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venerdì 30 ottobre 2020

50 - "Il Picco delle Streghe" ("The Youth Hostel Murders", 1952) di Glyn Carr

Copertina dell'edizione pubblicata da
Mulatero Editore

Torna a farsi sentire la minaccia del Coronavirus in tutta Italia. Per domenica è prevista una conferenza del Presidente del Consiglio, e il mio pessimismo cronico (che per fortuna riesco a tenere a bada) mi suggerisce che non sarà certo un'occasione gioiosa. Detto ciò, però, non ho voglia di alimentare troppo le ansie e le preoccupazioni di me stesso e di voi lettori, che di sicuro vorrete leggere qualunque cosa tranne le mie riflessioni su un tema tanto triste. Già un paio di settimane fa mi sono dilungato a riguardo. Piuttosto, oggi voglio subito tornare ad allietarvi (come avevo anticipato nell'analisi di "La Casa Senza Porta" e già avevo fatto in marzo) con quella serie di recensioni che vi avevo promesso, così da suggerirvi alcuni titoli per svagare la mente ed evadere dalla situazione in cui ci troviamo tutti quanti. Il romanzo giallo classico, infatti, penso debba parte del suo successo al fatto di riuscire a trasportare chi legge lontano dalla realtà a volte triste in cui egli si trova immerso. La crime story, a mio modesto parere, è in grado di evocare un mondo suggestivo, che spazia dalla fine dell'Ottocento ai primi anni del Novecento, passando per i tumultuosi e imperfetti periodi in cui si verificarono quelle tragedie che portano il nome di Prima e Seconda Guerra Mondiale, e giungendo fino ai primi anni '60 (in qualche caso pure oltre, oserei dire). E lo fa attraverso le febbrili attività quotidiane di donne e uomini che ormai non ci sono più, ma sono rimasti vividi ai nostri occhi per mezzo di una sorta di incantesimo, permettendoci di calarci nei loro panni e di vivere per qualche tempo un'esistenza che ci è estranea, magari nel corso di un'indagine su un crimine efferato oppure un mistero da brivido. È questa una caratteristica peculiare del giallo, il quale riesce a ridare vita nuova al passato altrimenti noioso di libri di Storia; e sono più che convinto che esso, nel momento storico in cui ci troviamo, possa essere ciò di cui abbiamo più bisogno per allontanare la triste realtà in cui siamo stati catturati. Non solo per mio diletto e per tenermi occupato, ma proprio per questo continuo a recensire su Three-a-Penny: considero ciò come il modo migliore che possiedo per smorzare la tensione e dare il mio contributo al benessere di tutti, pur nel mio piccolo.

Come dicevo, quindi, oggi torno a concentrare le mie forze sul giallo che riesce a distrarre e svagare meglio: cioè quello che ci trasporta lontano nello spazio e nel tempo, in luoghi selvatici e senza alcuna limitazione. E quale scelta migliore poteva essere, dopo le atmosfere inquietanti e psicologiche di "La Casa Senza Porta" di Daly, se non l'ultimo romanzo di Glyn Carr che mi resta da leggere, con il suo illimitato senso delle distanze geografiche e della mancanza di isolamento? Questo autore, infatti, si è specializzato nell'ideare storie che prendono ispirazione dal classico mystery di tradizione britannica e filone narrativo che rese celebre John Dickson Carr: quello del mistero della camera chiusa e del delitti impossibile. Tuttavia, ha compiuto una sostanziale virata dal tipo più classico, dal momento che ha portato l'ambientazione a livelli più estremi, dove i confini non sono più costituiti da solidi muri, ma da ripide pareti di roccia il cui limite superiore è il cielo azzurro delle quote più elevate. Per il resto, si è attenuto ai canoni del genere; però quella speciale caratteristica di usare la montagna come luogo del delitto lo ha reso speciale, e legato ai misteri ben studiati ha dato vita a un piccolo miracolo del crime. Miracolo che, tra l'altro, l'editore Mulatero si appresta a rendere sempre più concreto per i lettori italiani: infatti, dopo che Rue Morgue ha abbandonato la ripubblicazione dell'opera in lingua originale, in seguito a numerose vicissitudini, proprio nel nostro Paese è partita questa iniziativa che prevede l'intero corpus letterario su Abercrombie Lewker in procinto di essere reso disponibile. Un compito che vede il riconoscimento degli appassionati di giallo e il mio personale; soprattutto, perché l'editore si è reso disponibile a darmi (finora) diversi volumi da recensire, e io lo faccio sempre con piacere perché si tratta di storie molto interessanti e divertenti. Pertanto, dopo "Morte Dietro la Cresta", "Assassinio sul Cervino" e "Un Cadavere al Campo Due", oggi è il turno di "Il Picco delle Streghe" (Mulatero Editore, 2019), in attesa del prossimo in procinto di uscire nel mese di novembre. Ambientato nel Cumberland, in un villaggio in cui splende il sole ma le atmosfere non sono mai scaldate a fondo, in questa storia troviamo un gruppo di escursionisti riuniti in un ostello della gioventù, sullo stile del circolo di sospettati che ha reso famosa in tutto il mondo Agatha Christie, nelle cui vicinanze si verificano strani eventi. Come di consueto, l'alpinismo e l'escursionismo giocano un ruolo importante all'interno di un mistero in cui la psicologia dell'assassino e dei personaggi viene sviscerata, con una corrente di invidie e segreti nascosti; però in questo particolare titolo, oltre ai tipici caratteri più classici della tradizionale partita tra lettore e scrittore e al rispetto del fair play, vi è un elemento molto intrigante che ha dato una marcia in più agli eventi e si accorda perfettamente con l'arrivo imminente di Halloween: la presenza di stregoneria e forze (all'apparenza?) oscure che agitano e acuiscono la tensione.

Cumberland Mountains, T.C. Steele, 1899, raffigurante un
tipico paesaggio delle ambientazioni che costituiscono lo
sfondo alle vicende di "Il Picco delle Streghe"

Tutto inizia con una perfetta scenetta famigliare, che vede il capocomico e investigatore dilettante Abercrombie Lewker e la sua dolce metà, Georgina, fare una pausa in un prato alle pendici dei monti del Cumberland. Con la loro auto, stanno andando a Birkerdale, uno di quei villaggi al confine della civiltà in cui si può ancora percepire l'atmosfera della vera campagna inglese e aleggia un'aura di velato bigottismo e superstizione, dove li attende una vacanza e il meritato riposo in seguito alla consueta stagione teatrale che ha visto entrambi molto occupati. Con la scusa di far ammirare alla moglie lo splendido paesaggio che si può scorgere nel passare la cima della collina che li separa dal minuscolo gruppetto di case, Lewker fa in modo di giungere a Birkerdale giusto in tempo per fare una tappa al pub locale, l'Herdwick Arms, in attesa dell'orario perfetto per ricongiungersi con un vecchio amico di Georgina, nientemeno che il celebre collezionista ed esperto di quadri Sir Walter Haythornthwaite, nella sua casa poco oltre il villaggio chiamata Riding Mount. Nel locale, mentre sorseggiano una bevanda, il capocomico e sua moglie scoprono tuttavia che nel villaggio c'è una strana diceria, alimentata da un pastore di nome Ben Truby, secondo la quale i monti a sud sarebbero infestati da entità maligne, le "Vecchie" che dimorano sul Picco delle Streghe. Lewker e Georgina, da cittadini del mondo e di una metropoli come Londra, non si lasciano impressionare dai racconti macabri che Truby propina loro, nonostante il gestore del pub insista nel voler minimizzare ogni caso; eppure, quando Vera Crump e Ted Somerset, una coppia di escursionisti, irrompe nel locale con la richiesta di organizzare una squadra di ricerca per una loro compagna di viaggio, una ragazza di nome Gay Johnson, i due non possono fare a meno di temere che sia accaduta qualche disgrazia. La giovane, infatti, è scomparsa da quasi due giorni, dopo aver annunciato la propria intenzione di scalare una parete pericolosa che si getta sul fiume Riggin Spout, in seguito a una lite furibonda col suo fidanzato Leonard Bligh. Già un altro escursionista e arrampicatore, appena qualche mese prima, aveva fatto una brutta fine in questo modo. Così, allertati alcuni uomini e istruito Truby e Roughten, il gestore dell'Herdwick Arms, Lewker si fa accompagnare dalla moglie e dai due giovani fino alla fattoria in cui sarebbe dovuto soggiornare, e si incammina di buon passo con Vera Crump e Somerset alla volta della Riggin Spout.

Giunti in prossimità di una cascata lungo il corso del fiume, i tre fanno la terribile scoperta. Gay Johnson giace ormai cadavere da tempo proprio dentro la pozza d'acqua in cui il Riggin Spout si getta, sotto alla parete del Black Crag. Si tratta di una tragedia considerevole, dal momento che getterà nello sconforto i due giovani e i loro compagni che sono rimasti all'ostello della gioventù in cui stavano tutti alloggiando, nella piana di Cauldmoor che sovrasta la valle di Birkerdale e si trova a pochi passi dal Picco delle Streghe. Però, mentre il cadavere viene portato a valle grazie a una barella approntata da Truby e sollevata dai suoi compagni, Lewker non riesce a fare a meno di notare come siano strane le ferite visibili sul corpo di Gay Johnson. A quanto pare, solo dietro la nuca il cranio è stato sfondato, come se la ragazza avesse battuto la testa su un sasso e fosse morta sul colpo; mentre nel resto del corpo si vede qualche graffio appena, impossibili da conciliare con una caduta rovinosa da una parete roccioso come quella del Black Crag. Così, Lewker immagina che dietro al decesso di Gay si celi qualche segreto che si deve portare alla luce e che può dare vita a un'indagine per omicidio. Oltretutto, lo stesso Ted Somerset dà l'impressione di sapere qualcosa che potrebbe incriminare i suoi compagni di viaggio, e gli accertamenti del medico legale indicano come un'inchiesta dovrebbe studiare la questione a fondo. Pertanto, fingendosi un appassionato di ostelli e abbandonando l'idea di una vacanza meritata, il capocomico svesta ancora una volta i panni del comune cittadino per indossare quelli del Geniale Dilettante, che già in precedenza ha avuto l'onore e l'onere di portare. E una volta giunto a Cauldmoor, Lewker si imbatte in una serie di personaggi che farebbero invidia a un palcoscenico e a un'opera teatrale di Shakesperare: oltre alla fumantina Vera Crump e al suo sottomesso Somerset, infatti, ci sono Janet e Hamish Macrae, fratello e sorella diversi come il sole dalla notte e specializzati rispettivamente in spettacolo (e bugie) e ingegneria; Leonard Bligh, scontroso come solo gli artisti sanno essere; un gallese dall'aria ambigua di nome Bodfan Jones; e il gestore pro tempore della baita, un viscido individuo chiamato Paul Meirion che nutre un'ossessiva mania per la stregoneria e le arti occulte. Forse uno di questi personaggi ha avuto qualcosa a che fare con la morte di Gay Johnson? All'apparenza, tutti quanti avrebbero avuto un movente per cui eliminare la ragazza, oppure l'opportunità per farlo; ma gli alibi si incastrano quasi alla perfezione ed è difficile capire quale sia la verità che si cela dietro il decesso di Gay. Abercrombie Lawker dovrà impegnarsi a fondo per scoprire dove si trova l'inganno, esplorando in prima persona gli scenari mozzafiato e gli abissi di follia in cui può cadere la mente umana; nonché sfidando forze oscure che paiono spuntare dalle ombre della pietra delle montagne che circondano Birkerdale.

Schizzo della valle di Birkerdale, disegnato da Abercrombie
Lewker
Arrivato al quarto volume della serie, penso che "Il Picco delle Streghe" sia il migliore romanzo di Glyn Carr, tra i suoi che ho letto. Qui, infatti, si sono riuniti tutti i caratteri che avevano giocato un ruolo di primo piano all'interno degli altri e l'autore ha perfezionato i loro difetti, pur continuando a dare la precedenza ad alcuni aspetti stilistici e tematici rispetto al mero enigma. Ad esempio, Carr ha ancora una volta concentrato il punto di forza del libro sulle descrizioni delle ambientazioni, che rimandano in qualche modo alla Zermatt di "Assassinio sul Cervino" ma declinandole attraverso una chiave più selvaggia e indomabile: in questo caso, infatti, non troviamo alberghi e nuclei abitativi sfarzosi, ma un villaggio di campagna il quale si avvicina all'idea che potrebbe emergere da un contesto "alla Agatha Christie", con abitanti meno costruiti e tutto sommato semplici. In tal modo, torniamo agli scenari indomabili e ancestrali di "Un Cadavere al Campo Due", ma non abbiamo quella soffocante preponderanza a ridurre ai minimi termini il mistero, fino a farlo quasi scomparire. Il contorno delle vicende si fa parte integrante delle stesse e riporta alla mente quelle di "Morte Dietro la Cresta", familiari all'autore e in qualche modo anche al lettore che, come me, vive alle pendici delle cime rocciose. È un piacere calarci in suggestivi paesaggi aspri e montuosi, che danno originalità agli omicidi inventati da Carr, ed immergersi in luoghi solenni e un po' spaventosi, coi loro pericoli nascosti dietro gli angoli e nelle fessure in ombra tra le crepe sulla pietra (pp. 17, 19, 21-23, 34-39, 41-43, 45-46, 55-56, 74-75, 77, 82-85, 92-96, 117-124, 132-133, 135, 139, 166-167, 176, 178-181, 189, 191-197, 200-201...). In essi, l'uomo si riscopre ad essere una misera parte del creato, cosa di cui l'appassionato alpinista ed escursionista è ben consapevole, e quello che dovrebbe essere solo un abbellimento alle vicende si trasforma nel punto focale della narrazione. L'ambientazione, infatti, è forse l'elemento più debole tra quelli che costituiscono un romanzo giallo, dal momento che necessita di essere affiancato da un altro elemento per poter esprimere al meglio il proprio potenziale; eppure qui lo scenario diventa qualcosa di più, tanto viene curato nelle descrizioni, al punto da tramutare all'occorrenza una storia fittizia in una sorta di guida turistica in cui vengono rispettate le caratteristiche reali dei luoghi tratteggiati (nei romanzi di Glyn Carr ogni paesaggio, proprio come Birkerdale e i monti ai quali si trova ai piedi, corrisponde al vero). Saliamo e scendiamo dal villaggio alla piana di Cauldmoor, percorrendo il sentiero che passa vicino alla Riggin Spout; ci abbarbichiamo sul Black Crag al seguito di Hamish Macrae e di Lewker; sediamo con il capocomico sulle rocce mentre osserva la valle di Birkerdale dal Picco delle Streghe; trascorriamo la serata all'interno dell'ostello della gioventù con i sospettati. Questa attinenza al vero permette di comprendere meglio i movimenti dei personaggi e contribuisce a calare chi legge all'interno della storia, oltre a tenerlo incollato alle pagine come per mezzo di un sortilegio miracoloso (come se le Vecchie ci avessero incantato), che non permette di stancarsi e di trovare noiose queste digressioni e rende giustificabili gli eventuali piccoli difetti della trama.

