|
Copertina dell'edizione pubblicata
nei Classici del Giallo Mondadori
n. 589 |
Secondo me, la Storia (quella con la S maiuscola) è uno degli argomenti più interessanti di cui si possa discutere. Penso che, se a raccontare aneddoti sono persone dotate di un'ampia conoscenza della materia e di una grande capacità oratoria, sia un vero piacere lasciarsi rapire dalla narrazione di eventi accaduti tanti anni fa e seguire le vicissitudini di genti e popoli ormai scomparsi ma, in qualche modo, ancora "vivi", come se li vedessimo davanti ai nostri occhi. Forse questo mio entusiasmo è legato al fatto che ho sempre sognato di diventare archeologo, di effettuare nuove scoperte e trovare una risposta alle incognite che di frequente si presentano ad ostacolare la ricostruzione del passato. Magari sentivo già l'interesse di voler affrontare questioni irrisolte, proprio come se fossi davanti a un mistero da crime story tradizionale: infatti, sebbene presentino anche caratteristiche diverse, questi due campi del sapere sono accomunati dal saper "riportare in vita" persone appartenenti ad altre epoche e da un certo alone di incertezza, poiché di alcuni fatti possediamo notizie incerte e siamo quindi costretti a fare ipotesi su cosa sia veramente accaduto. È un fatto, tuttavia, che ciò che è accaduto un tempo non suscita la stessa attrazione in tutte le persone. Quando deve essere studiata per forza a scuola, ad esempio, la Storia non riscuote molto successo; per fortuna, io posso dire di aver conosciuto professori capaci di appassionare i loro allievi, chi usando le tecniche tradizionali, chi attraverso stratagemmi insoliti (per esempio, la figura della regina Hatshepsut, moglie del faraone Thutmose II, mi rimarrà sempre impressa per il fatto che ci venne presentata attraverso le sue numerose relazioni in forma di gossip antiquato). Inoltre, anche dopo la fine degli studi, molto spesso questa materia viene snobbata dalla gente in favore di altri interessi. Un vero peccato; tanto più perché essa può essere trattata attraverso metodi più "leggeri" di altre, come i romanzi che, con le loro trame delineate a partire da fatti realmente accaduti, non aspettano altro che appassionare i lettori con storie avvincenti e tratteggiate con attenzione.
Grazie ad essi, gli eventi del passato possono rivivere in tutto il loro splendore, senza per questo annoiare (non per niente oggi va tanto di moda il cosiddetto "giallo storico"), e magari suscitare la curiosità necessaria a fare ulteriori ricerche sull'argomento trattato. In particolare, gli appassionati di crime story e true crime (come i membri del Detection Club ai tempi di Sayers, Christie e Berkeley) possono sentirsi stimolati da oscure circostanze del passato a intraprendere nuove indagini per far luce su insoliti cold cases, i delitti irrisolti, grazie alle tecniche moderne fornite dalla scienza. Anche se non partì da un romanzo storico, ad esempio, è in questo modo che Patricia Cornwell ha potuto identificare, nella figura del pittore ottocentesco Walter Sickert, nientemeno che Jack lo Squartatore. Quindi, credetemi se vi dico che il giallo è un mezzo meraviglioso attraverso cui imparare cose nuove e, a volte, rimettere in discussione quelle che sappiamo. Quest'ultimo aspetto, secondo cui lo studio della Storia può avere risvolti inaspettati, può essere rappresentato anche da uno dei romanzi più famosi della letteratura del mistero di tutti i tempi. Inserito nelle più famose liste di critica della narrativa di genere, la "British Crime Writers' Association" l'ha votato come la migliore opera fittizia di detection mai scritta in assoluto. Secondo me non è la più bella, ma di sicuro rientra in un'ipotetica top ten. Si tratta di "La Figlia del Tempo" di Josephine Tey (Classici del Giallo Mondadori n. 589, 1989); un mystery atipico, quasi unico nel suo genere (la formula è stata ripresa qualche decennio più tardi da Colin Dexter nel suo "La Fanciulla è Morta"), in cui non c'è una vera e propria indagine, con un detective che si sposta da un luogo all'altro per cercare gli indizi atti a incastrare il colpevole, ma piuttosto una ricerca che va più in profondità e non smette di affascinarmi ad ogni rilettura, grazie alla sua aura di armonia e distensione.
