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venerdì 25 settembre 2020

47 - "Ipotesi per un Delitto" ("Let X Be the Murderer", 1947) di Clifford Witting

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore

Come ho già avuto modo di osservare nell'introdurre la recensione di "Com'è Morto il Baronetto?" di H.H. Stanners, la classica crime story non è fatta di soli capolavori di autori ampiamente riconosciuti. Infatti, accanto a nomi come quello di Agatha Christie, la cui opera è conosciuta non solo all'interno del genere giallo, ma anche tra i lettori occasionali e chi è entrato in contatto col suo nome attraverso canali extra-letterari (con serie TV, film e quant'altro); di Dorothy L. Sayers e di Anthony Berkeley (forse i più celebri tra i giallisti classici, troviamo molto spesso perle letterarie di scrittori considerati illustri sconosciuti al di fuori della cerchia di appassionati di romanzo del mistero. Proprio "Com'è Morto il Baronetto?" si è rivelato essere un perfetto esempio di questo tipo di mystery, con una storia gradevole e (forse) talmente tanti elementi "tradizionali" da apparire fin troppo stereotipato, allo stesso modo esistono pure racconti che non hanno goduto della stessa fama di altri più celebrati, ma per questo non sono meno intriganti e affascinanti. Accanto ai capolavori, si possono meritatamente collocare sporadiche prove di giallisti che magari sono stati mediocri nel resto della loro produzione: mi viene in mente, ad esempio, Joel Townsley Rogers il quale, a parte "La Rossa Mano Destra", non ha prodotto chissà quali eclatanti parti creativi; oppure J. Jefferson Farjeon che, tra una spy story e un libro avventuroso, ci ha lasciato alcune piccole gemme di genere giallo come "Sotto la Neve" e "La Casa dei Sette Cadaveri". Nella maggior parte di questi casi, i loro autori magari hanno goduto di una certa celebrità finché erano in vita e così hanno potuto continuare a scrivere fino alla fine dei loro giorni; ma poi, di punto in bianco, non appena la loro produzione è cessata, le loro opere (sia quelle meno sia quelle più pregevoli) non hanno retto il colpo e sono via via scomparse dalla scena e dalla memoria dei lettori. In questo modo, molti meritevoli romanzi gialli della Golden Age, ma non solo, sono stati dimenticati e trascurati. Chissà qual è stato il motivo di questo spiacevole oblio. Forse essi sono stati dati alle stampe nel momento sbagliato o impiegando cliché inflazionati per il loro tempo, oppure il loro autore non è riuscito a raggiungere la fama che desiderava e nonostante il buon riscontro da parte di una parte del pubblico, complice la delusione, ha smesso di scrivere. Forse si è trattato di qualcosa di semplicemente naturale: infatti, i libri di questo genere sono talmente numerosi che, se qualcuno sfugge alla nostra attenzione, non c'è poi da stupirsene.

In ogni caso, non bisogna arrendersi al fatto compiuto; si deve continuare a fare attenzione e a restare aperti a nuove dritte su romanzo gialli che possono essere passati inosservati per ridare loro ciò che meritano (tra gli altri, mi incuriosisce moltissimo l'opera di Brian Flynn, riscoperta da PuzzleDoctor nel suo blog In Search of the Classic Crime e in corso di ripubblicazione da parte di Dean Street Press: se solo avessi più dimestichezza con la lingua inglese!). Soprattutto a quelli appartenenti a serie in cui il protagonista non è il tanto decantato e carismatico dilettante, con le sue particolari caratteristiche, ma un più prosaico poliziotto. In più di un caso (vedasi proprio l'insieme dei romanzi di Flynn), infatti, con molta probabilità questa caratteristica ha contribuito alla dimenticanza di alcuni mysteries più che riusciti, proprio perché non sono riusciti a imprimere nella memoria del pubblico un particolare personaggio o elemento originale della trama. Un vero peccato, a mio parere, dal momento che un romanzo giallo è molto di più del suo protagonista oppure di un semplice trucco di prestigio da applicare all'enigma. Pertanto, su Three-a-Penny appariranno in futuro, oltre ai già presenti "Com'è Morto il Baronetto?" di Stanners e altri racconti minori del mistero che vi lascio trovare da soli, alcune tra queste opere meritevoli di essere riscoperte; e oggi voglio iniziare tale processo con "Ipotesi per un Delitto"di Clifford Witting (Polillo Editore, 2009). Questo autore, infatti, è quasi sconosciuto (tra le altre cose, la sua biografia è davvero stringata) e ha dato vita a una serie di romanzi in cui il protagonista è l'ispettore Charlton, un poliziotto la cui caratteristica più evidente è una spiccata intelligenza. Se a tutto ciò aggiungiamo il fatto che "Ipotesi per un Delitto" tratti di un tipico caso di "delitto-della-casa-di-campagna", con un certo numero di sospetti che varia dai parenti della vittima ai vicini di casa ad alcuni individui siti in villaggi poco distanti, la familiare figura dell'investigatore seriale e indizi nascosti tra le righe, potremmo avere l'impressione di trovarci di fronte a una storia abbastanza ordinaria e simile a tante altre. Eppure, non è così: in realtà l'indagine tocca temi molto interessanti (come quello della pazzia e quello del matrimonio) e il libro si distingue per uno stile scorrevole, un enigma articolato che intrattiene il lettore e suggestive descrizioni dei luoghi in cui si muovono i personaggi, producendo un risultato gradevole e affascinante.

Downs in Winter (Southdowns, Sussex), Eric Ravilious, 1935
raffigurante il paesaggio descritto in "Ipotesi per un Delitto"
La storia è ambientata nella piccola cittadina di Lulverton, sita a tre miglia di distanza da Southmouth-by-the-Sea, nei South Downs. Laggiù, in un freddo mattino di novembre, all'interno della stazione della polizia, il sergente Martin sta aspettando l'arrivo del suo superiore, l'ispettore Harry Charlton, per aggiornarlo sulle ultime novità riguardo la vigilanza del villaggio; quando all'improvviso suona il telefono. Come scoprirà Martin, all'altro capo del filo si trova qualcuno che sostiene di essere Sir Victor Warringham, in preda a un'agitazione a malapena soffocata. La voce appare confusa e spaesata, ma sostiene con forza di voler chiedere l'aiuto dei poliziotti dal momento che, quella stessa notte, un paio di mani fosforescenti hanno tentato di strangolare sua signoria nel sonno. Il sergente, scettico, tenta di cogliere qualche informazione in più e si affretta a riassicurare il mittente che presto Charlton sarà informato, in modo che egli possa decidere come meglio agire. E una volta aggiornato, l'ispettore decide di sondare il terreno e di recarsi con Martin a Elmsdale, l'enorme villa di proprietà dei Warringham. Giunti laggiù, tuttavia, i due poliziotti si scontrano con il primo problema: nonostante la palese felicità della cameriera nel veder giunti i soccorsi, la governante di casa miss Enid Winter li accoglie con una certa freddezza, tentando di minimizzare le ragioni che li hanno spinti a scomodarsi fino a giungere nella casa fuori dalla cittadina. A suo dire Sir Victor soffre di mal di cuore, ma non potrebbe mai aver deciso di punto in bianco di giocare uno scherzo del genere alla polizia; tanto più che, da qualche ora, egli si trova chiuso nella sua camera a riposare. Ovviamente sarà impossibile per Charlton e Martin incontrarlo, per cui meglio se ripassano un'altra volta. Mentre miss Winters sta rincarando la dose, tuttavia, appare il genero dell'infermo, un tale di nome Clement Harler che sostiene come Warringham sia matto da legare e pericoloso. A suo dire, la governante ha fatto finta che Sir Victor soffra di cuore per non rischiare di farlo entrare in contatto con sconosciuti e allarmarlo senza un motivo valido. Risultato: Charlton e Martin sono costretti ad andarsene. Nel farlo, però, scoprono che Warringham sta aspettando il suo avvocato, il signor Howard, per affidargli un non meglio specificato incarico. Che abbia a che fare col suo discusso testamento?

