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venerdì 11 settembre 2020

45 - "Arsenico" ("As a Thief in the Night", 1928) di Richard Austin Freeman

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore

Come forse avrete capito, se tenete d'occhio le recensioni che pubblico su Three-a-Penny, la mia esperienza di lettore di romanzi gialli classici segue una sorta di schema abbastanza definito, regolato sì dall'arbitraria voglia di leggere un dato titolo, ma soprattutto dalle stagioni meteorologiche che si alternano nel corso dell'anno. Non che questa sia una prerogativa esclusiva del sottoscritto: da quanto riesco a capire, leggendo di qua e di là sul web, siamo in tantissimi a mettere in atto questa pratica, facendo le nostre scelte un po' in un senso e un po' in un altro. Da parte mia, io mi sforzo di rispettare questa suddivisione per periodi nel modo più rigoroso possibile; non fosse solo per riuscire a calarmi nelle storie che leggo con maggiore facilità. Pertanto, con la fine dell'estate, ho accantonato le storie ambientate in luoghi esotici e vacanzieri, dove i viaggi di piacere e gli alberghi di lusso abbondano, per tornare a quello che forse è il mio amore più grande: i racconti in cui dominano il senso del gotico e le atmosfere si fanno più minacciose, oppure dove si trova uno spiccato contrasto tra il clima confortevole dei salotti riscaldati dalle luci soffuse, e quello terrorizzante al di là delle finestre sbarrate contro la notte. Le foreste scosse dalla pioggia e dal vento, i promontori sul mare in tempesta, le città nebbiose e misteriose, per non parlare delle bufere di neve che isolano avite dimore di campagna (ma questo è più indicato per i mesi di novembre e dicembre); tutto ciò, a mio parere, riesce a dare una marcia in più, a sottolineare la drammaticità delle tragedie che si verificano nella tradizionale crime story, e a infondere nel lettore quel brivido caratteristico nel giallo di stampo anglosassone, mentre egli siede accanto al fuoco e ascolta le gocce picchiettare sui vetri. Forse anche per questo motivo, da molti anni a questa parte, settembre è diventato uno dei mesi che preferisco in assoluto e questo genere di storie mi affascina in modo particolare. Immaginate un corridoio oscuro, in cui si deve farsi strada grazie alla luce di una candela, intermittente e generatrice di ombre mobili su muri e curve ad angolo; oppure di avanzare a tentoni in mezzo a un banco di nebbia all'apparenza solida e impenetrabile, o sotto scrosci battenti che impediscono di orientarsi con chiarezza: nonostante siano classificate come piene di cliché, tali situazioni riescono ancora a suscitare in me grande emozione.

Si possono fare tanti esempi su questo tipo di romanzo del mistero: nel genere metropolitano, mi viene in mente "L'Arte di Uccidere" di John Dickson Carr, in cui il giudice istruttore Henri Bencolin si trova coinvolto in un mistero che vede svolgersi la maggior parte delle indagini all'interno di un edificio terrorizzante, calato in una Londra spettrale; "Svanita nel Nulla" e "Qualcuno ti Osserva", esemplari tipici della narrativa di Ethel Lina White, mettono in scena ossessioni che spaziano da caseggiati a dimore isolate, in cui i personaggi sono perseguitati e devono mettersi in salvo; "Poirot e la Strage degli Innocenti" di Agatha Christie e "Notti di Halloween" di Leo Bruce sfruttano le caratteristiche della festa di Ognissanti (zucche intagliate e ghignanti, maschere paurose, armi giocattolo, visite a cimiteri e in generale l'atmosfera di terrore) per esaltare le loro storie in villaggi rurali; "Come in uno Specchio" di Helen McCloy prende in prestito elementi del folklore e della tradizione dei tempi bui, per proiettare spettri in una scuola femminile del presente e dare vita a una vicenda in cui non si distinguono più finzione e realtà. Ognuno di questi libri, a modo suo, traccia una rappresentazione della società e del mondo che ci circonda, e lo fa dipingendo situazioni dove non mancano i brividi sul piano delle emozioni forti. Tuttavia, come dicevo sopra, non di solo terrore si va avanti. Anche il contrasto tra ciò che è confortevole e ciò che mette disagio gioca spesso un ruolo di primo piano all'interno di un romanzo del mistero. Questo è un carattere che molte volte ho trovato nella narrativa di un autore in particolare: Richard Austin Freeman. Con il suo stile un po' antico ma melodrammatico, egli è riuscito a tratteggiare momenti pregni di drammaticità, infondendo un forte senso della realtà a situazioni che dovevano apparire fantascientifiche agli occhi dei suoi lettori di inizio Novecento, ma senza per questo rinunciare a inserire una dose di ironia o leggerezza per stemperare l'atmosfera o descrivere passaggi dove il sentimento, scollato dalla sua componente intimidatoria, attira tutta l'attenzione sul proprio lato romantico. In "L'Occhio di Osiride" avevo fatto un discorso simile, e anche col romanzo di oggi, "Arsenico" (Polillo Editore, 2016), ritenuto come un altro tra i suoi capolavori, ripeto questo concetto. Nell'indagine sull'efferato omicidio di un malato cronico, infatti, si alternano passaggi dove emerge la malvagità dell'assassino e la ragione pare lasciare il posto a un'anarchia di paura e sospetto, con altri in cui si nota quanto sia ingiusto considerare i personaggi e gli scenari domestici creati dall'autore come incapaci di trasmettere emozioni. Non di sole scienza e inchiesta è piena l'opera di Freeman: pure la parte meno materialista, quella legata alla sfera del sentimento, spicca per restituire al lettore un ritratto a tutto tondo del delitto e dei suoi protagonisti.

King's Bench Walk, Londra, strada in
cui abita il professor Thorndyke,
ritratta in una cartolina d'epoca

Tutto inizia quando il reverendo Amos Monkhouse, in viaggio dalla lontana parrocchia in cui risiede, si reca in visita al fratello nella sua grande casa di Londra. Quest'ultimo, Harold, ha sempre sofferto di salute cagionevole, ma negli ultimi tempi pare patire più del solito a causa di una malattia incapace da identificarsi con sicurezza. Come si scoprirà una volta consultato il medico, il dottor Dimsdale, tra i sintomi vi sono difficoltà respiratorie, un'insofferenza cardiaca che gli impedisce addirittura di alzarsi dal letto, e tutta una serie di altri piccoli disturbi che, sommati insieme, lasciano il malato impotente pur non essendo da imputare a un malessere preciso e definito. Resosi conto della situazione, Monkhouse non è per nulla tranquillo; non solo per la brutta cera di Harold, ma soprattutto perché in casa, al momento del suo arrivo, ha trovato con immenso sconcerto soltanto un amico di famiglia, Rupert Mayfield, e alcune domestiche; mentre la moglie di suo fratello si è recata nel Kent per sostenere la causa delle suffragette in cui milita, la nipote acquisita Madeline insegna a scuola e il segretario Wallingford è in giro per la città per affari. Come è possibile assicurare un'adeguata cura per il malato, se nessuno sembra volersi preoccupare di lui? Così, assecondato da Dimsdale e Mayfield (il quale funge da narratore della storia), Monkhouse si affretta a consultare uno specialista affinché trovi un rimedio per il fratello. A questo punto, Mayfield intraprende un viaggio di lavoro e si allontana da Londra, augurandosi che tutto possa risolversi per il meglio nonostante serbi nel cuore un certo timore... Timore che, non appena torna a casa, si rivela fondato: proprio la sera prima del suo rientro, Harold Monkhouse viene a mancare nella sua camera da letto, mentre legge un libro a lume di candela per non disturbare gli altri abitanti dell'edificio. Pure Barbara, la moglie del morto, ha fatto ritorno proprio quella mattina, senza riuscire a dare l'ultimo saluto al consorte; pertanto Mayfield, da amico di famiglia ed esecutore testamentario, decide di sollevare dall'amica le responsabilità aggravate dal lutto, prende in mano la faccenda e si fa portavoce per gli abitanti della casa, organizzando ogni cosa per assicurare un funerale degno per Harold. In fondo, tutti sono troppo sconvolti per riuscire a far fronte agli impegni e lui è lieto di potersi rendere utile, soprattutto grazie al proprio ruolo di avvocato.

Sfortunatamente, però, il giorno della cerimonia si presenta alla porta di casa un poliziotto che convoca i residenti a un'inchiesta che si terrà due giorni dopo, affermando che ogni altro impegno in vista della sepoltura è stato rinviato a una data da stabilirsi. Cosa può essere successo di tanto grave? Ebbene, come scopriranno ben presto i residenti di casa Monkhouse, Harold è stato ucciso freddamente grazie alla ripetuta somministrazione di arsenico, con molta probabilità sfruttando il cibo o la medicina ingeriti di volta in volta ogni giorno. Così, di punto in bianco Barbara, Madeline, Wallingford, le domestiche e lo stesso Mayfield vengono sospettati di essere assassini, piombando in un incubo ad occhi aperti che li vede piegarsi a fastidiosi interrogatori e perquisizioni da parte della polizia. Come risolvere la situazione facendo meno danni possibili? Per fortuna, Mayfield conosce l'uomo giusto per occuparsi del caso in fretta e senza suscitare scandali: il professor Evelyn Thorndyke, anatomopatologo e medico legale, il quale una volta interpellato si dice lieto di poter dare una mano al suo amico di lunga data. Così, l'investigatore si mette all'opera e, grazie al proprio ingegno di carattere matematico e alle apparecchiature di cui dispone, inizia a sondare il mistero della morte di Harold Monkhouse con metodo e criterio. L'unico problema è che, a suo dire, la soluzione del caso si trova nel passato, dove la scienza e i mezzi di cui dispone faticano a farsi strada. È forse possibile aggirare tale scoglio? Grazie a una serie di fortuite coincidenze e all'infaticabile ingegno di cui dispone, capace di selezionare la verità dalla menzogna e gli indizi vitali da ciò che li nasconde all'occhio inesperto degli altri, Thorndyke riuscirà a istruire un'accusa fondata e inattaccabile contro un insospettabile colpevole; anche se, per farlo, dovrà recare un grosso dolore al suo amico avvocato, legato a molti degli abitanti di casa Monkhouse da un sincero affetto.

Suggestiva copertina di un'edizione in
lingua originale di "Arsenico"

Come era stato con "L'Occhio di Osiride", anche nel caso di "Arsenico" ci troviamo di fronte a un romanzo giallo che risente ancora di una tradizione posteriore a quella della Golden Age della classica crime story, nonostante esso sia stato scritto nel 1928 (lo stesso anno, per fare un paragone, furono dati alle stampe "Bellona Club" di Dorothy L. Sayers e "Delitti di Seta" di Anthony Berkeley). Questo, tuttavia, non vuol significare che le vicende raccontate siano noiose. Anzi, nello stile tipico di Freeman, in questo libro troviamo una narrazione differente da quella dei titoli sopra citati, in cui spiccano in modo chiaro la capacità e l'intenzione dell'autore di voler evocare il mondo affascinante e suggestivo (nonché imperfetto) della fine dell'età Vittoriana, attraverso piccoli scorci sulla quotidianità del tempo e sulle vite di persone che ormai sono morte e sepolte da moltissimo tempo, ma allo stesso tempo, come imprigionate nell'ambra, ancora reali e tangibili agli occhi del lettore. Al di là dell'enigma puro, ciò che importa a Freeman è il tratteggio della società e della realtà dell'Inghilterra del suo tempo, restituito non come qualcosa di relegato a un passato freddo e asettico "da libro di storia", ma vivo nei ricordi di chi lo ha vissuto in prima persona: in sintesi, qui non sono i Grandi Avvenimenti a dominare la scena, con la loro pomposità, ma piuttosto azioni come la compilazione di un diario giorno per giorno, oppure il rapporto tra conoscenti e innamorati, tra gentiluomini e garbate signorine, fatto di inchini formali e toni lirici, ritratti di vie scomparse assieme ai loro abitanti nati e stabilitasi proprio lì da tempi immemori, descrizioni di dimore signorili e di quartieri ormai evolutesi in qualcosa di più moderno; tutte cose le quali possono essere rievocate dal lettore comune e assaporate con un pizzico di nostalgia e di tenerezza. Esse ci parlano di un'epoca passata e ormai cancellata dal progresso, che riesce ancora a vivere davanti ai nostri occhi, all'interno di queste ignare "biografie civiche" dell'autore, il quale ha destinato al futuro un'eredità preziosissima di frammenti che compongono un mosaico sulla tradizione, tanto rigoroso non solo da soddisfare la mera curiosità ma addirittura da restituire un ritratto veritiero dell'evoluzione della società, senza tralasciare fatti che altrimenti sarebbero andati perduti nelle pieghe del tempo. Il tutto, tra l'altro, in un modo che è riuscito a resistere alla prova del tempo, conservando un certo fascino e mescolando enigmi innovativi e una narrazione suggestiva che dimostrano chiaramente come il genere giallo riesca ancora a resistere a più di un secolo dalla sua nascita.

