Copertina dell'edizione pubblicata nei Classici del Giallo Mondadori n. 937 |
Fotografia di una Londra notturna negli Anni '30, come può essere in "L'Arte di Uccidere" |
A questo punto, però, è la volta di Bencolin di chiedere altre informazioni sulla strana apparizione: nella Londra del XX secolo non capita tutti i giorni di imbattersi in una forca, e il fatto che l'egiziano Nezam El Moulk, uno dei testimoni del caso francese, alloggi proprio al Brimstone Club solletica la sua curiosità e il suo senso del pericolo. Infatti, l'uomo di punta della polizia francese teme che possa verificarsi qualche evento spiacevole; e quando verrà rinvenuto un patibolo in miniatura proprio al Club, Bencolin capirà che qualcosa di sconvolgente si sta preparando a piombargli tra capo e collo. La successiva scomparsa impossibile di El Moulk, verificatasi nella sua auto in corsa e guidata da un autista cadavere, e il succedersi di altre strane circostanze (tra cui l'annuncio che il poveretto è stato impiccato proprio da Jack Ketch lungo Via della Rovina, una strada che nelle capitale non esiste) lo convincono di trovarsi di fronte a un caso del tutto fuori dal comune; tanto più che i testimoni e gli amici dell'egiziano (un segretario subdolo, una femme fatale sull'orlo di una crisi di nervi, un medico appassionato di delitti storici, un giovanotto coinvolto nel caso francese e un piccolo inserviente del Club) sembrano avere ben più di un movente per aver messo in atto un delitto del genere, ma sono privi delle qualità necessarie a portare a termine un piano tanto elaborato. A questo punto Bencolin decide di buttarsi nell'indagine, affiancato da Marle e Sir John; ma dovrà passare un bel po' di tempo prima che riesca a trovare il bandolo della matassa e a smascherare Jack Ketch, mentre altre persone muoiono sulla strada che porta alla Rovina e la salita verso la meta si fa sempre più pericolosa.
Copertina dell'edizione paperback di "L'Arte di Uccidere" |
Infatti, se in primo luogo sono le ambientazioni a costituire il punto forte (e debole allo stesso tempo) di questi primi gialli, non bisogna dimenticare anche lo stile solenne con cui le tratteggia. Una volta Dorothy L. Sayers disse: "John Dickson Carr ci trasporta dal piccolo, artificiale mondo del comune intreccio poliziesco nell'oscurità minacciosa che sta al di fuori. È in grado di creare un'atmosfera con un aggettivo e di rendere un'immagine da una cancellata di ferro, un tavolo impolverato, una lampada a gas che spunta dalla nebbia. Può metterci in apprensione con un'illusione o deliziarci con un'allegra assurdità. Ogni frase ci dà un brivido di convinto piacere"; ebbene, vi sfido ad essere in disaccordo con lei, soprattutto dopo aver letto "L'Arte di Uccidere". Prendendo spunto ancora una volta dai romanzi avventurosi del secolo precedente, infatti, egli unisce una narrazione animata e pittoresca, che colloca la sua opera tra le più vive e leggibili di tutta la crime story, a un tono sarcastico, mellifluo e teatrale, molto fosco ma pur sempre eccellente, che non fallisce nell'ornare i suoi incubi fittizi. Questa unione di tecnica a tinte forti e atmosfera eccessiva restituisce l'idea che Carr, come egli stesso sottolineò, intendesse scrivere crime novels particolari, ispirati alle opere di cappa e spada che aveva letto anni addietro ma in cui non intendeva rinunciare all'elemento della detection, i quali costituiscono il prototipo dei suoi libri successivi, in cui questi aspetti sono pur sempre presenti, anche se meno invasivi, e come tali andrebbero considerati. Si tratta di romanzi imperfetti che, come ho sottolineato, dimostrano senza dubbio l'inesperienza e le influenze letterarie di Carr, pur restando sempre affascinanti. Personalmente, da fan del mistero con la giusta dose di suspense (come avrete capito dalla recensione di "Svanita nel Nulla"), ho apprezzato molto il drammatico risultato finale, anche se mi rendo conto di come esso possa apparire forzato e sovrabbondante: alcuni, infatti, accusano la serie di Bencolin di essere fin troppo teatrale ed esagerata nei toni, e di indugiare tanto in essi da impedire al lettore di godersi la storia e di prendere fiato, insieme al fatto che l'enigma non è stato curato alla perfezione. L'identità di Jack Ketch, sostengono, è facilmente individuabile, e i "problemi impossibili" dell'apparizione misteriosa degli oggetti nell'appartamento di El Moulk e dell'auto che si guida da sola non vengono considerati come tali, col risultato di intaccare l'aura di magia caratteristica delle storie in cui una spiegazione razionale non sembra esistere. Ebbene, non voglio negare che i difetti ci siano; tuttavia, sono convinto che si tratti di piccolezze, le quali si possono perdonare al Carr alle prime armi. Dopotutto, una certa solennità ben si addice alla serie con Bencolin, dove la vendetta risulta spesso il movente dell'assassino e l'onore gioca un ruolo di primo piano; mentre l'enigma, pur di livello inferiore rispetto a quello di altri capolavori, dimostra un'inventiva indiscutibile e buone intenzioni, oltre al fatto che, pur in modo abbozzato, mette già in luce l'intenzione dell'autore di voler creare giochi di prestigio "alla Maskelyne", in cui conta più il metodo della psicologia.