Come si informa ben presto l'ispettore, infatti, Sir Victon Warringham ha disposto delle sue ultime volontà in modo alquanto bizzarro, senza mai cambiare un documento testamentario che risale a molti anni prima. Secondo quest'ultimo, metà del patrimonio sarebbe dovuto passare alla moglie, Lady Warringham, mentre l'altra metà a Rosalie, la sua amata figlia. Tuttavia, le due donne sono decedute in un tragico incidente che aveva visto coinvolto un ordigno bellico, ai tempi della Seconda Guerra Mondiale; pertanto, la quota della moglie di Sir Victor e quella di Rosalie dovrebbero passare entrambe a Clement Harler, genero e ultimo mebro della famiglia, il quale ha dato dimostrazione di non essere un individuo alla mano non solo per il suo atteggiamento con Charlton (spingendolo praticamente fuori dalla porta e dicendo di non dare adito ai vaneggiamenti di un pazzo secondo i quali un fantasma avrebbe tentato di ammazzarlo), ma anche per il fatto di aver portato a Elmsdale un'altra donna, una femmina fatale di nome Gladys. Tutto ciò, quindi, farebbe pensare che gli Harler stiano tramando un brutto scherzo a Warringham, così da fargli perdere del tutto la ragione e internarlo per impedirgli di fare alcuna modifica al testamento, per assicurarsi il denaro. Charlton è convinto di questa teoria e, nonostante non lo abbia mai incontrato di persona, non crede che Sir Victor sia matto: a sostenere questo fatto sono gli Harler e un dottore dalla cattiva reputazione, mentre dicono il contrario Howard e le altre due persone che hanno a che fare con il malato: un bambino di dieci anni, John Campbell, nipote di miss Winters, e Tom Blackmore, affittuario di un cottage all'interno della proprietà e conoscente di vecchia data del padrone di Elmsdale. Però non può fare nulla, finché gli eventi non si saranno spalancati davanti a lui e ai suoi sottoposti. Così assiste impotente al delitto che si verifica la notte seguente proprio in casa di Sir Victor, nuova fonte di guai. Infatti, la vittima non è Warringham, come le premesse farebbero pensare, ma miss Winters. Cosa può aver innescato una donna silenziosa e astuta come quella? Forse c'entra il testamento di Sir Victor? Oppure il movente di tale crimine deve ricercarsi nel passato della donna? Starà a Charlton mettere in pratica le indagini di routine, applicare il suo metodo basato sui fatti  e svelare la verità che si cela dietro l'assassinio.

Coastline Seascape, John Glynn, 1920
circa, raffigurante la costa inglese in cui si
trova Southmouth
Da come si presenta, "Ipotesi per un Delitto" ha tutta l'aria di assomigliare a un problema matematico, come uno dei cruciverba mentali che andavano tanto di moda nei primi anni del Novecento. Fin dalla sua struttura esteriore, infatti, esso mantiene una divisione in parti che ricorda molto da vicino quei teoremi che un po' tutti noi abbiamo studiato a scuola. "Sia ABC un triangolo isoscele" si è soliti recitare come un mantra, quando si affronta la geometria matematica; e anche in questo caso ci troviamo davanti a un postulato che ricalca questa formula, dal momento che il titolo originale del romanzo è proprio "Sia X l'omicida". Inoltre, al suo interno, troviamo uno schema quadripartito, dove ogni sezione porta il nome di una parte del problema: "Teorema", "Ipotesi", "Interpretazione" (che noi chiameremmo "Tesi") e "Dimostrazione". Nella prima parte si prova a capire chi e perché voglia la morte di Sir Victor; nella seconda si sviluppa la ricerca di indizi alternativa al filone finora seguito, dal momento che l’omicidio verificatosi non coinvolge il baronetto, ma la sua governante; nella terza si scava a fondo nelle diverse piste, per scovare chi sia cosa, quando e perché; nell'ultima i nodi vengono al pettine e si scopre chi ha commesso il crimine e il suo movente. In aggiunta a ciò, inoltre, abbiamo tutta una serie di elementi che a primo acchito rimanda a una trattazione del caso in modo alquanto asettico, tradizionale e quasi pedante. Ad esempio, le premesse dell'omicidio (ed esso stesso) ricalcano il classico schema secondo cui tutti gli eventi danno ad intendere che stia per accadere una disgrazia, ma l'investigatore non può far altro che aspettare che si verifichi il decesso della vittima designata, prima di poter raccogliere abbastanza prove materiali per inchiodare l'assassino; oppure la presenza di pochi personaggi, presentati come simili a incognite di un'equazione matematica e caratterizzati da una certa sgradevolezza e aridità, la maggior parte dei quali viene descritta attraverso un complicato schema genealogico. Lo stesso Charlton, a differenza del sornione Poirot, del faceto Lord Peter e del cinico Roger Sheringham, appare freddo per la maggior parte del tempo e intenzionato a catturare il colpevole senza lasciarsi troppo trasportare da distrazioni come le emozioni e le opinioni personali. Legato a ciò, in "Ipotesi per un Delitto" troviamo un metodo di indagine completamente differente da quello che potrebbero mettere in pratica gli investigatori dilettanti: qui ci troviamo di fronte alla solida e inossidabile routine della polizia, la quale deve compiere passi necessari per assicurare un corretto svolgimento del proprio compito verso i cittadini e rispettare una prassi ben precisa, dove non esistono sgarri e iniziative personali da parte degli agenti. Inoltre, uno dei temi principali affrontati nel corso del romanzo è quello della legge, legato alla complicata faccenda del testamento di Sir Victor Warringham; tutto è molto dogmatico e strutturato, i cavilli legali del passaggio delle quote ereditate vengono passati al microscopio più di una volta e i sospetti variano in continuazione proprio in base alla lettura che viene data di ogni nuovo indizio (spesso materiale e non psicologico), tenendo in considerazione le conseguenze che possono derivare dalle scoperte sulla morte di miss Winters (pp. 43-44, 81-84, 114-116, 125-126, 131-133, 136, 156-158, 179-187, 248-250, 256-259, 290-292, 295-305, 311-313).

In sintesi, dunque, tutti questi elementi tendono a dipingere "Ipotesi per un Delitto" come se esso fosse uno di quei fin troppo classici romanzi del mistero che trattano di un delitto in un'antica villa signorile, farcito con la consueta famiglia di parenti-serpenti corredata di conoscenti e amici della stessa natura, una lunga serie di indizi da trovare ed interpretare, un detective che si preoccupa di analizzare questi ultimi per trovare una soluzione, atta ad incriminare un individuo e a portarlo di fronte a una corte di giustizia senza indugio, e una generale aria ironica e un po' retrò a fare da sfondo alle vicende. Insomma, una storia ordinaria che non colpisce e che potremmo scambiare con tante altre. E in parte è così, non si può negare l'evidenza. Dopotutto, sfido chiunque a confutare le affermazioni che ho fatto qui sopra e ad ignorare alcuni commenti che si trovano in rete a riguardo, tra i quali spiccano "[il giallo] è di quelli che definisco "piatti" e poco movimentati, [con una] vicenda [che] non si fa mai molto interessante", "un romanzo abbastanza banale e prevedibile, nonostante le rivelazioni finali. [...] non aggiunge nulla di nuovo ai numerosi romanzi usciti negli anni precedenti. Forse può sorprendere il lettore occasionale di gialli, ma le tematiche e lo svolgimento della trama sono tutti ben noti a chi conosce i romanzi di genere" e "un libro minore". Tuttavia, quello che si fatica a cogliere, a mio parere, è che la storia narrata da Witting non si ferma a questa semplicistica analisi superficiale. In ognuno degli aspetti che ho preso in considerazione, possiamo trovare qualcosa che mette in mostra come l'autore abbia voluto fare un passo in avanti e dare un'interpretazione in qualche modo svecchiata. Lo schema familiare dei Warringham e dei loro conoscenti, ad esempio, è sì incentrato su un complesso sistema che tende a restituire una schematizzazione geometrica dei rapporti tra gli individui, ma in realtà è confuso e sottintende una mancanza di chiarezza che si allontana proprio dall'idea iniziale della struttura ben definita. La incognite che coinvolgono la storia familiare e la questione dell'eredità sono piene di intrighi, bugie e inganni, e rispecchiano una certa imprecisione che stride con l'apparente simmetria del romanzo. Lo stesso schema dell'indagine, che sembra tanto attinente alla tradizione, mostra un'evoluzione che ricalca il parte quella di "Il Pericolo Senza Nome" di Agatha Christie, una tra le più innovative gialliste di sempre. I personaggi, dal canto loro, appaiono sia come figure sgradevoli che ripugnano e che tendono ad essere identificate in incognite geometriche, sia quali attori a tutto tondo (almeno riferendosi ai protagonisti principali delle vicende), i quali danno prova di avere spessore e profondità: infidi come serpenti oppure emotivi, ma pur sempre lontani da macchiette stereotipate. E questo vale pure per Charlton, il quale in un paio di occasioni abbandona l'atteggiamento gelido per mettere in luce una certa compassione per John Campbell e Sir Victor, oltre a lasciar trasparire come non sia così malvagio quando entra in contatto con i suoi sottoposti.