|
Ritratto di Riccardo III, di Artista Ignoto
(The National Portrait Gallery History
of the Kings and Queens of England) |
Tutto il libro si svolge dentro la stanza di un ospedale, nella quale Alan Grant, il poliziotto protagonista di alcuni dei gialli di Tey, è confinato a causa di una brutta caduta che gli ha procurato la rottura di una gamba. Grant non ne può più di stare senza far niente, ad osservare le crepe del soffitto e a sondare le figure delle sue due infermiere, da lui ribattezzate la Nana e l'Amazzone; e per la sua mente iperattiva, non se ne parla nemmeno di ingannare il tempo attraverso la lettura di romanzi insulsi come "Il sudore e il solco", oppure l'annuale resoconto di Lavinia Fitch sulle tribolazioni di un'eroina senza macchia. Così, nel tentativo di scacciare gli "aculei della noia", decide di chiedere aiuto a Marta Hallard (l'amica attrice che comparirà anche in altri tre libri della serie) affinché gli procuri un intrigante diversivo alle lunghe giornate in attesa della guarigione; diversivo che viene prontamente presentato sotto forma di stampe, raffiguranti antichi personaggi della Storia coinvolti in misteri irrisolti. Sebbene all'inizio sia dubbioso sull'effetto benefico di tale stratagemma, ben presto Grant si scopre affascinato dalla possibilità di soppesare minuziosamente i volti di importanti figure del passato, proprio come ha già fatto con la Nana e l'Amazzone: dopo anni trascorsi nelle forze di polizia, ha infatti sviluppato un certo interesse per ciò che i tratti fisici riescono a rivelare delle persone; e soprattutto il dipinto di un gentiluomo in berretto di velluto e farsetto con i tagli nelle maniche suscita la sua curiosità. Si tratta nientemeno che di Riccardo III, il famigerato Mostro il quale, secondo la tradizione classica, uccise i due nipotini prigionieri nella Torre di Londra per poter salire al trono d'Inghilterra.
Un vero "cattivone", la cui colpa tuttavia non è mai stata provata al cento percento e la cui faccia assomiglia a quella di un giudice. Era davvero chi la Storia ci ha tramandato in ricordo, oppure si tratta di un enorme errore compiuto da qualche sciocco o un deliberato tentativo di screditare un uomo onesto per farne perdurare la cattiva memoria? Sarebbe una bella soddisfazione, riflette Grant, riuscire a spuntarla dove folle di studiosi e storici hanno fallito e stabilire con ragionevole certezza se Riccardo fosse colpevole o innocente... La tentazione di scoprire la verità sul caso dei Principini della Torre si fa sempre più irresistibile, finché egli non decide di procurarsi altre prove sulla vita e l'esistenza dell'ultimo dei Plantageneti, grazie all'aiuto delle sue fidate (e bisbetiche) infermiere e di Brent Carradine, un giovane storico inviato in soccorso da Marta. A partire da questo punto, la vicenda si snoderà attraverso la storia dei casati degli York e dei Lancaster, gli eventi che portarono alla Guerra delle Due Rose, gli amori e i tradimenti che infestavano le esistenze di re e regine dell'Inghilterra all'epoca dell'occupazione francese, grazie a resoconti di prima mano e altri "per sentito dire", come quelli di Thomas Moore ed Evelyn Payne-Ellis, pur restando tra le quattro mura della camera d'ospedale di Grant; finché Grant, seguendo il detto “la Verità è figlia del tempo”, stabilirà un verdetto inattaccabile... o forse no?
