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venerdì 18 giugno 2021

75 - "Le Porte di Damasco" ("Postern of Fate", 1973) di Agatha Christie

Copertina dell'edizione pubblicata
nei Classici del Giallo Mondadori
n. 515
Una cosa che mi piace tantissimo fare è andare alla ricerca di libri usati o che, per tutta una varia serie di circostanze, la gente decide di buttare (sacrilegio) per sbarazzarsene. Sia perché, in questo modo, i volumi ottengono una sorta di nuova vita e non rischiano così di venire rovinati oppure dimenticati in qualche soffitta buia e polverosa, sia perché si ha la possibilità di riciclare un oggetto altrimenti destinato ad essere distrutto prima che il materiale di cui è fatto possa venire impiegato in un altro modo, sia per una semplice questione di risparmio economico (chi non preferisce spendere pochi euro oppure addirittura vedersi regalata una borsa di libri, invece di spendere una fortuna?) e di procacciamento di materiale difficile da reperire. Infatti, almeno per quanto riguarda la mia esperienza di appassionato lettore di romanzi gialli, è nelle svendite e nei mercatini dell'usato che si trovano i titoli più interessanti da leggere, magari perché pubblicati soltanto in un'occasione e per questo è complicato reperirli. La maggior parte dei mysteries che possiedo l'ho accumulata proprio in questo modo, e sarò sempre grato ai negozi di articoli di seconda mano che mi hanno permesso di accumulare un patrimonio del genere a costi ridotti quasi allo zero.

La passione dell'accumulo di volumi di vario genere, tuttavia, non affligge soltanto il sottoscritto: infatti non solo nella vita reale, ma pure nella finzione di quegli stessi romanzi del mistero che tanto mi piacciono capita spesso di trovare personaggi dediti alla stessa attività. Ad esempio Lord Peter Wimsey, creato dalla mente geniale di Dorothy L. Sayers, nutre una passione smodata per le aste di volumi rari e antichi e si diverte un mondo a sperperare il patrimonio di cui dispone in una lunga serie di acquisti in tal senso. Non si può dire del tutto che siano negozi di oggetti usati, però il loro fine ultimo resta quello di vendere un oggetto che era appartenuto a qualcun altro. Qualcosa di simile, poi, si può applicare a Nigel Strangeways, l'investigatore che Nicholas Blake fece agire nella maggior parte dei suoi gialli e che possiede una sconfinata cultura di carattere classico, coltivata anche grazie all'acquisto di libri pregiati che non si trovano facilmente. E che dire di Henry Gamadge, il segugio dilettante bibliofilo che indaga nell'America tra gli anni '40 e '50 del Novecento e nato dalla penna di Elizabeth Daly? In "Morte al Telefono" c'è addirittura un'intera scena ambientata in una sorta di libreria clandestina, mentre parte del mistero comprende una stampa nascosta in mezzo a un'enorme quantità di libri. Come vedete, insomma, sono molti i personaggi che nutrono un interesse particolare per la carta stampata e per le storie di finzione; compresi quelli che sono i protagonisti del giallo che recensisco oggi. Infatti, in "Le Porte di Damasco" di Agatha Christie (Classici del Giallo Mondadori n.515, 1986), i buoni coniugi Tommy e Tuppence Beresford si ritrovano catapultati in un misterioso affare proprio a causa di una pila di libri che è stata donata loro (e che hanno accettato di buon grado). Anche le buone azioni possono dare vita ad entusiasmati avventure, pure quando uno vorrebbe starsene tranquillo e mai sospetterebbe pericoli in agguato.