In aggiunta, la legge e il testamento, così importanti all'interno del racconto di "Ipotesi per un Delitto", lasciano intravedere quanto dietro al dogmatismo si celi una grande confusione: non si è mai sicuri di nulla, perché i fatti potrebbero essere capovolti da un nuovo indizio, e i risvolti che scaturiscono da essi sono spesso inaspettati. Il metodo della polizia (pp. 109-110), tanto improntato a seguire una prassi ineluttabile e persino noiosa, mette in luce quanto sia importante l'elemento umano perché esso possa funzionare al meglio: l'interazione tra gli individui è importantissima, a dimostrazione di quanto non sia un'indagine individualista come quella dell'investigatore dilettante, tutt'al più coadiuvato da una "spalla", ed esprime un'aria di cameratismo che è il vero segreto del suo successo (pp. 10-14, 17-18, 25-26, 44-45, 77-79, 81, 86, 95-100, 144-145, 153-170, 207-210, 240-246, 268-270, 279-281); si manifesta grazie alle prove che riesce a portare alla luce, ma viene messa in pratica con un'astuzia e una certa faccia tosta che non possono essere imprigionate e catalogate. Gli stessi indizi, infine, si suddividono tra fisici (in realtà è la mancanza di alcune prove a mettere sull'avviso Charlton) e psicologici; anzi, direi che il fattore della psicologia gioca un ruolo di maggior rilievo, allo stesso modo che nei romanzi gialli di Christie. Insomma, nonostante sia inconfutabile il fatto che "Ipotesi per un Delitto" ricalchi un qualche modo quel tipo di mystery pragmatico che fece fortuna nei primi anni del Novecento, basato su aspetti molto tradizionali e incentrato su di un'indagine che vedeva protagonista la polizia al posto del segugio dilettante, secondo me è sbagliato catalogare senza indugio questo libro in tale definizione. Al suo interno c'è molto di più di quanto sembri: non solo abbastanza elementi per confutare in parte le critiche da esso rivolte, ma pure un'attenzione volta a trattare alcuni temi con particolare cognizione, come quello della pazzia e quello del matrimonio.

Rara immagine di Clifford Witting, nato nel
1907 e morto nel 1968, mentre è al lavoro

Proprio per questo motivo è un vero peccato che l'opera di Clifford Witting non sia conosciuta più di tanto e nemmeno tenuta in particolare considerazione. Della sua vita, come dicevo nell'introduzione, non si sa poi molto; forse anche per questo egli non è riuscito a conservare la fama che merita all'interno del genere e a veder perdurare la sua produzione nel tempo. Della sua biografia stringata, si sa che nacque nel 1907 nel distretto di Lewisham, a Londra, e che dopo gli studi all'Eltham College della città, tra il 1916 e il 1924, divenne impiegato alla Lloyd Bank, dove lavorò fino al 1942. Si sposò nel 1934 con Ellen Marjorie Steward, dalla quale ebbe una figlia di nome Clerk, e durante la Seconda Guerra Mondiale prestò servizio come sottufficiale d'artiglieria nei Royal Artillery and Ordinance Corps, da cui si congedò col grado di maresciallo. Prima di allora tuttavia, aveva già dato alle stampe alcuni romanzi gialli, a partire dal 1937 quando pubblicò "Murder in Blue", il quale vede un'indagine sulla morte di un poliziotto. Fin dal suo esordio, il personaggio principale delle sue storie fu l'ispettore Harry Charlton della polizia di Lulverton, un villaggio che si trova nei South Downs a poche miglia dalla costa inglese, assieme ai suoi assistenti: i sergenti Martin e Bardfield, quest'ultimo in seguito promosso a ispettore. Per il resto, sulla vita di Witting si sa che nel 1947 egli fu nominato direttore onorario dell'Old Elthamian, il giornale del suo vecchio college, e che entrò a far parte del Detection Club nel 1958, appena dieci anni prima della sua morte. Questa fu una delle tante stranezze che videro l'autore protagonista: come mai l'invito gli venne esteso soltanto così tanto tardi? E perché è così dimenticato, nonostante abbia dato vita a una produzione narrativa non indifferente? Per quel momento, infatti, aveva già pubblicato per l'editore Hodder & Stoughton ben dodici dei sedici mysteries che firmò a suo nome, i più importanti dei quali furono "Measure for Murder", "Subject: Murder", "Ipotesi per un Delitto", "A Bullet for Rhino" e "There Was a Crooked Man". Oltretutto, Witting ha ottenuto grandi elogi dai critici Barzun & Taylor nel loro "A Catalogue of Crime", al punto che la sua intera produzione è stata inserita in quella guida fondamentale alla letteratura del mistero e la sua abilità definita come debole in partenza, ma poi caratterizzata da una competenza sempre più alta; a dimostrazione di quanto egli avesse una spiccata capacità nel tratteggiare personaggi e situazioni, oltre a saper tenere alto l'interesse del lettore nei confronti del mistero. Anche il critico Nick Fuller ha espresso parole di stima per Witting: "La sua indagine è genuinamente avvincente, e il suo stile ironico anche se poche volte scherzoso. Lui poteva creare molte bene le ambientazioni, come quella dell'esercito in "Subject: Murder". I suoi libri hanno la genuina attrazione del giallo classico. Lui può mettere con abilità il lettore su una falsa pista ("Midsummer Murder") o inventare un genuinamente astuto e semplice metodo per uccidere ("Dead on Time"). Sperimentò con la forma: la vittima a sorpresa di "Measure for Murder" o, nonostante il resto sia debole, la maestria nell'orchestrare l'inverted story in "Michaelmas Goose". In breve, ha sempre offerto qualcosa al lettore e trovato originali idee all'interno delle convenzioni del giallo".

Eppure, come dicevo all'inizio, a parte questi pareri entusiasti e pochissime altre menzioni, l'autore è stato del tutto trascurato. Un vero peccato, se si pensa a quanto sia una buono "Ipotesi per un Delitto". Infatti, sebbene Witting non sia considerato come particolarmente brillante e la sua penna poco abile nell'avvolgere ogni cosa di mistero, da parte mia penso che i suoi siano romanzi gialli meritevoli tanto come polizieschi attinenti alla tradizione quanto come espressione di un genere in evoluzione. Nello specifico del libro di oggi, oltre agli aspetti di cui ho parlato sopra, trovo che le ambientazioni siano molto affascinanti, sappiano calare il lettore nelle vicende con pari calore e glaciale dramma in base alle necessità e costituiscano uno dei punti più alti dello stile dell'autore (pp. 12-15, 18, 28, 37, 67-71, 87, 89, 96-99, 110, 215, 230-233, 261-262, 273, 276, 279-280, 292-294). A questo proposito, mi è sembrato che la narrativa di Witting sia vicina a quella di Herbert Adams, giallista che spesso aggiunge una sorta di sottotrama suggestiva popolata di personaggi minori ma vividi, i quali tendono ad occupare la prima linea della scena mettendo sullo sfondo l'indagine; cosa che va bene solo se utilizzata a piccole dosi, e questo è il caso del romanzo che recensisco oggi, dove fascino e arguzia abbondano e contrastano la violenza (es. pp. 67-71 e 87-90). Molti temi vengono affrontati in modo interessante, dimostrando probabilmente quali fossero le idee dell'autore a riguardo. La pazzia, innanzitutto, vista come qualcosa che non è per niente facile da individuare: spesso la si fa facile, dicendo che chi è malato di mente ce l'ha scritto in faccia, ma in realtà questo tipo di disturbo si cela dietro a maschere all'apparenza quiete e tranquille. Dopotutto, i romanzi gialli e i fatti di cronaca ci insegnano ogni giorno quanto sia invece complicato scorgere i segni di un cervello disturbato; segni che si manifestano il più delle volte nelle piccole cose e nelle azioni che ognuno compie durante una giornata come tante (pp. 20-22, 42, 51-59, 63-65, 82-85, 111-117, 119-128, 159-160, 187-188, 199-200, 253, 259-260, 273-281, 286-289). La stessa scienza, altro punto importante all'interno di un mystery giocato sui fatti e sugli aspetti più pragmatici di un omicidio come "Ipotesi per un Delitto" (pp. 95, 98-100, 126-127, 129-131, 160-163, 168-169, 188-189, 194-195, 210-215, 305-307), può fallire nell'individuare qualcosa che non va in una persona con la mente instabile: a volte un ritardo può non sortire alcuna grave conseguenza, se il paziente manifesta piccole manie; ma se egli tende ad avere comportamenti ossessivi e ad assumere un comportamento violento, le cose possono cambiare in modo drastico. Insomma, c'è molto da fare prima di poter assicurare una diagnosi veritiera.