In questo romanzo in particolare, inoltre, l'importanza data al paesaggio va di pari passo con lo sviluppo dell'enigma e dà vita a un equilibrio perfetto in cui entrambi questi elementi coesistono. Se nei titoli precedenti spesso lo scenario dava l'impressione di quasi invadere lo spazio destinato al mistero, tanto era necessario trasportare tra le righe i dettagli dei luoghi e soffermarsi sui dettagli più piccoli per contestualizzare il tutto, finendo per pregiudicare la riuscita complessiva del romanzo, in "Il Picco delle Streghe" c'è meno urgenza nel rendere vividi i movimenti dei personaggi e dare spessore a ciò che li circonda, pur senza venir meno alla resa di autenticità di questi stessi. Ad esempio, c'è comunque la descrizione di un paio di ascese su parete e di un escursione di Lewker, ma queste sono confinate con sapienza come per dare una pausa a chi legge, per alleggerire una narrazione che sarebbe risultata troppo densa e complessa da affrontare tutta d'un fiato. Di conseguenza, è il mistero sulle morti di Peel e Gay Johnson ad occupare il centro dell'attenzione, con tutto quello che ne deriva, tra inchieste investigative più o meno ufficiali e approfondimento di temi affascinanti legati ad esso. La stregoneria accentua la tensione, soprattutto nelle scene notturne, e dà enfasi all'enigma, suggerendo a chi legge ipotesi al limite del concreto: attraverso i racconti grotteschi e macabri di Truby, essa cala dall'alto come i corvi di cui si servivano i negromanti e gli adepti dei culti spiritici per evocare le Vecchie, e influenza la logica e l'indagine della polizia e di Lewker (pp. 27-29, 34, 48-49, 79-82, 88-89, 94, 115, 137, 140-142, 161-163, 171-172, 175, 177-178, 203, 212-213). Mentre proseguiamo nella storia, ci domandiamo se per caso le morti violente non siano state davvero provocate da qualche spirito maligno, e iniziamo a sospettare che una profonda vena di follia si celi dove il sole non riesce a battere e l'acume degli inquirenti fatica a scavare. Tutto ciò, ovviamente, genera curiosità; ma non solo, dal momento che può costituire un motivo in più perché il pubblico si avvicini a "Il Picco delle Streghe": ho sempre avuto l'impressione, infatti, che questa ferma convinzione di Carr di soffermarsi sull'alpinismo e su una narrazione incentrata su di esso, potesse scoraggiare quelle persone che non sono interessate all'argomento. Con la scusa delle forze oscure e il loro indubbio fascino, invece, l'autore riesce a invogliare chi altrimenti avrebbe tentennato. Come se non bastasse, poi, questo tema si sposa magnificamente con altri elementi del romanzo. La stessa ambientazione, che contrasta nel suo apparire quasi paradisiaca (i prati verdi, le giornate soleggiate, i laghi cristallini, i monti solidi e maestosi) con l'atmosfera di follia che regna sovrana e pervade i più piccoli particolari, come una semplice passeggiata o una salita in solitaria; oppure il coesistere tra momenti drammatici oppure paurosi, suscitati da conseguenze delle azioni dei presunti demoni, con scenette allegre e chiaramente ironiche in cui Lewker oppure altri personaggi si scontrano e si azzuffano a parole. Insomma, nonostante la presenza di alcuni stereotipi (ma ormai penso proprio che saranno una costante a cui bisogna abituarsi e non mi pesano più di tanto), "Il Picco delle Streghe" si è dimostrato essere quanto di più vicino ho letto ai romanzi degli autori più blasonati della Golden Age, da parte di un outsider che, nel suo piccolo, ha saputo dare vita a una serie molto divertente, che appassiona e intrattiene con leggerezza.

Frank Showell Styles (alias Glyn Carr)
nato nel 1908 e morto nel 2005
L'ironia fu forse la caratteristica principale nella scrittura di Frank Showell Styles, vero nome di Glyn Carr. Nato a Birmingham nel 1908, dopo la scuola egli lavorò in banca per una decina d'anni, finché decise di mollare questo impiego che non lo soddisfaceva. Partì quindi per un lungo viaggio in giro per l'Europa, che dovette tuttavia interrompere allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Arruolatosi nella Royal Navy come artigliere, durante il conflitto riuscì a salire di grado fino a giungere a quello di comandante. Tornata la pace, Styles decise di rinunciare a tornare a lavorare nel mondo della finanza e si trasferì in Galles, dove trascorse il tempo ad arrampicare (fu da sempre la sua passione più grande), a dedicarsi al teatro e a progettare la sua nuova carriera di scrittore. Nel 1947, infatti, diede alle stampe il suo primo romanzo, "Traitor's Mountain", una spy story che mescolava il genere a quello umoristico, e il successo di quest'ultimo lo spinse a dare il via a una serie più convenzionale, sotto pseudonimo e con protagonista un divertente capocomico un po' sovrappeso e dalla citazione facile che si ritrova ad indagare su casi misteriosi ambientati in alta montagna. In realtà, già durante una scalata del Milestone Buttress gli balzò in mente come "fosse facile progettare un omicidio perfetto in quel luogo"; pertanto decise di "ideare un sistema [adatto] e costruirci attorno una trama adeguata". In questo modo, come Glyn Carr firmò "Morte Dietro la Cresta" (primo di quindici gialli classici, tra cui vanno ricordati "Assassinio sul Cervino" e "C'è un Cadavere al Campo Due") e Abercrombie Lewker fece il proprio ingresso nella letteratura del mistero, dopo tre romanzi più avventurosi.

La serie fu accolta favorevolmente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, soprattutto per la capacità dell'autore di descrivere con doverosa attenzione le scene di arrampicata e i luoghi in cui esse si svolgevano. Dopo "Fat Man Agony" (1969), Styles concluse le avventure di Lewker per dare il via a un'altra serie, il cui protagonista divenne un ufficiale della marina britannica al tempo delle guerre napoleoniche; nel frattempo, tuttavia, continuò a scalare e a fare escursioni, oltre a scrivere una quantità enorme di guide, manuali e racconti sulla montagna (in totale furono circa 160), finché non morì nel 2005. I romanzi di Abercrombie Lewker (in parte ripubblicati dalla Rue Morgue Press, secondo la quale pare esista un romanzo inedito andato perduto), come dicevo, sono libri dove regna l'ironia e gli stereotipi tendono ad abbondare, soprattutto nella delineazione dei personaggi (pp. 23-29, 31-34, 36-38, 40-41, 46-48, 56-58, 77-82, 86-89, 91-92...). Eppure, in "Il Picco delle Streghe" ho notato come questi ultimi siano risultati meno "prevedibili" di quanto fosse finora successo nelle altre storie: il ruolo assegnato a Paul Meirion, ad esempio, è sì in parte modellato su quei trasparenti gestori di locande che si vedono a dozzine in giro, ma allo stesso tempo viene delineato come un appassionato di stregoneria e un semi-praticante negromante; cosa che non può far altro che dargli personalità e originalità. Bodfan Jones è un sorta di bardo gallese, un individuo che gioca moltissimo sulle sue peculiarità e che suscita la curiosità del lettore. Certo, Vera Crump e i suoi amici, con le loro storie d'amore così prevedibili, sono tratteggiati con meno spessore; però Ted Somerset dimostra di possedere uno spirito d'osservazione che si addice poco al classico Watson, e si rivela essere un ragazzo che spicca nella massa. Lo stesso Ben Truby, nonostante sia un comune pastore, grazie all'aura sinistra che lo circonda si staglia sulla scena e cattura l'attenzione; addirittura più di Sir Walter, il quale alterna ruoli in prima fila con altri sullo sfondo. Si tratta di personaggi che hanno un'anima, pur non essendo delineati abbastanza da uguagliare altri loro colleghi più illustri, la quale li rende imprevedibili, sospetti e molte volte simpatici.

In ogni caso, però, è Abercrombie Lewker, protagonista istrionico e padrone del palcoscenico fuori e dentro la finzione, a dominare ed emergere tra le righe: grazie alla sua originalità, al suo essere brillante e dotato di senso dell'umorismo, acuto e creativo, egli rappresenta un perfetto Geniale Detective da operetta (pp. 17-20, 31-33, 39, 42-43, 49-50, 53, 67-69, 73-74, 203-204). Carr teneva in alta considerazione la cultura e l'arte in generale (non per niente, in "Il Picco delle Streghe" occupano un ruolo importante un libro di incantesimi e alcuni acquerelli, come la collezione di Sir Walter); pertanto, anche il suo investigatore è un appassionato cultore della letteratura e del teatro, tanto da citare continuamente Shakespeare (pp. 18, 20-22, 28, 30, 36, 40, 49-51, 55, 57-59...). Pomposo e carismatico, ma capace di provare pietà, egli è consapevole del proprio personaggio e agisce come se si trovasse in una delle tragedie che è abituato a portare sulle scene dei teatri più importanti d'Inghilterra. Si lancia nell'indagine con il piglio del dilettante, ma riesce a comprendere quando la situazione si sta facendo seria e vorrebbe abbandonare il suo ruolo; però non può, e si costringe ad analizzare tutte le ipotesi per inchiodare il colpevole. Insomma, si comporta come ci si aspetterebbe da un segugio da romanzo giallo, e di conseguenza il suo autore lo fa agire seguendo i passi che un tale personaggio dovrebbe compiere, spesso prendendo in giro le rigide regole del genere e gli assurdi cliché inventati dagli altri scrittori (pp. 65, 68-69, 71-74, 106-107, 111, 141, 142, 187-188, 197, 203, 223, 240). Ma non solo; Lewker riesce ad incarnare uno stereotipo e a rifuggire da esso allo stesso tempo: infatti, se da un lato possiede il tipico carattere eccentrico del dilettante e abbraccia i metodi d'indagine più tradizionali, dall'altro ama intrattenersi con attività straordinarie rispetto ai soliti svaghi dei segugi del giallo: condivide con il suo autore la passione per la vita di montagna e per ciò che si può fare quando ci si trova all'aria aperta, ai piedi di una catena alpina. La vita dell'escursionista ci viene presentata in un modo tutt'altro che freddo e descrittivo, ma piuttosto da un punto di vita attivo sul quale viene modellata la trama (pp. 27, 33-34, 37-39, 41-43, 67, 84-85, 88, 90-91, 108-109, 114, 117-124, 149, 156-157, 180, 226-230, 233). Il delitto diventa qualcosa che possiamo proiettare in un contesto in cui vengono inserite nozioni dettagliate, pur senza estraniare queste ultime, tra aneddoti sull'arrampicata, buone norme da seguire quando si scala una vetta oppure di intraprende un'escursione, piccoli dettagli sulla vita di montagna, accorgimenti e abitudini che gli alpinisti devono adottare e buone norme da seguire quando si decide di scalare una parete rocciosa. A tutto ciò, infine, si aggiunge uno stile ironico e un enigma che, come dicevo, penso sia il migliore tra quelli ideati da Carr, nei suoi libri che ho letto. La costruzione del mistero, l'aggiunta dell'elemento di impossibilità e del tema delle forze oscure, l'alternanza tra momenti di azione e altri di riflessione, danno vita a un caso variegato in cui non ci si annoia mai e che possiede una certa solidità, rispettando oltretutto il fair play. Per concludere e tirare le somme, con "Il Picco delle Streghe" Glyn Carr fa centro e ci consegna un mystery di tutto rispetto, che non ha nulla da rimproverarsi e si dimostra una lettura affascinante e capace di intrattenere. Inoltre, grazie al fatto di riuscire ad evocare tanto bene la campagna del Cumberland, questo libro è perfettamente adatto come lettura nel periodo storico in cui viviamo: se non possiamo allontanarci più di tanto da casa, ci pensa Glyn Carr a farci fare un viaggio con la mente. Alla prossima, e buon Halloween a chi sta leggendo!

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venerdì 23 ottobre 2020

# - Grazie Jill Paton Walsh (1937-2020)

Jill Paton Walsh, nata nel 1937 e morta nel 2020

Con grande rammarico, la settimana scorsa sono venuto a sapere che la scrittrice inglese Jill Paton Walsh è venuta a mancare. Da quanto ho appreso dai numerosi messaggi di cordoglio che sono stati pubblicati sulla rete negli ultimi giorni, era ormai molto anziana nonostante svolgesse ancora il ruolo di Presidente della Dorothy L. Sayers Society. Seona Ford, membro di questa stessa associazione, ha ribadito come lei fosse "una scrittrice altamente qualificata", oltre ad essere una sostenitrice degli sforzi congiunti coi suoi colleghi e un'entusiasta partecipe alla convention annuale all'Università dell'East Anglia. Martin Edwards, in un post molto commovente, ha ribadito la varietà che l'opera di Paton Walsh ha abbracciato nel corso della sua lunga vita, partendo da libri per bambini fino a giungere alla pubblicazione (in proprio) di "Quel che sanno gli angeli", il quale venne nominato addirittura per il Booker Prize. Tuttavia, ciò per cui Walsh sarà sempre ricordata dagli appassionati di classica crime story è il fatto che, già avanti con l'età, le venne chiesto di completare nientemeno che il manoscritto di "Thrones, Dominations", l'ultima avventura di Lord Peter Wimsey che Dorothy L. Sayers aveva accantonato tra il 1936 e il 1938, in favore della preparazione della commedia tratta da "Un'Indagine Romantica: Lord Peter in Viaggio di Nozze" e della composizione di opere religiose e dalla traduzione della Divina Commedia. Probabilmente Sayers avrebbe in seguito completato la sua nuova opera del mistero, ma purtroppo venne a mancare all'improvviso, pochi giorni prima di Natale nel 1957, quando la stessa traduzione dell'opera di Dante era ancora in corso. Così, ciò che restava del testo è stato accantonato per molti anni; finché la proposta di riprenderlo è stata fatta a Walsh. In ogni caso, continuare "Thrones, Dominations" sarebbe stata un'impresa rischiosa e quasi impossibile da portare a termine: infatti, la pratica di mettere mano a una serie creata da una persona diversa dal suo autore originario non incontra spesso il favore dei lettori, dal momento che immancabilmente il fascino del racconto di uno scrittore si verrà a mutare attraverso lo stile personale di quello nuovo. Io stesso sono molto restio ad accettare questo stratagemma per vendere qualche copia in più, sfruttando il nome di un grande della letteratura, e quasi sempre risultante in una delusione profonda.