Pertanto, detto ciò, nonostante il fatto che Richard Austin Freeman appartenga a una generazione anagrafica posteriore a quella degli esponenti della Golden Age del giallo anglosassone, io non trovo che questo autore abbia qualcosa da invidiare ai suoi colleghi più giovani. Voglio dire, se la sua opera può suggerire un carattere improntato su uno stile e una caratterizzazione dei personaggi un po' datati, ciò non significa che il risultato finale sia meno interessante di quanto si potrebbe sperare, nel momento in cui ci avviciniamo a essa. Si è visto in "L'Occhio di Osiride", ma ciò appare chiaro pure in "Arsenico", il quale può essere incluso in quei romanzi gialli che definisco "antiquati" in senso positivo; non superati e vetusti da apparire fin troppo macchinosi e complicati da digerire, quanto capaci di sfruttare la tradizione in modo da accrescere il proprio valore intrinseco. Nell'altro romanzo di Freeman che avevo recensito, li avevo paragonati a scrivanie d'epoca accostate a tavoli dal design moderno, e oggi ribadisco il concetto: magari a prima vista le prime possono apparire un po' fuori luogo rispetto ai secondi e non reggere il confronto, ma non si può negare il fatto che i gialli di Freeman (le scrivanie), allo stesso modo di quelli di J. Jefferson Farjeon, riescano ad esercitare un'attrazione irresistibile per i lettori nostalgici (i compratori di mobili d'epoca) e costituiscano piacevoli esempi di period novel, ovvero quei romanzi dove, attraverso uno stile onirico che pare attraversare le nebbie del tempo, viene ritratto un certo stile di vita, con i suoi pregi e i suoi difetti. Ecco, "Arsenico" intrattiene con una sorta di semplicità apparente, dal momento che, in realtà, ci troviamo di fronte a complesse opere dove i dettagli contano e ogni cosa (ambientazione, caratterizzazione dei personaggi, stile, mistero) viene tenuta insieme da un collante "alla Dickens", solida contro lo scorrere del tempo e la fugacità delle mode. Se prestiamo attenzione, infatti, nel romanzo che recensisco oggi troviamo gli stessi elementi che risaltano all'interno delle altre opere di Freeman e gli hanno permesso di sopravvivere tanto a lungo: una scrittura improntata su un linguaggio specialistico, ma che non rinuncia a un pizzico di ironia e a un tono nostalgico e mai banale, attenta e coinvolgente a modo suo; una grande attenzione al rapporto instaurato tra i personaggi, fatto di interazioni numerose che si inseriscono in modo perfetto a spezzare i momenti più seriosi dell'indagine e infonde nei protagonisti una certa umanità; un enigma in grado di soddisfare i lettori più esigenti, dal momento che è imperniato su un metodo d'indagine scientifico ma non per questo soporifero e poco appassionante; un abile uso delle descrizioni degli ambienti che fanno da sfondo alle vicende raccontate, capaci di proiettare chi legge direttamente dentro le pagine e di dare uno spessore alle azioni che si svolgono sulla scena. E nonostante si tenda a criticare l'autore (e il suo investigatore Thorndyke) per un certo atteggiamento gelido e fin troppo tecnico (giustificato se ci si sofferma soltanto sull'esposizione del mistero in sé), bisognerebbe sottolineare quanto un simile giudizio sia riduttivo quando si prende in considerazione ciò che circonda il caso stesso di cui uno è creatore e l'altro risolutore: il buon professore sarà anche il prototipo del detective declinato sulla figura del medico legale, come il suo inventore, ma non bisogna dimenticare che egli riesce a dare prova di possedere un cuore sensibile a sentimenti come l'amore e la fedeltà. E che Freeman, nel dipingere le allegre vie della città, nel tratteggio dei dialoghi brillanti, nel toccare alcuni temi in particolare e nel descrivere il complesso ed emozionante rapporto tra individui, non è da meno.

Grafico tecnico-scientifico tracciato da Thorndyke sul
caso di Monkhouse (non ho messo la didascalia che
spiegava per non incorrere in spoiler)

Con questo discorso, però, non voglio far passare in alcun modo il messaggio che i mysteries di Freeman siano tutti uguali. Ho citato in parte "L'Occhio di Osiride" per sostenere le mie argomentazioni, non tanto per evidenziare come certi aspetti siano stati copiati tali e quali in "Arsenico". L'opera dell'autore, in realtà, è sì fondata sui quattro aspetti che ho menzionato qui sopra, ma di volta in volta sembra concentrarsi più su uno di essi che sempre sugli stessi. "L'Occhio di Osiride", infatti, a mio parere tende a mettere in luce soprattutto il rapporto sentimentale tra il dottor Berkeley e Ruth Bellingham (pur senza minimizzare la parte sull'enigma, sia chiaro); mentre il romanzo che recensisco oggi pone l'accento sui caratteri scientifici del delitto e sulle varianti che costituiscono le sue possibili soluzioni. Non per niente, Freeman si rifece a un caso reale per ispirarsi nella creazione della trama di "Arsenico", la quale risulta più articolata e complessa di quella sull'omicidio di Bellingham. In particolare, sfruttò il classico enigma di epoca Vittoriana che vide come protagonista la giovane Florence Maybrick. Nata Chandler, in Alabama, questa diciannovenne bellezza del sud, con i riccioli dorati e gli occhi dal color delle viole, si era innamorata e sposata con un uomo inglese di ventitré anni più vecchio di lei, James Maybrick. Costui, un omone che aveva fatto fortuna come agente del cotone, l'aveva condotta in Inghilterra e insieme si erano stabiliti a Battlecrease House, a Liverpool, dove lei aveva dato alla luce un figlio e una figlia. Tutto era andato bene, fino a quel momento; poi, con grande sconcerto, Florence aveva scoperto che lui si era fatto numerose amanti e che una di esse gli aveva dato addirittura cinque pargoli. Una faccenda a dir poco traumatizzante; aggravata dal fatto che, mentre la mentalità del tempo concedeva all'uomo qualche scappatella, alle donne ciò non era permesso nel modo più categorico. Florence aveva provato a ad imitare il marito, per trovare un po' di conforto, ma ciò che aveva ricevuto in cambio era stato un vestito strappato e un occhio nero. Pertanto, immaginate quale dovesse essere l'atmosfera a Battlecrease House; una casa dove il focolare domestico era influenzato da bugie e sinistri sospetti, e tutti quanti erano in qualche modo ostili verso la giovane intrusa americana. Quest'ultima, alla fine, sembrò decidersi a compiere un gesto drastico: nonostante gli occhi di tutti puntati addosso, comprò alcuni fogli di carta moschicida e, dopo averli immersi nell'acqua, ne estrasse l'arsenico per farsene a suo dire una crema facciale. La conseguenza, però, fu che da quel momento Maybrick iniziò a soffrire di una strana gastrite, e poco dopo vennero scoperte, da parte del fratello dell'uomo, alcune lettere compromettenti scritte da Florence a un amante segreto. Il giorno seguente tale rivelazione, la ragazza fu vista maneggiare una bottiglia di estratto di manzo nella stanza del marito; e nel giro di ventiquattr'ore, Maybrick morì misteriosamente. La cosa, com'è ovvio, suscitò un gran clamore e Florence venne accusata di essere un'assassina, nonostante non ci fossero prove materiali del fatto che l'arsenico fosse la causa del decesso di Maybrick. Il processo fu una prova durissima per la ragazza, sbeffeggiata dalla stampa e ingiuriata da un giudice che qualche tempo dopo venne rinchiuso in un manicomio; ma il momento peggiore fu sapere di essere condannata a morte e ascoltare ogni giorno gli operai intenti alla costruzione del proprio patibolo... Patibolo che, alla fine, restò inutilizzato. Già, perché la condanna di Florence venne commutata in una sentenza di reclusione a vita per un'accusa che non le venne mai imputata: la somministrazione dell'arsenico. Per quindici anni dovette attendere che la "giustizia" facesse il proprio corso, prima di vedersi libera di tornare in Connceticut, dove sembra si sia ritirata fino alla fine dei suoi giorni, terrorizzata che la gente di Battlecrease House potesse rintracciarla.

Considerata questa premessa, penso si capisca benissimo in cosa "Arsenico" sia diverso da "L'Occhio di Osiride". Se in quest'ultimo caso l'idea per la creazione dell'enigma derivò soltanto in modo marginale dal caso di true crime di Parkman-Webster, e l'interesse attorno al quale si sviluppa l'indagine riguarda soprattutto il sentimento nato tra Berkeley e Ruth Bellingham e le sue conseguenze in relazione al mistero, nel romanzo recensito oggi il parallelo con la triste vicenda di Florence Maybrick, assieme all'azione sulla scena del delitto, le inchieste volte alla scoperta del colpevole, gli esperimenti di Thorndyke e tutto ciò che deriva e ha a che fare con esso (legge, medicina, scienza, meccanica) occupano un ruolo decisamente più importante. Certamente, come ho detto, ci sono molte affinità tra i due titoli, come lo schema ripetitivo del "protagonista giovane e innamorato di una ragazza bisognosa di comprensione", gli ostacoli all'apparenza insormontabili tra loro, il sospetto che si insinua nella relazione; per non parlare di quegli aspetti legati alla forma, come le dettagliate descrizioni degli ambienti, lo stile pieno di digressioni di Freeman (pp. 7-9, 14-15, 21-23, 29, 41, 66-69, 75, 89, 93-94, 101-102, 109-110, \120-126, 129-130, 133, 140-141, 143-146, 168-169, 175-176, 183, 187-188, 100-202, 212-216, 219, 253) e le frequenti osservazioni di carattere legale, medico e scientifico (pp. 147-160, 178-179, 181-185, 204-207, 234-249, 255-258). Tutto ciò, tuttavia, in "Arsenico" sembra fare "da contorno" alle indagini vere e proprie di Thorndyke, dove si pone grande importanza riguardo la somministrazione del veleno, le azioni che ognuno dei personaggi potrebbe aver messo in atto per alterare il cibo oppure la medicina del malato, all'opportunità e al movente che ognuno dei sospettati poteva avere per giustificare un assassinio. In sintesi, in "L'Occhio di Osiride" assistiamo più alla nascita dell'amore sbocciato tra il protagonista e la sua amata, che all'inchiesta della polizia e di Thorndyke snodatasi di pari passo; in "Arsenico", invece, vediamo in atto il contrario, con un caso poliziesco tanto complesso ed elaborato da mettere in secondo piano il rapporto (comunque importante ai fini della soluzione finale) tra Mayfield e Barbara Monkhouse. Sono il metodo scientifico (e quello della polizia, cap. 7), la mente analitica, di Thorndyke, gli esperimenti che egli conduce nel suo laboratorio, i processi giuridici e le procedure ministeriali, la prassi della polizia, i sopralluoghi a conferire spessore a quest'ultimo mystery; l'amore, la gelosia, l'odio e le ossessioni giocano un ruolo sì decisivo, ma pur sempre secondario. In questo Freeman si è dimostrato un degno rappresentante della scuola della Golden Age di stampo inglese: oltre a essere interessato e ad affidarsi a casi reali per la realizzazione di trame originali da impiegare nei suoi libri, come fecero i membri del Detection Club, egli ha infuso una particolare cura nel perfezionamento dei dettagli materiali dei suoi delitti fittizi; cosa che lo ha reso uno tra i più importanti ed innovatori esponenti del genere fin dai primi tempi di esistenza dell'associazione.