In secondo luogo, poi, abbiamo una curiosa tendenza da parte di Witting nel dipingere matrimoni che non funzionano per niente: non solo quello degli Harler, complici e nemici l'uno verso l'altra allo stesso tempo, ma anche quello dei genitori del piccolo John Campbell, quello della defunta Rosalie con l'infido Clement e quello tra Tom Blackmore e la sua (ex)compagna infedele (pp. 47-51, 62-63, 70, 81-83, 137-139, 216-217, 297-305). Forse questo aspetto, ripetuto più volte all'interno di uno stesso romanzo, può gettare la luce sulla relazione tra l'autore e sua moglie? Non avendo letto altro di suo, mi riservo di sospendere il giudizio; però è curioso come il rapporto tra uomo e donna sia dipinto in modo tanto negativo. Anche la presenza di un bambino come personaggio chiave della storia è una scelta compiuta da Witting che trova ben pochi altri riscontri all'interno del genere (pp. 28-33, 61-63, 71-76, 79, 116-117, 141-147, 200-203, 237-240, 253-259, 273-278). Ad esempio, a me viene in mente solo "È un Problema" di Agatha Christie, in cui una bambina viene sballottata di qua e di là da individui senza scrupoli, come lo stesso John, e gioca un ruolo di primo piano dentro un poliziesco. Per quanto riguarda gli altri protagonisti principali, invece, ci sono più o meno le solite figure, caratterizzate però a tutto tondo e soprattutto da un forte grado di repulsione. Soltanto John Campbell riesce a mantenere un atteggiamento di ingenuità e tenerezza pressoché per tutto il racconto (nonostante nutra fugaci pensieri letali contro Harler, quando quest'ultimo gli sequestra la pistola giocattolo); gli altri figurano come sgradevoli individui decisi ad accaparrarsi un vantaggio dalla situazione a Elmsdale (presentati soprattutto nella prima parte, oltre alle pp. 148-152, 171-179, 193-196, 216-224, 226-230, 247-250, 264). Al contrario, le figure secondarie come Bardfield, Martin, la signora Gulliver e la giovane Lily Higgins (rispettivamente cuoca e sguattera in casa Warringham) vengono dipinte come gradevoli persone, un po' ingenue ma proprio per questo lontane dai desideri e dalle passioni che divorano i signori aristocratici e snob, e ne decretano la rovina. Ecco, forse solo il dottor Stamford gioca un ruolo dalle apparenze negative tra le comparse; assieme a Gladys Harler, la quale purtroppo compie soltanto fugaci apparizioni e scompare nella seconda metà della storia (peccato, magari poteva interpretare un ruolo di maggior peso negli eventi).

Infine, vorrei spezzare una lancia a favore dell'enigma contenuto in "Ipotesi per un Delitto". Nonostante il fatto che, senza dubbio, al suo interno ci siano delle carenze (la cerchia di sospettati molto ristretta, il continuo spostamento delle luci della ribalta sui sospettati che porta a una graduale eliminazione degli stessi e una certa aridità nell'enunciazione, rispetto a quanto accade in altri romanzi gialli), non me la sento di bocciarlo in pieno. Una persona che conosco e che se ne intende di crime novels ha affermato che il mistero contenuto in questo libro non ha nulla di meno di uno di quelli che si trovano in un romanzo di Christie: forse l'affermazione è un po' eccessiva, ma a grandi linee sono d'accordo. In fondo, quello che richiede un buon mystery è una vicenda che sappia coinvolgere il lettore al punto da catturare la sua attenzione e riesca a mantenere alta la tensione e la curiosità fino alle ultime pagine. Ed io ho ritrovato proprio ciò in "Ipotesi per un Delitto". Qualche colpo di scena non è stato celato proprio benissimo, se si è accaniti divoratori di storie del mistero, ma tutto sommato la vicenda riserva più di una sorpresa per chiunque si appresti a leggerla. Il fair play, inoltre, viene rispettato fino a un certo punto, dal momento che è la mancanza di indizi che, in qualche modo, può suscitare nel lettore alcuni sospetti su chi sia il colpevole. Detto ciò, sento di potermi dire più che soddisfatto della lettura di "Ipotesi per un Delitto" e propenso a provare, nei prossimi mesi, l'altro romanzo di Witting che Polillo ha tradotto per il lettori italiani: "Il Canto di Natale". Ma adesso ho voglia di allontanarmi dall'indagine basata sulla routine della polizia e tornare a concentrarmi sulla figura dell'investigatore dilettante. Tornerò sulle imprese di Charlton quando avrò bisogno di un racconto ben costruito, gradevole e che mi riconcili che il giallo più classico.


Link a Ipotesi per un delitto su Libraccio

Link all'edizione italiana su Amazon

venerdì 7 febbraio 2020

23 - "Dov'è Cicely?" ("Cicely Disappears", 1927) di A. Monmouth Platts/Anthony Berkeley

Copertina dell'edizione pubblicata nei
Classici del Giallo Mondadori n. 1429
Da pochi anni a questa parte, in Italia, il mercato della classica crime story ha subito un radicale cambiamento. Infatti, se fino alla fine del 2015 soltanto Mondadori (con le sue collane da edicola sulle ristampe del Giallo) e in parte Polillo (la quale ha ripreso le pubblicazioni dopo un periodo di pausa) si erano addentrate in questo campo perlopiù inesplorato dall'editoria del nostro Paese, da qualche tempo le pubblicazioni in tal senso si sono moltiplicate grazie alla nascita di nuove collane da libreria, dedicate al romanzo del mistero inglese della prima metà del Novecento. L'opera di Christopher St. John Sprigg, ad esempio, ha trovato il proprio posto in Lindau, assieme ad altri titoli meno impeccabili in fatto di enigma ma in gran parte inediti e sempre ben accetti; Mulatero prosegue la sua riproposta della serie di Abercrombie Lewker di Glyn Carr, e lo stesso si può dire di Le Assassine, le quali hanno in cantiere libri del mistero molto appetibili. Forse questo è un segno del fatto che, finalmente, la crime story della Golden Age ha iniziato ad assumere una connotazione differente da quella che l'ha vista etichettata come letteratura "medio-bassa"; relegata alle sole collane da edicola, dove ci eravamo abituati a veder ristampati i soliti titoli oppure romanzi più attinenti al genere hard-boiled. Bisogna ammettere, tuttavia, che anche in questo formato, a partire dal 2018, sono tornati alla ribalta alcuni inediti perlomeno interessanti per il collezionista di gialli tradizionali, soprattutto all'interno dei Classici del Giallo. Certo, spesso gli autori proposti non sono i Grandi Maestri del calibro di Dorothy L. Sayers (della quale manca la traduzione nostrana di "Gaudy Night"), Ngaio Marsh, J.J. Connington, John Rhode oppure Nicholas Blake; però penso che non ci si debba lamentare per questo. Dopotutto, si tratta pur sempre di nuove letture e, dal canto mio, nutro una grande passione per gli intrighi prettamente inglesi, ma densi di suspense, che ideò a suo tempo Ethel Lina White, o per le storie scientifiche e al limite dell'asettico di Richard Austin Freeman; per cui sono più che felice di trovare inedite storie di questi autori ogni anno.

A questo proposito, proprio in questo mese di febbraio, i Classici del Giallo hanno riservato una sorpresa ai suoi lettori, proponendo per la prima volta la traduzione di un libro attorno al quale aleggia una densa aura di mistero; quel "Cicely Disappears" che venne firmato da tale A. Monmouth Platts e che comparve (leggermente diverso) in una prima edizione a puntate nel marzo 1926, col titolo di "The Wintringham Mystery", per poi essere raccolto in volume l'anno seguente. Un romanzo giallo davvero particolare, visto che le sue ripubblicazioni e traduzioni estere si contano sulle dita di una mano: la prima (originale) nel 1927, quella giapponese di una quindicina di anni fa e quella di cui sto parlando, che recensirò per voi questa settimana. Si tratta, dunque, di una sorta di evento, che si può paragonare in piccola parte a quanto è accaduto con "Com'è Morto il Baronetto?" di H.H. Stanners; solo che in questo caso il romanzo, benché sotto pseudonimo, è stato scritto nientemeno che da Anthony Berkeley! Così, di punto in bianco, Mondadori ha momentaneamente ripreso il ruolo di editore di punta nel campo del mystery, consegnando ai lettori l'inedito "minore" di un grande del Giallo col titolo "Dov'è Cicely?" (Classici del Giallo Mondadori n. 1429, 2020); "minore" perché fu la prima incursione di Berkeley nel campo della classica crime story e, quindi, non all'altezza di altri suoi capolavori, ma non per questo meno divertente o del tutto estraneo al modello che l'autore ha instaurato nel corso della sua carriera, poiché esso presenta numerosi cenni biografici a personaggi e luoghi che ebbero un forte legame con lui e affronta temi che egli svilupperà negli anni seguenti.

