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venerdì 23 aprile 2021

69 - "Il Mostro del Plenilunio" ("It Walks by Night", 1930) di John Dickson Carr

Copertina dell'edizione in lingua originale
pubblicata dalla British Library Crime
Classics
Se siete assidui frequentatori ed attenti lettori di Three-a-Penny, ricorderete come circa un paio di anni fa (quanto corre veloce il tempo!) mi ero deciso a recensire "L'Arte di Uccidere" di John Dickson Carr, il secondo romanzo giallo scritto dal Maestro del delitto della camera chiusa, con protagonista l'uomo di punta della polizia parigina Henri Bencolin. In quell'occasione, per introdurre il discorso sull'opera, mi ero soffermato sul fatto che l'editore inglese British Library, all'interno della collana "Crime Classics" curata dal critico Martin Edwards, avesse in programma di ripubblicare in lingua originale l'opera prima di questo scrittore, quel "It Walks by Night" che tanti problemi di cessione dei diritti e copyright aveva dato impedendo così una sua ricomparsa sugli scaffali da libreria per moltissimo tempo. Ebbene, alla fine la faccenda è andata in porto: il titolo è stato reso disponibile e questo piccolo grande miracolo ha permesso a chiunque padroneggi abbastanza l'inglese di gustare di nuovo l'oscuro fascino e l'ambigua bellezza di questo esordio che tanto già rivelava sulla narrativa di Carr. Con l'aggiunta in appendice, tra l'altro, di un racconto in cui indaga sempre Bencolin, dal titolo "The Shadow of the Goat". In Italia, purtroppo, le cose non sono andate altrettanto bene: se da una parte esiste una traduzione risalente agli anni '50 del secolo scorso, essa risulta ormai "fuori moda" in quanto alla terminologia usata e piena di tagli al testo originale, oltre a presentare un errore eclatante e madornale che influisce sulla scoperta del colpevole. E la cosa più grave è che pare non sia in cantiere alcuna ritraduzione o svecchiamento di quella già presente nelle edizioni italiane (soltanto tre, tra l'altro difficili da rintracciare se non nei mercatini dell'usato e nelle piattaforme web di compro-vendo libri). Personalmente, credo sia un fatto serio che un'opera tanto celebrata, famosa e avvincente quale "It Walks by Night" non sia stata ancora resa disponibile per il lettore italiano di classica crime story; eppure, finché non si deciderà di investire su di una nuova traduzione, le cose non cambieranno oppure lo faranno difficilmente: la soluzione più attuabile che mi viene in mente, sarebbe quella di fare un confronto tra il testo originale in lingua inglese e la traduzione anni '50 in italiano, per completare quest'ultima con le parti mancanti.

Siccome da tempo desideravo rimettermi in pratica nella traduzione, dopo gli sforzi perseguiti su "The Golden Age of Murder", io stesso ho deciso di tentare un'operazione del genere. Tempo fa mi sono procurato una copia del volume in lingua inglese; e poiché avevo già in mio possesso il volumetto dei Classici del Giallo Mondadori tradotto, in una settimana mi sono impegnato a fondo per selezionare i paragrafi che sono stati tagliati ed ignorati dalla precedente traduttrice... col risultato che, alla fine, ho rimesso mano all'intera lunghezza del romanzo e lo ho trasposto in italiano da cima a fondo. Infatti, ben presto mi sono accorto di quanto fosse povero il testo dell'edizione riportata al numero 196 dei Classici del Giallo, privo com'era di molte parti narrative che sono a tutti gli effetti spezzoni integranti la narrativa di Carr. Il risultato finale, a mio parere, si è discostato moltissimo da quello della prima trasposizione nella nostra lingua: se l'atmosfera da incubo tanto caratteristica della letteratura del Maestro del delitto della camera chiusa era stata quasi del tutto cancellata e ridotta, adesso essa trasudava dalle pagine in una sorta di abisso profondo, un buco nero che inghiotte quanto incappa nella sua strada. Ribadisco ancora una volta il concetto che gli appassionati di giallo in Italia si meritino una traduzione decente di questo esordio a dir poco impressionante, dove sembra di camminare attraverso una specie di sogno ad occhi aperti, in cui si intrecciano eventi mostruosi come decapitazioni, bagni di sangue, sorprese sgradevoli al chiaro di luna, scene impressionanti alla luce fioca delle candele, assieme a idilliaci incontri in camere arredate secondo lo stile vittoriano e intime discussioni sotto pioppi e altri alberi scossi dal vento e irradiati dal sole primaverile. Nel frattempo, io mi impegno a presentarvi questo romanzo seguendo il testo originale: non sia mai che qualcuno si renda conto della grandiosità dell'enigma che esso racchiude, oppure della maestosa solennità delle descrizioni che l'autore fa nel corso del racconto, e decida di dare il giusto riconoscimento a quello che in italiano viene chiamato "Il Mostro del Plenilunio" (Classici del Giallo Mondadori n. 196, 1975).