A Fellside Cumberland Village, John Alfred Arnesby Brown,
1939
La storia si apre con i nostri protagonisti intenti a sistemare la sopracitata quantità di volumi nella soffitta della loro nuova casa. Tommy e Tuppence, infatti, hanno deciso di lasciare la vita rocambolesca che hanno condotto fino ad allora e, sfruttando la scusa di essere ormai invecchiati e di desiderare una meritata pensione priva di criminali, di rintanarsi nello sperduto villaggio di Hollowquay. Laggiù hanno acquistato "I Lauri", una grande villa che possa ospitare all'occorrenza la loro figlia e i nipoti, e l'unica loro preoccupazione sembra essere quella di essere tanto assediati da operai fin troppo solerti nello svolgimento delle proprie mansioni, quanto di ritrovarsi con buchi sul pavimento lasciati da elettrecisti sbadati. Sembra... Poiché, mentre sistemano i volumi nella libreria della soffitta, Tuppence si rende conto che all'interno de "La Freccia Nera"di Stevenson qualcuno ha sottolineato alcuni pezzi di parola in una pagina. Incapace di trattenere la curiosità e di ignorare gli avvertimenti del marito, si lancia subito a trascrivere il testo che quelle lettere all'apparenza senza senso faranno emergere e il risultato la lascia molto confusa e turbata. La frase che ricava, infatti, recita nientemeno che: "Marie Jordan non è morta di morte naturale. L'ha uccisa uno di noi. Io so chi è stato". Il senso sembra inequivocabile, qualcuno è morto in seguito a un finto incidente e un criminale è rimasto impunito. Il senso di giustizia che anima la coppia di investigatori dilettanti non riesce a smorzarsi e così, nonostante un po' di iniziale ritrosia di Tommy, i due i mettono alla ricerca di un'eventuale morte sospetta e di conseguenti sospettati da mettere sotto un'ideale lente di ingrandimento.

E per farlo ripercorrono le vicende quotidiane e straordinarie di Hollowquay e dei suoi riservati abitanti, tra bambini che sanno tutto perché gli adulti non si curano della loro presenza, ed anziani signori e argute zitelle che mescolano realtà e fantasia nelle loro menti stanche e sognanti. Il viale del ricordo porterà Tommy e Tuppence a riallacciare i rapporti con vecchi amici, i quali già in passato hanno dato loro una mano per scovare delinquenti e spie nemiche, e a scoprire nuovi alleati inaspettati. E nel frattempo, tra un tè in una casa di riposo e una visita presso un capezzale, si diramano le esuberanti faccende domestiche della coppia alle prese con giardinieri burberi, servitori leali e l'esplorazione di camere ed edifici adiacenti alla proprietà principale. Finché, come in un buon giallo che si rispetti, non ci scappa il morto. Quest'ultimo ha forse qualcosa a che fare con la misteriosa Marie Jordan, ammazzata molti anni prima e mai vendicata? Ci vorrà molto impegno e un pizzico di fortuna prima di scoprire la verità che si cela tanto nel passato turbolento della Seconda Guerra Mondiale, quanto in un presente non ancora privo di minacce per la popolazione europea.

Books (back cover of 'High Street'), Eric Ravilious, 1938
Se dovessi basare il mio giudizio su "Le Porte di Damasco" soltanto sul carattere puramente "giallo" della storia, probabilmente sarei costretto a bocciarlo per un motivo molto semplice e chiaro da esporre: non esiste alcun mistero vero e proprio da sbrogliare, almeno inteso come un classico enigma a cui Christie ci ha abituato. Se confrontiamo quello che ci viene presentato qui e, per fare un esempio, il caso Armstrong di "Assassinio sull'Orient-Express" o l'indagine sulla morte di Amyas Crayle in"Il Ritratto di Elsa Greer", infatti, ci troviamo di fronte a un abisso di differenza: tutta la vicenda ruota attorno a un enigma che non può essere sciolto in autonomia dal lettore, il quale è costretto a seguire il cauto avanzare dei protagonisti e la loro raccolta di informazioni, fino a giungere a una conclusione che cala dall'alto un po' all'improvviso. Insomma, chi legge si ritrova di fronte a una serie di accadimenti i quali hanno l'aria di essere più un aspetto secondario all'interno di un romanzo di costume. Pertanto, come "giallo", "Le Porte di Damasco" non soddisfa le aspettative di un attento lettore medio come il sottoscritto. Detto ciò, tuttavia, voglio spezzare una lancia a favore di questo libro perché, se ciò che ho sostenuto fin qui vale, d'altra parte nella mia concezione di mystery un autore non dovrebbe limitarsi a descrivere la corsa di un investigatore (o un dipartimento di polizia) alle calcagna di un assassino, ma dare forma alla sua storia in modo da evocare un mondo intero che la circondi. Voglio dire, non limitarsi a descrivere le peripezie che il segugio deve affrontare per stanare la preda e metterla in stato d'accusa, ma inserire questa ricerca in un contesto vivo capace di aggiungere qualcosa al racconto. E in "Le Porte di Damasco" Christie riesce perfettamente a compiere questo processo. Quel che resta impresso, alla fine della lettura, è infatti il tratteggio della quotidianità che esula dal mistero: i bisticci con i giardinieri, i tè presso la parrocchia, le aste di beneficenza a cui Tuppence partecipa per raccogliere informazioni utili alla caccia cui sta prendendo parte, gli incontri al capezzale di anziani e presso laghetti con bambini di tutte le età.

