intendesse costruire con il suo libro: ovvero, una storia che raccontasse qualcosa di attinente alla realtà, magari facendo leva su quegli aspetti che spesso tendono a diminuirne l'importanza e capovolgendoli così da trasformarli in punti di forza. Insomma, "C'è un Cadavere dall'Avvocato" è un romanzo stupendo, che si impegna a tracciare una vicenda che abbia un forte legame con la realtà dei fatti (il tema della Legge e quello della burocrazia, la vita caotica di un tipico ufficio londinese, il compito gravoso e serio della Giustizia incarnata dagli agenti di Scotland Yard, lo scoppiettante carattere dei personaggi) con un certo tono ironico e divertente e il gioco coi meccanismi del genere. Ogni volta che lo rileggo mi viene voglia di studiare diritto privato; poi mi ricordo che tutto ciò non fa per me, ma intanto l'intenzione torna. Anche questa è una delle magie che è riesce a compiere Michael Gilbert.


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