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Copertina dell'edizione pubblicata dalla Polillo Editore |
Vi è mai capitato di provare un'infatuazione insensata e furibonda per qualcosa che avete letto? Oppure per una canzone che vi è capitato di ascoltare quasi per caso, ma vi è rimasta in testa peggio di un tormentone estivo, o ancora un film per il quale sareste disposti a pagare biglietti e biglietti del cinema, pur di vederlo e rivederlo più volte? Ammetto che una sensazione del genere non capita tutti i giorni; anche perché, se così fosse, non sarebbe più qualcosa di speciale che resta impressa nella nostra memoria oppure nel nostro cuore, a fissare un momento preciso della nostra vita e cambiandola. Tuttavia, io penso che bene o male ognuno di noi abbia
sentito qualcosa di simile nel corso della propria esistenza. Per farla breve, penso sia proprio da un'emozione del genere che nascono le passioni che ci irretiscono e ci travolgono con la loro forza; pertanto sarebbe più che naturale provare e aver provato in passato questo tipo di emozione. Per cui, immagino avrete in mente cosa si prova quando si prende in mano un libro, si sente un motivo alla radio oppure si seleziona un film su una piattaforma streaming oppure ci si siede in una sala buia, in attesa della proiezione di una pellicola che in qualche modo ha stuzzicato la nostra curiosità, e ci si ritrova catturati da una forza magnetica che ci impedisce di ribellarci oppure ci fa sentire come se fossimo stati schiaffeggiati senza preavviso. Anche a me è successo, più di una volta, nonostante non si sia verificato magari con la stessa intensità. Ad esempio, per cogliere un aggancio con il recente Festival della Canzone Italiana in Sanremo, al primo ascolto della canzone "Amare" del gruppo La Rappresentante di Lista ho
avvertito distintamente qualcosa che mi ha fatto dire: "eccoci, questa è la
mia canzone di Sanremo 2021". Si tratta di un brano che (per come l'ho interpretato da dilettante) racconta come siamo fatti, con le nostre strabilianti imperfezioni e contraddizioni: spesso parliamo senza dire niente, piangiamo per dare sfogo alle nostre frustrazioni, alle nostre insicurezze e alle nostre paure, amiamo con tutti noi stessi senza risparmiarci mai,
mai. In parole povere, tratteggia uno stato d'animo in cui ci ritroviamo; in cui
io mi ritrovo. Penso sia stato ciò a fare risaltare "Amare" in mezzo al gruppo. Altre persone magari non sono rimaste colpite più di tanto da questa canzone; però è successo con brani differenti. Una mia amica semplicemente adora Mina, mentre un altro è
fan di Claudio Baglioni: al di là del piacere che si può provare a sentire le loro voce, penso ci siano tante altre
cose non dette dietro questo acceso interesse nei loro confronti.
Ovviamente anche parlando di film, ci sono pellicole che hanno saputo stregarmi in un modo che non mi sarei mai aspettato. Titoli come "La Strada" di Federico Fellini e altri facenti parte della filmografia di David Lynch, oltre a colpirmi nel profondo, hanno assunto un sapore particolare in seguito a un'esperienza di condivisione personale che mi tengo stretta e non dimenticherò mai; ma "Breakfast Club" di John Hughes e "St. Elmo's Fire" di Joel Schumacher sono forse gli esempi più limpidi per esprimere il concetto: essi narrano le incomprensioni che si instaurano tra ragazzi/e giovani e sul percorso di crescita che ognuno di essi intraprende, affiancato e stimolato dal/la coetaneo/a col quale magari pensa di non avere nulla a che spartire, ma in realtà è una sua immagine quasi speculare. Dal momento che io stesso faccio una fatica tremenda nel rapportarmi col prossimo, provo un viscerale attaccamento alle vicende che essi raccontano: descrivono quanto sia importante il dibattito e lo scontro tra persone affini, perché entrambe crescano (non
cambino ma