Caffè Greco, Renato Guttuso, 1976, simile al locale
Fenelli in cui si svolge parte della trama
Ad accentuare questo carattere gotico e impressionante, la storia inizia con la descrizione di un mostro mitologico; quel lupo mannaro che popola le fiabe dei bambini e le storie del folklore degli adulti soprattutto nel centro Europa. Il giovane Jeff Marle si è visto recapitare un volume con all'interno questo testo da Henri Bencolin, l'uomo di punta della polizia parigina e suo intimo amico, poco prima che loro due si rechino al Club Fenelli per occuparsi di una faccenda che riguarda il proprietario del libro. Infatti, Bencolin ha chiesto al professor Grafenstein, un luminare delle malattie psichiatriche di Zurigo, di raggiungere lui e Marle in un'alcova del salone principale del locale per discutere di Alexandre Laurent, un giovanotto all'apparenza sano di mente ma che qualche tempo prima ha tentato di ammazzare la novella sposa con un rasoio, in una sorta di quieto raptus. Laurent è un appassionato lettore di storie del terrore e di miti raccapriccianti, oltre che di poeti maledetti e altre amenità; e Bencolin è a disagio nel dover constatare che, dopo un periodo di prigionia in un ospedale psichiatrico, Laurent sia riuscito a fuggire. Cosa più grave ancora, l'ex signora Laurent, madame Louise, si è lasciata alle spalle la traumatica esperienza col precedente marito (o almeno ha fatto il possibile per dimenticare) e nel frattempo si è risposata con un aristocratico atletico ma un po' ingenuo, il Duca di Saligny. Quindi, è chiaro come Laurent possa diventare un pericoloso avversario per la coppietta. In realtà, egli ha già inviato un messaggio minatorio a Louise e ha fatto una fugace apparizione nel bagno della casa di alcuni amici dei due, i coniugi Kilard, per poi scomparire nel nulla. Inoltre, poco dopo essere fuggito dal manicomio, Laurent si è recato da un chirurgo plastico della malavita, si è fatto cambiare i connotati del volto e, per concludere al meglio l'opera, ha ammazzato il medico che poteva smascherarlo. Tutta questa storia viene riferita da Bancolin a Grafenstein, e il primo si domanda se non sia il caso di farsi affiancare dal luminare per risolvere lo spinoso problema dell'ossessione di Laurent; magari il dottore potrebbe dargli una parere pure su Saligny e madame Louise, i quali si trovano proprio da Fenelli.