Arrivata alla fine della propria vita, anziana e stanca, forse Christie ha deciso di lasciarsi un po' andare, di non rispettare il rigido schema narrativo che si era imposta e il patto di reciproca fiducia che aveva stretto con i lettori (nonostante già in passato avesse tentato di trovare qualche scappatoia...), e di intraprendere quel sentiero che molti anni prima aveva già solleticato una sua collega: Dorothy L. Sayers. Quest'ultima, infatti, non aveva mai fatto mistero di voler "innalzare" il romanzo giallo di inizio Novecento, tutto concentrato in una serie di rilevamenti e di deduzioni alquanto gelide e analitiche, a vero e proprio genere "di costume", capace di andare più a fondo nelle faccende pur senza tradire lo spirito della classica crime story. Ecco, Christie si è come impegnata a mettere in secondo piano l'enigma (sfruttando tra l'altro proprio i personaggi che, con la loro inclinazione a ritrovarsi invischiati in episodi di controspionaggio e di agenti segreti, meglio potevano adattarsi a una vicenda con un'indagine meno articolata) per soffermarsi su ciò che fa da contorno ad esso. Così, invece di ideare un mistero articolato e pieno di insidie, l'autrice si diletta a raccontarci le vicissitudini quotidiane di Tommy e Tuppence alle prese con la ristrutturazione della loro nuova casa, il viavai di operai che entrano ed escono dall'edificio, i loro sforzi per fare in modo che tutto sia a posto, dalle camere con gli oggetti da sistemare fino al giardino e all'orto da curare. Assistiamo alle impervie spedizioni di Tuppence dentro a serre polverose, alle scorribande di Tommy a passeggio per cimiteri nebbiosi assieme al fido Hannibal, agli incontri e scontri con personaggi di varia estrazione sociale (dalle cameriere alle addette al servizio postale, dai colonnelli a misteriosi uomini chiusi in angusti uffici londinesi, da anziane zitelle a nutriti gruppi di ragazzini). E tutto questo mentre, sullo sfondo, simile a qualcosa che incombe il mistero allunga la sua ombra, sempre presente. Da notare che non uso questa frase a caso, poiché il passato gioca un ruolo importantissimo dentro "Le Porte di Damasco". Anzi, si potrebbe dire che sia la Storia (con la S maiuscola) ad essere protagonista quasi alla pari con Tommy E Tuppence. 