evolvano), e non credo ci sia niente di più importante di questo nella vita. Detto ciò, tuttavia, il mio campo preferito resta quello della lettura, ed è qui che ho avuto le sorprese più grandi in fatto di "infatuazioni". Mi è successo con la biografia di Agatha Christie, "La mia Vita", poiché essa narra gioie e dolori, vita e morte, fatica e svago, spensieratezza e abissi di depressione in cui tutti noi incappiamo negli anni, confortandoci e dandoci fiducia che le cose si aggiusteranno. Con un romanzo giallo che purtroppo si trova soltanto nei mercatini dell'usato, "Il Mondo dopo la Notte" di Charles Todd, dove la vividezza del racconto e delle vicende dei personaggi mi ha trasmesso emozioni talmente forti che sto aspettando il momento giusto per essere pronto a rileggerlo e recensirlo per voi, senza rischiare di finire di nuovo travolto. Con "
Il Segreto delle Campane" di Dorothy L. Sayers, perché è l'unico racconto dove per il momento ho percepito
davvero una sorta di rappresentazione della realtà pur dentro la finzione. E infine col romanzo giallo che recensisco oggi per voi: "La Casa dei Sette Cadaveri" di J. Jefferson Farjeon (Polillo Editore, 2011). A prima vista, quest'ultimo non lascerebbe mai intendere quanto esso stesso sia speciale; e forse non lo è, viste le stroncature che in tanti hanno espresso nei suoi confronti. Eppure, per me ha costituito una delle prime letture a tema
crime al di fuori dei "soliti" Christie-Doyle-Stout e narra una storia che incarna il perfetto connubio tra
thriller e giallo tradizionale, necessario a mio avviso per dare vita al romanzo del mistero perfetto; forse ancora di più che nell'altro libro dell'autore che ho già recensito su Three-a-Penny: "
Sotto la Neve". Per questi motivi lo considero una tra le opere a cui sono più legato sentimentalmente, che mi piace rileggere ogni tanto.
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Seven Sisters, Cliffs, Essex, Olga Koval, raffigurante una casa sulla scogliere simile a Haven House |
Le vicende che il libro narra prendono avvio da un tentativo di furto, perpetrato dal ladruncolo Ted Lyte presso Haven House, una casa alla periferia del villaggio di Benwick, sulla scogliera dell'Essex. Lyte è stato molto sfortunato negli ultimi tempi: di solito, si limita ad alleggerire qualche passante distratto e a trafugare piccoli oggetti in modo quantomeno discreto; ma adesso la fame si fa sentire e la carenza di furtarelli lo ha spinto ad addentrarsi nell'edificio che appare come abbandonato. La ghiaia del vialetto, infatti, è solcata da alcuni ciuffi d'erba troppo cresciuti, non si sente volare un mosca a parte il cigolio del cancello aperto del giardino, e le imposte delle finestre sono quasi tutte chiuse, a parte una di quelle superiori che sembra fargli un sarcastico occhiolino e invitarlo a sfidare la sorte. Così Ted è entrato dal retro e, dopo essersi attardato nella dispensa per riempire lo stomaco, si accinge a salire ai piani superiori per sottrarre oggetti di valore da rivendere al mercato nero. Eppure, c'è qualcosa che lo inquieta. Forse il silenzio totale dentro la casa? Oppure si tratta di altro, sottile e subdolo? Sempre più spaventato, Lyte decide di limitarsi a portare via qualche pezzo d'argenteria, senza essere avido. Però c'è quella porta chiusa, all'altra estremità dell'atrio, che lo attira come una calamita... Cosa si nasconde dietro ad essa? Forse qualcosa di prezioso? Ted si avvicina e, dopo aver girato la chiave nella serratura, spalanca l'uscio e... alla cruda luce elettrica si parano davanti ai suoi occhi sgranati ben sette cadaveri, alcuni riversi al suolo ed altri stesi su poltrone e divani. Terrorizzato il ladruncolo fugge a gambe levate, lasciandosi dietro pure la refurtiva, ma poco dopo viene fermato da un giornalista freelance, Thomas Hazeldean, appena sbarcato dal suo yacht, che lo ha scorto scappare lontano da Haven House come se avesse il diavolo alle calcagna. Condotto il fuggiasco alla stazione di polizia, ben presto appare chiaro agli agenti e ad Hazeldean che nella casa deve essere accaduto qualcosa di orribile ed inspiegabile, per produrre così tanti corpi in un colpo solo.