Richard Austin Freeman, nato nel
1862 e morto nel 1943

A questo proposito, sorprende molto venire a sapere che Richard Austin Freeman fu forse il primo "vero" scrittore di romanzi gialli, intesi come un misto tra cruciverba mentale e strumento di descrizione sociale. E fa ancor più sensazione il fatto che, considerando la mole di romanzi e racconti che egli pubblicò nella sua lunga vita, la sua passione per la scrittura ebbe inizio non dalla semplice vocazione, quanto piuttosto da un forte senso di disperazione. L'autore, infatti, nato a Londra nel 1862 e con un passato di medico otorinolaringoiatra, dopo un'esperienza nel servizio coloniale e il matrimonio con Annie Elizabeth Edwards si ritrovò di punto in bianco a dover affrontare una lunga malattia contratta nel continente nero, con la conseguenza di dover rimpatriare al più presto e trovare una nuova occupazione, che si adattasse ai suoi disturbi frequenti e gli permettesse di sopravvivere. La svolta arrivò con un impiego presso la prigione di Holloway, dalla quale trasse cognizioni di procedura penale e psicologia criminale, ma soprattutto con la decisione in extremis (in seguito all'abbandono definitivo della professione) di darsi alla scrittura. Dopo aver raccontato la sua esperienza africana in un volume di genere diverso, nel 1902 esordì nella narrativa gialla con una serie di avventure con protagonista una sorta di furfante gentiluomo, artista della truffa e maestro del travestimento di nome Romney Pringle, scritte in collaborazione con un amico medico. Il genere dovette riuscirgli a genio, poiché appena cinque anni dopo iniziò a sfornare gialli su gialli con protagonista John Evelyn Thorndyke, il primo investigatore scientifico della storia dopo Sherlock Holmes, entrando prepotentemente nella storia della crime novel. Con il suo esordio dal titolo "L'Impronta Scarlatta" (1907), infatti, fondò il cosiddetto "giallo scientifico", in cui contano soprattutto le prove ricavate dalle analisi di laboratorio e da ricerche sulle prove materiali, senza affidarsi allo studio della psicologia. Thorndyke, uomo di grande avvenenza (al contrario dei "mostri di bruttezza" partoriti dalla mente dei colleghi del suo inventore), istruito in una quantità incredibile di materie e sempre padrone di sé permetterà a Freeman di dominare per quasi venticinque anni la scena del giallo classico, apparendo in ben 21 romanzi e 42 racconti, tra i quali vanno citati "L'Occhio di Osiride", "Il Testimone Muto", "L'Affare D'Arblay" insieme ai brevi "Il Caso Oscar Brodski" e "The Singing Bone"; quest'ultimo per un motivo ben preciso. Con questa storia, infatti, il medico prestato alla letteratura diede il proprio secondo contributo alla storia del mystery classico creando l'inverted story; ovvero, quella tecnica secondo cui il colpevole del crimine-omicidio è già noto al lettore e il gusto del racconto non sta tanto nella scoperta di "chi-l'ha-fatto", quanto del "come-è-stato-fatto" (un po' alla maniera del Tenente Colombo). Già questo mette in luce quanto fosse importante per Freeman lo studio del metodo utilizzato dal colpevole per perpetrare il suo delitto: addirittura, egli si impegnò a sviluppare e testare numerose tecniche criminali.

Grande esperto di procedure legali e di true crime (oltre ad inserire casi reali nei suoi gialli, analizzò a fondo il mistero di Croydon), innovativo finché mori nel 1943, promotore dell'autorità della chimica e della biologia applicate alle indagini, oltre che sostenitore dell'eugenetica (al contrario di moltissimi colleghi giallisti), Richard Austin Freeman è stato un grande giallista, resta uno dei pochi autori di polizieschi dell’epoca Edoardiana ad essere letto ai giorni nostri, assieme a G.K. Chesterton ed E. C. Bentley e, cosa ancor più rara, un'esponente del giallo degli albori come di quello della Golden Age. Oltre a quelli di Chandler, il quale lo riteneva "un magnifico artista" che "non ha eguali", riuscì ad ottenere anche gli elogi di George Orwell, il quale considerava la crime story della Golden Age come troppo moderna, al contrario di quella più formale e "antiquata" da lui rappresentata: "Ricordi la nostra passione per R. Austin Freeman? Io non l'ho mai davvero dimenticata, e penso che dovrei leggere tutti i suoi libri eccetto alcuni dei suoi ultimi" osservò quest'ultimo in una lettera a un'amica nel 1949, senza contare le numerose citazioni alle opere del suo idolo che fece in altri saggi. Per quanto mi riguarda, Golden Age e giallo degli inizi non fa differenza, se si tratta di opere di valore come "Arsenico": un eccezionale romanzo che, nonostante all'inizio possa apparire troppo lento, trova i propri punti di forza non solo nell'enigma di prima qualità, ma pure nel suo essere un po' antiquato e nella gran quantità di argomenti che vengono toccati nel corso della narrazione. Già; perché Freeman non si limitò a far fare semplici affermazioni di carattere superficiale al suo Thorndyke: lo fece agire in modo molto più attivo. Scienza forense, pratica legale, meccanica, medicina sono i temi più importanti toccati nelle indagini dell'investigatore, vengono trattati con un riguardo quasi reverenziale e restituiti al lettore in un linguaggio sì specialistico, ma senza usare toni troppo altezzosi e permettendo a chiunque di comprendere i passaggi più insidiosi.

Spesso, nei mysteries contemporanei, mi sono reso conto di come la "sostanza" sia debole e fiacca, poiché mancante di una base stabile e salda per quanto riguarda il fattore stilistico e contenutistico; nel caso di questo libro, invece, mi è sembrato che l'autore sapesse molto bene di che cosa stava parlando e avesse tutte le intenzioni di renderlo noto ai suoi lettori: lo dimostrano non solo i continui riferimenti alla legge (capp. 4-5-6 sull'inchiesta e pp. 31-32, 36-40, 110-118, 157) e alla medicina (pp. 12-14, 17-18, 24, 26, 78-81, 94-98, 101-105, 135-137, 160-162, 184-185, 236-237, 243-244, 248, 251-254), i quali portarono allo sviluppo di nuove tecniche da applicare alle indagini e influenzarono autori come Dorothy L. Sayers, J.J Connington e John Rhode; ma anche le parti in cui i personaggi entrano in rapporto l'uno con l'altro, a volte leggere ed altre meno, così da mutare la pesantezza di uno stile dalle descrizioni troppo dettagliate. In particolare, la  complessa e lunga questione riguardo l'arsenico (pp. 45-55, 57-65, 68-73), in qualche modo vero protagonista delle vicende, tenderebbe a diventare fin troppo astrusa per i profani e quindi ad annoiare; pertanto, Freeman si è reso conto di dover smorzare i toni e ha fatto in modo di dare il giusto pizzico di ingenuità a Mayfield affinché Thorndyke possa fare qualche battuta su di lui (come nel caso del cavallo di Troia, cap. 10). A questa serie di argomenti utili a sostenere la propria indagine fittizia, inoltre, l'autore ha affiancato un metodo ineccepibile, forse ancora troppo "ingenuo" per ingannare al meglio i lettori più abili (la cerchia dei sospetti è molto ristretta), ma perfetto in un romanzo di questo tipo, dove le innovazioni scientifiche dovevano sembrare degne di orizzonti fantastici. Come i suoi successori, infatti, Freeman si diede da fare per creare trame basate su soluzioni verificabili in laboratorio, solide e sicure, con una forte identità; sviluppò nuovi metodi delittuosi ("Se non fosse che l'autore è un medico, si potrebbe essere inclini a dubitare che gli omicidi in questa storia avrebbero potuto essere compiuti nel modo in cui li descrive" osservò addirittura il New York Times proprio riguardo "Arsenico") e spesso ideò i suoi omicidi fittizi ispirandosi a delitti reali. Ma soprattutto era deciso a dare più importanza alle modalità di uccisione, il punto forte dei casi di Thorndyke, sempre perfettamente logico e ispirato a criteri scientifici, a discapito delle sottigliezze psicologiche della Golden Age. Per questo motivo alcuni non apprezzano appieno l'opera di Freeman; in ogni caso, nonostante ciò, da parte mia mi sento più che disposto a perdonargli qualche piccola imperfezione.

Illustrazione che rappresenta Thorndyke
con il suo aiutante e biografo Christopher
Jervis in un disegno di H.M. Brock,
pubblicato sul "Pearson's Magazine"
nel 1909

Ma non è finita qui. A rinforzo dell'enigma e della storia in sé, infatti, l'autore mise alcuni ulteriori paletti di sostegno. Ad esempio, l'unione tra ambientazione e stile narrativo, come le passeggiate infinite di Mayfield in solitaria oppure in compagnia di Barbara o Madeline, diedero vita a visioni che al momento in cui il romanzo venne pubblicato (ma non solo) potevano essere rivissute nella realtà. Le immagini evocate da questi passaggi lirici contribuirono a creare la giusta atmosfera in cui calare le vicende tratteggiate, grazie a toni pratici che le caratterizzavano con minuziosa precisione e le rendevano familiari a chi leggeva, oltre che più intime (pp. 18-19, 21, 39, 41-42, 89, 9293, 97, 99-101, 104, 110, 144-147, 149, 169, 171, 174, 179-180, 188-189, 196-197, 209-216, 220). In tono nostalgico, dove si percepisce come la guerra e il Destino fatale abbiano esercitato una pressione non indifferente, osserviamo questa società che si spiega davanti ai nostri occhi; i parchi semi-deserti del periodo autunnale e invernale quando l'aria si fa più tagliente; le grandi case signorili di una volta, gelide e illuminate da un sistema elettrico che funzionava a scatti, dove per riscaldare le stanze bisognava affidarsi ai camini e la gente trascorreva le giornate a rammendare e a studiare; le vie della città brulicanti di vita durante il giorno, mentre alla notte si aggiravano soltanto i malviventi e la gente equivoca. Tutto ciò ci aiuta a visualizzare con la mente le ambientazioni, permettendoci di visitare il Temple del primo Novecento, oppure i cimiteri deserti e desolati della periferia, e restituendoceli come se fossero ancora in quello stato, con la loro fauna caratteristica di gentiluomini inamidati, di impiegati nevrotici e di signore della borghesia medio-alta con un contegno sussiegoso e altero. Costoro danno un tocco in più alle descrizioni, ce le fanno rivivere mentre agiscono, non restituiscono immagini a due dimensioni ma scenette vivaci e suggestive, tratteggiate secondo lo stile inimitabile che solo quegli autori nati in pieno Ottocento (come Freeman) possono vantare come una propria caratteristica: solenne, quasi pesante in quanto a dettagli, eppure proprio con una marcia in più grazie a questi ultimi, i quali contribuiscono a renderlo piena di sfaccettature e a dargli profondità.