|
Albero genealogico dei Plantageneti presente nell'edizione
dei Classici del Giallo Mondadori n. 589 |
Nella letteratura gialla, non è una novità che un autore decida di sfruttare un cold case per articolare la trama del proprio libro. Eppure, in pochi sono riusciti a creare un'opera tanto in anticipo sui tempi come ha fatto Josephine Tey con "La Figlia del Tempo". Innanzitutto va segnalato, per il momento in cui fu ideato, il modo insolito con cui il mistero è stato affrontato; e cioè attraverso l'uso della Storia come campo e mezzo d'indagine. Fin dall'inizio, Tey osserva come la fiction abbia ormai assuefatto tutti quanti (pp. 5 e 9), al punto da far perdere di vista ciò che è vero e ciò che è falso, e anche la crime story ormai tenda a dedicarsi a un mondo fasullo, in cui le persone ritratte non sono "né vivaci né aspre" (pp. 9-10), allo stesso modo dei saggi contemporanei e dei loro sedicenti autori (critica aspramente gli storici di professione alle pp. 135-136, 156-157 e 181): insomma, sembra dirci che non c'è più voglia di verificare i fatti, come accade quando si scrive un romanzo serio (pp. 51-52), ma ci si limita a sostenere vicende e situazioni dando l'impressione che siano assodate e inconfutabili. Per fare ciò porta ad esempio due avvenimenti ad illustrare il suo punto di vista: quello del Massacro di Boston (pp. 91-92), ma soprattutto quello degli eventi verificatesi a Tonypandy, nel sud del Galles (pp. 92-94, 107-108, 117-118, 128-131). Entrambi sono stati decantati nei secoli quali strumenti da monito ma, in realtà, consistono in casi travisati che hanno ingrossato le fila dei Misteri nella Storia, come quello del Robin di Elisabetta, di Maria Stuarda o del Delfino di Francia Luigi XVII. Alcuni conoscono la verità, certamente; però lo studio degli avvenimenti storici (veri o falsi che siano) a scuola ha favorito l'uniformarsi della trasmissione di nozioni agli studenti (pp. 99-100 e 184-185), assieme all'ottusità insita nell'essere umano di rigettare la verità, quando essa va contro ciò che ti hanno inculcato fin dalla tenera età (pp. 118-120 e 176-177). Forse non c'è speranza e tali bugie resisteranno incrollabili e inattaccabili all'usura del tempo? Secondo Tey, esiste un modo per sconfiggere i pregiudizi: ovvero, affidarsi a prove sicure e inconfutabili; e per fare ciò servono fonti altrettanto fedeli e imparziali. Proprio quelle che la Storia ci offre!
Si tratta di un sistema complesso e lungo, al quale ci si deve accostare con l'infinita pazienza e il metodo dell'investigatore (come dimostra Grant nel capitoli 13 e 17 e alle pp. 164-165), ma che assicura risultati fondati e privi di abbellimenti fuorvianti. Nel caso di Riccardo, le prove materiali sono scomparse da moltissimi anni, i diretti interessati sono morti e, quindi, le possibilità di riuscire ad ottenere un verdetto chiaro sono pressoché nulle: il caso, insomma, è da considerarsi prettamente come "accademico". Eppure l'autrice ci dimostra come proprio la Storia, grazie alla sua peculiare caratteristica di preservare molti documenti ed eventi "noiosi" dallo scorrere del tempo (pp. 94-95), possa permettere ai fatti reali di sopravvivere e di trasformarsi in un importantissimo strumento di riscontro, nelle mani degli investigatori del futuro, per ritrattare casi chiusi con un'accuratezza valida, se non perfetta. Ci viene ricordato ancora una volta che i moventi e i gesti stessi degli uomini, assieme all'aspetto fisico (a volte rivelatore di una personalità nascosta, pp. 22-24), si assomigliano anche se sono trascorsi anni e anni; non per niente la Miss Marple di Agatha Christie una un metodo simile, basato sul confronto tra gli atteggiamenti degli esseri umani: basta saperne interpretare il comportamento e le azioni per ricavare delle impressioni (e quindi prove indiziarie) utili a dare una spinta in un senso o nell'altro alla ricerca della verità. Verità che, essendo "figlia del tempo", viene perpetuata e non può in nessun modo essere cancellata; mistificata, certo, ma non eliminata in modo completo. Il ché ci porta al secondo punto di importanza che questo libro incarna: "La Figlia del Tempo", infatti, oltre ad essere un innovativo esempio di come la letteratura (e la Storia) possa diventare un mezzo attraverso il quale garantire l'adempimento di una sorta di giustizia poetica, vuole essere un incoraggiamento ad informarsi e a riflettere a fondo prima di esprimere un giudizio affrettato, come ad esempio su una questione conosciuta da tutti in Inghilterra ma che, fino al momento in cui non fu pubblicato questo romanzo, era stata trascurata.