Illustrazione su come si svolgeva una seduta spiritica simile
a quella messa in scena in "Dov'è Cicely?"
La storia inizia presentandoci il personaggio di Stephen Munro, un giovane appartenente all'aristocrazia inglese della prima metà del Novecento, il quale si ritrova a dover abbandonare gli agi a cui è abituato e ad affrontare la dura realtà: dopo aver esaurito i propri mezzi di sostentamento, infatti, egli è caduto in disgrazia e, pur di sopravvivere, è costretto a cercare un lavoro come tutte le persone che non hanno avuto la fortuna di nascere con un cospicuo patrimonio alle spalle. Non può nemmeno mantenere il proprio maggiordomo Bridger, poiché l'unica prospettiva che gli si presenta all'orizzonte è quella di diventare a sua volta un servitore a Wintringham Hall, la dimora della ricca lady Susan Carey; e un valletto non può permettersi alcun cameriere personale. Insomma, un futuro ricco di sorprese e decisamente imbarazzante si delinea nell'avvenire di Stephen, obbligato ad assecondare gli strani desideri degli ospiti della padrona di casa: quest'ultima si rivela una vera arpia, impossibile da accontentare; il suo amico Freddie Venables, nipote della signora Carey, lo tratta come se fosse un suo pari e non sembra avere intenzione di accettare la nuova condizione del novello cameriere, mettendolo in continue situazioni inopportune; il maggiordomo di Wintringham Hall, Martin, spera di riuscire ad inserirlo al meglio nel personale che dirige e si erge sgradevolmente ad esempio per Stephen, sebbene anche Bridger sia stato accolto da lady Susan. Inoltre, come se tutto questo non bastasse, la ragazza di cui il nostro sfortunato protagonista è innamorato, Pauline Mainwaring, si presenta a Wintringham Hall con un nuovo corteggiatore dall'aria bellicosa e pare ignorare i continui sguardi che Munro le indirizza. Eppure, pian piano, Stephen riesce a trovare un giusto compromesso e a sopportare la situazione che si trova costretto a vivere: l'altra nipote di lady Carey, Millicent, appare tranquilla e riservata e non crea alcun tipo di problema, e pian piano anche gli ospiti si abituano alla presenza di un valletto fuori dall'ordinario come lui. Un valletto che tiene gli occhi ben aperti e non si lascia sfuggire nulla: come quando intravede nell'espressione di Cicely Vernon, la protetta della sua padrona, un lampo di apprensione, mentre lei si appresta a lasciare la casa. Una stranezza che solletica la sua fantasia...

La sera stessa della partenza della signorina Vernon, tuttavia, l'attenzione di Stephen viene catturata dalla malsana idea di Freddie di mettere in scena una seduta spiritica. Tutti si annoiano, per cui cosa potrebbe sollevare meglio l'umore dei presenti? Tra vane lamentele e l'entusiasmo crescente, alla fine l'esperimento viene approntato proprio mentre Cicely ritorna precipitosamente a Wintringham Hall; sarà proprio la ragazza ad offrirsi per fare da medium per entrare in contatto con gli spiriti. Mentre le luci sono spente e il salotto è chiuso come una scatola da scarpe, tuttavia, il gioco si trasforma in cruda realtà e accade l'impensabile: Cicely scompare nel nulla, in mezzo a suoni lugubri, urla inumane ed effluvi di cloroformio, senza che nessuno riesca a capire come sia riuscita ad compiere una tale fuga impossibile. Che fine ha fatto la ragazza? E come mai lady Susan sostiene con tanta forza che si tratta solo di uno scherzo di pessimo gusto? Quando la scomparsa della giovane si farà ben più reale, sarà Stephen (accompagnato da una spalla più che mai gradita ed affettuosa) ad assumere i panni dell'investigatore dilettante e a prendere in mano le indagini sul mistero, tra passaggi segreti, ospiti subdoli, ricatti e furti; mentre la Morte si avvicina sempre più, per colpire all'improvviso e ritirarsi nella stessa ombra in cui (forse) si trova già la ragazza sparita.

Copertina dell'edizione originale di "Dov'è Cicely?" del 1927
Nell'introduzione alla recensione, ho sottolineato il fatto che la recente pubblicazione di "Dov'è Cicely?" rappresenta un evento non sono per i lettori italiani come il sottoscritto, ma in qualche modo pure per coloro i quali sono abituati a letture in lingue diverse dalla nostra. Questo titolo, infatti, è scomparso dagli scaffali delle librerie di quasi chiunque nel mondo, e solo alcuni fortunati possono affermare di possedere l'edizione originale del 1927. Si tratta, dunque, di un'eccezionale occasione per riscoprire uno dei romanzi più oscuri della storia della Golden Age del giallo all'inglese, e sono davvero contento che Mondadori abbia deciso di riproporlo. In realtà, per qualche tempo mi sono chiesto come mai sia dovuto passare così tanto prima di veder ristampato "Dov'è Cicely?": dopotutto, esso rientra tra le opere di uno dei maggiori scrittori di crime novels di tutti i tempi, colui il quale diede vita per primo a un prototipo del giallo psicologico come lo intendiamo noi oggi, grazie ai libri che firmò come Francis Iles; quindi perché si erano perse quasi del tutto le tracce di questo giallo? A fine lettura, tuttavia, penso di aver capito il motivo di questo ritardo e come mai questa prima prova letteraria di Berkeley non sia rimasta a lungo impressa nella memoria dei critici. Il fatto è che, pur raccontando una storia piacevolissima e tipicamente tradizionale, "Dov'è Cicely?" non spicca nella massa di altri romanzi gialli dell'epoca; non è qualcosa di imprescindibile, pur proponendo una variazione della camera chiusa tanto amata dagli appassionati di classica crime story. Infatti, se paragonato a capolavori geniali dello stesso autore, come "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" o a "L'Ultima Tappa", questo libro risulta inferiore, poiché presenta ancora troppi cliché e personaggi un po' stereotipati. Tutto questo, però, non vuol significare che le vicende narrate siano noiose e poco interessanti. Se da un lato la storia non possiede ancora le caratteristiche straordinarie che Berkeley avrebbe conferito in seguito alle sue creazioni, dall'altro essa risulta godibile e divertente, permettendoci inoltre di notare come queste ultime stessero iniziano a delinearsi, in una sorta di abbozzo o prova generale; e ciò è di grande interesse per poter capire quale fu il percorso intrapreso dall'autore per raggiungere le vette di perfezione che sarebbero venute in futuro.

Insomma, non siamo ancora ai livelli di "L'Omicidio è un Affare Serio", dove l'autore decise di anticipare i tempi e cambiare le regole della tradizionale partita tra lettore e autore di gialli; ma alcune idee sull'enigma e sulla personalità e mentalità dei personaggi cominciarono già a prendere forma, dando vita a una forte contrasto interno alle vicende raccontate il quale, oltretutto, rappresenta al meglio chi fosse Anthony Berkeley Cox. Dovete sapere, infatti, che egli, nato nel 1893 come la sua controparte femminile Dorothy L. Sayers, fu un personaggio talmente complesso che probabilmente nessuno riuscirà mai a comprenderlo appieno (in ogni caso, per avere una visione chiara e dettagliata di questa somiglianza, vi consiglio di leggere "The Golden Age of Murder" di Martin Edwards, in cui l'autore viene attentamente messo sotto il microscopio). Problematico, affetto da un fortissimo complesso di inferiorità nei confronti delle donne (probabilmente dovuto al fatto di essere sempre stato considerato, dalla madre autoritaria, più "tardo" rispetto al fratello Stephen e alla sorella Cynthia), inguaribile donnaiolo, misantropo e affettuoso di volta in volta, ma allo stesso tempo geniale innovatore della crime story britannica, Berkeley fu un individuo capace di spiazzare gli interlocutori con i suoi repentini cambi di umore e idee. Probabilmente fu la guerra a dare il colpo di grazia al suo fragile equilibrio mentale: ritornato dai campi di battaglia, la sua salute fisica e psichica si aggravò e mise in luce quanto il conflitto l'avesse indebolita, tanto quanto l'intelligenza e la creatività erano invece solide. Aveva trascorso un'infanzia segnata dall'infelicità, tra fratelli considerati molto più dotati di lui e genitori non propriamente affettuosi, e la somma dei suoi traumi finì per generare in lui un atteggiamento schizofrenico, che si abbatteva sul prossimo di continuo, soprattutto quando si trattava di esseri femminili, e che egli stesso tentò di esorcizzare attraverso la scrittura. Rinchiuso nelle sue proprietà di Monmouth House e The Platts (proprio ad esse si ispirò per inventare lo pseudonimo usato per firmare "Dov'è Cicely?"), trascorreva le proprie giornate a riflettere sulla propria esistenza travagliata e a riversare nei romanzi le frustrazioni, generando un'aura di mistero attorno a sé e alimentando la propria insoddisfazione. Si prendeva gioco della giustizia, considerandola fallace e inutile per dirimere le questioni vitali degli uomini; intrecciava relazioni e flirt illudendosi di aver trovato l'anima gemella e finendo sempre per rendersi conto di essersi sbagliato; si lamentava del Governo e degli addetti statali dopo un'infelice esperienza lavorativa in un ufficio governativo: riuscì a fare tutto questo mentre ideava misteri strabilianti, dando nuova linfa al giallo all'inglese, tratteggiando con tono cinico i personaggi e le loro debolezze e mettendo in ridicolo le convinzioni più radicate della sua epoca. "I giorni del vecchio enigma poliziesco, basato interamente sulla trama e senza connotazione dei personaggi e concessioni allo stile e allo humor, sono, se non contati, in ogni caso nelle mani del pubblico" sostenne nella prefazione di "Gioco Mortale", il suo secondo romanzo, aggiungendo che "il romanzo giallo si sta sviluppando in un genere narrativo con un interesse più accentuato sul crimine, che tiene avvinto il lettore facendo leva non tanto sugli elementi matematici quanto su quelli psicologici". Tale convinzione, pertanto, non poté che indurlo a compiere l'ennesima pazzia: per il gusto di cambiare le solite regole noiose, infatti, arrivò a rovesciare completamente i canoni del giallo all'inglese, inducendo gli assassini a diventare le vittime, gli assassinati crudeli aguzzini, giudici dall'aria paterna figure lugubri e molto altro. Tuttavia, il suo gusto per il mistero finì ancora una volta per toccare l'esagerazione, tanto da indurlo a non rivelare mai niente di sé senza sotterfugi: non concedette interviste né autografi gratuiti e si divertì a confondere anche gli amici fornendo opinioni che cozzavano spesso tra loro, godendo nel mantenere uno stretto riserbo sulla sua vita privata al punto che solo di recente alcuni fatti della sua vita sono venuti alla luce.