La mia copia di "Il Matrimonio Perfetto", che
custodirò con ancora più cura


Eppure, una copia di "Il Matrimonio Perfetto" (traduzione italiana di "Thrones, Dominations") me la sono procurata, e l'ho fatto molto tempo fa. Innanzitutto, perché sono un grande fan di Sayers e voglio prolungare la lettura dei suoi libri per più tempo possibile (anche per questo centellino i suoi gialli); ma anche perché sono curioso di vedere quale è stato il risultato finale di tale connubio. Lo stesso Edwards, nel post che citavo sopra, l'ha definito come la miglior prova di questo tipo, sottolineando come sia stato difficile seguire le orme di Sayers, rispettare le sue linee guida e, allo stesso tempo, dare vita a una storia che rispettasse le premesse e aggiungesse qualcosa di nuovo alla storia di Lord Peter. Walsh, da grande ammiratrice della sua collega (si era innamorata della narrativa di Sayers attraverso "Gaudy Night", letto durate l'adolescenza, e grazie ad esso aveva deciso di frequentare Oxford), è riuscita a compiere un lavoro di gran lunga soddisfacente, secondo quanto racconta Edwards; tanto che alla fine lei non si è limitata a completare il manoscritto, ma ha dato vita ad altre tre storie con protagonista il baronetto Wimsey. Inoltre, significherà pur qualcosa se, anche grazie al suo lavoro sul manoscritto e il personaggio di Sayers, le è stato proposto di entrare nel prestigioso Detection Club, per il quale si è spesa a lungo; arrivando addirittura a consegnare un pezzo nuovo di zecca in occasione della stesura di "Howdunit", pubblicato proprio quest'anno come opera collettiva dell'associazione di giallisti. Insomma, Jill Paton Walsh ha avuto una vita piena e lunga, nella quale ha fatto molto più di quanto mai potessimo desiderare: ovvero, ridare vita a un personaggio al quale, personalmente, sono molto affezionato. Pertanto, nel mio piccolo voglio ringraziarla per la sua Arte. E prometto che farò di tutto per trovare una copia dell'unico altro suo romanzo con protagonista Lord Peter pubblicato in Italia, "Morte Presunta". Che la terra le sia lieve.

Raymond West

venerdì 16 ottobre 2020

49 - "La Casa Senza Porta" ("The House Without the Door", 1942) di Elizabeth Daly

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore

Con l'inoltrarsi nelle stagioni più fredde dell'anno, arrivano puntuali le piogge e le giornate più cupe dal punto di vista meteorologico. Ad alcuni tutto ciò mette molta tristezza addosso, ma per fortuna a me non fa un particolare effetto negativo. Anzi, a dirla tutta, penso di preferire questo clima che dà sollievo ai miei occhi affaticati, a quello troppo afoso e luminoso dei mesi tra marzo ed agosto. Tuttavia, bisogna dire che in quest'anno tutto fuorché ordinario, con una pandemia che ci è piombata addosso e non accenna a smorzarsi più di tanto, questa insofferenza per il brutto tempo si è acuita. Nelle ultime settimane, forse complice proprio il graduale allontanamento della stagione calda, abbiamo visto come il numero dei contagiati e dei ricoverati (che da tempo si era mantenuto su livelli abbastanza sopportabili e gestibili in Italia) stia crescendo e non accenni ad arrestarsi. Pertanto, comprendo benissimo come molti possano sentirsi ancor più preoccupati per la situazione generale della nostra salute, con l'arrivo di un clima che, per natura, va sempre più ad aggravare le circostanze che favoriscono la diffusione della malattia, e ci costringe pian piano ad abbandonare quegli svaghi che, con l'estate, ci eravamo concessi e avevano aiutato a non soffermarsi troppo sul COVID. Io stesso, pur ribadendo il mio affetto per l'autunno e l'inverno, mi rendo conto di quanto pericolosa possa diventare la faccenda. Questa settimana, ad esempio, si è diffusa la notizia che una scuola a meno di dieci chilometri da casa mia ha dovuto sospendere qualunque attività per i troppi contagiati, tra alunni e insegnanti; e per fortuna io vivo in un posto isolato rispetto ai grandi centri cittadini e alle metropoli! Insomma, la situazione non promette proprio benissimo, nonostante il nostro Paese non debba far fronte a un quadro generale difficile da sopportare come quello dei nostri vicini. Però non dobbiamo perdere la testa: se usiamo le precauzioni che ormai abbiamo imparato a ripetere come un mantra (mascherine, gel igienizzante e distanziamento), ci possiamo considerare relativamente al sicuro. Piuttosto, proviamo a fare del nostro meglio per distrarci, anche senza uscire di casa per quanto ci è possibile: guardiamo un film, cuciniamo oppure leggiamo un buon libro. Vi assicuro che l'atmosfera di questo periodo ben si addice a qualunque attività di questo genere.

Io, ad esempio, sto approfittando del nuovo momento di prudenza e ridimensionata allerta per pianificare le letture dei prossimi mesi. Ovviamente mi concentrerò come sempre sul giallo classico e su quei libri che già in marzo, allo scoppio della pandemia, mi erano sembrati i più adatti alla realtà quotidiana che stiamo vivendo, nei quali contano la condizione della mente umana, portata al limite della pazzia e prigioniera di ossessioni sconvolgenti, e la psicologia nelle sue multiple manifestazioni. Detto ciò, conto di inserire qualche lettura a tema natalizio quando inizieremo ad avvicinarci al periodo delle feste; ma intanto mi concentrerò su altro. Quello che mi ripropongo di fare per almeno un paio di settimane, è di pescare qualche titolo caratterizzato da un'ambientazione dove il mistero assume una connotazione "fisicamente costretta" e claustrofobica (tipo "delitto della camera chiusa"), oppure di soffermarmi su mysteries che sappiano farci empatizzare al meglio con i personaggi e le situazioni che essi andranno a vivere. Con questo non voglio dire che la mia scelta cadrà solo sul giallo di stampo britannico: nonostante esso resti il mio preferito, quello a cui voglio dare la precedenza, intendo comunque fare qualche incursione anche in quello americano, le cui caratteristiche forse incarnano al meglio i nostri quotidiani sentimenti e condizione mentale. Infatti, la grande atmosfera di angoscia che minacciava e schiacciava i personaggi dei romanzi sullo stile delle women in jeopardy, le “donne in pericolo” di Mary Roberts Rinehart e Mignon G. Eberhart, e la paranoia in cui essi venivano gettati (aspetto in seguito sviluppato da autrici quali Helen McCloy ed Elizabeth Daly) trovano  molte affinità con la società di oggi e, assieme al soprannaturale in procinto di Halloween, non guasteranno. Questo tipo di narrativa espresse al meglio la realtà del suo tempo, così simile al nostro; ma allo stesso modo venne influenzata dall'analisi in profondità della psiche dell'individuo, dallo straniamento e dalle sensazioni suscitate negli stessi personaggi e nel lettore. Le paranoie inconsce e le ossessioni assunsero connotazioni tangibili, e il significato di bene e male venne trattato in innumerevoli declinazioni, spesso senza fare distinzioni nette; mentre temi come quello delle aspettative da parte del prossimo e della sensibilità ferita da tragedie personali, divennero terreno fertile su cui sviluppare trame intriganti e originali in cui le manie proliferavano. I protagonisti, spesso esponenti di famiglie aristocratiche decadute a nuclei familiari borghesi oppure poveri diavoli sui quali la sfortuna si è accanita, sono attori che agiscono a braccio dal momento che non hanno avuto una parte da imparare, sperando di azzeccare la battuta giusta e di poter così vivere un po' più a lungo la loro vita grama, senza fronzoli. Il loro scopo è quello di non farsi notare e vivere nell'ombra, in silenzio, mentre sviluppano complessi mentali dannosi che li riducono al silenzio e il loro umore vira verso la depressione e fissazioni malsane.

Mi rendo conto che tutto ciò possa apparire quanto meno sconfortante, ma credo anche che possa diventare catartico e lenire almeno un po' la desolazione che ogni tanto proviamo, facendoci capire che la situazione potrebbe andare peggio. Se non si sta attenti, infatti, noi stessi possiamo diventare i nostri peggiori nemici, e costringerci a compiere azioni e assumere atteggiamenti che ci danneggiano. È questo il caso della protagonista di "La Casa Senza Porta" (Polillo Editore, 2017) di Elizabeth Daly. I romanzi gialli di quest'autrice sono tra le letture di questo tipo che preferisco, assieme a quelli scritti da Margaret Millar, in cui il fatalismo e la desolazione si accaniscono contro l'essere umano, e quelli di Helen McCloy, della quale vorrei recensire qualcosa di nuovo a breve (ma prima devo controllare che le edizioni in mio possesso siano integrali, per fare un buon lavoro). Nel libro di cui parlerò oggi, il tema centrale attorno a cui si sviluppa il mistero e che viene sviscerato è quello della condanna, la "casa senza porta" del titolo. Quando una persona può dirsi del tutto libera dai sospetti e in grado di tornare a vivere la propria esistenza davanti al mondo intero? La protagonista è stata assolta dall'accusa di aver ucciso il marito, ma allo stesso tempo è stata costretta a nascondersi agli occhi della società perché la gente non è mai stata convinta del tutto della sua innocenza. Questa situazione ha generato numerosi traumi nella vita della donna e un clima di irrealtà e di sospensione temporale caratteristico dei romanzi di Daly, dando vita a una storia suggestiva, scritta splendidamente, ambientata in uno scenario in cui l'atmosfera di abbattimento e incertezza e la tensione psicologica si rafforzano l'una con l'altra. Come era stato per "Morte al Telefono", i puristi dell'enigma potrebbero lamentare una scarsa attinenza al fair play da parte dell'autrice; eppure vi assicuro che il bello dei gialli di Daly non sta tanto nella costruzione dell'enigma (comunque spesso di fattura più che ottima), quanto nel malessere incarnato dai loro protagonisti e dai disagi psicologici che essi incarnano.

L station, New York, 1951 circa, in una foto di Evelyn Hofer,
raffigurante uno scorcio della metropoli simile alle Third
Avenue in cui vive Mrs Vina Gregson
La vicenda si apre in un gelido pomeriggio di novembre, a New York. In un quartiere ottocentesco sulla Third Avenue, il bibliofilo e investigatore dilettante Henry Gamadge osserva la facciata di un enorme edificio, assieme a un agente immobiliare di nome Colby. Quest'ultimo, tuttavia, non sta tentando di vendergli un appartamento a buon prezzo; ciò che vuole, in realtà, è molto più impegnativo. In una delle stanze ammobiliate a 45 dollari al mese, infatti, vive una donna che intrattiene alcuni raporti sociali con Colby, la quale si fa chiamare Mrs Greer; una signora raffinata, elegante e che non vuole assolutamente attirare l'attenzione su di sé. Un comportamento abbastanza curioso, questo; al punto che a fare le sue veci al di fuori delle quattro mura domestiche è una sorta di governante-confidente di nome Minnie Stoner. Cosa mai avrà tutto questo a che fare con Gamadge? Ogni cosa si spiega quando lui e Colby vengono introdotti alla presenza di Mrs Greer: in realtà ella è la tristemente celebre Vina Gregson, accusata tre anni prima di aver ammazzato il marito con la morfina e rilasciata in seguito a un processo da ordalia. Proprio in seguito alla cattiva pubblicità che ha suscitato sulla sua figura, Mrs Gregson ha deciso di scomparire dallo sguardo della società e del mondo intero, per leccarsi le ferite e vivere quanto le resta in tranquillità. Eppure una nuova minaccia si staglia all'orizzonte per la donna: negli ultimi tempi, è stata oggetti di ben quattro incidenti sospetti: è caduta dalle scale della cantina della sua casa di campagna, ha subìto un'intossicazione alimentare forse causata da un veleno, è scampata a un'esplosione causata dalla fuoriuscita di gas dal forno del suo appartamento, e ha rischiato di avvelenarsi con una torta alterata dall'arsenico bianco.

Spaventata, Mrs Gregson si è rivolta a Colby per ottenere aiuto e consigli su come comportarsi, e a sua volta l'agente immobiliare ha chiesto a Gamadge di dire la propria a riguardo. L'investigatore si informa sulla storia della donna, e scopre che i tentativi di ammazzarla molto probabilmente sono legati al caso mai risolto della morte di Mr Gregson; per cui decide di incontrare chiunque avesse avuto un ruolo di rilievo al processo e raccogliere qualche informazione in più. Nel frattempo, Mrs Gregson dovrà scomparire del tutto stavolta; ovvero, nascondersi anche da Mrs Stoner e dagli amici più intimi, come lo stesso Colby. Gamadge organizza quindi ogni cosa affinché la donna si trasferisca in una casa di cura, un edificio isolato dal resto del mondo e gestito da una coppia di sue amiche, dove sarà al sicuro da chiunque intenda farle del male; e alle calcagna, a sua insaputa, le mette il suo assistente, Harold Bantz. Da parte sua, lui si mette in contatto coi i pochi individui che Mrs Gregson ha tenuto accanto a sé dopo l'inizio della sua seconda vita: il figlio acquisito di suo marito, un ballerino stravagante di nome Benton Locke; una nipote impiegata presso la vedova di un ricco senatore, Cecilia Warren; la stessa Minnie Stoner e il fidanzato di Cecilia, Paul Benton. Nel corso degli interrogatori, tuttavia, Gamadge sente che c'è qualcosa che non va, qualcosa che gli è stato nascosto e che ci sono potenti correnti sotterranee emotive che scorrono tra i sospettati degli attentati alla vita di Mrs Gregson; e quando uno di loro verrà ucciso a sangue freddo, dovrà fare del suo meglio per evitare che altro sangue venga sparso. Per fortuna, al suo fianco ci sono Harold e Clara, la sua adorata moglie, assieme a un paio di uomini fidati che possono raccogliere informazioni presso enti che a lui sono preclusi. Il cuore del mistero, però dovrà andare a scovarlo con le proprie mani, fino a una lontana cittadina che porta il nome di una lettera greca, Omega: sarà laggiù che la verità salterà ai suoi occhi e le prove di un crimine efferato torneranno alla luce, per impedire un grave errore giudiziario e la condanna di un innocente.