Come ha sottolineato Sarah Polski in un articolo per il New Yorker, infatti, nel 1951 (quando il libro apparve per la prima volta) la storia di Riccardo III era pesantemente influenzata dalla tragedia omonima di Shakespeare e dai resoconti "ufficiali"; eppure, da allora, più è cresciuta la fama di questo volume e più si è allargato il gruppo dei potenziali Riccardiani, ovvero i sostenitori dell'innocenza di Sua Maestà. Come mai ci fu una tale ampia rivalutazione della sua figura? Ebbene, gli interrogativi posti dalla tesi presentata dalla Tey spingevano i lettori a farsi delle domande, allo stesso modo di Grant, arrivando addirittura ad influenzare molti personaggi che in seguito sarebbero divenuti ferventi sostenitori di Riccardo (George Awdy parlò della sua conversione come di "un risveglio", Isolde Wigram fondò la Richard III Society). Essi seguirono le tracce lasciate dall'investigatore fittizio per attuare una reale ricerca attraverso i testi citati nel corso della vicenda; ricerca che la stessa autrice aveva intrapreso alla Biblioteca Pubblica di Londra durante un viaggio da Inverness, dove stava la sua casa, probabilmente spinta dal dubbio e dalla facile sentenza emessa dalle altre persone su Riccardo: un'impresa niente male, se si considera quanto si può fare con pochi mezzi a disposizione. In questo modo i lettori riuscirono ad identificarsi con il detective letterario e la sua creatrice, a seguire i loro ragionamenti e a capire quali fossero le basi della loro teoria e quale fosse la loro solidità, mentre allo stesso tempo veniva loro mostrato come il giudicare un fatto da un'occhiata superficiale fosse un atteggiamento sciocco da adottare. La ricerca della verità assume una grande importanza in questo meraviglioso romanzo: essa è sinonimo di redenzione e di liberazione, e vuole essere un monito contro i futili tentativi degli uomini di mistificare la realtà. Per me è questo il significato che si nasconde dietro al titolo del libro.
|
Elizabeth Mackintosh (alias
Josephine Tey e Gordon Daviot),
nata nel 1896 e morta nel 1953 |
L'interesse di Josephine Tey per la storia di Riccardo III non si limitò alla sola stesura di "La Figlia del Tempo", ma anche a un dramma basato sulla triste vicenda del monarca inglese, il quale però non fu mai messo in scena perché considerato troppo complesso per poter essere apprezzato dal pubblico dell'epoca. L'autrice (il cui vero nome era Elizabeth Mackintosh), dunque, non fu solo scrittrice di romanzi, ma anche drammaturga sotto il nome di Gordon Daviot (John Gielgud, fratello del coautore del famoso "Assassinio alla BBC", interpretò Riccardo II in una sua opera teatrale). Per il resto, della sua vita si sa ben poco, poiché ella fu sempre estremamente riservata*: è sicuro che fu insegnante di educazione fisica a Inverness, in Scozia; che ad un certo punto dovette rinunciare all'incarico scolastico, per potersi prendere cura del padre anziano ed infermo, e che si metteva in viaggio unicamente in occasione delle visite, due volte all'anno, intraprese per incontrare la sorella a Londra. Forse fu per questo motivo che non prese mai parte al Detection Club; senza dubbio, non fu per la scarsa qualità dei suoi libri gialli. Nel corso della vita, Josephine Tey ne scrisse otto: tutti di grande successo, come "L'Uomo in Coda" (1929) in cui fece la sua prima apparizione l'ispettore di Scotland Yard Alan Grant (originale investigatore “tutto d’un pezzo” ma dotato di un’animo