In realtà, una spiegazione abbastanza plausibile dei fatti esiste: suicidio collettivo. Ma perché questi individui avrebbero dovuto compiere un tale gesto estremo; e chi sono in realtà, dal momento che deve esistere un qualche legame che li unisca poiché hanno trovato la morte più o meno nello stesso identico momento? I loro abiti fanno pensare che se la siano vista brutta e a Haven House abitano solo un vecchio, di nome John Fenner, e sua nipote Dora. Come mai i sette predestinati hanno scelto proprio quella casa per terminare la loro vita? L'ispettore Kendall prende in mano le redini della situazione e, coadiuvato dal sergente Wade che deve istruire al meglio, si mette a cercare qualche indizio per risolvere il mistero. Però questi ultimi sono molto scarsi: ci sono il quadro di una giovane ragazza (probabilmente Dora Fenner) trapassato da una pallottola; imposte alle finestre non solo serrate ma addirittura inchiodate; un vaso con sopra una vecchia palla da cricket, messo al posto di un orologio sulla mensola del caminetto del salotto; un biglietto con alcuni strani numeri scritti di getto e senza senso apparente. Tutto ciò sembra incomprensibile, come incomprensibile è la causa della morte delle vittime, sulle quali non viene trovata traccia di colluttazione oppure ferita. Inoltre, John Fenner e la ragazza sembrano essersi volatilizzati dalla faccia della terra. A questo punto Hazeldean, spronato da Kendall a non intralciare le indagini e ad essere d'aiuto, ha un'idea: sulla mensola del caminetto c'era pure una cartolina della città di Boulogne, in Francia. Può essere che zio e nipote si siano recati laggiù per qualche oscuro motivo? Nemmeno il tempo di pensarlo e il giovane giornalista ha già raggiunto i bastioni che circondano la città vecchia, la Haute-Ville. Laggiù, tra strani venditori di stoffe e pensioni rintanate all'ombra delle mura, si trova forse la soluzione del crimine di Haven House? Oppure la chiave giace in qualche altro posto, e mille miglia di distanza e immerso in un passato dal quale sta cercando prepotentemente di risalire? Tra fughe rocambolesche, incontri con personaggi eccentrici, scontri e tranelli tesi da amici e nemici, sarà Kendall a tessere le fila di una verità che affonda le radici in una spiacevole esperienza per i sette cadaveri che hanno trovato la morte a Haven House.
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Old postcard of Boulogne-sur-Mer, raffigurante la Città Vecchia dentro i bastioni |
Nell'introduzione qui sopra, ho accennato al fatto che alcuni lettori abbiano espresso un giudizio negativo nei confronti di "La Casa dei Sette Cadaveri". Forse sarebbe stato meglio che avessi specificato come
quasi tutti si sono lamentati di come la sua storia è stata tratteggiata, al pari dei responsi sulla sua opera in generale. Appartenendo alla Golden Age, infatti, la narrativa di Farjeon dovrebbe essere più convenzionale dal punto di vista della forma stilistica e meno da quello dei contenuti, a detta dei suoi detrattori; senza portare con sé quegli elementi stilistici che dovrebbero essere relegati al passato, in favore di altri più innovativi e quindi migliori. Sono tutte cose che ho già spiegato nella recensione di "
Sotto la Neve", ma ve le riassumo qui in breve: alcuni hanno lamentato una gravissima carenza di
fair play dal punto di vista dell'enigma, altri il fatto che le trame dei suoi romanzi del mistero non siano focalizzate ed equilibrate a dovere, dal momento che si perdono in digressioni inutili oppure lasciano presagire altissime premesse che poi, immancabilmente, vengono deluse. Altri ancora sono convinti che i personaggi siano scialbi, oppure che il ritmo dell'azione non riesca mai ad ingranare la seconda marcia. Insomma, se dovessimo basarci solo su questi giudizi, probabilmente Farjeon dovrebbe essere cancellato dalla faccia della terra a causa del suo scarso talento. "Simpatici", "carini", "decisamente meno impeccabili" di altri, "resta un autore dai buoni propositi difficilmente mantenuti": sono questi i responsi che ricorrono maggiormente, quando si cerca qualche opinione sull'opera di Farjeon e, quindi, pure su "La Casa dei Sette Cadaveri". Eppure, è proprio così che stanno le cose? Voglio dire, non sarà che forse l'appassionato lettore di
crime novels tradizionali è un po' troppo esigente, abituato com'è a leggere spesso grandi capolavori? Il paragone, a mio modesto parere, potrebbe generare reazioni spropositate. Se ti trovi davanti a un
mystery con un treno bloccato dalla neve, la mente corre subito ad "Assassinio sull'Orient-Express" di Agatha Christie; e come si fa a reggere e vincere una sfida con quest'ultimo? La cosa migliore, secondo me, sarebbe quella di godere della storia senza avere l'intenzione di fare alcun accostamento
e poi, alla fine della lettura, giudicare se il libro in sé ci è piaciuto o meno. Se a quel punto il responso è negativo perché dettato dal gusto personale, lì è lecito fare una bocciatura; ma se c'è qualcosa da salvare, in tutto quanto, è giusto che a Cesare venga dato ciò che è di Cesare.