E infatti, poco dopo, la donna si avvicina al loro tavolo. Si tratta di una bellezza un po' oscura, affascinante, magnetica ma, allo stesso tempo, offuscata da un velo di malinconia mista a tristezza e a un sospetto abuso di sostanze stupefacenti. Sedutasi, mostra segni di irrequietezza: teme che Laurent abbia seguito lei e Saligny per far loro pagare l'essersi sposati, e chiede protezione a Bencolin, il quale osserva pigramente il salone in cui si trovano. All'improvviso, proprio all'altro capo della stanza, il gruppetto scorge la schiena di un uomo che attraversa l'uscio che collega il salon alla sala da gioco: "eccolo là, il Duca" osserva annoiata Louise. Poi la porta si richiude alle sue spalle, precludendolo alla vista. Passano pochi minuti, durante i quali Marle si interroga sul destino impietoso che si è accanito sulla signora che siede al suo fianco e sulla pazzia di Laurent; poi un inserviente si avvicina alla porta attraversata da Saligny con un vassoio e, proprio sulla soglia, lo fa cadere a terra. Lo spettacolo che si presenta agli occhi del poveretto, del signor Fenelli e del gruppo nell'alcova (accorso senza dare nell'occhio) è terrificante e orrendo: il Duca di Saligny giace a terra come inginocchiato, in una pozza di sangue fuoriuscita dal moncherino della sua testa decapitata e sistemata con cura ad osservare, con occhi sgranati e vuoti, i tardivi soccorritori. Bencolin prende immediatamente in mano la situazione, convoca i suoi agenti sparsi sul piano nelle varie stanze e si assicura che nessuno possa interferire con le indagini che si appresta a compiere. Il primo ad arrivare è Francois, l'uomo migliore che il prefetto tiene alle sue dipendenze, il quale è stato piazzato all'altro capo della camera, davanti all'unica altra porta che conduce nella sala da gioco. "Ebbene?" domanda Bencolin, "è passato qualcuno da quella parte?". La risposta dell'agente è sconcertante: "No, signore". Come può essersi quindi volatilizzato l'assassino di Saligny? I tempi e gli alibi dei sospettati (tra cui figurano le conoscenze della vittima: Fenelli, madame Salingy, un tizio dall'aria aristocratica di nome Edouard Vautrelle, la coppia dei Kilard che si è allontanata sul presto dal locale, un giovanotto americano chiamato Sid Golton che ha tutta l'aria di essere ubriaco, una misteriosa ragazza che giace in un letto al piano di sopra) coincidono e sembrano completarsi l'uno con l'altro: allora, chi ha ucciso Saligny? Starà a Bencolin dimostrare come un delitto impossibile abbia potuto verificarsi ed incastrare l'assassino... ma non dopo che qualcun altro abbia presenziato al suo appuntamento con la Morte.

Piantina del secondo piano del locale Fenelli
Per essere un esordio, "Il Mostro del Plenilunio" di John Dickson Carr non è affatto male. Al suo interno ci sono alcune ingenuità, quello è sicuro; però mi sento di affermare con una certa sicurezza che se tutti gli autori di romanzi gialli, e non solo, fossero in grado di produrre come opera prima un libro di questo calibro, saremmo tutti molto fortunati. Perché, in sostanza, già da qui si possono riscontrare il talento acerbo e le tante caratteristiche che costituiranno in futuro la straordinaria narrativa del Maestro del delitto della camera chiusa; magari ancora abbozzati, ma comunque presenti e rintracciabili se si aguzzano gli occhi e il cervello. D'altronde, non è questo il primo sforzo letterario di Carr: in precedenza, egli aveva pubblicato qualche racconto sul "The Haverfordian", un giornale universitario, con protagonista proprio Henri Bencolin; per cui è comprensibile come "Il Mostro del Plenilunio" appaia in una forma quasi perfetta, derivando da "Grand Guignol" apparso su questa rivista nella primavera del 1929. Pertanto, ci troviamo di fronte a un mystery capace di stregare il lettore e di trasportarlo come dentro un'incubo, nonostante una certa tendenza al melodramma che un po' spezza il senso di realtà delle vicende narrate. Chiamato in un primo momento "With Blood Defiled", esso getta le proprie fondamenta su quell'aspetto che ha dato e darà sempre a Carr fama imperitura: il suscitare un'atmosfera gotica, tenebrosa, nella quale il lettore si dibatte come catturato e imbrigliato nella ragnatela di un enorme insetto. Quello che circonda i personaggi richiama il macabro in un eccesso di descrizioni fiume, vivide e oscure allo stesso tempo, attraverso l'uso di immagini suggestive come salotti immersi nella penombra, candele che ardono sopra tavole imbandite, chiari di luna contro edifici immersi nella penombra o al chiaro di luna, figure inquietanti che emergono dalle ombre negli angoli delle camere e delle strade, oppure bussano con dita frementi alle finestre per attirare le persone sprovvedute nelle loro grinfie tanto più umane di quanto si possa credere. Ogni cosa si staglia contro lo sfondo, quasi brillando di luce propria e imprimendosi nella mente del lettore che si lascia coinvolgere nel racconto e percepisce i fatti narrati molto più realmente di quanto non siano in realtà. Già, perché se da un lato Carr utilizza questa tecnica per dare risalto alle vicende, agli indizi e a ciò che avviene nel corso dei due giorni di indagine di Bencolin, dall'altro introduce uno spiccato senso di irrealtà in quanto narra. Non siamo ancora ai livelli di "Le Tre Bare" oppure "Il Terrore che Mormora"; in "Il Mostro del Plenilunio" le suggestioni vengono calcate e sottolineate a forza, proprio per inesperienza e timore di non riuscire a imprimere la giusta dose di dramma ai fatti.