L'altro grande sostegno per la storia di "Arsenico" e per l'opera dell'autore, invece, è dato dalla caratterizzazione dei personaggi. Senza dubbio un po' datati nei comportamenti, tra inchini e atteggiamenti vittoriani sull'ostentazione dei proprio sentimenti, essi restituiscono un'immagine vagamente retrò di educato garbo, come se stessimo leggendo le memorie di una vecchia zia, e trovano il loro compimento nel rapporto ingessato degli uni verso gli altri: i costumi li costringono ad adeguarsi a un rispetto esteriore delle convenzioni, ma dalle loro parole e dai toni con cui le esprimono percepiamo come essi posseggano un'anima ben più viva di quella delle mere marionette. Hanno una personalità solida, sono ben caratterizzati, e ciò indica come Freeman non fosse l'individuo gelido che il lettore medio immagina, basandosi sul suo essere un dottore vittoriano. "Saremmo dei cattivi biologi, e dei medici ancora peggiori se sottovalutassimo l'importanza di quella che è la funzione principale della natura [...] l'importanza vitale del sesso" e del sentimentalismo, spiegò per bocca di Thorndyke in "L'Occhio di Osiride": direi che è riuscito a mettere in pratica le sue parole, soprattutto vedendo quanto il professore stesso si senta coinvolto a livello emotivo nell'indagine di cui si occupa (pp. 123, 203-204, 261-263). Ma non solo il sentimento, anche l'ironia è una componente importante nei suoi personaggi: la ritroviamo soprattutto in Thorndyke e nel suo assistente Polton, ma pure Madeline dà prova di possederne in quantità. In "Arsenico", tuttavia, a trovare maggiore spazio sono l'amore perduto e l'ossessione che ne deriva (pp. 9-10, 20-21, 22-26, 33-34, 107-109, 165-166, 170, 172-173, 217, 220-224, 228-229, 231-232): quelli di Mayfield e Barbara verso Stella Keene, quelli di Wallingford per Barbara, quelli di Mayfield verso Barbara e viceversa. Nello sviluppo delle loro relazioni, divampano le passioni in modo meno manifesto di quanto accada ai giorni nostri, ma non per questo meno violentemente. Soprattutto i personaggi femminili (pp. 35-38, 68-73, 188, 191-192) appaiono soggetti a questo sconvolgimento interiore (e il disprezzato e debole Wallingford), come se l'autore fosse ancora legato a un'immagine datata della donna e non riuscisse ad accettare l'emancipazione femminile che stava prendendo sempre più piede (vedasi i commenti sulle suffragette alle pp. 8, 10-11). Però, allo stesso tempo, egli ha ritratto la figura di Madeline come una ragazza in carriera, con una propria professione e ambiziosa, che non trascura la soddisfazione dei propri bisogni sentimentali. Forse la sua educazione vittoriana tentava di ribellarsi all'idea di questo nuovo ruolo femminile nella società. In ogni caso, i protagonisti sono attori in carne ed ossa i quali, nonostante alcune caratteristiche stereotipate, agiscono e vivono con trasporto gli eventi contenuti in "Arsenico". Essi sono una parte importante in questo romanzo basato soprattutto sull'enigma; senza le loro personalità, sono convinto che gran parte del mistero sulla morte di Harold Monkhouse avrebbe perso molto del suo fascino. E di conseguenza "Arsenico" non sarebbe risultato il grande romanzo giallo che in effetti è.

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venerdì 28 agosto 2020

44 - "Assassinio nel Labirinto" ("Murder in the Maze", 1927) di J.J. Connington

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore

Tra le materie che hanno caratterizzato e contribuito all'affermazione del romanzo giallo classico nel corso degli anni, la Scienza è stata sicuramente di fondamentale importanza. Infatti, senza contare i numerosi mezzi letali che è stata in grado di fornire agli assassini fittizi, essa, sin dal Rinascimento, con gli esperimenti di Leonardo Da Vinci sulle macchine e i suoi progetti ingegneristici, ma soprattutto con la definizione del metodo scientifico da parte di Galileo Galilei nel 1600, si è prestata alla formulazione di teorie matematiche e di ipotesi logiche suffragate da una serie di prove concrete e tangibili, in un modo che ricorda molto da vicino le procedure razionali e formali degli investigatori dilettanti delle crime novels all'inglese e dei poliziotti in carica a Scotland Yard. Questi segugi, forti delle proprie capacità intellettuali, applicarono il cosiddetto "metodo deduttivo" per sondare fenomeni della vita reale come furti, omicidi e altri delitti contro la giustizia, prendendo spunto proprio da questi "antenati degli scienziati", e condussero le loro indagini in modo tale che, in fatto di accuratezza e disciplina, esse possono essere paragonate a veri e propri esperimenti in laboratorio. Analizzavano il problema, ipotizzavano come dovessero essersi svolti i fatti, deducevano dagli indizi raccolti se le premesse potevano essere mantenute ed infine controllavano se i risultati corrispondevano alla soluzione immaginata; proprio come se dovessero esaminare al microscopio la reazione di un bacillo a una data sostanza. E sebbene, con il passare del tempo, a questo razionale modo di agire venne accostato sempre più di frequente l'approfondimento della psicologia, così che poco a poco la dimostrazione scientifica del delitto venne sostituita da studi di moventi di natura psichiatrica e impulsiva che non potevano essere ascritti a delle regole matematiche, la spina dorsale del racconto investigativo restò comunque quella delle origini, basata sulla raccolta di prove inequivocabili da presentare di fronte a una giuria.

Uno dei primi ad adottare "il Metodo" fu ovviamente Sherlock Holmes, il Grande Detective per eccellenza; non per niente il suo autore, Arthur Conan Doyle, era conosciuto soprattutto per essere un eminente dottore e la sua formazione, di conseguenza, doveva molto ai suoi professori di università, come il famoso Joseph Bell, al quale si sarebbe ispirato proprio per dare vita al misantropo di Baker Street. I sopralluoghi delle scene del delitto che egli effettuava, in occasione di un nuovo caso, si rivelavano sempre fertili fonti di oggetti da analizzare, come i mozziconi di sigarette e qualche brandello di tessuto abbandonato dal criminale di turno, ed esclusivamente su tali oggetti si articolavano le sue soluzioni, senza scostarsi mai da fatti concreti e verificabili in laboratorio. Pure il dottor John Evelyn Thorndyke, creato dalla penna di Richard Austin Freeman, seguì le orme della scienza tracciate dal suo illustre predecessore: patologo, eminente studioso di chimica e fisica residente a King's Bench Walk, costui era anche un magistrato e un investigatore a tempo perso, caratterizzato da un certo senso di integrità vittoriana e dotato di spirito critico e cieca fede nelle capacità della scienza; cosa che lo aveva spinto addirittura a creare una stanza apposita, in cui effettuare gli esperimenti necessari a dimostrare la propria tesi di colpevolezza su un dato sospetto. I membri stessi del Detection Club, da instancabili perfezionisti nell'arte dell'ideazione del delitto perfetto, costituirono un altro esempio di detective scientifico: non solo alle cene periodiche dei soci invitavano spesso eminenti studiosi e scienziati, i quali presentavano una lunga conferenza sugli aspetti delittuosi delle loro professioni e offrivano il proprio punto di vista riguardo i dubbi dei loro anfitrioni, ma agivano in prima persona per raccogliere le informazioni di cui avevano bisogno. ad esempio Dorothy L. Sayers, per fare un nome, durante la stesura di "Il Caso Harrison" assillò letteralmente il suo compagno di scrittura, Robert Eustace, riguardo gli aspetti medici delle trame dei libri di Wilkie Collins e sollevò un acceso dibattito sull'arsenico e le conseguenze di un avvelenamento attraverso di esso, oltre a struggersi per dare alla loro opera congiunta una forma fisica degna dell'idea originale.

Il personaggio più inusuale tra quelli appartenenti al genere degli investigatori col pallino per le scienze pure, tuttavia, resta Sir Clinton Driffield, il protagonista dei mysteries dell'austero professor Alfred Walter Stewart, alias J.J. Connington. Compagno di Sayers e Eustace all'interno del circolo londinese di scrittori, costui fu uno dei più sottovalutati narratori di romanzi del mistero della storia, insieme a John Rhode e Freeman Wills Crofts, poiché i suoi romanzi vennero a lungo considerati noiosi a causa dell'apparente "monotonia" delle loro trame. Come la maggior parte dei cliché sulla crime fiction classica, anche in questo caso il giudizio si è rivelato affrettato e superficiale, e per dimostrarvelo oggi ho deciso di recensire il libro in cui egli fece comparire per la prima volta il suo investigatore, ovvero "Assassinio nel Labirinto" (Polillo Editore, 2004). Oltretutto, questo libro si presta benissimo a concludere la mia rassegna sul giallo estivo-vacanziero, dal momento che esso è ambientato in una casa di campagna in piena bella stagione, in cui si verifica una serie all'apparenza inspiegabile di crimini. Tuttavia, non lasciatevi ingannare dalle premesse: qui la storia ha ben poco di spensierato e solare; l'oscurità trapela tra le righe come se fosse un veleno e la crudeltà e una certa asprezza nei toni stanno al centro delle vicende.

Labirinto di Hampton Court, simile a quello di Whistlefield
La storia si apre in un afoso pomeriggio estivo, a Whistlefield, la tenuta di campagna di proprietà del ricco Roger Shandon. Laggiù sono riuniti tutti i membri della famiglia (insieme ad alcuni ospiti e domestici), e la situazione sta generando un forte clima di tensione che lui e suo fratello gemello Neville sembrano sopportare a malapena; tanto che, ben presto, i due decidono di cercare un posto tranquillo per occuparsi dei propri affari privati, dove non essere assillati dai problemi dei loro rumorosi e noiosi parenti: Roger, il quale si è arricchito attraverso mezzi ignoti, è infatti preoccupato per le spese crescenti e vuole mettere fine una volta per tutte a quelle superflue (come il mantenimento di parenti del calibro del fratello Ernest e dei nipoti Arthur e Sylvia); Neville, invece, da avvocato coscienzioso, intende perfezionare la sua ultima arringa senza il pericolo di essere infastidito o minacciato. I due si dirigono verso l'attrazione della tenuta, un grande labirinto che solo i membri stretti della famiglia sono in grado di vincere, ed entro breve ognuno si installa in uno dei due centri dell'immenso gioco di astuzia. Quando anche due ospiti di Whistlefield, la signorina Vera Forrest e il signor Howard Torrence, ignari della presenza dei gemelli, decidono di entrare nel labirinto per sfidarsi a risolverlo, il dramma ha inizio: qualche minuto dopo il via alla gara, infatti, tra le alte siepi impenetrabili risuonano un colpo di fucile ad aria compressa e un grido, seguito quasi subito da un'altra coppia di rumori simili. Entro poco tempo vengono rinvenuti i cadaveri dei gemelli Shandon, uccisi da alcune freccette avvelenate, e con uno sforzo notevole, Vera riesce a trovare una via d'uscita dalla sua prigione e a dare l'allarme alla tenuta. Immediatamente viene convocata la polizia, e con essa giunge sul posto un giovane uomo con un cane al seguito: si tratta di Sir Clinton Driffield, nientemeno che il capo della polizia, il quale è in visita all'amico Wendover ed è stato arruolato a forza mentre stava passando qualche ora a riposare insieme allo Squire.