Agatha Mary Clarissa Miller, alias Agatha Christie, nata
nel 1890 e morta nel 1976
Un'altra caratteristica di "Le Porte di Damasco" è infatti la vena storico-sociale che attraversa la sua trama. Fin da quando nasce il sospetto che l'enigma su cui Tommy e Tuppence devono indagare sia del tipo spionistico, viene spesso tirata in ballo la questione della sicurezza nazionale britannica, tanto minacciata da un pericolo di stampo fascista quanto lo era stata nella prima metà del Novecento. Mi ha molto colpito il fatto che le parole di Christie (espresse attraverso i suoi personaggi) siano ancora oggi cosi attuali: tra le altre cose, ad esempio, viene sottolineato come la Storia tenda a ripetersi, il fatto che il nazifascismo stia riacquistando forza grazie a una graduale tradizione di idee degenerate e pericolose, una preoccupante quantità di doppiogiochisti e di agenti segreti che si annidano negli angoli più remoti del Paese. Se guardiamo alla società di oggi, queste cose si possono ritrovare nei movimenti di Casapound a Roma, oppure nello scandalo che ha coinvolto il COPASIR e i servizi segreti italiani: la Storia si ripete ancora e ancora ed è sconcertante come non si sia capaci di imparare dagli errori compiuti in passato. D'altronde, bisogna ammettere che Agatha Mary Clarissa Miller (questo era il cognome da nubile di Christie, trasformato una prima volta in occasione del primo matrimonio, e divenuto Mallowan con l'avvento della seconda relazione coniugale) fu in grado di creare storie che restano attuali pure un secolo dopo la sua nascita, forse grazie alla propria capacità di comprendere tanto bene il mondo che a circondava, con tutti i suoi contrasti. A volte è stata generosa e disposta alle confidenze, altre si è rivelata più chiusa di un'ostrica. Grazie alla sua autobiografia, ad esempio, sappiamo molto riguardo la sua infanzia, il periodo più felice di tutta la sua esistenza, quello dove gli affetti rappresentati dai genitori, dal fratello, dalla sorella e dai domestici non mancarono mai; in cui le giornate erano piene ancor più del solito di voglia di fare, giocare, scoprire il mondo; durante il quale iniziò a viaggiare e che le regalò ricordi indelebili, come le giornate passate da "zia-nonnina" nella casa di Ealing.

Allo stesso modo, ci ha raccontato con generosità i primi balli e gli incontri con gli innumerevoli giovanotti che la corteggiarono, così come il momento in cui si ritrovò catapultata improvvisamente nel pieno della Grande Guerra e iniziò a lavorare come infermiera al dispensario di Torquay. Ha descritto la nascita della sua carriera di scrittrice, dovuta all'impulso di un momento in occasione di una scommessa con la sorella Madge; l'incontro con Archie, il primo marito, e il loro viaggio in giro per il mondo in occasione dell'Esposizione Universale del 1924; la nascita della figlia Rosalind; la passione per le case e il cibo; il viaggio in Oriente e gli scavi archeologici. Persino la gioia nel possedere un auto di proprietà e di aver cenato accanto alla Regina d'Inghilterra. Tuttavia, riguardo altri eventi della sua vita Agatha Christie ha preferito lasciare un'ombra di incertezza e di dubbio. Il fatto più famoso, in questo senso, è la sua scomparsa nel 1926, quando Archie le confessò di essersi innamorato della sua segretaria e di voler divorziare. Probabilmente nessuno, al di fuori della stessa Agatha, ha mai saputo quale fu il movente scatenante di questo improvviso colpo di testa: forse un'amnesia, come sostennero i suoi familiari? Oppure un deliberato tentativo di accusare il coniuge fedifrago di averla eliminata per ottenere la separazione? Martin Edwards, sfruttando le informazioni ricavate dai romanzi di questa grande scrittrice, in "The Golden Age of Murder" ha formulato un'interessante ipotesi a riguardo.

In ogni caso, resterà per sempre un mistero insoluto, poiché nemmeno prima di morire lei rivelò la verità. Anche del suo rapporto con gli altri membri del Detection Club, l'associazione di giallisti di cui fece parte per molti anni, non racconta nella sua autobiografia; tuttavia, in questo caso possiamo sfruttare le lettere e i documenti che proprio i suoi compagni ci hanno lasciato, i quali ci tramandano un'immagine vitale e disponibile della Christie, fatta di sostegno reciproco e condivisione di interessi oltre che di amicizia e sacrificio, come nel momento in cui lei, nonostante la timidezza, accettò di assumere la carica di Presidente del Club, poiché nessun altro possedeva le specifiche capacità richieste dal ruolo. La modestia fu sempre una delle sue caratteristiche principali, tanto che odiava rilasciare interviste (non si fidava della stampa, dopo che essa l'aveva gettata in pasto alla gente al momento della sua scomparsa) e non riusciva a spiccare parola davanti a un pubblico o ad eseguire correttamente un pezzo al pianoforte, se le premesse si facevano terribilmente ufficiali; ma il tratto caratteriale che a mio parere l'ha saputa contraddistinguere maggiormente è stata soprattutto la sua grandissima gioia di vivere, la quale le permise di coltivare un carattere solare, purché venato a volte da qualche ombra, che lei riversò nei suoi personaggi, rendendoli più vivi che mai e, in questo modo, facendoceli amare anche nella loro imperfezione. Noi stessi potremmo essere i protagonisti delle sue trame, in procinto di affrontare le nostre sfide e di rialzarci ogni volta che cadiamo.