Carr infila qualsiasi cosa gli passi per la mente, quando pensa al romanzo giallo dei primi anni del Novecento che ha furoreggiato in America (il suo paese natio) e a quello vittoriano proveniente dalle letture di gioventù nella biblioteca del padre (non solo Poe, Chesterton e Leroux, ma pure Dumas e i classici francesi del secolo precedete): un esempio è l'uso della spada come arma del delitto, quale ricordo dei duelli dei Tre Moschettieri e dei romanzi di cappa e spada; oppure le tormentate storie d'amore che vedono intrecciarsi i protagonisti. Inoltre, è presente una sorta di mistico Fato che agisce sopra ad ogni cosa, in una chiara citazione ai racconti in cui Padre Brown agisce ed egli si ritrova a riflettere su cosa siano il Bene e il Male. Ma oltre a questo, troviamo pure un gusto per la suspense davvero esasperato, che quasi non permette a chi legge di tirare il fiato e pare trascinare e strattonare il lettore a forza lungo le pagine che si sfogliano. Non avranno mai pace, sembra sogghignare Carr: poiché incarniamo il personaggio di Marle, spesso attonito di fronte agli eventi che si susseguono in rapida successione, prima si troviamo di fronte a un dialogo dai significati oscuri, poi veniamo presentati a una donna affascinante che ci racconta una storia incredibile su un fantasma che lascia cadere una cazzuola in un bagno, poi ancora rinveniamo un cadavere dalla testa mozzata che nessuno può aver decapitato. Dipingere e spiegare l'impossibile e l'assurdo è lo scopo dell'autore; spiazzare chi legge facendo leva sulle armi migliori su cui un giallista può contare, senza curarsi di apparire ridondante ed eccessivo. Per quanto mi riguarda, si è trattato di una mossa a doppio taglio: il mio gusto per il melodrammatico è stato ampiamente ripagato da questo modo di agire "sopra le righe", ma bisogna mettere in conto che il proverbio dice "il troppo stroppia". Pertanto, "Il Mostro del Plenilunio" si presenta sì come un esordio fantastico (inteso in più declinazioni) e che fa una sicura presa sul lettore, ma allo stesso tempo rischia di eccedere nel trattare le vicende con la misura giusta a cui ci si dovrebbe attenere. Un capolavoro imperfetto, ecco come si potrebbe considerare questo giallo di Carr.