Compo House, 19th century, Westport, raffigurante il
Sanatorium o casa di cura del luogo
Per qualche tempo mi sono come mai perché Agatha Christie abbia affermato, nel corso di un'intervista, che proprio Elizabeth Daly fosse la sua scrittrice di romanzi gialli preferita. Voglio dire, come colleghi aveva Dorothy L. Sayers, Anthony Berkeley, John Dickson Carr e tanti altri nomi celebri, tutti residenti nel Regno Unito e appartenenti al Detection Club, tra cui scegliere. Perché andare a pescare proprio un'autrice che non viene particolarmente celebrata nemmeno in America, e che tra le altre cose ha dovuto attendere un pezzo prima di veder ripubblicata la sua opera? Quasi nessuno, al di fuori degli appassionati e addirittura anche tra loro, la ritiene una scrittrice di capolavori degni di essere ricordati. Eppure, dopo aver letto un paio di suoi romanzi, penso proprio di aver capito il motivo di questo affetto incondizionato di Christie per Daly. Infatti, sono convinto che in parte esso sia giustificato dal fatto che le caratteristiche dei mysteries di una e l'altra siano molto simili, per non dire quasi identiche. Certo, Agatha Christie è insuperabile e nessuno/a potrà mai arrivare al suo livello di narrazione, in cui si mescolano perfettamente originalità, tradizione, essenzialità eppure spessore e la capacità di intrattenere come di divertire; però da parte mia ritrovo sempre qualcosa di tutto ciò nello stile della scrittrice americana. Ad esempio, entrambe si concentrano su un tipo di giallo che fa riferimento alla Golden Age e ai suoi topoi emblematici: l'azione è circoscritta a una sfera metaforica in cui non ci sono quasi mai frenesia e violenza fine a se stessa; le vicende, pur svolgendosi in un paio di giorni, sono ambientate in una sorta di limbo temporale in cui i personaggi agiscono come in un sogno ad occhi aperti; le case di campagna dominano la scena o comunque trovano un ruolo frequente nelle storie; è molto importante che la soluzione del mistero si trovi nascosta in un passato incerto e in qualche modo idealizzato; il romanticismo, pur non essendo indispensabile per il tratteggio del caso, trova un suo ruolo e aiuta a rendere la trama più scorrevole; una famiglia disfunzionale è al centro del mistero; spesso sono presenti nel racconto anziane zitelle un po' inquietanti e parenti "parassiti"; la psicologia, soprattutto, è un tema che viene approfondito e studiato e analizzato in profondità e costituisce la chiave di lettura di ogni mistero. Tutte queste sono caratteristiche che Christie ha fatto sue al punto da renderle quasi personali, ma bisogna ricordare che in realtà non è così: a ben guardare, più di uno/a ha sfruttato tutto ciò, pur con risultati inferiori.

E in America, se ci facciamo caso, ci rendiamo conto che questa attenzione alla psicologia e a una narrativa onirica ha trovato il terreno ideale per fiorire. Prendendo spunto dal romanzo vittoriano di Austen e Collins, con la descrizione della società del tempo con i suoi pregi e difetti e l'attenzione alla interazioni e conflitti tra i personaggi, Daly (ma non solo) è riuscita a restituire un racconto in cui i protagonisti sono le storie familiari di persone decadute oppure ferite, con la loro generalità e straordinarietà; anticipando in questo modo l'interesse che oggi ha catturato i lettori di thriller moderni per la psicopatologia e la socio-patologia. Magari non riesce a reggere il confronto con le storie fin troppo violente dei suoi colleghi contemporanei; ma chi conosce il giallo classico (oppure ha visto alcuni film in bianco e nero degli anni '50-'60) non può fare a meno di notare come la narrativa di Daly sia raffinata e riesca a toccare punti nevralgici, andando a concentrarsi su situazioni solo all'apparenza insipide e neutre, ma in realtà celanti segreti oscuri e cose non dette. Così accade pure in "La Casa Senza Porta", dove storie tormentate e indecisioni e terrore si mescolano insieme. Immersi in una specie di nebbia onirica, dove niente è certo e ogni cosa può rovesciarsi da un momento all'altro per mostrare un volto finora nascosto, entriamo in contatto con quell'angoscia che era presente da molto tempo in America e stava facendosi sempre più insostenibile. Diffusa come un virus nell'aria o un gas che si respirava giorno per giorno, essa era un pensiero fisso con cui bisognava fare i conti e che logorava i rapporti all'interno della società, attraverso sintomi fisici e psichici, arrivando ad avvelenarne gli equilibri al punto che i timori crebbero fino a trasformarsi in ossessioni vere e proprie. In "La Casa Senza Porta", Vina Gregson si trova vittima di una forte emozione, di una sorta di bisogno irrinunciabile a preoccuparsi per la propria posizione sociale, costantemente alla ricerca di pace e stabilità mentale e fisica; non riesce a togliersi dalla testa l'idea di essere considerata colpevole di un'assassinio a sangue freddo, e soffre nel pensare che il resto del mondo le tenga gli occhi incollati addosso (pp. 8-13, 15-19, 21-24, 26-27, 29-32, 34-35, 43-47, 53-56, 70, 79, 117-125, 151-152, 225-228, 232-235, 245-251). Benton Locke, nonostante sia ancora giovane agli occhi del mondo, ha ormai assunto un atteggiamento cinico verso il prossimo e soprattutto verso se stesso, dal momento che si sente già percorrere il viale del tramonto in ambito artistico e del ballo: non intende mollare, ma è consapevole di essersi perso il "suo" momento a causa della povertà e di una serie di circostanze che si ricollegano a Mr e Mrs Gregson (pp. 24, 28-29, 57, 77-78, 80-95). Cecilia Warren, dal canto suo, è stata costretta fin da bambina a badare a se stessa: orfana di madre, poi allontanatasi dal padre malato e affidata agli zii, assieme a un cugino eccentrico, in una casa che non sentiva sua e circondata da individui che non sentiva di conoscere, ricambiata. Da adulta, ha scelto di fare una scuola per stenografe con l'intenzione di mantenersi da sola; e ora si ritrova alle dipendenze di una donna che le vuole bene, ma rischia di trattarla troppo come una bambola con cui baloccarsi. La ribellione non è contemplata, e frustrazione e delusione montano nel suo animo sempre più (pp. 24, 28, 56, 63-65, 101-102, 104-115, 140-142, 172, 186, 192, 201-204, 254, 256-258). Anche nel rapporto con Paul Belden, almeno all'apparenza, non riesce a ricavare molto conforto: lui è un dongiovanni che proviene da un mondo differente dal suo, abituato a un rapporto più schietto con prossimo e ad accettare ogni cosa senza pensare a quale sia il prezzo da pagare per averla (pp. 112-115, 140-145, 172, 174-175, 185, 191-192, 254-258).

Sanitarium on the Wissahickon, Michael Gessner, raffigurante
un bosco simile a quello che circonda Five Acres
Infine, abbiamo Minnie Stoner, la docile dama di compagnia di Mrs Gregson, così riservata e obbediente. Cosa nasconde il suo animo: una pacata sicurezza oppure oscuri tormenti? Dal suo rapporto con Vina si potrebbero cogliere alcuni riferimenti a un attaccamento poco salutare, sia per l'una che per l'altra, inseparabili fin troppo (pp. 14, 24-25, 32-35, 56, 136-141, 144). Eppure, la signora Greer-Gregson non intende scendere a patti: incurante del danno che può recare a se stessa e agli altri, possibilmente coinvolti negli attentati contro la sua vita, pretende che nessuno sconvolga i suoi fragili equilibri che ha costruito finora; senza accorgersi che così non fa altro che indurre la propria mente spaventata a partorire terribili e inquietanti spettri, i quali infestano le conversazioni e prendono forma di scandali e velate minacce ingigantite fino a premere sulla coscienza. I temi della condanna e della colpa sono strettamente legati a questa angoscia minacciosa e all'atmosfera di desolazione che si respira in "La Casa Senza Porta": essi infatti inducono il lettore a riflettere sul loro significato, e a chiedersi se non sia peggio quando la sentenza viene sospesa. Quello che Daly sembra dire, tra le righe, è se non sia meglio essere giudicati colpevoli fin da subito, invece di trovarsi in quel libro infernale in cui il mistero non può essere svelato né dagli inquirenti, per mancanza di prove, né dall'assassino, il quale è costretto a dover convivere con un peso sulla coscienza per non consegnarsi da sé nelle mani del boia. La condanna, insomma, sembra avere più rilevanza quando non viene esercitata appieno, ma diventa una sorta di gabbia in cui vengono rinchiusi innocenti e colpevoli assieme; una gabbia che questi ultimi contribuiscono a costruirsi da soli e che viene eretta con l'aiuto degli estranei, i quali possono renderti la vita difficilissima nel momento in cui non credono alla giustizia e sussurrano alle tue spalle. Di conseguenza, ci viene da chiederci quando saremmo davvero liberi. La libertà non è qualcosa che ci viene concessa di diritto, ma che dobbiamo sforzarci di conquistare: libertà di essere noi stessi; libertà di mostrarci agli altri per quello che siamo, pur senza andare a usurpare la loro con il nostro operato. Mi è molto piaciuto questo discorso insito in "La Casa Senza Porta", anche se devo ancora assimilarlo del tutto per riuscire a descrivere al meglio i miei sentimenti a riguardo. In ogni caso, da esso si comprende benissimo come Daly avesse assimilato la lezione del suo tempo e del mystery classico americano degli anni '30-'50: trarre dalle chimere dettate dal malcontento individuale la giusta ispirazione a plasmare la materia psicologica dei suoi libri, trasferendo sugli attori sulla scena il disagio e l'impotenza e le ossessioni. Interpretò questo sentire diffuso e tratteggiò gli spettri inquietanti e terribili che il desiderio di trovare sollievo dalla miseria quotidiana evocava, trasformando frustrazione ed egoismo da sentimenti negativi, perseguibili più del rispetto delle leggi e del prossimo dal momento che ognuno si preoccupava più si se stesso, a catartici e "utili". E interpretò questo fatalismo senza usare toni duri e violenti, ma sfruttando la paranoia dilagante per ideare racconti agghiaccianti di pazzia e disillusione, come quella che vede coinvolta Vina Gregson e gli altri personaggi, in cui lo straniamento dei personaggi e il loro cinismo suscita riflessioni profonde sull'animo umano e sulla sua natura intrinseca. Senza per questo inventare situazioni da zero: infatti, se fossimo vissuti nei primi anni '40, probabilmente avremmo assistito alle scene che lei ha raccontato, e ci saremmo potuti calare nei panni degli sconfitti che popolano le sue storie, comprendendo le loro azioni e le ragioni che li avrebbero spinti a compierle. In sintesi, Daly ha coinvolto il lettore e ha restituito un resoconto preciso della condizione socio-psicologica in cui versava l'America in quel momento; mica male, per un'autrice che è stata bistrattata e continua ad esserlo ancora oggigiorno.

Elizabeth Daly, nata nel 1879 e morta nel 1967
L'attenzione alla psicologia è da sempre uno degli aspetti che caratterizzano il romanzo giallo, sia di stampo britannico sia di stampo americano; e soprattutto in quest'ultima declinazione esso ha trovato terreno fertile per svilupparsi e fiorire. Basta pensare alla narrativa delle women in jeopardy, oppure a quella delle "nuove leve" della metà del Novecento, incarnata da Charlotte Armstrong, Helen Reilly e le loro colleghe. Anche Elizabeth Daly intraprese la strada del giallo psicologico, benché declinato in una forma più tradizionale, quando decise di iniziare a scrivere romanzi gialli; e non c'è da stupirsene, visti gli altri suoi interessi. Nata nel 1879 a New York, in una famiglia tra le più in vista della società del tempo, fin dalla giovinezza respirò aria di cultura, poiché il padre e lo zio erano rispettivamente un giudice dell'Alta Corte e un commediografo di successo. Educata nelle scuole più prestigiose, dopo la laurea Elizabeth, a partire dal 1904, insegnò al Bryn Mawr College per tre anni, per poi dedicarsi alla sua passione più grande: il teatro. In questo ambito, dove la Vita viene messa in scena ogni giorno dell'anno, Daly si impegnò nella scrittura di testi, nella produzione e nella direzione, come regista, di moltissime opere scenografiche in veste amatoriale, imparando sempre più a comprendere le azioni degli individui e ciò che li muove per riuscire a trasportarli nei suoi copioni (tutto questo sarà poi inserito in "The Street Has Changed", un romanzo di costume nel quale un'attrice ritiratasi dalle scene rivive quarant'anni di teatro). Nei momenti di pausa, tuttavia, coltivò anche l'interesse per il mystery, che considerò sempre con rispetto e sul quale sosteneva: "Al suo meglio il romanzo poliziesco è un'alta forma di letteratura". Un po' come Dorothy L. Sayers, dall'altra parte dell'Oceano. Il suo autore preferito fu Wilkie Collins, il famosissimo ideatore del primo romanzo giallo classico come lo intendiamo oggi, "La Pietra di Luna", e ad esso si ispirò per provare a scrivere lei stessa alcune crime novels, in cui vengono tratteggiati spesso personaggi colti e complessi usando uno stile elegante e raffinato.