Tutti loro non sono mai come sembrano, attori di un romanzo giallo che ingannano il lettore; cosa dire allora di noi stessi, che indossiamo ogni giorno una maschera diversa? Agatha Christie l'aveva capito, ed era riuscita a trasportare questa consapevolezza (e la Vita reale, come gli altri Grandi) sulla carta per farne materiale da usare allo scopo di sviare il lettore; senza mai barare, per giunta. Perché se c'è qualcosa che non possiamo proprio rimproverare alla Signora del Delitto, quello è proprio il suo Onesto Inganno: ovvero, fornirci tutti gli indizi che ci servono (rispettando il rigido fair-play) e, allo stesso tempo, menarci per il naso con una classe a tutt'oggi ineguagliata, tra false piste e "aringhe rosse". In "Le Porte di Damasco" questo discorso vale un po' meno, visto il carattere semplicistico dell'enigma; in ogni caso, il romanzo non si può certo definire scadente oppure noioso per chi sia interessato ad approfondire il contesto in cui il mistero sulla morte di Marie Jordan viene calato. Ancora un volta, Christie riesce ad irretire il lettore e a distrarlo dalla realtà quotidiano in favore di una vicenda fittizia intrigante.

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venerdì 11 giugno 2021

74 - "Panico" ("Panic", 1944) di Helen McCloy

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Tra i romanzi gialli classici che preferisco, di sicuro figurano quelli ambientati in luoghi impervi e isolati da qualche circostanza più o meno accidentale. Non per niente, infatti, ho già recensito positivamente titoli come "Qualcuno ti Osserva" di Ethel Lina White (la cui trama si svolge nel corso di una sola lunga notte di terrore, all'interno di una casa al confine tra il Galles e l'Inghilterra, tagliata fuori dalla civiltà da una furibonda tempesta notturna) oppure "Il Gatto e il Topo" di Christianna Brand, nel quale una ragazza si ritrova a combattere contro tutti quanti per dimostrare come, dentro a una dimora di montagna, venga celata una giovane donna. A ben guardare, in realtà, dovrei dire che prediligo particolarmente quelle storie che appartengono al sottogenere perlopiù americano delle woman in jeopardy, dove esponenti del gentil sesso si ritrovano a incorrere in ogni sorta di pericolo, minacciate da loschi individui oppure da complotti orditi contro di loro; in questo genere di racconti, infatti, è più probabile trovare atmosfere sinistre e claustrofobiche. Eppure, sono fin troppo consapevole del fatto che, in queste vicende, l'elemento dell'enigma puro venga spesso trascurato proprio per esacerbare ed evidenziare il "brivido lungo la schiena" da far provare al/alla lettore/lettrice di turno, con la conseguenza che ciò che rimane, una volta terminata la lettura, è una mera sensazione di scombussolamento emotivo estraneo alla soluzione più o meno logica del mistero. Pertanto mi concedo di divorare questo tipo di libri soltanto di tanto in tanto, nonostante mi piacciano moltissimo, dal momento che non vorrei finire per annoiarmi per la scarsa variazione su un tema trito e ritrito.