L'ingegnosità delle trame e il fascino per "l'impossibile che diventa realtà", oltre che per i trucchi di prestigiatori come quello sopra citato, sono sempre state caratteristiche innate di John Dickson Carr (o Carter Dickson, per usare lo pseudonimo con cui firmò i romanzi con Henry Merrivale), alla pari del concetto di voler "giocare una partita" col suo pubblico ad armi pari. La pretesa del rispetto del fair-play e la scommessa che poneva in ognuno dei suoi numerosi libri (come quella a p. 44 di "L'Arte di Uccidere", tra Bencolin-Carr e Landervorne-lettore) farebbero pensare che egli fosse nato in Inghilterra, la patria del giallo deduttivo; invece, la città che gli diede i natali fu l'americana Uniontown, in Pennsylvania. Laggiù, mentre suo padre aveva felicemente intrapreso la carriera di avvocato e pregustava una futura associazione col figlio, Carr iniziò invece il lungo percorso che lo avrebbe portato a diventare uno dei giallisti più famosi di tutti i tempi: dapprima, dimostrando una memoria formidabile con la recitazione di monologhi tratti da "Amleto", pagine di D'Artagnan, Sherlock Holmes e "Il Mago di Oz"; e poi attraverso la scrittura di racconti, pubblicati sul giornale scolastico dello Haverford College, dove esordì la figura del giudice istruttore Henri Bencolin di Parigi. Nel 1928, lo scarso rendimento scolastico spinse i suoi genitori a compiere la scelta estrema di allontanarlo dagli Stati Uniti in favore della Francia, dove avrebbe dovuto studiare alla Sorbonne. Il posto, tuttavia, non si addiceva a un giovane dalle idee conservatorie come lui e la vita da bohémien trovò una ferma opposizione da parte sua; eppure, l'ambiente si mostrò favorevole per dare il tocco finale al romanzo che stava scrivendo. Fu così che nacque "Il Mostro del Plenilunio", la versione ampliata e rivista di un lungo racconto che Carr aveva scritto ai tempi della scuola americana, "Grand Guignol", proprio con Bencolin quale personaggio principale. Il modesto successo che arrise al suo protagonista, rispetto ai successivi Fell e Merrivale, per qualche tempo costrinse Carr a tornare in America dai genitori; finché, nel 1930, durante una crociera, incontrò Clarice Cleaves, una ragazza di Bristol che poco dopo sarebbe diventata sua moglie. È curioso come proprio "Il Mostro del Plenilunio" sia stato il tramite attraverso cui Carr e Clarice iniziarono a scambiarsi le prime confidenze: in "The Golden Age of Murder", infatti, Martin Edwards ha spiegato che, in seguito al loro primo incontro nella sala del parrucchiere di bordo, i due futuri sposi trascorsero una serata a ballare e chiacchierare del più e del meno, finché Carr non accennò al fatto che aveva scritto una detective novel e chiese a Clarice se le avrebbe fatto piacere leggerla. In realtà, la ragazza non nutriva un particolare interesse in indagini e assassini fittizi; eppure, non ebbe cuore di deludere le evidenti aspettative del suo nuovo amico ed accettò di dargli un responso su quel libro. In quel modo, tra i due scoccò la scintilla ed entro un paio d'anni si trasferirono definitivamente in Inghilterra, dove la novella signora Carr intendeva far nascere le sue figlie. Anche suo marito (che nel frattempo aveva deciso di abbandonare Bencolin in favore di altri due personaggi molto simili tra loro, il dottor Gideon Fell e l'avvocato Henry Merrivale) fu entusiasta della scelta: dopotutto, era la patria dei suoi idoli d'infanzia, Chesterton e Doyle (del quale in seguito fu co-autore della biografia ufficiale), e sembrava che laggiù fosse il posto ideale per scrivere gialli sullo stile tradizionale; senza contare il fatto che la Storia dell'Europa cui poteva attingere avrebbe fornito molto materiale per il tipo di libri che intendeva scrivere.