sensibile); "È Caduta una Stella" (1936), da cui Hitchcock trasse ispirazione per il suo "Giovane e Innocente"; "Miss Pym" (1946), che venne ambientato in una scuola per giovani donne, e questo "La Figlia del Tempo". Oltre ai contenuti di cui ho già parlato, vorrei sottolineare alcune caratteristiche formali di questo romanzo straordinario. Ad esempio, per quanto non sia apprezzato da tutti, l'enigma presenta degli aspetti insoliti rispetto a quelli che si trovano in gran parte nei gialli degli anni '40-50; Grant, infatti, viene indotto ad occuparsi del "caso" grazie all'intervento di Marta Hallard e segue il suo l'invito a dedicare le proprie facoltà intellettive alla risoluzione del problema senza muovere un muscolo, come un armchair detective, ma imbarcandosi in una specie di monologo ad alta voce, pacato e chiaro, inframmezzato dalla conversazione brillante con le infermiere, Marta e Brent Calladine ma quasi sempre rivolto a se stesso.
La scrittura, ricca di citazioni di carattere storico ma non solo (oltre al cenno alla "Forca di Morton" a p. 88, sono presenti riflessioni sul mondo del libro, sulla psicologia delle persone (pp. 46 e 49), sul teatro (p. 18), addirittura sulla pesca e sul bricconi di una volta (pp. 97-98)) è coinvolgente ed essenziale, poiché conserva un tono semplice ed illustra le situazioni facendo leva sul colore locale, pur trattando argomenti storici considerati di solito noiosi, tanto da riuscire ad appassionare il lettore e a fargli venir voglia di sapere come certe decisioni abbiano cambiato il mondo in un'epoca ormai passata. I personaggi sono ben caratterizzati, divertenti, soprattutto umani nella loro quotidianità ed aperta ostilità nei confronti degli studiosi che sono stati incapaci di mentire in modo convincente, a partire da Tommaso Moro, il quale esce distrutto dal confronto tra la sua versione viziata dei fatti e quella invece reale degli "uomini comuni". L'ambientazione, seppur minimalista, riesce a creare un piccolo mondo reale ma sereno, in cui l'azione fisica è limitata all'entrata e all'uscita di scena dei comprimari del protagonista: Marta Hallard, la Nana e l'Amazzone sono figure che, pur vive e spiritose nel racconto delle proprie disavventure quotidiane, non influenzano il "viaggio" che Grant (con l'aiuto di Brent Carradine) compie attraverso il tempo. Voglio soltanto segnalare un paio di imprecisioni, poiché due volte il 1483 è stato scambiato con un'altra data: dapprima col 1485 (p. 124) e poi addirittura col 1583 (p. 153), un secolo più avanti! Ma questo probabilmente è un errore del traduttore, qualcosa che non intacca il fascino e la poesia di "La Figlia del Tempo": un libro indimenticabile che chiunque dovrebbe leggere, soprattutto per capire bene come si svolsero i fatti durante la Guerra delle Due Rose, senza tanti giri di parole ed eventi difficili da tenere a mente. Mi sono sentito un po' come se fossi tornato a scuola e mi fossi lasciato di nuovo avvincere dalle avventure amorose della regina Hatshepsut, ritrovando il modo migliore in cui la Storia (quella con la S maiuscola) dovrebbe essere insegnata.
* P.S. Si vocifera che una biografia di Josephine Tey sia in corso di scrittura da parte di un membro della sua famiglia, il membro del Detection Club Catherine Aird; finora non è stato pubblicato nulla, ma si spera che prima o poi essa possa vedere la luce.
Link all'edizione italiana su Amazon
Link all'edizione in lingua originale su Amazon