John Dickson Carr, nato nel 1906 e morto
nel 1977
L'ingegnosità delle trame e il fascino per "l'impossibile che diventa realtà", oltre che per i trucchi di prestigiatori come quello sopra citato, sono sempre state caratteristiche innate di John Dickson Carr (o Carter Dickson, per usare lo pseudonimo con cui firmò i romanzi con Henry Merrivale), alla pari del concetto di voler "giocare una partita" col suo pubblico ad armi pari. La pretesa del rispetto del fair-play e la scommessa che poneva in ognuno dei suoi numerosi libri (come quella costituita dallo speciale sigillo che è stato messo nella prima edizione di "Il Mostro del Plenilunio", col quale sfidava i lettori a batterlo in astuzia) farebbero pensare che egli fosse nato in Inghilterra, la patria del giallo deduttivo; invece, la città che gli diede i natali fu l'americana 
Uniontown, in Pennsylvania. Laggiù, mentre suo padre aveva felicemente intrapreso la carriera di avvocato e pregustava una futura associazione col figlio, Carr iniziò invece il lungo percorso che lo avrebbe portato a diventare uno dei giallisti più famosi di tutti i tempi: dapprima, dimostrando una memoria formidabile con la recitazione di monologhi tratti da "Amleto", pagine di D'Artagnan, Sherlock Holmes e "Il Mago di Oz"; e poi attraverso la scrittura di racconti, pubblicati sul giornale scolastico dello Haverford College, dove esordì la figura del giudice istruttore Henri Bencolin di Parigi. Nel 1928, lo scarso rendimento scolastico spinse i suoi genitori a compiere la scelta estrema di allontanarlo dagli Stati Uniti in favore della Francia, dove avrebbe dovuto studiare alla Sorbonne. Il posto, tuttavia, non si addiceva a un giovane dalle idee conservatorie come lui e la vita da bohémien trovò una ferma opposizione da parte sua; eppure, l'ambiente si mostrò favorevole per dare il tocco finale al romanzo che stava scrivendo. Fu così che nacque "Il Mostro del Plenilunio", la versione ampliata e rivista di un lungo racconto che Carr aveva scritto ai tempi della scuola americana, "Grand Guignol", proprio con Bencolin quale personaggio principale. Il modesto successo che arrise al suo protagonista, rispetto ai successivi Fell e Merrivale, per qualche tempo costrinse Carr a tornare in America dai genitori; finché, nel 1930, durante una crociera, incontrò Clarice Cleaves, una ragazza di Bristol che poco dopo sarebbe diventata sua moglie. È curioso come proprio "Il Mostro del Plenilunio" sia stato il tramite attraverso cui Carr e Clarice iniziarono a scambiarsi le prime confidenze: in "The Golden Age of Murder", infatti, Martin Edwards ha spiegato che, in seguito al loro primo incontro nella sala del parrucchiere di bordo, i due futuri sposi trascorsero una serata a ballare e chiacchierare del più e del meno, finché Carr non accennò al fatto che aveva scritto una detective novel e chiese a Clarice se le avrebbe fatto piacere leggerla. In realtà, la ragazza non nutriva un particolare interesse in indagini e assassini fittizi; eppure, non ebbe cuore di deludere le evidenti aspettative del suo nuovo amico ed accettò di dargli un responso su quel libro. In quel modo, tra i due scoccò la scintilla ed entro un paio d'anni si trasferirono definitivamente in Inghilterra, dove la novella signora Carr intendeva far nascere le sue figlie. Anche suo marito (che nel frattempo aveva deciso di abbandonare Bencolin in favore di altri due personaggi molto simili tra loro, il dottor Gideon Fell e l'avvocato Henry Merrivale) fu entusiasta della scelta: dopotutto, era la patria dei suoi idoli d'infanzia, Chesterton e Doyle (del quale in seguito fu co-autore della biografia ufficiale), e sembrava che laggiù fosse il posto ideale per scrivere gialli sullo stile tradizionale; senza contare il fatto che la Storia dell'Europa cui poteva attingere avrebbe fornito molto materiale per il tipo di libri che intendeva scrivere.