Questo signore dall'aspetto ordinario e dai modi riservati capisce subito di trovarsi di fronte a un delitto orchestrato quasi alla perfezione, e si impegna a raccogliere quanti più indizi possibili per inchiodare il colpevole prima che quello possa nuocere ad altre persone. Mentre Driffield sta indagando in prima linea tra le testimonianze reticenti di tutti i membri della casa, infatti, il misterioso assassino sembra intenzionato ad eliminare tutti i membri della famiglia Shandon, prendendo di mira prima Ernest, l'unico fratello superstite, e poi i nipoti degli assassinati, il semi invalido Arthur Hawkhurst e sua sorella Sylvia. Chi sarà questo elusivo personaggio? La presenza nella casa di un misterioso segretario, Ivor Stenness, complica le cose, in una faccenda dove solo all'apparenza sembra che tutto sia tranquillo e pacifico, e Driffield capisce che solo grazie al proprio metodo investigativo riuscirà a risolvere il mistero. Così, con l'aiuto di Wendover, si mette in caccia di una preda ostinata e pericolosa, basandosi sulla scienza come un moderno Sherlock Holmes e senza rivelare a nessuno le proprie mosse e i suoi pensieri; finché la soluzione arriverà proprio dove la tragedia ha avuto inizio: nel labirinto di Whistlefield, trappola mortale per gli Shandon e il loro assassino. 

Giocatori di carte ritratti sulla scatola di un mazzo da gioco
per bridge, simili ai partecipanti alla partita di Whistlefield

La vicenda, tratteggiata in questi termini, può indurre il lettore a classificarla immediatamente tra le altre, simili, che caratterizzano il sottogenere trito e ritrito del "delitto della casa di campagna". Eppure, in realtà, essa è caratterizzata da una serie di irregolarità che la rendono atipica ed interessante agli occhi degli appassionati di romanzi gialli. In primo luogo, infatti, si nota subito come, a differenza della solita atmosfera generale più o meno idilliaca, "Assassinio nel Labirinto" conservi una certa asprezza e prosaicità di fondo. In questo romanzo, è l'oscurità a farla da padrone (pp. 98-100, 110-113, 191-202, 212-213, 226): essa viene accentuata dalla tensione, nei momenti in cui l'assassino colpisce (pp. 37-46, 190-195), e in gran parte delle vicende aleggia una certa atmosfera da brivido, in cui si scontrano l'umorismo nero del capo della polizia con l'ingenuità del suo compagno di indagini, e l'atteggiamento all'apparenza un po' sciocco di Driffield con l'acume di cui da prova nei momenti del bisogno. Non ci sono grandi passaggi di simpatica empatia tra narratore e lettore come nelle solite, confortevoli crime novels, pur essendo presenti i divertenti battibecchi tra Wendover e Sir Clinton; al contrario, ci troviamo di fronte a un modo di raccontare che, per quanto sia facile e veloce in quanto a stile, in fatto di tono assomiglia più a quello di un saggio, in cui il narratore vuole mantenere una certa distanza da chi legge. Gli stessi argomenti affrontati (medicina, balistica, vivisezione) introducono una certa freddezza e asperità nel racconto. Poi, ad eccezione di una piccola parte, nel libro il sentimento non viene mai menzionato e i suoi protagonisti sembrano mossi solo da intenti ragionati, simili a macchine o pedine di una scacchiera (pp. 180-183); inoltre l'ambientazione, a parte la scena del delitto (il labirinto e il giardino di Whistlefield), non viene rappresentata nel dettaglio, come se per l'autore non fosse stato importante tratteggiare con attenzione i luoghi, ma piuttosto la lucidità del metodo d'indagine e quello del colpevole per perpetrare la morte alle sue vittime designate. Il contorno non aveva la stessa importanza dei fatti nudi e crudi, per il professor Stewart; a lui interessava soprattutto presentare un delitto da risolvere, che apparisse reale, fatto bene, scientifico e dotato di indizi (non per niente, in "Assassinio nel Labirinto", le prove materiali come freccette, ragnatele, vasetti, fucili, libretti per gli assegni abbondano in gran quantità).

Pertanto, una volta entrati nel pieno della vicenda, non dobbiamo aspettarci chissà quale capolavoro sullo stile dei romanzi della Sayers, ma né più né meno che una sfida capace di mettere alla prova il nostro intelletto; cosa che ho l'impressione i critici non abbiano fatto, decretando così che i suoi gialli fossero declassati a opere di serie B. Come alcuni disprezzano le vicende in cui ci sono troppe parti descrittive, allo stesso modo ci saranno quelli che non tollerano quelle troppo scarne; ebbene, lasciatemi dire che entrambi commettono un grosso errore. A mio parere, infatti, il tradizionale romanzo giallo anglosassone è intrigante proprio per questo suo variare di continuo, tanto nei temi quanto nella struttura o in stile: ci sono i delitti che si verificano nella casa di campagna, quelli al villaggio, quelli al campus universitario, quelli a teatro, quelli urbani; quelli dove si conosce già il colpevole, quelli che hanno tanti colpevoli, quelli dove il colpevole è la vittima stessa, ecc... A parte pochissime eccezioni, a me sono sempre piaciuti i mysteries che mi sono capitati sotto mano; anche solo per un motivo, ho apprezzato il modo in cui hanno saputo coinvolgermi, e questo "Assassinio nel Labirinto" non ha fatto eccezione. Se diamo un'occhiata approfondita all'enigma, infatti, ci troviamo davanti a un lavoro di fair-play e di misdirection non comune: fermo restando che il colpevole di questa prima prova di Connington nel campo del mystery resta abbastanza prevedibile, non ci possiamo lamentare per l'ingegnosità dimostrata nell'ideazione degli omicidi e della loro soluzione. Il fatto stesso di ambientare i fattacci dentro una prova di intelligenza come un labirinto dovrebbe farci capire come l'autore intendesse creare qualcosa di simile a una memorabile sfida logica; l'uso delle freccette avvelenate è stato un espediente intelligente da usare come arma del delitto, poiché non preclude che il colpevole sia una donna; l'inserimento di esempi di delitti accaduti sul serio (come quello di Maitre Fernand-Gustave-Gaston Labori, colpito alla schiena mentre andava in tribunale ad interrogare il generale Mercier durante l'affare Dreyfus, oppure quelli di Crippen, Deeming, Burke e Hare, pp. 84, 123, 151, 165-167, 185, 275, 290, 294), la quantità enorme di false piste e nozioni scientifiche che ci viene data in pasto, insieme agli esperimenti compiuti da Sir Clinton, rendono più reale l'indagine e ci inducono a riflettere sulla soluzione da dare, ma allo stesso tempo sono anche indice del voler "giocare pulito" di Connington, senza barare nascondendo le prove; insomma, tutto è tenuto in considerazione in vista dello scioglimento finale.

Inoltre, cosa da non trascurare affatto nell'analisi di "Assassinio nel Labirinto", Sir Clinton Driffield non è un anonimo ispettore, simile a tanti altri: in un primo momento egli si accontenta di apparire un po' sciocco, per confondere l'omicida, ma in seguito non fa sconti per far rispettare la giustizia; anzi, in qualche modo va oltre il suo ruolo "ufficiale" per assicurare il trionfo del bene sul male. "Sui giornali, di tanto in tanto si sente parlare di misteri non spiegati, delitti irrisolti, inefficienza della polizia e via di questo passo. Ora vi sottopongo un problema. Supponete di dover indagare su qualche caso diabolico come quello di Jack lo Squartatore. E supponete di aver scoperto, alla fine, che il criminale era un pazzo come, ovviamente, nel caso di Jack lo Squartatore. Infine, supponete che la sua follia sia stata scoperta e che lui sia stato messo in manicomio dopo il suo ultimo delitto. Che cosa fareste? [...] Perché non potreste farlo impiccare, dato che non è sano di mente. [...] In questo caso, il risultato sarebbe solo quello di gettare fango sulle persone a lui vicine [...]. Ci sono alcuni cani che dormono e che è meglio non svegliare." Questo è il suo innovativo e sconcertante punto di vista, e probabilmente anche quello del suo autore: farsi giustizia da sé, quando essa rischia di fallire, può apparire come una via di fuga accettabile (pp. 209, 227-235, 298-250, 254-268, 295-296, 298).

Alfred Walter Stewart, alias J.J.
Connington, nato nel 1880 e morto
nel 1947

Senza dubbio, essa è un'idea tanto rivoluzionaria quanto lo fu lo stesso Alfred Walter Stewart, lo scienziato che si nascondeva dietro lo pseudonimo di J.J. Connington. Nato nel 1880, egli fu un ometto piccolino e all'apparenza senza pretese, ma in realtà era considerato come un uomo austero e competente. Scozzese, figlio del dean of faculties della Glasgow University, Stewart aveva intrapreso gli studi proprio presso quell'istituto, per poi proseguirli a Marburg e all'University College di Londra, approdando infine alla Queen's University di Belfast. L'educazione che gli venne impartita fece di lui un esperto di chimica, fisica, balistica e altre discipline scientifiche; cosa che gli permise di diventare un rinomato docente a Belfast, fin dal 1901 quando era ventiduenne. Ad eccezione di alcuni anni trascorsi a insegnare a Glasgow, Stewart sarebbe rimasto di ruolo in quella città fino al suo ritiro dall'insegnamento e dalla carriera accademica, diventando prima cattedratico di chimica e infine capo del suo dipartimento. Tra l'altro, egli fu pure un ricercatore con all'attivo un certo numero di saggi e libri di testo, sullo stile di "Recent Advances in Organic Chrmistry" e "Stereochemistry", alcuni tra i suoi testi più conosciuti nel campo della scienza. Tuttavia, l'esimio professore voleva fare anche qualcosa che lo distraesse dal lavoro in laboratorio; per cui, nei pochi momenti di libertà, spesso a tarda notte, decise di assumere le vesti di un capace giallista e diede vita a J.J. Connington, il quale escogitava ingegnosi delitti avvalendosi della vasta erudizione matematica e chimica della sua personalità primaria. In questo modo, Stewart mise a frutto la propria spiccata intelligenza, un pungente senso dell'umorismo e l'audacia del novellino per dare inizio a una serie investigativa che avrebbe appassionato moltissimi lettori. E pensare che la sua avventura nella fiction era partita da un thriller fantascientifico dal titolo "Nordenholt's Million", il quale però non aveva ottenuto il successo che avrebbe poi arriso ai romanzi gialli. A differenza delle altre opere di genere inventate di sana pianta, infatti, i suoi mysteries dimostrarono quanto fosse capace e abile nell'ideare trame avvincenti e ricche di suspense, in cui gli indizi materiali e il pensiero freddo e scientifico venivano impiegati al meglio. Con "Death at Swaythling Court" e "Il Talismano dei Dangerfield" diede quindi il via a questa nuova sfida, ottenendo grandi consensi, e con il romanzo successivo intitolato "Assassinio nel Labirinto" introdusse la figura del protagonista della maggior parte delle sue opere nonché personaggio per eccellenza: Sir Clinton Driffield.