Detto ciò, ogni tanto capita di imbattersi in qualche mystery capace di mettere insieme un'ottima atmosfera da incubo, claustrofobica in più sensi, e un'enigma di prim'ordine corredato da un abile fair play e da un contesto solido, capace di resistere al passare del tempo. Ad esempio, penso a "La Rossa Mano Destra" di Joel Townsley Rogers che, per quanto sia un romanzo giallo americano sotto tanti aspetti, traduce su carta un incredibile incubo ad occhi aperti che ancora oggi non smette di sorprendere per accuratezza e logicità. In questo specifico caso, la dimora dello psicologo criminale MacComerou rappresenta perfettamente quel tipo di ambientazione chiusa e spaventevole di cui parlavo sopra (senza dimenticare il terrore che suscita l'intera storia, tra boschi e strade notturne e popolate di pazzi). Un altro titolo che mi viene in mente è "Quando l'Amore Uccide" di Nicholas Blake il quale, pur essendo meno d'impatto dal punto di vista dell'atmosfera di panico che si associa al libro di cui sopra, non si può certo classificare come confortevole nonostante sia ambientato nel periodo di Natale. Anche qui l'apparato indiziario permette a chi legge di farsi un'idea di chi sia il colpevole, ma allo stesso tempo non mancano parti della storia in cui il tono è decisamente depresso, vuoi per un senso di disillusione oppure per qualcosa di più potente e letale. Tra questi mysteries a dir poco sorprendenti e potenti, si può includere pure quello che recensirò oggi per voi: "Panico" di Helen McCloy (Polillo Editore, 2010). Esso infatti riprende al meglio il modello presentato circa dieci anni prima da "Qualcuno ti Osserva", con una giovane costretta dalla necessità di sopravvivere a stabilirsi in una casa isolata dal resto del mondo. Stavolta, però, l'enigma non si traduce in un semplice esasperare di emozioni fini a se stesse, con un caso che viene svelato al lettore senza permettergli di mettersi alla prova più di tanto: nel libro di McCloy l'indagine si presenta come un vero e proprio esercizio crittografico logico, in stile enigmistico, di difficoltà non indifferente. Anzi, forse fin troppo esagerata.

A Birch Grove, Arkhip Kuindzhi, 1880
La storia prende avvio con il decesso improvviso dell'anziano e insigne grecista Felix Mulholland, il quale lascia in eredità ai giovani nipoti Alison e Ronnie un patrimonio esiguo in fronte a quanto entrambi si aspettassero. La casa stessa in cui vivono da molti anni dovrà essere venduta assieme al mobilio, per pagare le tasse di successione e gli stipendi dei domestici, e tutto ciò che resta agli eredi sono appena tredicimila dollari. Ma le sorprese non sono finite qui. Poche ore dopo il triste rinvenimento del corpo adagiato sul letto, alla porta di casa Mulholland si presenta un sedicente colonnello Armstrong a chiedere conto di una certa documentazione riguardo un codice cifrato che Felix aveva ultimato da poco e che, secondo le parole del suo inventore, era praticamente impossibile da spezzare o decifrare. Alison, che svolgeva il ruolo di segretaria dello zio, non ha la minima idea di che cosa intenda Armstrong: lo zio si chiudeva ore ed ore nello studio da solo e a lei non è stata fatta alcuna confidenza. L'unica cosa un po' strana che la ragazza abbia visto è un foglietto con scritti sopra alcuni gruppi di lettere senza senso... Ma è stato buttato via. Deluso, Armstrong se ne va e Alison deve decidere cosa fare della propria vita: deve trovare un lavoro al più presto, ma la tosse e la debilitazione causate dalla vita frenetica in città la stanno mettendo a dura prova. Pertanto, su consiglio di Ronnie, la ragazza decide di andare a trascorrere qualche settimana ad Aultonrea, sui monti Adirondacks, per cambiare aria e schiarirsi le idee. Giunta sul posto, tuttavia, Alison si rende conto di quanto esso sia lontano dal mondo civilizzato e da qualsiasi forma di comodità moderna: non c'è nemmeno la luce elettrica, le serrature si potrebbero spezzare con una certa facilità e il telefono deve essere appositamente allacciato.