Pertanto, a mio giudizio, con l'opera di Farjeon bisognerebbe avere l'onestà intellettuale di accettare come certi aspetti dei suoi libri siano stati trattati molto bene e riconoscerlo. Certo, pur appartenendo alla Golden Age questi ultimi non sono esenti da difetti; però non riesco a comprendere come possa esistere questo accanimento contro di loro. Tanto più perché la critica del tempo e il pubblico in generale ha spesso apprezzato i suoi sforzi. Non solo H.R.F. Keating, ma anche Dorothy L. Sayers (conosciuta per essere spietata nei suoi giudizi pure con gli amici e i colleghi del Detection Club) ha espresso ammirazione nei suoi confronti per l'attenzione data agli ambienti, la leggerezza narrativa, la dolcezza nel saper modellare intrecci e personaggi; per non parlare poi di Curtis Evans. E se non fosse stato abile nel suo mestiere, perché l'autore avrebbe pubblicato quasi ottanta romanzi? Il suo editore non gli avrebbe permesso di farlo, se fossero stati troppo scadenti, e il pubblico li avrebbe rigettati se non fossero stati di suo gradimento. Inoltre, nel 2014 proprio la ripubblicazione di "
Sotto la Neve" ha generato un piccolo caso editoriale in Inghilterra, dove tale volume si è posizionato in alto nella classifica dei
bestseller. Sarà un caso, oppure la narrativa di Farjeon vale qualcosa? Pure altri titoli che sono seguiti a questo piccolo
exploit si sono venduti bene (non solo all'estero, ma pure in Italia), quindi forse i giudizi negativi che si leggono in rete sono dettati da mero gusto personale. E se così fosse, allora non è giusto bollare l'opera di questo giallista come scadente. Io stesso mi sono impegnato a riabilitarlo, in qualche modo. Già con la recensione di "
Sotto la Neve" ho provato a sottolineare quali siano i lati positivi (nonostante restino quelli negativi) di quello straordinario romanzo del mistero, e lo stesso farò con "La Casa dei Sette Cadaveri". Indubbiamente la trama non è un perfetto meccanismo ad orologeria, come in un giallo di John Dickson Carr, ma ciò non vuol significare che l'enigma sia tutto all'interno della classica
crime story: l'ho detto cento volte, ma a mio sindacabilissimo parere esso è importante tanto quanto gli altri elementi della storia (personaggi, ambientazione, stile e atmosfera generale). Il bello sta nel lasciarsi irretire dalla narrazione del caso, non soltanto nel mistero duro e puro: c'è molto di più in un giallo di quanto si pensi a prima vista e "La Casa dei Sette Cadaveri" lo dimostra.