Un'altra caratteristica dell'opera di Carr, infatti, è quella di affondare le proprie radici in miti e leggende molto antiche: ne sono un esempio le numerose citazioni che possiamo trovare all'interno di romanzi come "Il Terrore che Mormora", la cui trama ruota sul vampirismo, oppure dello stesso "Il Mostro del Plenilunio". Qui sono i lupi mannari, le bestie assetate di sangue e capaci di trasformarsi in uomini e donne pur mantenendo la loro anima selvaggia, ad occupare la trama e a fornire la base per i misteri del libro. Si tratta di argomenti che, proprio grazie alla loro aura di velato soprannaturale, si prestano ad essere interpretati e sfruttati in modo da fornire al lettore una base relativamente reale per un delitto immaginario, e che permisero a Carr di dare sfogo a un'insaziabile sete di ricerca storica. Questa passione emerge dalla lettura di alcuni romanzi giallo-storici, come "La Sposa di Newgate", "Il Diavolo Vestito di Velluto" e "La Corte delle Streghe" (uno dei suoi capolavori) e viene spesso incarnata dai personaggi dei suoi gialli. Tuttavia, fu il Delitto l'argomento a cui Carr si sentì più legato; tanto che i suoi detective soffrirono di una vera e propria ossessione nei confronti della Storia del Crimine: Bencolin, Merrivale e Fell, infatti, di volta in volta si fecero portavoce dei pensieri dell'autore, attraverso semplici citazioni (pure di casi reali, come avviene in "Occhiali Neri") ma anche con l'utilizzo di piccole "conferenze" sull'omicidio e la sua applicazione nei romanzi del mistero. Senza contare il breve scambio di battute sulla mentalità dell'assassino alle prime pagine di "Il Mostro del Plenilunio" se ne può leggere una prova nel dialogo che Marle, Bencolin e Grafenstein mettono in scena alle pagine 138-139: in questa occasione, i tre discutono su quanto sia importante per un investigatore la conoscenza del proprio mestiere basata sulla scienza, e se i poliziotti in America non utilizzino metodi poco intelligenti per scoprire la verità nelle loro indagini. Inoltre Marle, da buon Watson di turno, sembra propenso a considerare la realtà delle cose più eccitante della finzione, il suo compagno però si dichiara fermamente contrario. È la fantasia a dare forma al mondo reale, sostiene Bencolin, per cui lo scrittore non deve sforzarsi di tradurre con troppo rigore la realtà che lo circonda in materiale per i suoi libri, ma limitarsi a narrare una storia che, per quanto possa apparire a volte improbabile e con personaggi simili ai burattini del teatro, procuri divertimento al lettore.

Seconda edizione italiana di "Il
Mostro del Plenilunio" purtroppo
tagliata e fallata
Un assunto che dimostra al meglio quale fosse la concezione di Carr riguardo il romanzo giallo: costruire vicende credibili in cui, tuttavia, non mancasse quel pizzico di irrealtà che li contraddistingue da mere cronache. Non per caso egli fu il primo americano ad essere ammesso nel Detection Club, grazie al sostegno di Dorothy L. Sayers e Anthony Berkeley; dopotutto, sono evidenti la comunione di interessi per il true crime e intenti a cui egli stesso e gli autori della Golden Age miravano. Nei suoi gialli, infatti, si possono ritrovare diversi elementi che rimandano alla crime story di quel periodo, contrassegnati da un palese uso del contrasto. Sopra abbiamo visto come l'atmosfera sia macabra e inquietante; ebbene, ciò viene dato dall'accostamento di momenti ironici (come durante i battibecchi tra Marle e Sharon Grey) con altri dove invece dominano il terrore. Luce e buio occupano un ruolo importantissimo in questa sorta di gioco: traducendo, mi sono reso conto che Carr ha dato risalto al brillio, alla lucentezza, allo splendore, al luccichio di tantissimi oggetti e parti del corpo dei suoi personaggi, come le spalle delle signore, le fiammelle tremolanti delle candele, le lampadine elettriche che scacciano le ombre, gli occhi che secondo la tradizione rivelano l'anima di una persona. Di volta in volta, tutto ciò cambia a seconda di un movimento, di un soffio di vento, di un balzo improvviso; simbolicamente, l'autore ci suggerisce come non ci dobbiamo fidare di nessuno dei sospettati, poiché nascondono lati del loro carattere che non sempre è piacevole scoprire. Pure i colori, tra i quali domina il rosso in contrasto all'oro, vengono sottolineati da Carr per dare risalto alle vicende e assumono carattere allegorico: il primo è ovviamente quello del sangue, ma pure della passione e dell'odio cieco; il secondo quello che si associa tanto all'avidità quanto alla nobiltà (vera o falsa che sia); c'è poi il verde scuro con l'argento delle pareti del terzo piano di Fenelli, dove si verificano le nefandezze più scellerate, il quale assume qualità paludose. In terzo luogo, contrastano tra loro l'apparente impossibilità dei delitti commessi in "Il Mostro del Plenilunio": all'inizio i fatti ci vengono dipinti come se fossero favole, miti e leggende da considerare in astratto, ma poi i delitti diventano qualcosa di fin troppo tangibile, da indagare attraverso l'uso della scienza e della logica. Non per niente, a mo' di indizio viene inserita nella trama una copia del libro dell'assurdo per eccellenza, "Alice nel Paese delle Meraviglie".