In ogni caso, l'utilizzo della narrativa del mistero come mezzo per andare incontro e mettere freno alle proprie manie non dovette andare del tutto a buon fine, visto che il suo atteggiamento non mutò in meglio; anzi, con il passare degli anni purtroppo peggiorò e la sua mente divenne sempre più instabile, tanto che Julian Symons raccontò di averlo incontrato in un paio di occasioni e, in entrambe, si verificarono strane circostanze: una volta, un chiodo arrugginito sbucò dal suo piatto di minestra (lo aveva lasciato cadere qualcuno per sbaglio o lo aveva infilato lì lui stesso?) e l'altra interruppe addirittura la conversazione, mettendosi una maschera sulla faccia, gonfiando una pallina di gomma e facendo profondi respiri. Ma, in fondo, Anthony Berkeley non era quel mostro che fin qui può esservi parso: era un compagno che, per quanto un po' inquietante, si dimostrò insolito e sorprendente. Brillante romanziere, capace di creare atmosfere ricche di sfumature misteriose e trame complesse, oltre ad innovare il romanzo giallo con le sue trame in anticipo sui tempi, riuscì a rivoluzionare anche la concezione del detective tradizionale con l'introduzione, in "Uno Sparo in Biblioteca", di Roger Sheringham, un individuo scontroso, maleducato, fallace e abbastanza sconveniente il quale, prima di arrivare alla soluzione, finisce per sospettare di quasi tutti. Berkeley era uno che avrebbe potuto vantare e strombazzare una personalità fuori dal comune, però decise di non farlo. Amava indossare i panni di personaggi curiosi, spesso misogini e burberi, come se fosse sempre sul palcoscenico; a volte litigava con foga con alcuni membri del Detection Club, che contribuì a fondare fin dai primi giorni (una volta mi sarebbe piaciuto assistere a un suo incontro con Dorothy L. Sayers), ma in molti affermarono con convinzione che sotto sotto amava incoraggiare i giovani scrittori e, cosa da non dimenticare, possedeva una percezione della realtà fuori dal comune. La stessa identità di Francis Iles, con cui firmò "L'Omicidio è un Affare Serio", "Il Sospetto" (da cui Hitchcock trasse un film che, per quanto ben fatto, non riesce a rendere l'idea della grandezza del libro da cui è stato tratto) e "As For the Woman" rimase un incognita che venne svelata solo dopo la sua morte; una maschera che amava portare più di ogni altra, poiché era nata dal ricordo di un vecchio antenato, un contrabbandiere che veniva considerato una pecora nera dalla famiglia. Proprio il tipo che lui avrebbe preso in simpatia fin da subito e al quale avrebbe accordato la disponibilità per combinare qualche astuto ed eclatante scherzo.

Anthony Berkeley Cox, nato nel 1893
e morto nel 1971
Tenuto conto di questa descrizione contrastante della personalità di Berkeley, non c'è alcun dubbio che essa sia riflettuta in pieno già a partire da questo suo primo romanzo. Come vi ho detto, infatti, "Dov'è Cicely?" presenta alcune idee abbozzate sulla concezione del romanzo del mistero, sui temi trattati e sulle figure dei protagonisti secondo la concezione dell'autore, le quali avrebbero poi costituito una sorta di marchio, insieme al seminare cenni biografici a personaggi e luoghi che ebbero un forte legame con la sua persona. Ad esempio, per i propri personaggi Berkeley prese ispirazione da persone con cui entrò in qualche modo in contatto: Cullompton, Kentisbeare e il ricco ma violento Julius Hammerstein ricordano individui che possono essere accostati a figure reali (primo tra tutti Hammerstein, il quale lavora come agente immobiliare allo stesso modo di Paul Dashwood, marito della famosa E.M. Delafield e "rivale" dello stesso Berkeley per la conquista del suo cuore). Anche per la figura di Stephen Munro può esistere un legame con un essere umano in carne ed ossa: egli, infatti, si chiama come il fratello dell'autore, sposato alla giovane Hilary della quale quest'ultimo si era invaghito; sebbene in fatto di caratteristiche fisiche e psicologiche sia più vicino allo stesso Berkeley, poiché è un giovane che si apprezza per la sua ironia un po' cinica, per il modo di fare schietto ma simpatico, per l'impossibilità di essere trovato davvero antipatico nonostante alcune uscite teatrali e per il temperamento irriverente. Tra i cenni biografici, inoltre, si può includere il riferimento allo sculacciare (uno dei cavalli di battaglia più curiosi dello scrittore, p. 136) e la scelta dello pseudonimo adottato per firmare il romanzo, visto che egli scelse i nomi delle sue due proprietà di campagna per comporlo.

Pure in fatto di temi ricorrenti nella narrativa di Berkeley ci possiamo sbizzarrire. Primo tra tutti, il voler mettere in ridicolo gli atteggiamenti dei personaggi: grazie al proprio tipico umorismo inglese, irriverente e cinico, l'autore si diverte a girare il coltello nelle debolezze degli attori sulla scena, portando alla luce segreti e nefandezze di tutto questo gruppo di individui ben poco simpatici, ognuno caratterizzato da doppiogiochismo oppure da interessi personali da portare avanti senza curarsi delle conseguenze sugli altri. Ma non solo; Berkeley fa anche in modo di portare Stephen (nobile decaduto a servitore) di nuovo alla pari con gli ospiti "ufficiali" di Wintringham Hall, dopo avergli permesso di seminare sconcerto tra il personale: in questo modo, sembra prendersi gioco dei valori del suo tempo e, restituendo la dignità a Munro, di quella giustizia secondo cui egli sarebbe dovuto essere licenziato ed allontanato dalla casa, e non reinserito nella società più elevata. A questo proposito, il sentimento critico si riflette pure nel ritratto che viene fatto della giustizia. Berkeley fu sempre ossessionato dal fatto che il sistema giuridico inglese non fosse all'altezza delle aspettative e, di conseguenza, riuscisse solo a condannare le vittime e a salvare i colpevoli; ebbene, anche in questo caso (soprattutto nella spiegazione finale e nella scoperta del colpevole) si nota come l'autore avesse già iniziato a sviluppare questo tema, benché non raggiungendo ancora i livelli di sconcerto generati in romanzi successivi come "L'Ultima Tappa". Inoltre, l'irriverenza tocca la seduta spiritica: Berkeley calca la mano sugli effetti misteriosi, generati nel corso del rituale, per prendere in giro chiunque creda a queste séance fasulle; non lo fa semplicemente per dare enfasi alle descrizioni e generare tensione e pathos, ma intende dipingere il tutto come qualcosa di scherzoso e bonario, un intrattenimento per trascorrere qualche ora oziosa e che non bisogna prendere sul serio (un po' come avrebbe fatto in seguito Christopher St. John Sprigg col suo "Sei Oggetti Misteriosi", anche se in quel caso egli avrebbe sollevato la questione politica dell'ingannare la gente ingenua e sulla pericolosità del plagiare e menti). In fin dei conti, la seduta spiritica resta uno stratagemma per mettere in mostra la vacuità della società e non diventa fonte di inquietudine; al contrario, sono gli atteggiamenti delle persone che si rivelano pericolosi e deleteri. Ultimo tra gli elementi che saranno sviluppati da Berkeley, ma non meno importante, è infine la fallacia dell'investigatore. Con la creazione di Roger Sheringham, l'autore ideò per primo la figura del detective che può permettersi di sbagliare nel giungere a una conclusione, e lo fece agire in questo modo in numerosi tra i suoi casi. Anche in "Dov'è Cicely?" ritroviamo questa formula in modo abbozzato, poiché Stephen cambia idea di capitolo in capitolo su chi sia il colpevole, e dobbiamo aspettare proprio la fine prima che decida a chi imputare le colpe.