Solo nel 1940, dopo aver superato la cinquantina, riuscì però a coronare questo sogno e a pubblicare "Notte d'Angoscia", la prima avventura del suo segugio dilettante Henry Gamadge. Costui è un bibliofilo, un appassionato collezionista di libri rari e antichi e un'autentica autorità in materia, giovane, alto e con un viso dai tratti marcati ma gradevole, il quale vive con un gatto (Martin) e un assistente di nome Harold Bantz, il cui aiuto si rivela sempre prezioso. Gentile, educato e provvisto di un discreto patrimonio, Gamadge venne ripreso in tutti i sedici romanzi successivi di Daly, i più famosi dei quali sono "Murders in Volume 2", "Evidence of Things Seen", "Any Shape or Form", "Death and Letters", "The Book of the Crime", l'ultimo ad apparire prima della sua morte (avvenuta nel 1967, dopo essere stata insignita di uno speciale premio Edgar), "Morte al Telefono" che viene considerato il suo capolavoro, e ovviamente "La Casa Senza Porta". Si tratta di mysteries appartenenti al tradizionale giallo a enigma, dei quali una delle più appassionate ammiratrici fu, come dicevo, nientemeno che Agatha Christie. Come mai? Ebbene, se più sopra avevo osservato come le caratteristiche letterarie delle due autrici fossero molto simili e quindi probabilmente ciò fece entrare in sintonia Christie con Daly, il motivo più importante del giudizio della scrittrice britannica sulla sua collega d'oltreoceano penso sia da rilevare a livello più profondo. A mio parere, ciò che conquistò Agatha (e aggiungo me stesso) fu il fatto che Elizabeth riusciva a dare vita a storie che, pur immerse in un diffuso senso di sconforto misto a desolazione, lasciavano uno spiraglio agli attori che si affannavano sulla scena (al di fuori dell'assassino) per ottenere una seconda possibilità, un'occasione per risvegliarsi dal torpore e dalla stasi in cui essi erano caduti per tornare alla vita. In sintesi, Daly ha saputo confortare il lettore, e questo è ciò che ha fatto innamorare Christie. Lei stessa, come può dire chiunque conosca la sua storia personale, ha sofferto nel corso della sua vita: certo, ha vissuto avventure straordinarie ed è stata in grado di superare ostacoli all'apparenza insormontabili, però ha affrontato un divorzio molto doloroso, che le ha quasi strappato la voglia di scrivere; ha provato sulla sua pelle quanto sia terribile perdere una madre a cui si è legati a doppio filo; come tante altre persone, poi, ha visto la guerra coi proprio occhi e quanto essa possa essere spaventosa. Ecco, a mio parere i personaggi di Daly sono un po' come Christie e come tutti noi, magari delusi dalla miseria della vita oppure dalle delusioni che si susseguono e refrattari a reagire, ma nel profondo combattivi e per nulla arrendevoli. Il racconto di questa sensazione, simile a una convalescenza dopo un periodo di malattia, mi ha colpito ancora una volta, come era accaduto in "Morte al Telefono", e trova una grande affinità con quella dei libri della Regina del Crimine, dove l'esito delle indagini non esclude un finale lieto per i protagonisti. Ed è anche per questo che, sempre secondo me, Daly è superiore a Millar e alle sue colleghe: qui c'è ancora una speranza di guarigione e cure amorevoli possono compiere il miracolo di restituire la vita a chi, affetto da fatalismo, ne ha bisogno.

Il lettore, assieme ai personaggi, si sente cullato e trova alleviate le sue paure, benché non gli venga risparmiata la visione del Male e della Pazzia. L'atmosfera nella casa di cura, ad esempio, ci mostra come più di uno sia depresso per la situazione in cui si trova la società e il mondo; ma allo stesso tempo restituisce l'immagine di un Eden in cui è ancora possibile trovare ristoro e speranza per andare avanti. Le piccole cose, le faccende quotidiane e il racconto di una normalità dove la gente non è preda di angosce riesce in qualche modo a smorzare la minaccia e la tensione che emergono dai fatti legati al caso su cui indaga Gamadge: abbiamo il racconto del lavoro di Clara, sua moglie, e di Harold nel sistemare la corrispondenza, oppure l'eccentrico passatempo di Mrs Smiles nell'organizzare cene eleganti e divertirsi con i suoi ospiti. Con ritmo lento (forse troppo per alcuni, ma a mio parere necessario per calare chi legge nella giusta atmosfera), Gamadge raccoglie indizi su indizi e agisce di conseguenza con estrema prudenza, proprio come un medico che si accinga a studiare una diagnosi e una cura adeguate a un malanno (pp. 11, 18-19, 28, 37-43, 47-48, 157-162, 166-169, 180-181, 207); e da parte sua Daly traccia una storia tranquilla all'apparenza, dove ogni azione è ponderata e, anche se a volte è necessario agire in fretta, non trasmette mai un senso di fastidiosa urgenza. Inoltre, la New York che percepiamo, assieme al resto delle ambientazioni, sono come ingentilite rispetto al solito (pp. 7-9, 12-16, 23, 25-31, 58-59, 79-80, 100 105, 118, 120-123, 190-196, 175, 177-178, 204-206, 221-224): le descrizioni sono meravigliose, con grandi case site in mezzo ai campi coltivati, oppure sul fianco di colline dove gli unici suoi che vengono percepiti sono i versi degli animali e lo stormire del vento tra le foglie degli alberi. Ogni cosa è vividamente evocata, come un dipinto impressionista; ma questo non vuol dire che sia tutto allegro e divertente. Anzi, spesso è il brivido di terrore che domina la scena, con efferati crimini incorniciati da idilliaci paesaggi dove non ti aspetteresti mai di trovare Morte e Follia. Tutto ciò, viene calato in una fitta nube di sospetto, la quale grava ininterrottamente sopra i protagonisti. Proprio questa capacità di tratteggiare in profondità la psicologia degli attori sulla scena, pur descrivendo le vicende in scenari di tutti i giorni, è uno dei caratteri fondamentali dello stile di Daly (pp. 11-12, 21, 49-52, 55-56, 58-59, 74-76, 97-100, 117-118, 126-132, 143-144, 147, 152-157, 163, 171-172, 195-197, 213-219, 235-243), assieme al fatto che nella sua opera si parli spesso di cultura (pp. 17, 30, 68) e affini con un linguaggio elegante e raffinato. In ogni pagina del libro, aleggia una sorta di patina simile a neve, che ricopre tutto e restituisce una dimensione simile a un sogno, in cui il tempo pare essersi fermato sia per i personaggi, sia per l'ambientazione. Ogni tanto, ci caliamo in contesti quotidiani, mangiamo qualche pasticcino e sorseggiamo una tazza di tè in compagnia di giovani eleganti e taciturni, oppure di signore che sferruzzano tenendo i ferri sulle ginocchia, serene soltanto all'apparenza, mentre i gomitoli rotolano ai loro piedi senza sosta. Se qualcuno deve parlare, lo fa sottovoce; come se nelle vicinanze ci fosse un infermo che riposa ed egli dovesse usare tutte le sue forze per rimettersi in sesto, e non a causa di correnti sotterranee che ruggiscono tumultuose contro fragili argini (pp. 9-11, 3-15, 17-18, 21, 23, 26-27, 30-32, 39, 43-47, 53-57, 62-66, 70-73, 77-78, 81-85, 87-88, 90-92, 94, 101-103, 105-109, 111-115, 117-124, 127, 133-134, 136-142, 145-146, 151-157, 179-183, 185-189, 192-193, 200-203, 225-228, 230, 232-235, 243-251, 254-255).

Copertina dell'edizione pubblicata nei
Classici del Giallo Mondadori n. 848

Ognuno dei personaggi, chi attraverso il cinismo e chi attraverso la negazione della realtà, ha sollevato una difesa psicologica contro qualunque colpo debba ricevere e lo scalpore che ne deriva, così da non attirare l'attenzione dell'opinione pubblica assetata di scandali. La colpa e la condanna, bisogna ricordarlo, sono sempre in agguato per tornare in superficie e creare nuovi disagi (pp. 23-24, 28, 43-44, 53-66, 69-70, 117-120, 175-177). Il malcontento emerge in superficie nei discorsi tra Gamadge e i sospettati: tutti loro (al contrario di Clara, Harold e gli altri loro amici e conoscenti), chi più chi meno, sono insoddisfatti, nascondono ferite segrete, delusioni interiori che faticano a rimarginarsi e traumi pregressi, allo stesso modo degli sconfitti di cui erano piene le città statunitensi, nel periodo in cui questo romanzo è stato pubblicato. Ancorati a un passato che è stato fonte di guai ma appare quanto meno desiderabile, essi non riescono ad affrontare il presente e si rifugiano nel conforto di un tempo morto da anni ma che non si decidono a seppellire; e in questo modo interrompono le loro esistenze, gettandosi addosso lo sconforto e il fatalismo che sfociano nella paranoia e costruendo prigioni invisibili ed inespugnabili. Sono vivi, questi individui, ma complessati nella loro complessità psichica. La spiegazione finale fatta da Gamadge mette in luce tutto questo tormento, l'agghiacciante freddezza dell'assassino e la sua lucida follia. Si tratta del coronamento di un enigma strano, insolito, come spesso avviene nei romanzi di Daly, nel quale gli indizi assumono maggiore carattere psicologico rispetto a quello materiale, ma che non risulta inferiore a quello di altri grandi gialli classici. "La Casa Senza Porta", insomma, riesce ad essere un romanzo di straordinaria potenza; forse inferiore a "Morte al Telefono", ma comunque capace di dimostrare quanto la psiche dell'individuo possa distorcersi e di dipingere una società che assomiglia paurosamente alla nostra, bisognosa di conforto e fatta di persone ferite che, tuttavia, hanno la possibilità di riuscire a riscattarsi, se solo riescono a convincersene. O se riescono a lasciarsi alle spalle il giudizio, a volte troppo pesante da sopportare, degli altri e a farsi una nuova vita.

Mi addolora sempre molto leggere che i romanzi di Daly vengono definiti noiosi, lenti e banali. Fino a un certo punto posso capire le critiche che vengono loro rivolte, dal momento che sono particolari esempi di quel mystery psicologico che furoreggiò in America e che è per certi versi differente da quello di stampo britannico, basato più sulla miscela di materialità ed elementi intangibili. Però sono convinto che libri come "La Casa senza Porta" siano magistrali esempi di storie in cui viene descritta l'azione di una mente in preda alla follia, e quindi non sempre riesca a restituire un racconto "logico". Inoltre, nonostante sia indubbiamente meno frenetico nella narrazione, lo stile ci permette di entrare appieno in contatto con la società del tempo e di comprendere cosa significasse vivere negli anni in cui i fatti sono ambientati. Questo è ciò a cui dovrebbe mirare un "vero" romanzo giallo, oltre a narrare un enigma intrigante e che appassioni: diventare uno strumento che permetta di analizzare ciò che circonda gli eventi narrati e trasferire questa "indagine" al giorno d'oggi. E Daly, con i suoi libri, riesce a farlo benissimo.

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venerdì 9 ottobre 2020

48 - "Carte in Tavola" ("Cards on the Table", 1936) di Agatha Christie

Copertina dell'edizione pubblicata
nei Classici del Giallo Mondadori
n. 591

A mio parere, il mondo di quella che viene definita in gergo "blogosfera" è meraviglioso per il semplice fatto di essere variegato come poche altre cose. Vi si possono trovare pagine che parlano di cucina, altre che descrivono viaggi pazzeschi in ogni angolo del globo, e ancora altre che, ovviamente, recensiscono programmi TV e libri. Si tratta di un patrimonio sempre a disposizione di tutti, a patto di possedere una connessione ad Internet, e che fornisce molte informazioni utili che si faticherebbe a trovare da qualche altra parte, se non esistesse. Per quanto riguarda i blog dedicati ai libri e alla letteratura in generale, tuttavia, mi sento di dire che essi sono forse ancora più interessanti di quelli dedicati ad altro, dal momento che possono rivelarsi fonti di divertimento e di sfida reciproca, oltre che di conoscenza. Nella mia breve permanenza sul web, infatti, ho potuto notare come gli amministratori di alcune pagine letterarie estere molto seguite e conosciute abbiano studiato modi originali e curiosi per instaurare un rapporto più stretto con i lettori e i loro colleghi, favorendo lo scambio di idee e l'interazione. Vi faccio alcuni esempi, partendo dal progetto "Coffee and Crime" di Kate Jackson, proprietaria dell'esauriente e interessantissimo blog Crossexaminingcrime. Si tratta di una simpatica iniziativa che è ormai in atto da circa tre anni e che consiste in una sorta di servizio di sottoscrizione abbinato al genere crime secondo cui, ogni tanto oppure per una sola volta, Kate invia al destinatario stabilito, dietro una quota precedentemente concordata, una vera e propria scatola delle meraviglie, contenente romanzi gialli in lingua inglese e una serie di altri oggetti che si ricollegano ad essi, come cartoline, bustine di tè e (perché no?) curiosità quali una paperella da vasca vestita da Sherlock Holmes. Inoltre, Kate Jackson non si limita a questa sola attività ma, accanto alla sua straordinaria capacità di leggere e recensire tanti libri quanti non ne ho mai riscontrato in altri, ha intrapreso una serie di altre iniziative, che vanno dalla "Challenges to the Reader" (in cui vengono poste delle sfide al lettore attraversi una serie di rompicapi) al "Crime Fiction Quizzes" (dove sono proposte all'appassionato di genere mystery alcune domande per metterlo alla prova). Eppure, quella che forse è l'idea migliore tra tutte è "Tuesday Night Bloggers", la quale consiste nel postare nel proprio blog una recensione ogni martedì notte e discutere di ogni titolo a turno, e vede coinvolta una serie abbastanza corposa di esperti e appassionati (qui, qui e qui i link ad alcune pagine, perché possiate farvi un'idea).