Tutto sommato, comunque, la ragazza non si lamenta: è proprio la tranquillità ciò che le serve per ricaricare le batterie... Peccato solo che, non appena scende la notte, fuori dalla casetta si inizi a sentire qualche rumore sospetto, come se qualcuno stesse camminando nel sottobosco. Alison si ripete che deve trattarsi di qualche animale, ma la sua educazione classica le suggeriscono una spiegazione al fenomeno molto più terribile: se fosse il dio Pan, con il suo aspetto a metà tra la bestia caprina e l'uomo avvenente, a zufolare tra gli alberi? Dopotutto, lo stesso Felix e la precedente inquilina di Aultonrea, una signora che finì per impazzire, avevano affermato di "sentire" cose quando cala il buio. Inizia così un periodo pieno di terrore, panico (inteso non solo nel senso comune del termine ma pure in quello letterale) e di sospetti per Alison, la quale si ritrova circondata da persone eccentriche e pericolose: l'amato Geoffrey, in licenza dal servizio militare per un sospetto esaurimento nervoso; sua sorella Yolanda, una virago pronta a tutto per tenersi stretto il fratello e continuare a vivere nell'agiatezza; un uomo di nome Matt che assomiglia a un pellerossa e consegna merce col suo furgoncino; miss Phillmore, un'anziana dall'aria mascolina che ha tentato di farsi assumere alle sue dipendenze con la chiara intenzione di spiarla; una coppia di coniugi che vedrebbe di buon occhio il passaggio di Aultonrea sotto la loro ala. E poi, come se non bastasse, all'improvviso dalla tasca della vestaglia della ragazza, in una notte di pioggia battente e di tempesta, ecco che ricompare il foglietto che desiderava ottenere il colonnello Armstrong... Forse nasconde davvero qualche segreto inconfessabile, qualcosa che lo zio Felix desiderava non venisse letto da qualche malintenzionato? Starà ad Alison venire a capo del mistero, applicandosi a calcoli matematici e a teorie complesse sulla sostituzione di cifre e lettere.

Esempio di codice presentato in "Panico"
Quello che rende grande "Panico" penso sia ciò di cui parlavo sopra, e cioè il fatto che riesca ad essere un romanzo giallo capace di restare in equilibrio su due piani che di solito faticano a convivere equamente, dentro una stessa opera: quello dell'enigma puro e quello del contesto in cui esso viene calato. Nella sua storia, McCloy dimostra di essere in grado di mettere in piedi un mistero per nulla banale, dove si intersecano quesiti filosofici, citazioni letterarie e teorie matematico-pratiche di livello avanzato (in modo molto simile a quanto aveva fatto in "Come in uno Specchio", se al posto del calcolo inseriamo l'elemento dell'impossibilità fisica nel compiere un assassinio), assieme a una cornice in cui l'elemento soprannaturale la fa da padrone, manifestandosi sotto forma di fenomeni naturali come i temporali e innaturali quali edifici abbandonati e sinistre figure nell'oscurità legate al mito classico. Fin dall'inizio, quando facciamo il nostro primo incontro con Alison, ci troviamo in una situazione a dir poco terribile: la ragazza viene svegliata nel cuore della notte da una telefonata che la mette in agitazione. Non bisogna dimenticare che siamo in periodo di guerra, per cui le notizie che non possono aspettare la luce del giorno per essere comunicate devono essere gravi. Ecco, con questa introduzione ci viene presentato il tono che pervaderà tutto il racconto: una costante tensione mista a terrore accompagnerà la ragazza fino allo svelamento della verità sul finale. Da New York ad Aultonrea sugli Adirondacks, una forza temibile e misteriosa la perseguiterà in modo simile a uno spettro, allo stesso modo del doppelganger di Faustina. La narrativa di McCloy è spesso caratterizzata da questo elemento di persecuzione, di incertezza e di velata minaccia, probabilmente suggerito all'autrice dal periodo storico in cui la sua produzione migliore si concentrò: quello della Seconda Guerra Mondiale e degli anni di depressione e desolazione che seguirono, i quali misero a dura prova lo stato mentale e morale della gente.