Quest'ultimo, a differenza di molti suoi colleghi letterari, è il capo della polizia di una contea immaginaria, spesso alle prese con casi che coinvolgono membri dell'aristocrazia terriera; uomo riservato e all'apparenza ordinario, ma capace di dare sfoggio di un'acuta intelligenza e uno spirito di osservazione con pochi pari, oltre che consapevole dei propri limiti (pp. 62-72, 76-80, 95-98, 103-104, 133-134, 137, 143-147, 151-152, 156, 161, 166, 183, 187, 195-196, 205-206, 209, 218). Nonostante fosse meno cordiale ad accattivante dell'altro personaggio ricorrente delle storie di Connington, l'avvocato Mark Brand apparso in "The Counselor" e "Four Defences", Sir Clinton riuscì a conquistare una vasta fetta di lettori di gialli, tanto che Stewart si ritrovò ad utilizzarlo fino a quando dovette ritirarsi dall'insegnamento a causa di alcuni problemi cardiaci e, dopo la pubblicazione di alcuni saggi raccolti in "Alias J.J. Connington", morì nel 1947. Questa cosa forse si può spiegare nel fatto che il personaggio fittizio assomigliava in qualche modo molto al suo creatore in carne ed ossa, il quale conservò sempre un punto di vista abbastanza pessimista e disincantato del mondo. Un atteggiamento che, nel personaggio, si può ritrovare nei romanzi più famosi in cui è protagonista, come "Il Caso con Nove Soluzioni", "Otto Innocenti e un Colpevole", "Le Tre Meduse", "Orme sulla Sabbia" e "The Eye in the Museum"; mentre nella figura di Stewart si riscontra nelle numerose sfide impegnative che affrontò nel corso della propria esistenza: ad esempio, la ragazza con cui era fidanzato a venticinque anni morì all'improvviso, pochi giorni prima delle nozze; più avanti, invece, dovette essere operato alle cataratte e rischiò di diventare cieco. Furono questi ostacoli, mescolati alla propria formazione scientifica, a indurire la sua visione del mondo e che lo indussero a tralasciare i sentimentalismi nei suoi romanzi gialli, dove sono altri gli aspetti a cui viene dato maggiore risalto.

Come dicevo sopra, infatti, sono i fatti ad occupare il ruolo principale nelle storie che Stewart inventava (come in "Assassinio nel Labirinto"). Gli indizi materiali, la freddezza e l'acume dello scienziato e dell'investigatore che ripone piena fiducia soltanto nelle sue dimostrazioni in laboratorio, la mancanza di un'empatia e di una comprensione per il colpevole, l'importanza data alla medicina e alle altre scienze pure (pp. 72-73, 75, 98-106, 115-117, 213-214, 282) sono solo alcuni degli aspetti tradizionali della sua narrativa. I personaggi, raffigurati come pedine su di una scacchiera, hanno poca personalità e sono prevalentemente gelidi e sgradevoli, ad accentuare ancora di più il carattere materiale dei suoi romanzi (basta pensare a Stenness e agli Shandon in "Assassinio nel Labirinto"). L'oscurità della pazzia viene messa contro la luce della ragione, unico strumento capace di scacciare le ombre del crimine e del delitto, e soltanto l'utilizzo di un metodo ragionato può condurre alla scoperta della verità. In ogni caso, tuttavia, ciò non deve far pensare che i romanzi gialli di Connington siano del tutto privi di elemento umano: esso è pur sempre ridotto rispetto ad altre opere, su questo non c'è dubbio; però ho riscontrato come l'interazione tra esseri viventi venga tenuta in grande considerazione dell'autore. A far colpo è soprattutto il rapporto instaurato tra il protagonista Sir Clinton e il suo amico Wendover. Questa è una strana coppia, differente dal solito duo "investigatore onnisciente-spalla"; in questo caso, infatti, lo Squire fa osservazioni che spesso possono rivelarsi utili in vista della soluzione finale, al contrario del solito Watson un po' ottuso (pp. 95-98, 108-109, 111-113, 127-131, 146-147...); e le sue teorie non sono affatto sciocche, tanto che qualche volta Driffield si spinge ad incoraggiarlo per arrivare alla soluzione e sembra sorpreso dall'acume del suo amico, come se si vergognasse di dover respingere le sue idee e fosse consapevole di non essere infallibile. Inoltre, i vivaci dialoghi tra i due sono divertenti e simpatici, e la relazione tra loro è uno degli aspetti migliori dei libri in cui essi sono presenti. La cosa vale anche in "Assassinio sul Labirinto", dove Clinton e Wendover giocano la partita su una sorta di piano quasi paritario ed "esclusivo", senza interruzioni da parte di altri personaggi, alla ricerca congiunta di un assassino astuto e diabolico.

In ogni caso, non bisogna trascurare il fatto che la polizia occupi una certa importanza all'interno della storia: i suoi metodi, la cosiddetta routine, viene brevemente descritta e aiuta Clinton nel suo compito, simile a uno strumento nelle capaci mani del capo della polizia (pp. 65, 68-72, 70-72, 76, 141-143, 149-150, 174-175, 247-248, 259). Strumento che però, sembra suggerire l'autore, può trasformarsi nelle mani di chi lo utilizza. Questa tendenza (di Stewart e quindi pure di Driffield) nel considerare la Giustizia di cui si è alfieri come qualcosa che può portare disagi a cui si potrebbe fare a meno, e che può essere perfezionata dall'individuo solitario, mette in luce ancora una volta quella visione che si stava facendo largo nel Detection Club e nella crime story della Golden Age, secondo cui la legge e il ruolo che essa gioca nello stabilire l'innocenza oppure la colpevolezza di un imputato si possa rivelare fallace. Si tratta di un discorso innovativo, se consideriamo che "Assassinio nel Labirinto" fu scritto nel 1927, il quale viene affrontato in modo ancora più forte per il semplice fatto che sia un capo della polizia a porsi delle domande sull'efficacia dell'organo di cui si fa strumento. Finché sono i dilettanti a ponderare sulla questione, è un conto; ma se a farlo è una tra le cariche più importanti delle forze dell'ordine, le considerazioni che ne scaturiscono hanno una forza doppia, perché mettono in mostra quanto siano labili le fondamenta su cui è stato costruito il sistema giudiziario. La storia e la conclusione di "Assassinio nel Labirinto", pertanto, rappresentano sì un tipico esempio di come la scienza e la ragione possano avere la meglio sul delitto, ma anche di come esse possano conferire fin troppi poteri all'uomo deciso a far rispettare la legge. Come trovare il giusto compromesso nell'esecuzione del proprio compito? Sir Clinton afferma di non avere alcun rimorso di coscienza per come tutto quanto si è risolto, dal momento che lui ha dato la possibilità al colpevole di arrendersi; eppure colpisce la sua freddezza nell'aver eseguito la funzione che la Giustizia pare avergli attribuito. In fondo, ha solo accelerato l'opera del boia. Penso che sia questo fascino oscuro, questo compromesso tra il thriller puro e il giallo deduttivo, ad aver permesso a Sir Clinton e all'opera di Connington di conquistare larga fama tra i lettori di romanzi gialli. In questo, come nel fatto che la tensione venga sfruttata per accrescere la potenza del racconto, Connington precedette i tempi, confermandosi uno dei giallisti più abili (e sottovalutati) della Golden Age.


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venerdì 17 luglio 2020

39 - "L'Alibi Perfetto" ("The Perfect Alibi", 1934) di Christopher St. John Sprigg

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
La crime story in generale può subire innumerevoli variazioni e affrontare e approfondire i temi più disparati, declinandosi secondo la tradizione britannica dell'enigma puro e classico; secondo l'innovativo sottogenere della crime novel di stampo psicologico (thriller) che tanto successo ha avuto in America e adesso anche in Europa; oppure secondo le contaminazioni con altri tipi di narrativa, da quella avventurosa (per capirci, la saga di Jack Reacher può essere un esempio) a quella scientifica "alla Kay Scarpetta". Eppure, qualunque sia la natura del libro che un appassionato di letteratura crime decida di leggere, alle fondamenta della vicenda ci dovrà essere sempre un aspetto inscindibile del mistero che essa tratta: l'indagine basata sulla verifica degli alibi dei sospettati e, di conseguenza, sulla scoperta dell'inganno perpetrato dal colpevole per proteggersi. Questo è il fulcro vero e proprio di ogni romanzo del mistero che si consideri tale, e forse l'elemento che più viene tenuto in considerazione dal vastissimo bacino di lettori che ama tale genere letterario. I miei stessi compagni e amici lettori, infatti, tendono perlopiù a giudicare la qualità di un giallo in base alla solidità e all'astuzia con cui l'enigma viene presentato; e se esso non risponde ai loro standard, pur essendo accostato a una caratterizzazione straordinaria dei personaggi, a un'ambientazione suggestiva e a uno stile arguto e ironico, non si fanno problemi a bocciarlo in toto senza pietà. Da parte mia, sono convinto che la crime novel ideale non si limiti a raccontare un mistero, ma riesca a restituire a chi legge un assaggio della vita e della società nelle quali essa viene calata; non per niente, la mia preferita è "Il Segreto delle Campane" di Dorothy L. Sayers, con il suo suggestivo racconto della vita di campagna inserito perfettamente nell'indagine.

Quindi, diciamo che io sono più incline a perdonare qualche divagazione di troppo o qualche piccola imperfezione a favore del risultato complessivo, nonostante a volte mi renda conto di non trovarmi davanti a uno straordinario capolavoro, ma "solo" a un libro nella norma. In ogni caso, questo non significa che per me il caso investigativo sia, all'interno di un giallo, qualcosa di meno importante del resto, e capisco benissimo quanti possano restare delusi da un eventuale enigma scadente. Finché ci capita di trovarci di fronte a un mistero con qualche piccolo errore, possiamo ancora passarci sopra; ma se ci accorgiamo di aver capito chi sia l'assassino prima della metà della storia e alla fine scopriamo di essere stati nel giusto, magari senza aver goduto di alcuna aggiunta significativa alle vicende, allora sì che è un peccato e una delusione! Spesso è proprio la natura del delitto che ci spinge a provare un nuovo libro, e per questo esso dovrebbe soddisfare le aspettative che ci costruiamo. Per fortuna, nella classica crime story ciò accade di rado, poiché i giallisti della prima metà del Novecento sapevano fare molto bene il loro lavoro e sviare con abilità l'attenzione e i sospetti del pubblico, pur fornendo soluzioni adeguate alle premesse; soprattutto sfruttando la primigenia natura "meccanica" del giallo della Golden Age. In quest'ultimo, infatti, la maggior parte delle indagini verteva su finti alibi e inganni perpetrati dall'omicida di turno, in modo da procurarsi un'ancora di salvezza e un paravento da eventuali dubbi del poliziotto e dell'investigatore dilettante dediti alla soluzione del caso. Certo, si trattava di un metodo che, dando un maggior peso al "come-era-stato-fatto", spesso metteva in secondo piano la sorpresa dovuta alla scoperta dell'identità del colpevole; oppure dava vita a una narrazione in cui i fatti venivano trattati in un modo molto secco e senza fronzoli. Penso, ad esempio, all'opera di Freeman Wills Crofts e dei cosiddetti autori "Humdrum", dove i delitti assomigliano a congegni ad orologeria in quanto a costruzione, sviluppo e soluzione, ma essi vengono inseriti in contesti dove lo sviluppo psicologico dei personaggi non viene molto contemplato. Oppure ad alcuni romanzi di Christopher Bush e di John Rhode, in cui la meccanica del delitto gioca un ruolo di primo piano nella trama, a discapito degli altri elementi.