Quindi pure l'enigma gioca su tutta una serie di scontri metaforici, poiché mette insieme logica e pazzia, scienza e suspense, freddezza e passione, calcolo e audace improvvisazione, attingendo sotto alcuni aspetti a una nota tragedia di William Shakespeare. Proprio per questo, però, questo romanzo non dovrebbe essere considerare troppo riuscito: infatti, se da una parte riesce a portare a casa un mistero con una spiegazione plausibile e possibile ai fini delle leggi della fisica, in quanto a probabilità di riuscita suscita più di una perplessità (perché quando quel personaggio ha fatto quella cosa, l'altro non si è insospettito? Come ha fatto quello a non vedere quella cosa accadere? Ecc...). Inoltre, l'enigma deve una certa parte della sua costruzione all'attingere da parte di Carr all'opera di alcuni suoi colleghi: la parte scientifica da Richard Austin Freeman, la tabella oraria da Freeman Wills Crofts, l'ambientazione suggestiva e orrorifica da Edgar Allan Poe e alcuni aspetti della caratterizzazione dei personaggi da Gaston Leroux. Proprio su questi ultimi ritroviamo per l'ennesima volta un contrasto che sottintende significativamente il tema del doppio: ognuno dei protagonisti, compresi Marle e Bencolin, presentano una natura che non si riesce mai a focalizzare del tutto. L'investigatore ci viene dipinto come una sorta di individuo satanico, con i capelli che assomigliano alle corna di un satiro e un inquietante ghigno che spesso compare sulle sue labbra, eppure è un personaggio capace di dimostrare una certa empatia verso chi se la merita; Marle divide la propria natura tra l'irruenza e la quiete, tra la stupidità del tipico Watson e l'essere in grado di ragionare con lucidità; Saligny e Laurent rappresentano le facce diametralmente opposte di una stessa medaglia agli occhi di Louise, la quale divide la propria anima tra disperazione e determinazione; Edouard Vautrelle si atteggia a gran signore, ma forse nasconde un passato da misero soldato; Sharon Grey desidera disperatamente emanciparsi dalla condizione di prostituta ma continua a prestarsi a relazioni equivoche; Sid Golton adotta un comportamento ambiguo con madame Saligny, pur presentando un volto all'apparenza gioviale.

Infine, voglio sottolineare come "Il Mostro del Plenilunio" sia un romanzo giallo più crudo di quanto ci si potrebbe aspettare. Non solo ci sono grandi spargimenti di sangue, decapitazioni, mani insanguinate oppure gelide che toccano con le loro dita molli e corpi decomposti, ma pure personaggi ritratti semi-svestiti, psicopatici e folli contro i quali bisogna combattere. La moralità esiste e non esiste al tempo stesso, poiché crimini di tutti i tipi commessi dai personaggi meno sospettabili vengono a galla nel corso della narrazione. Non è un giallo edulcorato, dove anziane signorine prendono il tè e discutono del delitto; qui Carr ci fa piombare in un terrificante incubo dove lo stesso concetto di giustizia non incarna un ideale condiviso pienamente. Bencolin persegue nel proprio compito di investigatore più nel ruolo di giudice che in quello di poliziotto, alla ricerca di un riscatto dal fallimento nel proteggere Saligny; non è la cattura della preda a spronarlo. L'ambiguità morale di colpevoli e vittime, con la distinzione tra Bene e Male, corona un romanzo giallo che, pur non essendo un libro che tocca la perfezione, di sicuro si piazza tra i capolavori del genere e merita di essere conosciuto da tutti gli appassionati. Magari pure quelli italiani, con una traduzione adeguata.

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