Tutti questi non sono forse progetti degni di lode? Purtroppo, la mia lentezza e il fatto di essere ancora un principiante non mi permettono di prendere parte a queste iniziative; però non escludo di riuscire a farcela in futuro. Dopotutto, limitarsi a possedere una pagina web non è una brutta cosa; però è sicuramente molto più divertente riuscire a entrare in contatto con altre persone da cui si può imparare sempre qualcosa. Soprattutto se con esse condividi una passione comune. Perciò voglio provare fin d'ora a sfidare me stesso, in previsione della mia aderenza ad alcune delle challenge di cui ho parlato sopra; e per questo ho deciso di compiere il passo di accettare l'invito di Shanmei, amministratore di Liberi di Scrivere, a creare un post in qualche modo dedicato alla figura di Hercule Poirot, l'investigatore belga nato dalla penna di Agatha Christie in "Poirot a Styles Court" nel 1920. Esso entrerà a far parte di un progetto chiamato "The Hercule Poirot Centenary Blogathon", una sorta di maratona spirituale che avrà il compito di gettare quanta più luce possibile sul personaggio di Christie. Non che ci sia chissà quale bisogno di sforzarsi per imporlo all'attenzione dei lettori, dal momento che da solo riesce benissimo a continuare ad occupare un posto di primo piano non solo negli scaffali delle librerie, ma pure nei cuori di ognuno di noi; però fa sempre bene sottolineare quanto egli sia divertente, intelligente e straordinario. Pertanto, chiunque voleva partecipare a questa iniziativa aveva il compito di trattare un argomento a piacere, purché quest'ultimo non fosse stato già accalappiato da chi lo aveva preceduto: erano inclusi articoli su romanzi, racconti, temi come "Poirot al cinema" e tanto altro. Da parte mia, visto il periodo e la natura di Three-a-Penny, avrei puntato sulla recensione di "Poirot e la Strage degli Innocenti", ambientato ad Halloween, oppure mi sarei anticipato in vista del Natale analizzando "Assassinio sull'Orient-Express", o ancora mi sarebbe piaciuto dire la mia proprio sul libro in cui Poirot esordì esattamente cento anni fa, "Poirot a Styles Court". Purtroppo, però, tutti questi argomenti allettanti erano già stati prenotati. Come fare, allora? Ho pensato che, se dovevo scegliere qualcosa per celebrare l'omino dalle cellule grigie, sarebbe stato meglio puntare a un romanzo capolavoro, uno di quelli che mettevano in mostra l'abilità e le caratteristiche di Poirot nel risolvere i casi che gli venivano affidati. E ovviamente doveva essere un libro la cui traduzione non fosse rimasta quella ridotta degli anni '50. Così, passando in rassegna l'enorme quantità di titoli di Christie che possiedo, alla fine mi è capitato tra le mani "Carte in Tavola" (Classici del Giallo Mondadori, 1989) nella traduzione integrale di Grazia Griffini. Ho capito subito che si trattava delle scelta perfetta: ambientato a novembre, cupo e ironico all'occorrenza, con un Poirot in forma smagliante che raccoglie indizi psicologici con i suoi metodi un po' eccentrici ma rivelatori, questo romanzo giallo sarebbe stato perfetto per il mio contributo alla challenge. Inoltre, dagli appassionati esso è considerato come uno dei più straordinari esempi dell'arte dell'onesto inganno di Christie, dal momento che vede un'indagine basata su una complessa ricerca della verità tra partite di bridge e tuffi nel passato.

Furlongs (Glynde, East Sussex, South Downs), Eric Ravilious,
1935, simile al cottage in cui vivono Anne Meredith e Rhonda
La storia prende avvio da un incontro casuale che si verifica a Wessex House, a Londra, durante un'esposizione di tabacchiere a favore degli ospedali della città. Hercule Poirot sta guardando gli oggetti nelle teche, quando la sua attenzione viene richiamata da un altro osservatore, un certo signor Shaitana, un individuo ambiguo dall'aria orientale o latina che lui ha conosciuto superficialmente qualche tempo prima, il quale ama assumere un atteggiamento mefistofelico e mettere in soggezione il prossimo. Lo stesso Poirot non può fare a meno di sentirsi colpito e incuriosito dal comportamento dell'uomo e dal suo aspetto, così raffinato e, allo stesso tempo, terrificante. Già; poiché Shaitana ha la cattiva fama di essere un tizio che sguazza nel torbido e che gode nell'intimorire i suoi interlocutori, gettando velate allusioni durante i suoi discorsi e suscitando scandali. Eppure nessuno è mai riuscito a coglierlo in fallo, così l'orientale trascorre le proprie giornate facendosi rispettare nella società del bel mondo londinese e intrattenendo i suoi ospiti (loro malgrado) con feste sontuose. Parlando con Poirot, Shaitana ha la brillante idea di invitare l'investigatore belga a casa sua nell'arco delle prossime due settimane: intende sottoporre a un appassionato collezionista come lui una speciale gamma di oggetti che di sicuro potrà interessargli. Si tratta forse di tabacchiere?, chiede Poirot. Affatto, risponde Shaitana: se avrà la bontà di accettare il suo invito, egli potrà mostrargli nientemeno che i più raffinati articoli artistici che il crimine abbia mai prodotto: ovvero, ben quattro assassini che sono riusciti a sfuggire alla giustizia e alla punizione. Nonostante una certa diffidenza, Poirot decide di presentarsi alla chiamata dell'orientale, fosse solo per rendersi conto che l'altro lo ha preso in giro oppure per metterlo in guardia. E laggiù, assieme al padrone di casa e ad altri tre "segugi" (il Sovrintendente Battle di Scotland Yard, il colonnello Race dei Servizi Segreti e la scrittrice di romanzi gialli Ariadne Oliver), il piccolo belga si imbatte in quattro curiosi individui: il dottor Roberts, un gioviale medico che ha l'aria di godersi la vita; la signora Lorrimer, una vedova avanti con l'età con la passione per il bridge; il maggiore Despard, un avventuriero abituato a farsi largo nel bel mezzo della giungla a mani nude, e la giovane signorina Anne Meredith, una timida ragazza che ha tutta l'aria di essersi smarrita.

Otto invitati, di cui quattro rappresentanti della legge e quattro cittadini. Sembrerebbe proprio che Shaitana facesse sul serio, quando ha detto a Poirot di conoscere alcuni assassini rimasti impuniti. E ora pare che il padrone di casa abbia l'intenzione di mettere gli uni contro gli altri, in una sorta di gara tra gatti e topi, dove i primi devono smascherare i secondi. Già durante la cena, egli ha fatto qualche piccolo accenno al delitto, con la conseguenza che su tutto il gruppo è sceso un pesante silenzio imbarazzato e la tensione si è alzata. Proprio così, Poirot non ha quasi più dubbi. Ma in fondo non si può avere alcuna certezza sul conto di sospetti, tanto più se nemmeno Shaitana è riuscito a trovare abbastanza prove da portarli davanti a una corte (cosa che egli avrebbe senza dubbio fatto, anche solo per godere del proprio operato). Così l'investigatore decide di dimenticare la faccenda e, assieme a tutti gli altri ad eccezione del padrone di casa, si immerge nel gioco del bridge. Nel fumoir i segugi sono impegnati in una partita a quattro, gli altri ospiti nel salone si dedicano a fare altrettanto, mentre Shaitana sonnecchia su di una poltrona davanti al fuoco. Non vola una mosca fino a tarda ora, nonostante tutti si alzino dal tavolo a turno per versarsi da bere oppure mettere un po' di legna sul fuoco; poi Poirot e gli altri rappresentanti della legge tornano nel salone, dove l'altro gruppetto sta ancora giocando a carte, e scoprono l'orrenda verità: Shaitana è stato pugnalato nel sonno. Senza alcun dubbio, le indagini preliminari di Battle mettono in chiaro che soltanto uno degli ospiti più aver commesso il delitto; ma chi può aver avuto un'audacia tale da ammazzare un uomo davanti a tre testimoni? Roberts, Despard, la signora Lorrimer e la signorina Meredith sono tutti quanti sospettabili allo stesso modo, soprattutto perché già indicati dalla vittima come potenziali assassini e perché si sono alzati dal tavolo in solitudine. Però nessuno li ha visti compiere l'atto scellerato. Anche le testimonianze e gli interrogatori incrociati sortiscono alcun effetto significativo; così la signora Oliver propone agli altri tre di mettersi in società, per scoprire qualcosa di più sulle loro prede. Ognuno compirà i passi necessari per approfondire la conoscenza di Roberts, Despard, Lorrimer e Meredith, seguendo i propri metodo e istinto, e alla fine si riuniranno tutti insieme per tirare le fila del discorso e mettere le carte in tavola, proprio come nel bridge. A malincuore, Battle accetta con la condizione che spetterà a lui compiere qualunque incriminazione ufficiale, e incarica gli altri di scoprire a turno qualche segreto sui sospettati. E la faccenda darà i suoi frutti, mettendo in luce quanto di più oscuro si cela nelle vite passate dei quattro imputati. Sarà però Poirot a mettere la parola fine alla faccenda, grazie al suo intuito e alla sua conoscenza della natura umana, la quale si rivela sempre nelle piccole cose.

Biglietti su cui sono stati segnati i punteggi delle partite di
bridge nella sera fatidica della morte di Shaitana

Più di una volta mi è capitato di domandarmi: perché Agatha Christie ha ottenuto e detiene tutt'oggi un successo così grande? Infatti, dire che proprio tutti siamo d'accordo col fatto che i suoi libri (chi più, chi meno) siano dei capolavori, probabilmente è un po' esagerato; ma comunque non c'è alcun dubbio che essi riescano a mettere d'accordo una larghissima fetta di lettori. E la risposta che mi sono dato è che, tra i tanti motivi, lei sia stata soprattutto in grado di raccontare la Vita (con l'iniziale maiuscola) in modo perfetto; proprio come alcuni suoi colleghi e colleghe del calibro di Dorothy L. Sayers, per fare un esempio su tutti, i quali ancora oggi sono ricordati, ma facendo allo stesso tempo in modo di essere accessibile e "semplice" da comprendere. Voglio dire, mi sembra che abbia trasportato la quotidianità in un contesto fittizio, infondendole una patina di originalità ed esaltandone le qualità nel bene e nel male senza fare discorsi troppo complessi; cosa che ben pochi sono stati in grado di mettere in atto, e nessuno al suo pari. Proprio per questo, dunque, sono convinto che Christie sia riuscita a conquistare il cuore dei lettori, dal momento che in qualche modo è stata capace di raccontare ciò che ognuno di noi vive in prima persona. Ed è per questo che, tra l'altro, penso lei si sia affermata pure in Italia, dove nessun altro giallista ha ottenuto una tale celebrità (nemmeno Ellery Queen, Erle Stanley Gardner e Perry Mason hanno mai visto pubblicati saggi su loro stessi o i loro protagonisti). In ogni caso, questa popolarità non sempre ha avuto risvolti positivi: se i critici si sono impegnati ad analizzare tutti i dettagli della sua opera e della sua vita, i giudizi che ne sono emersi hanno avuto un esito altalenante. Secondo alcuni, infatti, i libri di Christie appartengono alla mera letteratura di consumo, intesa come qualcosa da divorare in qualche ora di spensieratezza e divertimento, senza trasmettere particolari messaggi col loro passaggio; per altri, invece, essi sono capolavori che illustrano al meglio la società del secolo scorso e costituiscono ritratti veritieri della psicologia dell'individuo. Da parte mia, penso possano essere sia l'uno che l'altro, in base a come uno li considera: capolavori dell'arte dell'intrattenimento fittizio, nei quali si alternano colpi di scena magistrali e delitti messi a segno con abilità, oppure approfonditi trattati che illustrano la psicologia e la sfera passionale dell'individuo. Però posso capire come non a tutti possa apparire chiara questa doppia definizione; in fondo, ognuno vede la faccenda secondo un giudizio influenzato dalla propria visione personale. È questa la benedizione/maledizione che colpisce l'opera di Agatha Christie: la capacità di adattarsi sì a qualunque tipo di lettore, che sia esso alla ricerca di svago oppure di una storia in cui siano trattati argomenti seri, e allo stesso tempo la costante condanna da parte di alcuni di non essere capace di esprimere la giusta austerità a causa della sua (apparente) semplicità.

Con il caso di "Carte in Tavola", si può esprimere perfettamente questa divisione dei pareri. Da una parte, infatti, esso è stato incluso in una lunga serie di liste di critici influenti ed esperti come uno tra i capolavori della Regina del Giallo (ad esempio, Patrick del blog "At the Scene of the Crime" lo considera il suo preferito, oppure Martin Edwards lo colloca al quinto posto della sua classifica, mentre nel blog The Passing Tramp sono riportate numerose liste in cui esso compare). D'altra parte, tuttavia, secondo alcuni questo giallo in particolare si è rivelato essere noioso e fin troppo macchinoso, oppure confuso e astruso nella spiegazione dell'indagine di Poirot volta alla scoperta dell'assassino. E a ben vedere c'è un pizzico di verità in ognuna di queste considerazioni. Ad esempio, penso al fatto che il caso ideato da Christie appaia a prima vista quanto mai convenzionale e conforme, fin quasi troppo strutturato e quindi poco "sentito" dal lettore. Dopotutto, esso è basato soprattutto sull'interpretazione del gioco del bridge, il quale non si può proprio dire sia esaltante oppure sconvolgente (a meno che tu non sia un appassionato sfegatato di questo passatempo!). Inoltre, a mio parere la spiegazione finale sembra un po' tirata, dal momento che essa viene data da Poirot in base alle considerazioni psicologiche che egli ha colto nel corso dell'indagine, e suffragata da un espediente non del tutto corretto ai fini del gioco pulito. Tutto appare molto veloce e forse un po' superficiale rispetto a quanto ci ha abituato Christie, poiché alcune aree di "Carte in Tavola" potevano forse essere approfondite ed ampliate per esaltare i brillanti colpi di scena che sono al suo interno; tra tutte la figura di Shaitana, la quale avrebbe avuto il potenziale giusto per diventare un antagonista più durature dell'investigatore belga. Insomma, anche secondo me questo non è il più bel romanzo giallo scritto da Agatha Christie. Però voglio sottolineare il fatto che, pur non essendo il migliore, "Carte in Tavola" si può benissimo piazzare tra i primi cinque esemplari in un'ipotetica classifica. Infatti, avrete notato che qui sopra ho usato verbi che rimandano al condizionale, come "apparire" e "sembrare"; ed è proprio questa la chiave del successo di questo romanzo e dei mysteries di Christie: ogni cosa viene dipinta in modo da avere un sapore attenuato, senza che ci siano chissà quali esternazioni sensazionali a condire il racconto, ma nasconde dietro le righe un mondo di oscurità e profondità emozionale strabiliante. Non a caso l'autrice è riconosciuta in tutto il mondo come quella che meglio ha saputo sfruttare gli elementi fondamentali del genere, tanto da dare l'impressione di averli inventati lei. Il villaggio di campagna inglese accanto alla figura di Miss Marple, il viaggio in treno di "Assassinio sull'Orient-Express" e la vacanza funestata dal delitto in "Corpi al Sole", sono tutti associati alla sua figura, nonostante pure altri autori si siano cimentati nella creazione di storie ambientate in tali luoghi. Però il fatto sorprendente è che, spesso, l'idea di modestia che il lettore si fa prima di entrare nella storia, immaginandola caratterizzata con semplicità e ordinarietà, viene disillusa con una franchezza sorprendente. Se poi aggiungiamo il fatto che lo stile di Christie, grande sostenitrice dell'economica enunciazioni su carta di fatti e dialoghi, è sempre stato molto scarno e fin troppo essenziale, al punto di diventare un suo marchio si fabbrica, tutto tenderebbe ad indicare che anche il mistero e l'enigma siano semplice e ordinari; se non fosse che, come non mi stancherò mai di ripetere, nella narrativa gialla niente è come appare.