È questo l'ennesimo segno del segreto divertimento di Berkeley nel tormentare giocosamente e prendere in giro il prossimo. Insomma, tutto ciò dimostra come "Dov'è Cicely?" non sia affatto un romanzo da buttare. Peccato solo che la storia tenda verso l'avventuroso, tanto che i capitoli dedicati alla truffa ai danni del padre di Pauline esulano un po' troppo dal mistero della scomparsa di Cicely, ed essa rechi al suo interno ancora stereotipi e cliché della narrativa di inizio Novecento per potersi dire un capolavoro. Ad esempio, alcune figure assomigliano a burattini che difettano di personalità (Bridger assume gli atteggiamenti di Betteredge, il maggiordomo di "La Pietra di Luna", oppure del famoso Jeeves di Wodehouse, del quale Berkeley sentiva forse ancora l'influsso, poiché aveva già scritto una parodia) oppure non riescono ad affrancarsi dai loro modelli, come l'anziana lady Susan, l'ambiguo maggiordomo Martin, la debole signorina Carey e lo stupido aristocratico Kentisbeare. Il trucco del passaggio segreto, esplorato a notte fonda, rimanda di nuovo alla tradizione del romanzo vittoriano, assieme alla figura dell'individuo sospettato perché è stato in prigione. La storia d'amore tra Stephen e Paula è un po' stucchevole, sebbene numerosi guizzi ironici la alleggeriscano e si notino alcuni elementi di maggiore libertà negli usi e costumi. Il problema maggiore, tuttavia, è posto dalla quantità ingente di sfaccettature che vengono date all'enigma: furto, sequestro, ricatto, truffa sono mescolati tutti assieme (forse) per ampliare la platea di lettori, ma soprattutto per confondere le acque, al punto che forse risultano troppi da sviluppare al meglio; con il risultato che, sebbene il mistero sia senza dubbio intrigante, la trama risulti tirata troppo per le lunghe e la soluzione della sparizione di Cicely diventi un po' ingenua e superficiale. Per non parlare del finale tirato e un po' banale alla "e vissero sempre felici e contenti". Tutto questo, insomma, influisce sulla resa finale e ci consegna un romanzo giallo ancora fuori fuoco, rispetto a quelli che Berkeley avrebbe creato in seguito, il quale tuttavia può contare su uno stile elegante e leggero, tipico dei gialli "alla Agatha Christie" che si leggono per il gusto di passare qualche ora a rilassarsi o come storie di evasione. Sapete che (probabilmente) proprio Agatha rientrò tra i pochi lettori che riuscirono a fornire una soluzione soddisfacente al mistero di "Dov'è Cicely?", quando il Daily Mirror istituì un concorso sulla versione a puntate del 1926? Tra i vincitori, infatti, spuntò un certo Archibald Christie. Se proprio volete trovare un motivo forte per leggere questa classicissima crime story, potete immaginare di vestire i suoi panni per qualche ora. Oppure tenere a mente che, in ogni caso, questo romanzo è eccezionale non solo per la sua rarità su scala mondiale, ma anche per l'importanza del suo autore all'interno del genere.

Link all'edizione italiana su Amazon (ebook)

venerdì 9 agosto 2019

4 - "Com'è Morto il Baronetto?" ("The Crowning Murder", 1938) di H.H. Stanners

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore
Se è ampiamente accertato che esistono numerosi capolavori conosciuti e celebrati dagli appassionati di crime story, quali ad esempio "Il Segreto delle Campane" di Dorothy L. Sayers e "Dalle Nove alle Dieci" di Agatha Christie, è altrettanto vero che molti meritevoli romanzi gialli della Golden Age sono stati invece dimenticati e trascurati. Una circostanza che, per quanto spiacevole, dopotutto si può considerare naturale: i libri di questo genere sono talmente numerosi che, se qualcuno sfugge alla nostra attenzione, non c'è poi da stupirsene. "Com'è Morto il Baronetto?" di H.H. Stanners (Polillo Editore, 2019), appartiene a pieno titolo a questa categoria: infatti, dopo essere stato pubblicato per la prima volta nel 1938, esso è sparito dalle scene editoriali di tutto il mondo (Inghilterra compresa) fino alla sua recente ristampa avvenuta in Italia. Chissà qual è stato il motivo di questo passato oblio. Forse è stato dato alle stampe nel momento sbagliato o impiegando cliché inflazionati per il suo tempo, oppure il suo autore non è riuscito a raggiungere la fama che desiderava e, complice la delusione, ha smesso di scrivere e farsi pubblicità; ipotesi, queste ultime, suffragate dalla biografia quasi inesistente di Stanners e dal fatto che questo libro tratti di un tipico caso di "delitto-della-casa-di-campagna", con un certo numero di sospetti, che varia dai parenti della vittima ai vicini di casa ad alcuni conoscenti del villaggio sito poco distante, la familiare figura dell'investigatore dilettante e indizi nascosti tra le righe. Tuttavia, se questi elementi di trama suggeriscono a prima vista una storia abbastanza ordinaria e simile a tante altre, in realtà ci troviamo davanti a un'indagine che, in quanto a contenuti, temi affrontati o appena toccati e stile scorrevole, possiede una marcia in più. Infatti, se da una parte l'enigma riesce ad intrattenere il lettore e a spingerlo a voler scoprire la sua soluzione il più in fretta possibile, dall'altro lo accompagna lungo le sue vicende attraverso digressioni interessanti e citazioni mai banali, descrizioni dettagliate dei luoghi e simpatici siparietti tra i personaggi coinvolti, producendo un risultato gradevole e leggero.

La trama prende avvio da un fatto realmente accaduto, ovvero l'incoronazione di Giorgio VI a Re d'Inghilterra nel 1937. In tutto il Paese sono in atto grandi festeggiamenti, in città e in campagna, nelle modeste case dei borghesi e nelle ville aristocratiche, poiché la gente desidera rendersi partecipe a un evento epocale come questo; eppure, c'è anche qualcuno che mostra una certa indifferenza nei confronti di tale celebrazione. Lo scrittore Derek Furniss e il suo amico Charles Harding, un professore americano di diritto internazionale in trasferta nella Vecchia Europa, infatti, non appaiono minimamente toccati dall'eccitazione che pervade i loro vicini e gli abitanti del villaggio di Bradford, e decidono di restare al White Cottage di Furniss per trascorrere la serata giocando a scacchi. Nel villino e nelle abitazioni nelle vicinanze non si trova più nessuno, neppure i domestici a fare la guardia contro i ladri; solo l'eccentrico finanziere Sir Jabez Bellamy ha disdetto in tutta fretta la propria partecipazione all'allegra baldoria adducendo la scusa di star aspettando un'importante telefonata. Quindi, per Furniss e Harding si prospetta una notte di tranquillo divertimento; se non fosse che, mentre i due amici si stanno preparando a giocare una nuova partita, vengono disturbati da una chiamata proveniente proprio da Bellamy, il quale sollecita lo scrittore per avere un incontro a quattr'occhi. Il tono usato dal finanziere lascia supporre che abbia bevuto un goccetto di troppo, quindi Furniss rifiuta gentilmente la richiesta di Sir Jabez e lo dissuade dal suo proposito; tanto più che pare strano che egli intenda abbandonare l'apparecchio della sua casa, se davvero deve ricevere rilevanti notizie per telefono. Poco dopo l'interruzione viene dimenticata e, passata la mezzanotte, Harding viene riaccompagnato  presso i signori Derwent-Smith, i quali lo ospitano insieme a un nipote acquisito, Hugh Bryant. Il giovanotto rincasa da solo qualche minuto dopo il professore, con aria tetra, rifiutandosi di dare spiegazioni sulla serata trascorsa e lamentandosi del frivolo comportamento di sua cugina Brenda.