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A View from the Heights, Walter Spies, 1934, raffigurante un'isola tropicale simile a quella del romanzo |
Allo stesso modo di come era stato per "
Sotto la Neve", credo che il punto forte del romanzo analizzato oggi sia la sua atmosfera, la quale lo rende molto strano e difficile da classificare all'interno di un ipotetico schedario del genere giallo. Esso infatti dà vita a vicende immerse in un'aura bizzarra, come evocate dentro un sogno i cui contorni si disperdono fino a scomparire. Non esiste un vero inizio, dal momento che il mistero affonda le proprie radici in un passato che allunga le dita nell'arco di anni e Ted Lyte si imbatte in cadaveri che sono sconosciuti allo stesso lettore (pp. 8-11, 25-27); però non esiste nemmeno una fine intesa nel senso più stretto del termine, se non viene considerato il brevissimo paragrafo con cui si conclude il libro (capp. 25-27). È come se noi assistessimo a un lungo racconto onirico, magari nato dalla mente di Lyte, di Hazeldean oppure di Kendall e fossimo spettatori passivi (pp. 29-31, 34, 37, 40, cap. 6, 73-74, 78-81, 87, 90-91, 95-96, 114, 123, 125-126, 141-142, 172, 186-187, 197-198, 205-206, 217); cosa tra l'altro sottolineata dal fatto che non ci vengono forniti indizi veri e propri su cui lavorare per riuscire a scoprire da noi la verità. Qui non abbiamo un enigma inteso come nel tradizionale senso che ad esso veniva attribuito, con tanto di struttura logica e svolgimento serrato, quanto una serie di vicende e azioni che saltano da un momento all'altro senza che venga rispettata una sequenza rigorosa: iniziamo con la scoperta dei corpi e dei primi rilevamenti, poi seguiamo Hazeldean salpare alla volta di Boulogne e laggiù ci perdiamo in un racconto dove cospirazioni e melodramma dominano la scena, per tornare a Benwick dall'ispettore e i suoi aiutanti intenti a mettere in pratica un genere di indagine simile a quella che ha reso famoso Freeman Wills Crofts, con tanto di tabelle orarie; per concludere con una tappa a Boulogne dove il giornalista e Kendall mettono insieme ciò che sanno e riescono a risolvere il mistero. Pertanto, "La Casa dei Sette Cadaveri" rappresenta ancora una volta come Farjeon interpretasse la
crime story: ovvero, un miscuglio tra
thriller e pura
detection, dove la cosa importante non è tanto CHI abbia commesso il/i delitto/i, ma piuttosto COME e PER QUALE MOTIVO si sia reso necessario agire in tal modo. Personalmente credo che questo punto di vista sia intrigante: invece di limitarsi a nascondere al lettore il colpevole, l'autore lo spinge a domandarsi molto di più sui retroscena dell'omicidio, mettendo in risalto i moventi e quanto essi possano celare. In "
Sotto la Neve" era accaduta la stessa identica cosa: il colpevole era stato pescato quasi a caso, ma ciò che aveva condotto all'atto di violenza aveva costituito il vero fulcro del racconto. Quindi, che dire a coloro i quali si sono lamentati dell'enigma? Che hanno ragione a considerarlo quantomeno insolito e particolare, ma non nell'affermare che esso sia indigesto: Farjeon intrattiene per tutto il tempo, pur rivelandoci l'assassino praticamente a metà libro, perché induce il lettore a non abbassare la guardia e a interrogarsi su cosa si nasconda dietro la morte di ben sette persone.
E come lo fa? In un modo che trovo sia sempre più la risposta giusta per ideare un crimine fittizio: cioè equilibrando quasi alla perfezione il tipo di indagine più classica con quella sensazionalistica, emozionale e istintiva caratteristica del thriller! Fa indagare i suoi due protagonisti (Kendall e Hazeldean) su fronti diversi, lontani l'uno dall'altro e con metodi che hanno poco in comune: il giornalista impulsivo e romantico, grazie al proprio spirito di osservazione e guidato da un colpo di testa suscitato dall'emozione che un quadro ha generato nel suo animo, raggiunge Boulogne dove lascia che siano la fiducia, la gentilezza, un modo di fare tanto cortese che non sfigurerebbe dentro un drammone vittoriano, a guidare le proprie azioni e a metterlo nei guai (Farjeon inserisce una vena avventurosa nei sui libri per dare ritmo al racconto); mentre l'ispettore gioca la propria partita a partire dalle armi che possiede oppure ha a disposizione (una mente analitica e un plotone di agenti ai propri ordini) per raccogliere prove indiziarie e seguire una pista sulla quale è sicuro di ottenere risultati, dal momento che riesce a toccare con mano ciò che disturba la sua ricostruzione degli eventi. Ai segni di pneumatici, ai fori di proiettile, alle palle da cricket e ai messaggi in punto di morte, Farjeon affianca impressioni, segnali premonitori, emozioni generate da corridoi bui e da paesaggi assolati. Io trovo assolutamente meraviglioso questo metodo; anche perché non bisogna trascurare che, in questo modo, l'autore tenta di accontentare un po' tutti i lettori, sia quelli che prediligono un'indagine analitica sia quelli che desiderano provare qualche brivido di terrore in più. Il fatto che riesca o meno ad equilibrare il tutto è dettato dal gusto personale e non voglio sindacare oltre. Resta il fatto, comunque, che chi si avvicina all'opera di Farjeon, a mio parere non deve aspettarsi indagini serrate, esami scientifici oppure interrogatori e rilevazioni specifiche sulla scena del crimine; quanto storie dove bisogna lasciarsi un po' trasportare al largo, in balia delle maree del tempo e dello spazio, senza pretendere di seguire una rotta prestabilita: qui sono l'avventura e l'intrigante atmosfera sognante, gli aspetti suggestivi ed ingentiliti dei personaggi e la leggerezza della narrazione di fondo, al limite dell'inconsistenza, ad occupare le vicende riguardanti la sorte dei sette cadaveri di Haven House. Farjeon scrive per i sognatori e i romantici come il sottoscritto, e forse è per questo che amo molto le sue storie. Bisogna cogliere il meglio da esse, pur senza dimenticare di sottolineare i difetti che di tanto in tanto emergono nel corso della lettura, ed evitare di dare giudizi troppo affrettati e negativi alla sua opera.