Fotografia raffigurante un tipico bus inglese a due piani, simile
a quello su cui conversano Poirot e il maggiore Despard
Infatti, anche se il ragionamento sullo stile può trovare un certo riscontro se paragonato a quello impiegato da altri autori, nel corso della descrizione delle vicende Agatha Christie, pur sembrando in tutto e per tutto disinvolta, si ingegna a capovolgere le certezze del lettore e a sviarlo con trovate innovative e inaspettate, sfruttando gli stessi cliché che dovrebbero limitarla e utilizzando una narrazione unica che ha mantenuto il proprio smalto fino ai nostri giorni, spesso venata di un pizzico di humor e leggerezza. Si impegnò sempre a cambiare le carte in tavola, proprio come accade nelle partite di bridge si svolgono all'interno del romanzo analizzato oggi: la regola era quella di partire da una situazione ordinaria, per poi dar vita a vicende del tutto nuove e originali, calate nella realtà di tutti i giorni e toccando di volta in volta temi dai risvolti inesplorati, oppure utilizzando tecniche in fase si sviluppo. Così accade in "Carte in Tavola" dove la partita a carte, quasi mai origine di eventi terrificanti e angosciosi (a differenza della più famosa seduta spiritica, ad esempio), diventa una fonte di sorprendenti risvolti per l'indagine di cui si occuperà Poirot (pp. 18-21, 33, 37-40, 48, 79-81, 109-110, 143, 200-205). Non è necessario conoscere il gioco del bridge per poter comprendere dove le intenzioni dell'autrice intendono andare a parare; le informazioni che ci vengono date a riguardo sono un po' specializzate, ma ai fini del risultato finale non dobbiamo essere abituati ad atout e simili: il gioco viene semplicemente sfruttato come strumento di indagine a causa delle sue caratteristiche rivelatorie. Da lì, infatti, si sviluppano una serie di altri aspetti, primo tra tutti il contrappunto tra l'aria di allegra e spensierata svagatezza che ritroviamo nelle scene in cui è protagonista la signora Oliver, con i suoi dialoghi divertenti e la sua goffaggine, e l'atmosfera generale di cupezza novembrina in cui è calata l'inchiesta della polizia e dell'investigatore belga. Ogni botta-e-risposta, anche quello meno impegnativo, è fatto più di allusioni che di affermazioni, mettendo in mostra la maestria di Christie nel fornire con astuzia al lettore elementi utili alla risoluzione del caso, ma senza rinunciare a note di colore e cenni al carattere dei personaggi. La caratteristica centrale di "Carte in Tavola", a mio parere, consiste proprio in questo suo essere un romanzo "psicologico", dove Poirot raccoglie indizi attraverso le testimonianze, a discapito di una ricerca degli indizi materiali come era stato nei libri precedenti della sua saga (infatti era già avvenuto lo switch da giallo ispirato da Sherlock Holmes a quello basato sullo studio della natura umana, messo in atto in "Assassinio sull'Orient-Express" e poi perfezionato in "Tragedia in Tre Atti" e "La Serie Infernale"). Cosa naturale, visto il carattere di Poirot più propenso al lavorio delle cellule grige rispetto all'azione pragmatica: l'omicidio di Shaitana, infatti, non vede chissà quali prove tangibili a suffragio della tesi di colpevolezza, quanto piuttosto una somma di indizi psicologici che l'investigatore raccoglie con i suoi metodi eccentrici ma utilissimi; così da mettere in piedi un'accusa che presenta sì alcuni difetti nel momento in cui deve essere presentata davanti a una giuria, ma allo stesso tempo si rivela essere uno dei più grandi esempi dell'arte dell'Onesto Inganno di Christie, con i suoi frequenti tuffi nel passato e il sottile senso di disagio che traspare dai confronti tra i sospettati e gli inquirenti. Sono convinto, pertanto, che "Carte in Tavola" sia un romanzo straordinario e debba essere considerato come un esempio di giallo psicologico più vicino a quello degli anni '40: non bisogna colpevolizzare l'autrice per la debolezza della storia in generale, ma soltanto per un finale forse troppo sbrigativo.

In sé, il mistero di "Carte in Tavola" è molto intelligente e prende spunto della partita durante l'ultima sera di vita di Shaitana per approfondire il carattere di ognuno dei protagonisti, così da permetterci di farci un'idea ben precisa su ognuno dei sospettati e degli investigatori (dilettanti e non). Le figure del sovrintendente Battle (che farà altre quattro apparizioni, di cui due come protagonista), del colonnello Race (apparso in "L'Uomo Vestito di Marrone" e in futuro in "Poirot sul Nilo" e "Giorno dei Morti") e di Ariadne Oliver (spalla dell'investigatore belga in altre cinque occasioni e solista in una soltanto) occupano un ruolo di primo piano nella scoperta della verità: chi più, chi meno, tutti contribuiscono alla risoluzione dell'enigma e permettono a Poirot di scoprire la verità. Sono figure che agiscono e tengono alta l'attenzione del lettore, nonostante siano pochi gli attori complessivi sulla scena, mentre la tensione del racconto viene in qualche modo esercitata dai sospettati: quattro protagonisti e quattro antagonisti, con i loro compiti distinti e inscindibili per fare in modo di creare la giusta alchimia che si ritrova in "Carte in Tavola", dove queste emozioni vengono sollevate e mantenute in equilibrio tra disagio e conforto. La psicologia è ciò che più importava porre sotto i riflettori per Christie, la quale non si abbandona mai a frivolezze fini a se stesse ed è sempre credibile (pp. 18-20, 64-68, 97-99, 112-118, 144-151, 155-157, 192-193). Magari descrive Hercule Poirot e i suoi atteggiamenti, eccentrici quanto quelli della signora Oliver, come se ne volesse fare una caricatura; ma sotto sotto ogni azione è calcolata ai fini della scoperta della verità e lei ragiona su come ingannare il suo pubblico, fornendo in aggiunta osservazioni per nulla banali sulla menzogna, sul concetto di verità, sul sesto senso femminile (quanto si sofferma su questo particolare tema, a ragione, la signora Oliver!). Accanto a tutto ciò, inoltre, bisogna pure sottolineare come l'autrice si impegni a mettere in scena i metodi adottati dalla polizia, stando attenta a rispettarne le caratteristiche (pp. 63-68, 97-99). Un momento: questo significa forse che abbiamo sbagliato a considerare "Carte in Tavola" un giallo psicologico e a giustificare le sue carenze dal punto di vista dell'inchiesta pragmatica? Affatto: come si dimostrerà, infatti, le informazioni raccolte dai segugi attivi nel campo delle ricerche geografiche, Battle e Race, non riusciranno ad inchiodare il personaggio colpevole, ma saranno i sospetti e le certezze basate su sensazioni e idee immateriali a far emergere dal gruppo dei sospetti la figura dell'assassino. Perché il delitto non è sempre eseguito in base a schemi prestabiliti; molto spesso, l'omicidio può raggiungere forme d'arte impossibili da imprigionare se non utilizzando gli stessi mezzi di cui esso stesso è fatto (pp. 9, 16-18, 25-26, 45, 49-59, 132-134, 169-171, 176-177). In conclusione, quindi, Christie riesce nel complesso a dare vita a un romanzo giallo pieno di "divagazioni" e congetture che, se considerate nel complesso, non risultano mai superflue alla soluzione finale; anzi, proprio attraverso il magistrale uso dei silenzi, più che delle parole, riesce a svelare solo ciò che desidera sia svelato e a nascondere ciò che, invece, intende mantenere segreto, in ogni frase del libro. Forse è questo il segreto di Agatha Christie, quello che le ha permesso di sviluppare una maniera tutta sua di incantare il lettore, mettendolo alla prova ma con leggerezza. Quella stessa maniera che la signora Oliver si sforza di sfruttare e mettere in pratica, ogni volta che si siede davanti a una macchina da scrivere per iniziare una nuova impresa letteraria.

Agatha Mary Clarissa Miller, alias Agatha Christie Mallowan,
nata nel 1890 e morta nel 1976
Se si legge tra le righe di "Carte in Tavola", ma pure di altri romanzi in cui essa compare, si possono riscontrare numerose affinità tra la figura della signora Ariadne Oliver e Agatha Mary Clarissa Miller (questo era il cognome da nubile dell'autrice, trasformato una prima volta in occasione del primo matrimonio, e divenuto Mallowan con l'avvento della seconda relazione coniugale). Christie, infatti, fece della signora Oliver un alter ego divertente e un po' caricaturale di se stessa, infondendole non solo alcune delle proprie caratteristiche fisiche, ma pure convinzioni sulla concezione della letteratura e soprattutto sul piano emotivo e sentimentale. Tra le altre cose, ad esempio, le trasmise la sensibilità necessaria a comprendere tanto bene, nonostante qualche indecisione di carattere, il mondo che la circondava, con tutti i suoi contrasti, e a sviluppare la capacità di saper dire e non dire qualcosa (nella realtà e nella finzione) in base al proprio volere. La stessa Christie a volte è stata generosa e disposta alle confidenze, altre si è rivelata più chiusa di un'ostrica. Grazie alla sua autobiografia, ad esempio, sappiamo molto riguardo la sua infanzia, il periodo più felice di tutta la sua esistenza, quello dove gli affetti rappresentati dai genitori, dal fratello, dalla sorella e dai domestici non mancarono mai; in cui le giornate erano piene ancor più del solito di voglia di fare, giocare, scoprire il mondo; durante il quale iniziò a viaggiare e che le regalò ricordi indelebili, come le giornate passate da "zia-nonnina" nella casa di Ealing. Allo stesso modo, ci ha raccontato con generosità i primi balli e gli incontri con gli innumerevoli giovanotti che la corteggiarono, così come il momento in cui si ritrovò catapultata improvvisamente nel pieno della Grande Guerra e iniziò a lavorare come infermiera al dispensario di Torquay. Ha descritto la nascita della sua carriera di scrittrice, dovuta all'impulso di un momento in occasione di una scommessa con la sorella Madge; l'incontro con Archie, il primo marito, e il loro viaggio in giro per il mondo in occasione dell'Esposizione Universale del 1924; la nascita della figlia Rosalind; la passione per le case e il cibo; il viaggio in Oriente e gli scavi archeologici. Persino la gioia nel possedere un auto di proprietà e di aver cenato accanto alla Regina d'Inghilterra. Tuttavia, riguardo altri eventi della sua vita Agatha Christie ha preferito lasciare un'ombra di incertezza e di dubbio. Il fatto più famoso, in questo senso, è la sua scomparsa nel 1926, quando Archie le confessò di essersi innamorato della sua segretaria e di voler divorziare. Probabilmente nessuno, al di fuori della stessa Agatha, ha mai saputo quale fu il movente scatenante di questo improvviso colpo di testa: forse un'amnesia, come sostennero i suoi familiari? Oppure un deliberato tentativo di accusare il coniuge fedifrago di averla eliminata per ottenere la separazione? Martin Edwards, sfruttando le informazioni ricavate dai romanzi di questa grande scrittrice, in "The Golden Age of Murder" ha formulato un'interessante ipotesi a riguardo.