Ogni tanto, tuttavia, sono accaduti piccoli miracoli. Esistono romanzi gialli che mettono insieme una leggera, ironica pennellata nella descrizione del colore locale e nella rappresentazione del carattere dei personaggi, con magistrali parti mentali in fatto di omicidi efferati e delitti straordinari ma fittizi. Questi libri, tra cui includerei "Gli Occhi Verdi del Gatto" di Sayers (ancora "di transizione" rispetto agli altri suoi capolavori) e quello che recensisco oggi, "L'Alibi Perfetto" di Christopher St. John Sprigg (Polillo Editore, 2012), riescono a giocare sulla sottile linea che separa il romanzo puro, inteso in senso vittoriano e rappresentante la società, da quello del mistero più classico, considerato alla stregua di un cruciverba o un rebus da sciogliere con l'uso della tecnica. In particolare, il libro di Sprigg tratta una storia originale, in cui l'occhio del lettore non si sofferma su un solo punto di vista, ma cambia di volta in volta pur senza abbandonare mai l'indagine che sarà risolta dal giovane giornalista e segugio dilettante Charles Venables. Il fulcro della vicenda si focalizza sul decesso di Anthony Mullins, un ricco ingegnere, e sulle innumerevoli possibilità che potrebbero spiegare la sua morte violenta: incidente, suicidio e omicidio, ad opera di una, due, tre persone, vengono presi in considerazione in tutte le loro declinazioni, simili a tessere di un mosaico da incastrare al posto giusto, permettendoci di comprendere quante possano essere le alternative pratiche che la polizia si trova a dover affrontare. Eppure, nonostante questo, non viene meno un sarcastico e divertente ritratto delle persone coinvolte nel caso e della fauna che popola i tipici sobborghi dell'estrema periferia di Londra, il quale tratteggia con maestria le originali personalità che circondano la figura elusiva di Anthony Mullins.

Shepherd’s Cottage, Firle, East Sussex by Eric Ravilious,
1934, simile a The Turrets di Fairview Estate
La trama, come dicevo, è incentrata sulla morte di questo ricco ingegnere, socio di un'enorme stabilimento specializzato nell'invenzione e produzione di armi di distruzione di massa. Un bel mattino, mentre nei dintorni di Fairview Estate (ex Hake End) tutti quanti sono impegnati in faccende personali, il garage di The Turrets prende fuoco all'improvviso e, nel corso dello spegnimento delle fiamme e della confusione creata dai pompieri e dalla folla che si è radunata nel vasto cortile, un corpo carbonizzato e appena riconoscibile viene rinvenuto al volante dell'auto in esso contenuta. Le testimonianze del socio in affari e della bellissima giovane moglie di Mullins lasciano pochi dubbi riguardo l'identità del morto; ma se l'identificazione può sembrare il passo più difficile da compiere in queste circostanze, ben presto la polizia si rende conti di essere soltanto all'inizio di un'indagine complessa e strana. Infatti, se in un primo momento il decesso ha tutta l'aria di essere la conseguenza di un incidente (causato da un cortocircuito del sistema elettrico delle luci esterne) oppure un suicidio messo in atto dallo stesso Mullins, disperato a causa della presunta infedeltà della moglie con il giovane nipote, la scoperta di un proiettile nella testa del cadavere apre una nuova serie di possibilità alle congetture degli agenti. Ma non è finita qui, poiché grazie al fugace intervento di Charles Venables (impegnato in un'altra indagine, ma incuriosito dagli eventi di Fairview Estate), poco dopo viene scoperto un ingegnoso congegno predisposto a creare appositamente un cortocircuito nell'impianto di accensione delle luci della baracca in cui era contenuta la macchina dei Mullins. Certo, questo può avvalorare l'ipotesi del suicidio; ma allora che fine hanno fatto la chiave che ha chiuso la porta del garage e la pistola che ha esploso il proiettile fatale, visto che non sono state ritrovate assieme al corpo?

Sembrerebbe proprio che qualcuno si sia impegnato a mascherare il proprio violento operato. E i sospetti riguardo questo qualcuno, fin da subito, ricadono su Patricia Mullins e Ralph Holliday, le persone più vicine alla vittima e che dovrebbero essere destinatarie della fortuna di Mullins. Peccato che il magnate avesse da poco cambiato testamento, escludendo del tutto lui e anche la donna nel caso in cui egli fosse morto per cause non naturali, e lasciando ogni cosa al segretario di uno stabilimento ingegneristico, tale James Constant. In tutto questo, dunque, l'ispettore Trenton e il giovane agente Laurence Sadler non riescono a trovare una pista decente da seguire: tutto pare portare a un vicolo cieco, dalla mancanza di un movente che potrebbe aver guidato la mano di Mrs Mullins e del suo amante (il quale sembra diventato inafferrabile), alla presenza di alibi inattaccabili per tutti gli individui coinvolti nel caso e che potevano ottenere un vantaggio alla morte di quel piccolo borioso di Anthony Mullins. La gente dei dintorni, tra cui un Pari decaduto sempre in bolletta e dedito alla promozione delle sue terre (Lord Overture), un dottore appassionato di misticismo e filosofia esotica (il dottor Marabout), un'anziana zitella che ha messo su una scuola per pugili professionisti (Mrs Murples), un perfetto padre di famiglia (Eyton) e un artista dal temperamento focoso (Frank Filson), sembra avere un'idea precisa sui fatti accaduti a Fairview Estate, che si riconduce al carattere violento del morto: contro ogni logica, deve per forza essersi ucciso. Tuttavia Sandy Delfinage, la proprietaria di un maneggio dedita alla coltivazione del pettegolezzo locale, nutre qualche dubbio e decide di aiutare il suo amico Sadler a scoprire la verità. Insieme a Venables, in procinto di partire per una nuova indagine nei Balcani, i due giovani si troveranno davanti a un caso diabolicamente astuto e quasi inestricabile, il quale metterà a dura prova la loro pazienza e li porterà a mettere in dubbio ogni alibi all'apparenza inattaccabile. Perché di una cosa sono certi: qualcuno è riuscito a ingannare tutti quanti e a nascondere agli occhi della mente un movente insospettabile, il quale apparirà chiaro solo al momento della soluzione finale.

Copertina dell'edizione pubblicata da
Moonstone Press
A differenza di "Sei Oggetti Misteriosi", il suo ultimo e anomalo romanzo, "L'Alibi Perfetto" incarna in pieno il tipo di libro che Sprigg scrisse nel corso della maggior parte della sua carriera. Infatti, se nel tratteggiare il caso della morte violenta del medium Michael Crispin, l'autore aveva già adottato una fede politica severa e cinica, la quale considerava la realtà secondo un punto di vista cupo e disilluso, e l'analisi di alcuni temi aveva assunto la priorità sulla costruzione di un enigma del tutto valido, al momento dell'ideazione del "Mistero del Garage Incendiato" egli teneva ancora in alta considerazione la letteratura di genere giallo e il suo intento era chiaramente quello di dare vita a storie divertenti e ingegnose. Pertanto, come vediamo in "L'Alibi Perfetto", in un contesto caratterizzato dall'ironia e da una narrazione piena di dettagli e colore locale, troviamo un enigma complesso e pieno di sfaccettature, che non si limita a dare vita a un'indagine che viaggia su un solo percorso, ma genera attorno a sé tanti altri piccoli misteri che in qualche modo abbelliscono quello principale. Qualcosa del genere era accaduto anche in "Omicidio a Kensington", dove l'uccisione della proprietaria di un albergo che dava sui Kensington Gardens si intrecciava con i loschi movimenti di alcuni tra i personaggi, tra cui un sinistro orientale e un'anziana signora con la mania dei gatti, i quali provocavano equivoci su equivoci che distoglievano l'attenzione di Venables. Eppure, in quel frangente, la complessità del caso centrale non si avvicinava per niente al vero e proprio tour de force che il lettore si ritrova ad affrontare in "L'Alibi Perfetto". Penso sia proprio questa la caratteristica che permette a quest'ultimo di spiccare in mezzo all'opera complessiva dell'autore: la sua capacità di dare vita a un indagine in cui praticamente ogni possibile sfaccettatura del crimine può essere in qualche modo inserita, affrontando ogni ipotesi che possa venire in mente a un lettore di gialli. Mi spiego meglio.

All'inizio, quando scopriamo che il garage ha preso fuoco e che Mullins temeva il fatto che la moglie avesse intrecciato una relazione clandestina con il nipote, all'ispettore Trenton (e implicitamente a noi lettori) viene il dubbio che l'ingegnere si sia potuto togliere la vita per vendetta nei confronti della consorte fedifraga. A dare man forte a quest'idea, poi, scopriamo che egli aveva cambiato il testamento a favore di una tra le tante società che si occupano di invenzioni e scoperte scientifiche e che popolano la società, diseredando gli accusati nel caso egli fosse stato eliminato in modo violento. Quindi, in un primo momento, viene presa in considerazione la probabilità di un suicidio legato ai rapporti sentimentali tra Anthony Mullins e Patricia. Tuttavia, poco dopo ci viene fatto notare che la mancanza della chiave del garage e della pistola (pistola che ha senza alcun dubbio sparato un colpo in testa al cadavere, nonostante esso sia stato quasi carbonizzato dalle fiamme) mettono fuori gioco questa prima ipotesi, oltre al fugace pensiero che il caso possa ricondurre a un incidente. Infatti, poteva essersi trattato di una pura coincidenza, il fatto che Mullins si fosse sparato un colpo mentre maneggiava l'arma; ma alla prova della probabilità, quest'idea deve essere scartata. Pertanto, nel giro di pochi capitoli, abbiamo già affrontato un paio di ipotesi che, prese una alla volta, potrebbero costituire una parte considerevole di un delitto inteso in senso comune. Voglio dire, sia l'incidente sia il suicidio avrebbero potuto essere accostati all'omicidio e dare vita a una storia a parte. Eppure, Sprigg ha deciso di metterle insieme per complicare la situazione e, come apprendiamo non appena esse vengono messe da parte, si fa in avanti aggiungendo pure l'unica possibilità che resta agli investigatori: l'uccisione volontaria della vittima per mano di terza persona.

Ipotesi ideale per il racconto di un'indagine da romanzo giallo, essa apre alla solita domanda: chi avrebbe potuto farlo, e per quale motivo? E qui, dove le cose sembrerebbero sbrogliarsi un po' in seguito alla confusione generata dal pasticciato sospetto suicidio-incidente, la faccenda diventa ancor più astrusa e complicata. Già; perché ci accorgiamo tutti noi, assieme all'ispettore Trenton, Sadler e Venables, che le possibilità all'improvviso si riducono a zero, in quanto a possibili colpevoli. Paradossalmente, ce ne erano di più quando si pensava che avesse fatto tutto da sé Mullins. Nel corso delle indagini, infatti, veniamo a sapere che tutti (ma proprio tutti) i possibili sospettati di un certo rilievo e importanza possiedono un alibi di ferro, che sembra impossibile da sciogliere. E anche nel momento in cui alcuni di questi alibi vengono meno, sembra proprio che il caso non riesca a proseguire, poiché si dissolvono la possibilità materiale di commettere il delitto oppure i moventi che all'inizio avevano tutta l'aria di essere solidi. Nella costruzione della storia si nota benissimo l'inventiva (molto apprezzata dagli appassionati del romanzo del mistero) che Sprigg possedeva nella creazione degli intrecci e il sottile acume che lo distingueva dall'uomo comune; non solo nell'ideazione, verifica e conferma/demolizione degli alibi dei sospetti, dove egli ha dimostrato di non essere da meno degli autori della corrente "Humdrum" come Crofts, Rhode e Connington, ma anche nella straordinaria e apparente scioltezza con cui aggiunge congegni tecnici e nozioni di balistica, scienza, ingegneria, grafologia e aeronautica alle vicende, dando vita a trame ricche di dettagli che risultano dense e davvero complesse da comprendere e tentare di sciogliere. Inoltre, la serrata attività della polizia descritta in ogni dettaglio, con i continui dubbi che si affacciano nella mente degli inquirenti, contribuisce a restituire un ritratto veritiero del lavoro dei poliziotti e a rafforzare questo senso di stabilità delle vicende, imprimendo al caso quell'implicita somiglianza con il rebus e il cruciverba enigmistici e risolvibili con l'uso della logica.