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Joseph Jefferson Farjeon, nato nel 1883 e morto nel 1955 |
Alla pari dei suoi gialli, Joseph Jefferson Farjeon fu un personaggio insolito per il suo tempo. Nato nel 1883 a Londra, in una famiglia in cui la cultura era di casa (suo padre Benjamin Leopold fu un importante romanziere, sua madre Maggie fu figlia di un noto attore dell'epoca, i fratelli Harry, Eleanor ed Herbert rispettivamente un compositore, un'autrice di libri per bambini e un critico teatrale), studiò in città fino al 1910, quando iniziò a lavorare per la Amalgamated Press, una casa editrice specializzata in riviste umoristiche. Per dieci anni mantenne l'impiego, finché non riuscì a pubblicare il suo primo libro, "The Master Criminal" del 1924. Uomo schivo e mite, "Joe" (come lo conoscevano gli amici) iniziò così la sua carriera di esponente di pregio della Golden Age del giallo anglosassone, benché declinata al
thriller piuttosto che al tradizionale
mystery deduttivo. Il suo marchio distintivo era l'originalità, tanto che non si fece frenare dalla prolificità (pubblicò circa ottanta volumi, a volte usando lo pseudonimo di Anthony Swift) e, in barba al
cliché che vede la produzione forsennata di romanzi come sinonimo di mediocrità, riuscì addirittura a stabilire un ottimo rapporto con la critica (oltre agli autori sopra citati, venne elogiato anche dal drammaturgo americano Paul Wilstach e dallo studioso William Lyon Phelps). Vegetariano e pacifista (il suo "Death of a World" è un'appassionata protesta contro la corsa al riarmo dopo la Seconda Guerra Mondiale), Farjeon si distinse nella moltitudine di scribacchini di mysteries sensazionalistici per la scrittura ingentilita e legata al proprio
background familiare. Infatti, oltre ad essere stato un appassionato fotografo e disegnatore di animali buffi (buffi perché li disegnava lui, beninteso), fu sempre molto interessato agli umili; interesse che ereditò da suo padre, al punto di diventare un empatico sostenitore della povera gente, la quale spesso ottiene una rivalsa all'interno dei suoi romanzi. Ad esempio, in alcuni di essi il protagonista è Ben, uno strano vagabondo che risolve casi misteriosi, alla maniera di un prosaico emulo del colto investigatore dilettante della tradizione classica, il quale vide evolvere la propria personalità e diventò uno dei più improbabili
detective della sua era. Lo stesso Ben, per giunta, apparve nell'opera più ricordata di Farjeon: l'adattamento a sceneggiatura per Hitchcock della
piece teatrale "Numero diciassette". Quest'ultima gli permise di ottenere grande popolarità su entrambe le sponde dell'Atlantico, oltre da aprirgli le porte della collana Collins Crime Club fino al 1955, quando Farjeon morì di cancro a Hove, nel Sussex.