Una cosa, tuttavia, accenna con qualche riserva, e cioè di aver investito qualcosa lungo la strada che corre tra Reddington e l'incrocio di Englemere, ma di non essersi fermato a controllare cos'ha colpito. Harding, a questo punto, lo esorta a denunciare il fatto e a costituirsi alla polizia per affrontare le conseguenze del suo gesto sconsiderato, poiché è inevitabile che a breve tutta la faccenda diventerà di dominio pubblico; e la scoperta, al mattino dopo, che Sir Jabez non è rientrato dalla passeggiata serale cui aveva accennato nella telefonata a Furniss suscita l'apprensione della gente dei dintorni. È forse lui la vittima dell'incidente avvenuto a notte fonda? La successiva scoperta del cadavere del baronetto, nella cava dietro la sua villa, con un foro di proiettile alla tempia, suggerirebbe che si tratti di due casi del tutto separati, eppure non si può escludere alcuna possibilità: magari Hugh può aver solo tramortito il baronetto con la macchina e poi, credendolo morente, avergli sparato per porre fine alla sua agonia e averlo scaricato lontano dal luogo dell'incidente. In ogni caso, la morte di Bellamy solleva un putiferio e getta nel panico tutti i suoi conoscenti, i quali tentano di minimizzare il fattaccio, dapprima sostenendo che l'umore di Sir Jabez si era fatto tale da non poter escludere un suicidio e in seguito, quando si affaccerà l'ipotesi di un omicidio, affrettandosi a presentare un alibi per la sera dell'Incoronazione. Ognuno di loro, infatti, sembra aver avuto un buon motivo per togliere di mezzo lo scomodo baronetto, impiccione e sgradevole come pochi; eppure Harding, che si diverte ad investigare per conto proprio, non riesce ad inquadrare bene il caso. Innanzitutto, ci sono troppi indizi che non quadrano con le ipotesi avanzate dai poliziotti, sfumature dell'indagine che non si accordano del tutto con le spiegazioni fornite dagli esperti; ma sono soprattutto i legami stretti tra i principali sospettati a lasciare il professore sorpreso e confuso. Con l'aiuto di Furniss e delle proprie conoscenze, Harding si impegna a districare la complessa matassa di sospetti e bugie per arrivare alla verità, inaspettata ma logica come nelle migliori detective novels classiche.

"Incoronazione di Sua Maestà Giorgio VI e della Regina
Elisabetta", Frank O. Salisbury (1937)
"Com'è Morto il Baronetto?" è un tipico esempio di come un giallista riesca a mettere in mostra solo ciò che desidera e a nascondere, tra le righe, gli indizi necessari a scovare il colpevole del delitto. Infatti, come si scoprirà nella spiegazione finale, in quanto a fair-play questo romanzo si accorda in tutto e per tutto alle regole fondamentali del genere, rispettando il principio secondo cui niente viene lasciato al caso e ogni cosa è necessaria al fine di trovare la soluzione. Ciò dovrebbe aver assicurato a Stanners un posto tra le fila dei migliori romanzieri del crimine della Golden Age; eppure, come ho sottolineato sopra, insieme ai suoi libri esso è stato presto dimenticato. Un peccato e una stranezza, per un autore che è stato capace di confezionare una storia tanto gradevole. Pur affidandosi in parte ai soliti cliché del giallo classico, infatti, in questo caso egli tratta numerosi aspetti scientifici delle indagini come potrebbe fare Richard Austin Freeman col suo dottor Evelyn Thorndyke: la chimica e le altre scienze pure sono spesso citate nel corso della storia, con l'aggiunta supplementare di un eccentrico analista che si preoccupa soltanto dei propri studi e tralascia la vita sociale a favore di un isolamento volontario. L'analisi delle erbe e delle polveri, rinvenute sul luogo del delitto e in altri posti interessati dall'attenzione della polizia e rilevate da Harding (come un novello Sherlock Holmes, per citare un altro personaggio famoso) con la cura dell'appassionato, saranno determinanti per stabilire i tempi di azione dell'assassino e lo svolgersi degli eventi durante la sera dell'Incoronazione; per non parlare della parte importante che la balistica occuperà nello svolgimento dell'indagine.

Oltre agli elementi "matematici" del caso, inoltre, Stanners esamina in breve anche altri argomenti quali l'amministrazione degli affari e esercizio della giustizia (i discorsi tra Harding e l'avvocato Newth assomigliano a quelli che si potrebbero ascoltare nello studio legale descritto da Michael Gilbert in "C'è un Cadavere dall'Avvocato", mentre il discorso sulla corte a rotazione e la faziosità dei magistrati gettano una nuova luce sul comportamento di questi ultimi) e i metodi della polizia, ortodossi o meno che siano (la "routine" degli agenti illustrata perfettamente dal Roderick Alleyn di Ngaio Marsh, con tanto di riunioni tra sovrintendenti e sottoposti, e la raccolta di pettegolezzi dell'ispettore Marriott presso Branting, che ricorda un po' l'operato di Sir Henry Clithering al fianco dell'arguta Miss Marple di Agatha Christie). Oltre a ciò, poi, bisogna contare alcune brevi digressioni che, pur non avendo grande rilevanza nei confronti dell'omicidio di Sir Jabez, dimostrano l'ingegnosità dell'autore e una certa inclinazione all'umorismo: lo scherzo ai danni del coroner Pritchard e, soprattutto, il caso del furto avvenuto in casa di mrs. Polsom; vera e propria "indagine dentro l'indagine". Insomma, non si può dire che Stanners sia restato con le mani in mano e abbia confezionato un enigma banale; anzi, sembra essersi impegnato a riempire le pagine del suo romanzo con quante più informazioni possibili, utili o meno alla scoperta del colpevole, allo stesso modo della Sayers. Perché, allora, "Com'è Morto il Baronetto?" non è sopravvissuto fino ai nostri giorni, allo stesso modo di "Lord Peter e l'Altro" o "Il Segreto delle Campane"? Da parte mia penso che, pur assomigliando alle opere di quest'ultima, esso risulti più dispersivo e possa per questo aver pagato caro l'aver tentato di imitare i capolavori della grande Dorothy.

Edizione originale di "Com'è Morto il
Baronetto?" (1938)
La fitta nebbia che circonda e oscura lo stesso H. H. Stanners (pseudonimo di Harold H. Stanners) ha forse contribuito a pregiudicare la fama dei suoi romanzi: i membri del Detection Club, ad esempio, pur riservati e poco inclini all'incontro coi lettori, avevano messo in atto una serie di progetti che li portasse ad essere conosciuti dai lettori e, quindi, a sponsorizzare il proprio operato. Stanners, invece, pare non aver fatto nulla di tutto ciò; tanto che della sua vita non si conosce praticamente nulla. I tratti ufficiali che lo riguardano si possono riassumere così: era un signore inglese di nascita, nato nel 1894 e morto nel 1958, e autore di tre mysteries: "Murder at Markendon Court" (1936), "At the Tenth Clue" (1937) e questo "Com'è Morto il Baronetto?" (1938). Tutto qui. Non si sa altro su di lui, né se abbia partecipato a qualche guerra (anche se nella lista del personale della RAF, nel 2° squadrone tra il novembre 1917 e l'aprile 1918, figura un certo H. Stanners), né se si sia sposato, né se abbia vissuto all'estero o se si sia stabilito a Londra. Tuttavia, come ha insegnato Martin Edwards con "The Golden Age of Murder", qualcosa si può sempre rilevare da ciò che gli autori hanno scritto; perciò voglio arrischiarmi a fare qualche congettura su Stanners. Da quanto ho potuto capire dalla lettura di "Com'è Morto il Baronetto?", egli doveva essere un grande appassionato ed esperto di scacchi e un fervente lettore di libri, soprattutto delle opere di Shakespeare, proprio come il suo segugio dilettante (vedasi le numerose citazioni sparse tra le pagine, dai dialoghi tra Harding e Taysleigh alle attente riflessioni del professore sulla Ponziani); doveva avere delle conoscenze specifiche o comunque approfondite per quanto riguarda le scienze pure e la matematica, oltre che di legge, altrimenti non avrebbe mai scelto come protagonista un esperto di diritto internazionale; doveva aver studiato per molti anni e aver imparato a sfruttare forme espressive diverse tra loro, come dimostrano i resoconti tra i poliziotti (capp. 3 e 10), il dialogo informale tra Marriott e Branting (cap. 9), lo stile epistolare sfruttato da Mr. Newth (cap. 14) e i piacevoli battibecchi "alla Sherlock-Watson" tra Harding e Furniss; doveva nutrire un certo senso dell'umorismo, simile a quello di Anthony Berkeley, per escogitare un finale del genere; doveva ammirare gli scrittori di detective novels per decidere di produrne tre in proprio e seguire le loro rigide regole. Una certa cultura viene suggerita anche dalla grande attenzione che mise nel tratteggiare le ambientazioni dei luoghi raccontati e dalla padronanza con cui delineò le personalità dei suoi personaggi (soprattutto Harding, Furniss, Newth e Brenda). Senza dimenticare l'alta qualità dell'enigma che ci viene sottoposto, fornito di indizi e logico. Tutti questi sono piccoli dettagli, minuscoli segni rivelatori di un ingegno sopraffino che, pur non consegnandoci un capolavoro, in ogni caso ci offre un libro ben riuscito, gradevole, capace di stupire e di irretire, scritto con uno stile pulito ed elegante e sicuramente meritevole di lodi, tanto da essere stato giudicato dai critici Barzun & Taylor come "di prima classe". Mi auguro che Polillo riesca a tradurre anche gli altri due titoli ancora inediti di Stanners; se le premesse costituite da questo romanzo saranno mantenute, non vedo come si possa permettere che un autore di questo calibro resti ancora a lungo dimenticato.

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