Anche per questo motivo Sprigg può essere considerato come una sorta di epigono di Crofts e i suoi colleghi, poiché indubbiamente il fine ultimo del racconto che emerge dalla lettura si focalizza sulla risoluzione dell'enigma. Tuttavia, allo stesso tempo, non si può fare a meno di notare come l'autore si sia impegnato ad alleggerire e controbilanciare quest'indagine forse fin troppo severa e massiccia. Se avesse trattato la morte di Mullins concentrandosi sempre e solo sul lavoro degli agenti, probabilmente la storia sarebbe risultata monotona e pesante da digerire per il lettore. Così, invece, pur senza rinunciare all'ingegnosità di un indagine strutturata in modo simile a una partita a scacchi (forse per alcuni soporifera, ma di sicuro all'altezza delle aspettative di un appassionato di romanzo giallo), Sprigg ha inserito un racconto ironico, addirittura sarcastico, del colore locale di Fairview Estate e di una piccola parte di Londra, soffermandosi con precise digressioni non solo sugli aspetti tecnici del delitto, ma pure sulle personalità dei personaggi e sui luoghi in cui sono ambientate le vicende. La leggerezza dei dialoghi, delle descrizioni delle persone e delle personalità originali ed eccentriche dei protagonisti e delle comparse della storia, riescono a smorzare l'oppressione della serrata attività della polizia, mentre il divertimento che traiamo dal vivace resoconto delle avventure vissute dagli abitanti della periferia di Londra ci permette di tirare un sospiro di sollievo. Con la costruzione dell'enigma, l'ironia è l'altra grande caratteristica dell'opera di Sprigg; tanto insita nella sua narrazione, che nemmeno in "Sei Oggetti Misteriosi" l'autore riesce a tenerla a freno, benché la colori di toni più cupi e cinici. In conclusione, la spensieratezza e una certa audacia incosciente fanno da contraltare alla solidità dell'indagine, riuscendo a smorzare i toni seriosi della routine della polizia grazie ai tentativi maldestri di Sadler e Sandy di sondare il pettegolezzo locale, oppure attraverso le vicende che vedono protagonisti gli originali abitanti di Fairview Estate. Si verifica un sorta di piccolo miracolo, poiché il caso resta intricatissimo e centrale nonostante la presenza di piccole interruzioni di carattere spensierato e leggero.

Christopher St. John Sprigg, nato nel 1907 e
morto nel 1937

Lascia l'amaro in bocca che un autore tanto divertente come Christopher St. John Sprigg, negli ultimi anni della sua vita, abbia affrontato una trasformazione tale da risultare quasi irriconoscibile.
 Nato nel 1907 a Putney, nella zona sud-ovest di Londra, dopo aver lasciato la scuola a quindici anni, a causa del licenziamento del padre dalla redazione del Daily Express, egli divenne prima giornalista per lo Yorkshire Observer, ed in seguito direttore di un giornale per conto proprio: l'Aircraft Engineering, una testata che si occupava di aviazione, argomento del quale lui era un grande appassionato. Lettore voracissimo, versatile romanziere, scrittore di poesie e opere teatrali, oltre che di trattati filosofici, scientifici, critici e ovviamente romanzi gialli, all'età di 27 anni Sprigg si appassionò alle teorie marxiste ed iniziò a studiarle a fondo, segnando la sua vita nel bene e nel male. Impiegò un decennio prima di pubblicare, sotto lo pseudonimo di Christopher Caudwell, il suo primo saggio a riguardo, "Illusione e Realtà", dove accostava la sua visione della società a quella dell'impegnata cerchia di poeti guidati a W.H. Auden; nel frattempo, tra un volume di poesie e un saggio sugli aerei, tra il 1933 e il 1937 si dedicò alla pubblicazione di sette crime novels, la maggior parte caratterizzate da uno stile brillante e personaggi vivaci che gli procurarono gli elogi di altri colleghi quali Dorothy L. Sayers (con la quale intrattenne uno scambio di corrispondenza per un breve periodo), Michael Innes e Nicholas Blake. Con quest'ultimo condivise l'impegno sociale e politico nel campo della narrativa: oltre a "Illusione e Realtà", infatti, avrebbe dato alle stampe ancora molti manuali e testi di critica in questi ambiti. Peccato che non ne avrebbe visto nessuno: a partire dal 1934, l'attivismo politico iniziò a consumarlo lentamente, tanto da capovolgere le sue idee riguardo le opere fittizie fino a considerarle come "spazzatura" da buttare giù solo per i soldi. Le opere più importanti, secondo lui, erano i tomi pesanti e seri sulla teoria del comunismo. Inoltre, l'attivismo per conto del partito e l'intenzione di lavorare attivamente per la sua Causa lo spinsero a recarsi, nel 1936, fino in Spagna, dove guidò un'autoambulanza e si fermò in modo stabile per essere di supporto ai compagni. Fu laggiù che, un anno dopo, venne ucciso il primo giorno della battaglia di Jarama, nonostante i disperati tentativi del fratello Theodore di convincere il segretario del partito comunista di richiamarlo in patria; ormai si era perso nella sua guerra personale, ma perlomeno morì combattendo per qualcosa in cui credeva con passione.

Lasciò in eredità ai posteri una grande quantità di opere di vario genere, ma al giorno d'oggi le più ricordate sono quelle appartenenti al genere della crime story: "Omicidio a Kensington" (1933), "Omicidio in Fleet Street" (1933), "L'Alibi Perfetto" (1934), "Morte di un Aviatore" (1934), "The Corpse with the Sunburnt Face" (1935), "Death of a Queen" (1935) e "Sei Oggetti Misteriosi" (1937). Si tratta di libri che, fino a poco tempo fa, erano molto rari da ottenere in lingua inglese (figuriamoci in italiano); forse a causa del fatto che Sprigg morì giovane e, come Dorothy Bowers, non ebbe il tempo materiale per promuovere a dovere la propria opera, al fine di evitare che essa venisse ingoiata dal vasto numero di gialli che a quel tempo venivano pubblicati. Il personaggio principale dei suoi gialli fu il giornalista ed investigatore dilettante Charles Venables, spesso affiancato dall'ispettore Bray si Scotland Yard. Tuttavia, in un paio di casi essi occuparono un ruolo secondario all'interno della trama, oppure non vennero nemmeno sfruttati. Un esempio è quello di "Sei Oggetti Misteriosi", dove l'inchiesta viene condotta dall'ispettore Morgan; l'altro riguarda proprio "L'Alibi Perfetto". In questo libro, infatti, l'indagine viene portata avanti dall'ispettore Trenton, ma soprattutto da un terzetto di personaggi insospettabili: l'agente semplice Sadler, la determinata Sandy Delfinage e l'irruento artista Frank Filson. Devo ammettere che, in un primo momento, questo stratagemma mi ha lasciato spiazzato: come era possibile, mi chiedevo, riuscire a tracciare una storia avvincente se Venables, il protagonista e personaggio principale, fa una comparsa veloce all'inizio del libro, investiga un po' per poi abbandonare la partita e torna nel finale per mettere insieme tutti gli indizi e risolvere il caso? Ebbene, Sprigg è riuscito ad essere convincente lo stesso, sfruttando il caso precedente e quello successivo nella cronologia delle indagini del suo segugio dilettante (fino a citarli indirettamente, uno stratagemma che ho molto apprezzato, pp. 21, 111, 167-168, 172, 266-267) e la sua straordinaria capacità di tratteggiare i personaggi con vivacità e descrizioni a tutto tondo, così da farti affezionare a loro. Sono costoro un punto di forza di "L'Alibi Perfetto": infatti non si sente mai troppo la mancanza di Venables, poiché ognuno degli attori in scena è divertente, originale e strano abbastanza per essere ricordato, come ha pure osservato Dorothy L. Sayers in una sua recensione: a partire dalle comparse a Fairview Estate e negli uffici londinesi, come il dottor Marabout, Mrs Murples, Lord Overture, Binns e la folta fauna di inquilini di Annette Vanguard, i quali movimentano la faccenda e danno un tocco simpatico al racconto attraverso le spassose digressioni di cui sono protagonisti, fino ai sospettati principali (Patricia Mullins, Eyton, Holliday, Constant) e agli investigatori improvvisati e non, tra cui Trenton, Sadler, Filson e Sandy, ogni personaggio presenta caratteristiche spiccate e un modo di fare unico e riconoscibile, spesso irruento e spontaneo, il quale conferisce colore alla narrazione e un brio continuo.

Sono tutti vivaci e capaci di trascinarti sulle loro orme senza grandi sforzi, calandoti negli scenari che via via vengono tracciati dall'autore; si muovono con naturalezza in mezzo alle numerose digressioni di carattere tecnico che Sprigg ha disseminato lungo la trama, e sviluppano l'elemento sentimentale dando vita a complessi rapporti (Sadler-Sandy, Sandy-Filson, Patricia-Filson, Sadler-Patricia, pp. 96-100, 112, 210-217). A questo proposito, nel corso della narrazione vengono toccati altri innumerevoli temi, da quello della filosofia (pp. 94-95) a quello della letteratura gialla in senso parodistico (pp. 95, 112, 141, 150, 169, 209, 285, 295), da quello politico a quello ingegneristico; il tutto senza mai abbandonare un tono ironico che permea ogni parola e restituisce l'idea dell'indagine come di una sfida giocata sulla sottile linea che separa la farsa dalla serietà: da una parte stanno Trenton e la macchina inossidabile della polizia professionista; dall'altra, i dilettanti che affrontano con curiosità e inesperienza le indagini sull'omicidio di Mullins. L'insieme che si ricava da quest'unione risulta in un enigma complicatissimo, che sfrutta in modo innovativo il cliché dell'auto in fiamme e degli alibi che sembrano insormontabili, poi vengono abbattuti e poi ancora vengono rimessi in piedi di nuovo, in una girandola di colpi di scena ed elementi indiziari degni dei migliori gialli della Golden Age, dove tuttavia non manca l'abituale sarcasmo dell'autore, che dipinge situazioni paradossali o divertenti ma senza cadere nel ridicolo più becero. Vi sfido a trovare la strada per giungere alla soluzione di questo caso intricato, che metterà alla prova la vostra determinazione e pazienza allo stesso modo degli "Humdrum" e della produzione inarrivabile di John Dickson Carr. Una certa dimestichezza con le questioni tecniche e logiche sono tutto ciò di cui avete bisogno per sciogliere l'enigma: lo stesso Venables osserva, mentre si appresta a rivelare il piano dell'assassino, che "il caso avrebbe potuto trovare soluzione in base ai fatti noti all'inizio delle indagini. Ogni fatto e indizio di cui avevamo bisogno ci era già stato fornito. Era un po' come se ci trovassimo davanti alla storia poliziesca più leale del mondo, quella in cui il lettore dispone di ogni circostanza materiale necessaria a consentirgli di arrivare alla soluzione". Ed è così, se si va a cercare le tracce lasciate dall'assassino lungo il suo cammino. Vi voglio consigliare ancora una cosa soltanto: prestate attenzione all'ingegnoso titolo del romanzo. È vero che gli alibi perfetti (almeno all'apparenza) sono più di uno, ma riflettete a fondo tra le possibilità che vi sono state date e forse riuscirete a capire un po' di più come sono andati i fatti. "L'Alibi Perfetto", infatti, non è perfetto solo nel suo titolo, da pure nei fatti; è uno degli esempi più degni del tradizionale romanzo giallo di stampo anglosassone, in cui tutto è necessario per arrivare alla soluzione, anche gli indizi più piccoli che vengono forniti al lettore e sembrano non avere alcun peso nella storia. Dategli una possibilità e, dopo un iniziale timore dovuto alla quantità di informazioni che vengono presentate al lettore, vi troverete davanti a una magistrale crime novel.

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