Per allora, l'autore aveva dato alle stampe numerosi e diversi romanzi: tra i più famosi, ricordiamo "The Windmill Mystery" (1934), ambientato presso un sinistro mulino a vento e dedicato alla memoria della madre; "Holiday Express" (1935), che sfrutta il classico delitto in treno per esplorare la figura del giovane ragazzo protagonista; "Thirteen Guests" (1936), in cui avviene un delitto in una casa di campagna durante una tipica festa; "End of an Author" o "Death in the Inkwell" (1938), per il quale Farjeon trasse spunto dalla sua stessa esperienza, in modo da tracciare un complesso caso in cui uno scrittore di thriller e la sua segretaria corrono pericoli di ogni sorta; "The Judge Sums" (1942), in cui l'autore si cimenta nel giallo giudiziario mescolandolo a un caso reale; e "Gli Omicidi della Z", dove ci sono sì più omicidi, ma sullo stile della catena da serial killer; oltre ai già citati romanzi su Ben (come "Ben on the Job" del 1952) e "Death of a World". Ognuno di questi libri si distingue per stile, ambientazione e personaggi; e "La Casa dei Sette Cadaveri" non fa eccezione. Sfido chiunque a dire che non sia stato un piacere seguire le vicende raccontate capitolo dopo capitolo, partendo dall'inizio sorprendente fino all'altrettanto straordinario finale, calate in un'atmosfera resa magnificamente e dove la tensione non viene mai a mancare. Le premesse non vengono deluse, se si parte con l'idea di affrontare un racconto dove l'enigma ha una struttura poco dettata dal mero raziocinio: poesia e romanticismo dominano sui fatti tratteggiati, dove spesso e volentieri ci vengono presentate scene un po' desolate ma affascinanti. La corsa attraverso il giardino di Haven House mentre squilla l'avvisatore acustico del telefono, l'introduzione illegale di Ted Lyte nella casa con tutto il carico emotivo che essa comporta, l'arrivo di Hazeldean a Boulogne e l'intenso incontro con Dora Fenner, i continui flashback con cui l'autore permette a Kendall di ricostruire ciò che è accaduto in passato; ogni cosa è stata creata per caricare di sentimento la lettura e generare qualche tipo di emozione, che sia piacevole oppure no. Tutto è come cosparso di un leggerissimo velo di polvere, quasi Farjeon avesse avuto intenzione di evocare incantevoli scene appartenenti a un tempo trapassato già nel 1939 usando il proprio stile: la vita alla pensione di Madame Paula riecheggia ricordi del romanzo vittoriano, come pure l'interazione piena di affetto e galanteria tra Hazeldean e Dora Fenner.
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Copertina dell'edizione inglese pubblicata dalla British Library Crime Classics |
È come se i fatti fossero stati cristallizzati nell'ambra, in una nostalgica "sospensione temporale" che permette di calarci in un contesto antiquato (con tanto di storia d'amore d'altri tempi, pp. 57, 65-67, 131-134, 143-144, 215-219) per assistere a vicende di straordinaria quotidianità od ordinaria eccezionalità, pur restando nel nostro presente. Ci muoviamo assieme ai personaggi in ambientazioni rese in modo dettagliato e vivido, quali case sulle scogliere, baie in cui attraccano barche, cittadine sulla costa e antiche cittadelle come la Haute-Ville di Boulogne (mi viene sempre voglia di partire e visitarla sul serio), con bastioni assolati e immersi nel verde degli alberi che scuotono le loro chiome al vento, isole tropicali inospitali e popolate di pinguini (pp. 8-12, 24-25, 30, 37, 40, 45, 55-56, 59-64, 72-74, 104-106, 123, 158, 170-171, 191-192, 199, 217, 219-220). E lo facciamo sempre dentro un racconto piacevole, nel quale si alternano l'aura di tranquillità con quella del pericolo e di sensazionali scoperte, in cui non manca il brio di ironici personaggi immersi in situazioni avventurose (pp. 15-16, 23, 36, 47, 71, 74-75, 86-87, 160-161, 165, 167-170). L'intreccio è di sicuro complesso ed ingegnoso, ma non risulta particolarmente sgradevole perché inserito in un contesto dal ritmo sostenuto, lento al punto giusto per poter assaporare e comprendere fino in fondo ogni cosa, mentre gli indizi vengono rivelati poco a poco. In fondo, la narrativa di Farjeon (come in questo "La