In ogni caso, resterà per sempre un mistero insoluto, poiché nemmeno prima di morire lei rivelò la verità. Anche del suo rapporto con gli altri membri del Detection Club, l'associazione di giallisti di cui fece parte per molti anni, non racconta nella sua autobiografia; tuttavia, in questo caso possiamo sfruttare le lettere e i documenti che proprio i suoi compagni ci hanno lasciato, i quali ci tramandano un'immagine vitale e disponibile della Christie, fatta di sostegno reciproco e condivisione di interessi, oltre che di amicizia e sacrificio; come nel momento in cui lei, nonostante la timidezza, accettò di assumere la carica di Presidente del Club, poiché nessun altro possedeva le specifiche capacità richieste dal ruolo. La modestia fu sempre una delle sue caratteristiche principali, tanto che odiava rilasciare interviste (non si fidava della stampa, dopo che essa l'aveva gettata in pasto alla gente al momento della sua scomparsa) e non riusciva a spiccare parola davanti a un pubblico o ad eseguire correttamente un pezzo al pianoforte, se le premesse si facevano terribilmente ufficiali; ma il tratto caratteriale che a mio parere l'ha saputa contraddistinguere maggiormente è stata soprattutto la sua grandissima gioia di vivere, la quale le permise di coltivare un carattere solare, purché venato a volte da qualche ombra, che lei riversò nei suoi personaggi, rendendoli più vivi che mai e, in questo modo, facendoceli amare anche nella loro imperfezione. Mentre osserviamo i ritratti sfaccettati e le chiacchiere a volte frivole, a volte piene di sottintesi inquietanti, che i sospettati dell'omicidio di Shaitana scambiano con Poirot, passiamo attraverso dialoghi dove traspare una forte corrente sotterranea di disagio e di sofferenza e osserviamo l'evoluzione dei sentimenti che si agitano nei cuori dei protagonisti, ci rendiamo conto di come noi stessi potremmo essere i protagonisti delle sue trame, in procinto di affrontare le nostre sfide e di rialzarci ogni volta che cadiamo. Tutti loro non sono mai come sembrano, attori di un romanzo giallo che ingannano il lettore; cosa dire allora di noi stessi, che indossiamo ogni giorno una maschera diversa? Agatha Christie l'aveva capito, ed era riuscita a trasportare questa consapevolezza (e la Vita reale, come gli altri Grandi) sulla carta per farne materiale da usare allo scopo di sviare il lettore; senza mai barare, per giunta. Perché se c'è qualcosa che non possiamo proprio rimproverare alla Signora del Delitto, quello è proprio il suo Onesto Inganno: ovvero, fornirci tutti gli indizi che ci servono (nonostante non sempre sia rispettato un rigido fair-play inteso in senso tradizionale) e, allo stesso tempo, menarci per il naso con una classe a tutt'oggi ineguagliata, tra false piste e "aringhe rosse". Indizi che, oltre ad essere in minima parte di natura materiale nei foglietti col punteggio delle partite a bridge, in "Carte in Tavola" prendono la forma di emozioni, sensazioni e impalpabili sospetti. Perché a Christie ciò che più importava era lo studio della natura umana, con tutti i suoi pregi e difetti, e per questo l'aspetto che più viene approfondito nei suoi romanzi, man mano che passano gli anni, diventa la caratterizzazione degli attori sulla scena e il loro comportamento. A differenza della solita critica sulla vacuità dei personaggi di Christie, infatti, l'autrice riesce a dare vita a un microcosmo di relazioni che forniscono a Poirot manifeste prove da interpretare per giungere alla verità: prove impalpabili, certo, ma indispensabili per interpretare la mente dell'assassino e scoprirne i punti deboli.

Alexander Siddig nella magistrale interpretazione di
Shaitana nell'episodio "Carte in Tavola" della meravigliosa
serie TV "Agatha Christie's Poirot"

Bisognerebbe fare un discorso a parte sui personaggi di "Carte in Tavola", per essere sicuri di toccare tutti quanti gli aspetti di ognuno; per cui mi limiterò a una breve panoramica. Innanzitutto, è interessante la figura della vittima, il signor Shaitana (pp. 12, 14, 17-18, 26-28, 34-35, 40-41, 47, 59, 82, 110-111). Egli viene dipinto come una sorta di controfigura di Hercule Poirot (pp. 5-10): è straniero, viene considerato come un eccentrico inguaribile e anche un po' strano, porta un paio di baffi che potrebbero gareggiare con quelli del piccolo investigatore belga, e nutre un grandissimo interesse per il delitto e il crimine. Inoltre, Shaitana rappresenta una vittima memorabile, come è la sua stessa persona, progettata per attirare l'attenzione grazie al suo atteggiamento mefistofelico e un po' sinistro, e generatrice di una sorta di sottile terrore. Tra le altre cose, egli è un collezionista di assassini, cosa che lo rende ancora più inquietante; un vero diavolo, insomma, come recita il suo stesso nome in lingua hindi. È un peccato che sia diventato un assassinato invece di un antagonista di Poirot; però è pur vero che, se le cose fossero andate in modo diverso, forse Shaitana avrebbe rischiato di soffiare la scena al protagonista. Infatti due figure talmente simili non avrebbero potuto convivere per troppo tempo, con la conseguenza di creare una grossa confusione per niente. Invece, Christie è stata abbastanza intelligente da dipingere una vittima che si stampasse nella mente del lettore e desse l'idea di ambiguità necessaria in un romanzo giallo psicologico come "Carte in Tavola"; in questo modo, ha dato vita a un confronto alla Jekyll-Hyde tra Poirot e Shaitana, mettendo a confronto le loro menti curiose e particolari. Entrambi sono tortuosi e ambigui, tra facezie e momenti seriosi, e impiegano le loro abilità per scavare nel prossimo alla ricerca di segreti; però l'intenzione del piccolo belga è quella di sfruttare le proprie capacità per fini positivi, come la ricerca di assassini e della verità, mentre quella dell'orientale è volta a un divertimento cinico e pericoloso. Come se non bastasse, poi, i due hanno una visione del delitto opposta: uno lo considera un atteggiamento da condannare in ogni occasione, l'altro quale una prova di abilità d'artista il cui successo è da ammirare, con un premio finale che consiste nell'evitare la punizione della giustizia. Ciò sembrerebbe indicare una certa malvagità dietro le azioni di Shaitana (cosa in qualche modo sottolineata dai continui riferimenti razzisti del popolino britannico contro di lui, alle pp. 6 e 14), ma sono convinto che sotto sotto il giudizio finale su di lui sia molto più articolato da dare. Infatti penso che Shaitana sia una vera e propria vittima, intesa come figura che non si rende conto di essere in pericolo e catalizzatrice delle conseguenze che deriveranno dalla sua morte (cap. 1, p. 25). Chissà se è per questo motivo che Poirot è tanto determinato a scoprire chi lo abbia ucciso... La sua dipartita scatena una serie di drammi e tragedie che non sarebbero immaginabili in un primo momento, e le stesse personalità degli altri personaggi ne vengono influenzate, rivelandone pregiudizi e difetti. Al punto che, alla fine, l'orientale si trasforma in una figura certamente non buona, ma perlomeno tragica e responsabile della propria imprevista fine; mentre i sospettati, da apparenti vittime, assumono il ruolo di cacciatori da considerare ben peggio di Shaitana. Chi punta il dito sembra non vedere la proverbiale trave nel proprio occhio, a dispetto della pagliuzza.

Questo discorso, pertanto, porta a un'analisi degli investigatori e dei sospettati, ognuno influenzato dalla figura ambigua di Shaitana e dalla sua fine. Su Battle e Race, in realtà non c'è molto da dire: sono i tipici poliziotti che seguono la routine per tentare di risolvere il caso e fanno affidamento sulle loro conoscenze e capacità pragmatiche. Forse si può riscontrare una particolare intelligenza soprattutto nel primo, il quale astutamente riesce a raccogliere alcune informazioni dando prova di un ingegno sottile (penso alla scena con la segretaria del dottor Roberts o con gli abitanti di Wallingford). Tra i quattro, tuttavia, ad eccezione di Poirot, è la signora Oliver il personaggio più interessante, dal momento che, come dicevo sopra, è stato ricalcato sull'esistenza della stessa Christie (pp. 10-11, 14, 18, 20-21, 27-28, 34, 57-59, 83, 91, 119-124, 130, 200). Si tratta di una figura molto divertente, capace di strappare qualche risata al lettore nonostante l'atmosfera cupa che regna quasi sempre in "Carte in Tavola"; che non si fa prendere troppo sul serio ma dimostra comunque uno spiccato senso dell'osservazione e della comprensione di ciò che la circonda. Ciò la porta a cambiare continuamente le proprie opinioni, certo; però allo stesso tempo le permette di cogliere sensazioni che altri ignorano e di capire più a fondo le persone. Pertanto, è intuitiva e crede nel sesto senso femminile, proprio come la sua creatrice, e ovviamente scrive romanzi gialli il cui protagonista è un finlandese dal nome impronunciabile (uno dei quali è intitolato non a caso "C'è un Cadavere in Biblioteca"). Il suo prendersi in giro in continuazione la rende un personaggio simpatico da leggere, e le osservazioni che fa sul suo lavoro non possono che rimandare alle tribolazioni che Christie affrontava ogni volta nella stesura di un nuovo mystery. Vede ogni cosa come un gioco, anche il delitto, ed è grazie a lei (e al suo spirito intraprendente e un po' ficcanaso) che la polizia decide di dare inizio a un'indagine condivisa tra più elementi. Indagine che è concentrata su un numero incredibilmente ristretto di possibili assassini: il dottor Roberts, la signora Lorrimer, il maggiore Despard e la signorina Meredith. Ognuno di loro è una persona diffidente, che mostra una maschera alla società perbene e si tiene stretti i propri segreti, fingendo disinvoltura. Non hanno nulla a che fare con Shaitana; eppure non sfigurano nel suo salotto, sono capaci di immedesimarsi nel ruolo richiesto grazie alla lunga pratica della menzogna sviluppata nel tempo. Il dottore (pp. 12, 15-16, 22, 28-33, 39, 44, 48, 54, 60-63, 69-71, 73-76, 115, 134-137, 142, 184-185, 197-200) ha un atteggiamento forse fin troppo disinvolto, per un tizio sospettato di aver compiuto un crimine, e un gusto per il rischio che non possono non insospettire il lettore; ma all'apparenza non c'è alcuna ragione per presumere che egli sia uno spietato omicida. La signora Lorrimer (pp. 12-13, 16, 18, 23, 29, 33-39, 44, 48, 55, 78-83, 124-127, 137-138, 142, 167-180, 182-183, 187), d'altro canto, avrebbe la giusta mentalità della Lucrezia Borgia, capace di calcolare un assassinio a sangue freddo come se fosse un ballo in maschera o una partita a carte; se non fosse che conoscesse appena Shaitana. Il maggiore Despard (pp. 13, 16, 23, 33, 39, 44, 46-49, 54-55, 92-97, 105-111, 131-133, 141-142, 147-150, 152-155), invece, sembrerebbe nutrire del rancore verso la vittima ed è vissuto al di fuori della civiltà abbastanza per sollevare qualche interrogativo; però allo stesso tempo non si sarebbe sporcato le mani con una faccenda tanto disonorevole. Infine, la dolce e gentile Anne Meredith (chiamata così per un riferimento velato a Beatrice Lucy Malleson, la giallista che si nascondeva dietro il nome di Anthony Gilbert), che vive in un cottage lontano dagli sguardi curiosi della gente (pp. 13-15, 23, 33, 35-45, 48, 54, capp. 12-13-14, pp. 122-123, 126-129, 138-142, 158-166, 189-192, 194-196). Potrebbe aver compiuto lei il misfatto? Le apparenze giocano a suo sfavore; ma chi può basare il proprio giudizio su una semplice faccia? Tutti potrebbero averlo fatto, in base alle loro mentalità depravate, ma non ci sono prove. Allora bisogna tornare al passato: infatti, cosa importante, i quattro cittadini sono sospettati di essere assassini scampati alla giusta colpa. Se sono colpevoli, riusciranno a sfuggire alla Legge ancora una volta, oppure sconteranno la pena? Mi è piaciuto molto il concetto di Giustizia che Christie ha messo in luce in "Carte in Tavola"; forse è proprio uno dei motivi per cui questo libro è tanto celebrato. 

In un post del suo blog, inoltre, Kate Jackson ha osservato come le caratteristiche di questo romanzo assomiglino molto a quelle di "Dieci Piccoli Indiani"; tanto da restituire quasi una sorta di riflesso allo specchio. E francamente trovo che ci sia molto di vero in questa tesi. Dopotutto, Christie non ha mai nascosto il fatto di riuscire a rimescolare sempre gli stessi elementi in innumerevoli forme; per cui, come mai dovrebbero cambiare le cose? In "La Serie Infernale" (citato a p. 14) aveva addirittura anticipato la trama dello stesso "Carte in Tavola", facendo descrivere al buon Hastings la configurazione ideale della risoluzione di un delitto da parte di Poirot! E quest'ultimo l'aveva accolta con gioia, dal momento che esso richiedeva una deduzione puramente psicologica per essere risolto. Torniamo quindi al discorso che facevo sopra: cioè al fatto che l'indagine sulla morte di Shaitana sia da considerare secondo un punto di vista un po' particolare, rispetto ad altri gialli della Regina del Crimine. In un crescendo di tensione e suspense, immersa nell'atmosfera cupa di un novembre londinese e nei falsamente confortevoli spazi domestici (pp. 19-20, 22-25, 77, 83-84, 97-100, 119-124, 180-181), le riflessioni e gli scontri su chi tra i quattro sospettati abbia commesso il delitto evocano fantasmi e supposizioni che infestano le persone, dando luogo a un'indagine del tutto basata su elementi poco tangibili, tra pregiudizi e sospetti. Christie gioca con tutto ciò e induce il lettore  a credere a qualunque cosa, affermando e negando con rapidità ogni convinzione, capovolgendo le certezze e le idee; ma allo stesso tempo approfondisce ogni vissuto dei protagonisti e, seguendo la corrente che avrebbe presto portato allo sviluppo del giallo psicologico, fa un ottimo lavoro nel dimostrare l'abilità di Poirot nello svelare man mano la verità sui personaggi. Passo dopo passo, partendo dalle allusioni durante la cena e dalle parole ermetiche di Shaitana, l'autrice inizia a stuzzicare le impressioni di chi legge e degli inquirenti; poi ci consegna i primi giudizi (tra cui quelli della signora Oliver) generati dagli interrogatori subito dopo il fattaccio e le curiose domande di Poirot, le quali paiono non avere senso. In seguito, permette ad ognuno di noi di entrare in contatto col mondo dei sospettati, sollevando veli su veli, fino a indicarci un'identità precisa. Ma sarà tutto così facile? Nella crime story classica (in particolare quella di Agatha Christie) niente è come sembra, e "Carte in Tavola" dimostra il concetto al meglio, intrattenendo il lettore e andando allo stesso tempo in profondità per sondare la malvagità e la colpa. Forse non ha ottenuto la stessa fama di "Assassinio sull'Orient-Express" (citato a p. 162) e "Dieci Piccoli Indiani" perché non ne è mai stata fatta una trasposizione fedele, oppure perché l'idea di un delitto durante una partita a bridge non stuzzica l'appetito. Però io vi voglio assicurare che questo è un capolavoro nel suo genere, pieno di contrasti e con un enigma diabolico, giocato su un trucco tanto astuto quanto semplice. Il Diavolo-Shaitana ha sfidato la sorte, e quest'ultima lo ha punito; ma si sa che la Fortuna è cieca, per cui l'assassino dovrà stare molto attento a come muoversi per depistare le sue tracce.

P.S. Ecco qui la mia recensione per la maratona di Liberi di Scrivere. Mi ha molto divertito prendervi parte, e mi auguro di ripetere l'esperienza in futuro. Grazie a Shanmei per l'opportunità!

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