John Dickson Carr, nato nel 1906 e morto nel 1977 |
Un'altra caratteristica dell'opera di Carr, infatti, è quella di affondare le proprie radici in miti e leggende molto antiche: ne sono un esempio le numerose citazioni che possiamo trovare all'interno di romanzi come "Il Terrore che Mormora", la cui trama ruota sul vampirismo, oppure dello stesso "L'Arte di Uccidere". Qui sono i culti segreti, le maledizioni e la religione degli antichi Egizi, assieme ai più recenti racconti sul boia di Londra, Jack Ketch, ad occupare la trama e a fornire la base per i misteri del libro, insieme ai riferimenti generali a streghe e folletti (da notare la citazione alla "Canzone di Tom O'Bedlam", dove viene menzionato un hungry goblin che tornerà nel titolo originale di "Il Mistero di Muriel", l'ultimo suo romanzo pubblicato nel 1972, pochi anni prima della morte). Si tratta di argomenti che, proprio grazie alla loro aura di velato soprannaturale, si prestano ad essere interpretati e sfruttati in modo da fornire al lettore una base relativamente reale per un delitto immaginario, e che permisero a Carr di dare sfogo a un'insaziabile sete di ricerca storica. Questa passione emerge dalla lettura di alcuni romanzi giallo-storici, come "La Sposa di Newgate", "Il Diavolo Vestito di Velluto" e "La Corte delle Streghe" (uno dei suoi capolavori) e viene spesso incarnata dai personaggi dei suoi gialli, come ad esempio il dottor Pilgrim in "L'Arte di Uccidere" (vedasi p. 139 e p. 145). Tuttavia, fu il Delitto l'argomento a cui Carr si sentì più legato; tanto che i suoi detectives soffrirono di una vera e propria ossessione nei confronti della Storia del Crimine: Bencolin, Merrivale e Fell, infatti, di volta in volta si fecero portavoce dei pensieri dell'autore, attraverso semplici citazioni (pure di casi reali, come avviene in "Occhiali Neri") ma anche con l'utilizzo di piccole "conferenze" sull'omicidio e la sua applicazione nei romanzi del mistero. Senza contare il breve scambio di battute sulla mentalità dell'assassino alle pagine 10-12, in "L'Arte di Uccidere" se ne può leggere una prova nel dialogo che Marle e Bencolin mettono in scena alle pagine 91-95: in questa occasione, i due discutono sui meriti della crime story e sui metodi utilizzati dagli autori nel trattare l'enigma; e se Marle, da buon Watson di turno, sembra propenso a considerare la realtà delle cose più eccitante della finzione, il suo compagno si dichiara fermamente contrario. È la fantasia a dare forma al mondo reale, sostiene Bencolin, per cui lo scrittore non deve sforzarsi di tradurre con troppo rigore la realtà che lo circonda in materiale per i suoi libri, ma limitarsi a narrare una storia che, per quanto possa apparire a volte improbabile e con personaggi simili ai burattini del teatro citati a p. 143, procuri divertimento al lettore.
Un assunto che dimostra al meglio quale fosse la concezione di Carr riguardo il romanzo giallo: costruire vicende credibili in cui, tuttavia, non mancasse quel pizzico di irrealtà che li contraddistingue da mere cronache. Non per caso egli fu il primo americano ad essere ammesso nel Detection Club, grazie al sostegno di Dorothy L. Sayers e Anthony Berkeley; dopotutto, sono evidenti la comunione di interessi per il true crime e intenti a cui egli stesso e gli autori della Golden Age miravano. Nei suoi gialli, infatti, si possono ritrovare diversi elementi che rimandano alla crime story di quel periodo: a parte l'ambientazione, i personaggi vedono un evolvere della propria situazione, di libro in libro, e possiedono caratteristiche particolari che li contraddistinguono dalla massa (gli investigatori sono bruschi e imponenti, onniscienti e sanguigni; gli antagonisti subdoli e intelligentissimi; i comprimari come El Moulk sono interessati ad argomenti insoliti o provengono da luoghi esotici, da cui traggono la loro mentalità particolare; spesso sono presenti eroine femminili in pericolo) e gli enigmi sono costruiti con una tecnica che li rende spettacolari, fuori dal comune; un po' alla maniera di quelli di Ellery Queen, come ha sottolineato Howard Haycraft. Si tratta di favole soprannaturali dalle soluzioni apparentemente incredibili, a volte tanto complesse da non permettere al lettore di riuscire a risolvere il mistero prima che l'autore ce lo sveli, in cui il finale lascia spiazzati e sorpresi; come in questo "L'Arte di Uccidere", dove il lato satanico di Bencolin emerge in tutta la sua forza e il pubblico viene lasciato col fiato sospeso fino allo scioglimento del tutto logico del caso. Un'opera divertente e tutto sommato convincente, a mio parere, da leggere in una di quelle sere dove il buio avanza fuori dalle finestre e immaginiamo la brughiera immersa in un limbo temporale, e la nebbia preme contro i muri a nascondere le ombre.
Link all'edizione italiana su Amazon