Casa dei Sette Cadaveri") è simile a quella di una favola venata da un pizzico di mistero, nella quale si possono trovare gaglioffi e antagonisti che mettono in pericolo gli eroi, oggetti che nascondono un passato burrascoso e addirittura spettri evocati dalla mente umana. Tuttavia, basate bene: questo non significa che l'autore abbia sfruttato soltanto il lato emozionale del genere giallo, ma ha messo insieme tradizione e psicologia senza calcare troppo la mano sul melodramma; si è limitato alle cinquanta pagine della digressione di Hazeldean a Boulogne per farlo, mentre per il resto si è affidato all'indagine più pragmatica di Kendall. Al cuore dello stile dell'autore c'è il confronto della solidità con l'impalpabile e il fantastico, in cui avventure divertenti si affiancano ad oscure minacce che emergono dal passato. Questi è un fattore che gioca un ruolo non indifferente all'interno della storia: esso si affaccia tra le righe ad ogni piè sospinto, inesorabile, impossibile da sradicare, eterno e inscindibile dalla tradizione. Ed influenza l'essenza dei personaggi, i quali agiscono proprio come se fossero guidati dalle scoperte che fanno su quanto avvenuto in precedenza. Anche loro, proprio come tutto il resto, appaiono un po' sfuocati, con contorni poco nitidi, ma credo che sia una cosa voluta dall'autore per sottolineare questa aura di irrealtà.
Certo, essendo pochi non è difficile indovinare il colpevole; però li ho trovati perlopiù vividi e simpatici: Hazeldean è il ritratto del giovanotto un po' testa calda che si innamora per un colpo di fulmine e fa di tutto per raggiungere i suoi scopi, che siano di carattere sentimentale oppure no (pp. 46-47); il dottor John Ferrer possiede l'aspetto del professore un po' stralunato e nervoso, così come Madame Paula e la sua servitù incarnano lo stereotipo che il romanzo vittoriano ci ha consegnato. Interessanti sono stati i ritratti (purtroppo in breve) delle sette vittime, alcune delle quali avrebbero meritato un po' più di risalto all'interno di un romanzo... se solo non fossero state ammazzate (da notare Jane, l'unica donna del gruppo, che veste come un uomo e non vuole condividere la sua vita privata con gli altri. Forse un segno di velata omosessualità? Se così fosse, sarebbe importante visto l'anno di uscita del libro). Anche Kendall e Wade, con i loro battibecchi e l'interazione reciproca piena di riferimenti alla crime fiction (pp. 38, 167), sono riusciti ad emergere dal gruppo, assieme ad Hazeldean: uno è logico e astuto, l'altro un po' sempliciotto ma capace di cogliere le falle nei ragionamenti del suo superiore e di suggerire nuove piste da seguire. Chi mi ha colpito di più, tuttavia, è stata Dora Fenner. Tratteggiata come una ragazza un po' anonima e forse troppo scostante, non darebbe l'idea di avere chissà quali caratteristiche particolari, vero? E invece lascia emergere una forte insicurezza che le dona spessore (pp. 72-93, 204-205). Spesso dice "sono una sciocca", si scusa con Hazeldean a più riprese, fa confusione e si rimprovera da sola, non sopporta litigare col prossime e si sente sempre in colpa, anche quando è dalla parte della ragione: in questo atteggiamento ho rivisto molto di me stesso e per questo l'ho sentita vicina al mio stato d'essere. Non sottovalutatela. E non sottovalutate "La Casa dei Sette Cadaveri" in generale, nonostante i pregiudizi che potete nutrire nei suoi confronti. Come dicevo, se riuscite a non caricarvi troppo di aspettative sul fair play del mistero, questa sarà una lettura gradevole che non dimenticherete presto. Farjeon è uno scrittore straordinario, capace di irretire e di ammaliare come il Pifferaio di Hamelin, giocando con la fantasia e intrecciandola con meraviglia e immaginazione per dare vita a indagini insolite e diverse da quelle della tradizione.
N.B. Ho notato che questo romanzo viene dato come "inedito" ma non è così. Il preciso Pietro De Palma ha sottolineato, nella sua recensione al titolo, come Aldo Martello Editore lo abbia pubblicato sotto il titoli di "La palla da cricket" negli anni '50, nei Gialli del Veliero.
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