A questo clima oppressivo e poco confortevole, McCloy accostò un'indagine che spazia a sua volta su più livelli, dando vita a un complesso castello di carte che si erge a partire da fondamenta niente affatto scontate. Le premesse appaiono tutto sommato nella norma: c'è questo cifrario misterioso che è scomparso e una probabile potenza straniera oppure agente nemico che potrebbero essere interessati alla faccenda. Nei romanzi di spy story qualcosa del genere si verifica di continuo, non è una grossa novità. Ciò che sorprende, invece, è il modo attraverso cui l'autrice tratta tutto quanto, declinandolo in una forma che sta tra il thriller (il quale richiama proprio i racconti delle spie e degli agenti segreti "alla Le Carré") e il giallo ad enigma puro, dotato di indizi decifrabili da parte del lettore. Se da un lato non ci viene mai fornito il messaggio in codice intero su cui mettere alla prova le nostre capacità di crittanalisti, d'altro canto tra le righe possiamo scorgere qualche prova del fatto che la vittima e le circostanze della sua morte indichino inequivocabilmente una certa persona come il colpevole dei terribili eventi che si stanno scatenando attorno alla figura di Alison. E non paga di ciò, McCloy si ingegna pure per seminare falsi indizi e suscitare più dubbi possibili nella mente di chi legge, infilando nella storia riferimenti alla storia recente (come il fascismo, la guerra che si stava combattendo in più parti del mondo tra Pearl Harbor e l'Europa), riflessioni sulla psicologia dell'individuo (con tanto di eonismo) e sullo stato d'animo dell'America, letteratura classica greca e latina con precise spiegazioni che dimostrano l'indubbia cultura dell'autrice. A coronare il tutto, infine, a spezzare il ritmo vertiginoso e ansiogeno dell'abisso in cui rischia di cadere Alison, ci vengono presentate lunghe e dettagliate parti della storia dedicate esclusivamente a trattare il tema della crittanalisi: tabelle piene di numeri e lettere, teorie su come una certa chiave possa essere spezzata con facilità, approfondimenti su personaggi vissuti nella realtà e che hanno contribuito a rendere più o meno ostica la cifratura oppure la decifrazione, giocando con chiaro ed indice. Il risultato degli sforzi di McCloy è "Panico", un romanzo dove sovrannaturale mitologico e logica stringente di stampo matematico si incontrano per dare vita a una storia originale e fuori dal comune.

Helen Worrell Clarkson McCloy, nata nel
1904 e morta nel 1994
Tutto ciò lascia intendere come Helen Worrell Clarkson McCloy (era questo il nome intero dell'autrice, nata a New York nel 1904) fosse una persona istruita ed acculturata: i continui riferimenti all'antica Grecia e al mito dell'antichità (pp. ); i discorsi su filosofia, naturalismo, matematica comparata, nonostante siano spesso solo accennati, lasciano intendere una vasta conoscenza sviluppata durante gli studi in Europa e proseguiti in America. Inoltre, cosa non da poco, è molto approfondita l'analisi psicologica tout court dell'individuo (essendo il suo investigatore seriale, non presente nel romanzo recensito oggi, il primo segugio-psichiatra della storia non ci aspetteremmo niente di meno): numerose teorie crittanalitiche come quella di Vigenère, di Bazeries, di Kasiski e Kerckoffs, vengono prese in considerazione con serietà e praticità per mostrare al meglio al lettore quanta strada si sia fatta nel corso dei secoli per perfezionare l'arte del codice segreto, così che il lettore possa comprendere fino in fondo le possibili implicazioni dell'indagine; l'attività del subconscio dell'essere umano, della corruzione della sua personalità e degli sforzi della memoria cosciente per mettere a freno gli impulsi e l'istinto la fanno da padrone per tutta la lunghezza della storia; come pure la suggestione, la psichiatria, le manie e le ossessioni, mescolate in un sapiente calderone e impostate per instaurare un clima di tensione sempre crescente, che impedisce di annoiarsi e spinge a continuare la lettura. La guerra in corso infesta il racconto, restando in sottofondo per la maggior parte del tempo ma emergendo con insistenza a più riprese, in mezzo ad altri discorsi e ad osservazioni che sono focalizzate sul mistero del codice criptato oppure su quello del decesso improvviso di Felix Mulholland.

A questo proposito, è interessante notare come ancora una volta torni il soprannaturale come punto cardine attorno a cui sviluppare la trama: in "Come in uno Specchio" avevamo la teoria del doppelganger quale pretesto per fare le ipotesi più strabilianti sulla spiegazione dell'enigma; qui, la possibilità remota che un essere bestiale abbia preso vita dal mito arcaico e si sia nascosto nei boschi degli Adirondacks e della mente umana. Non per niente John Dickson Carr fu una delle ispirazioni per l'autrice, tanto che "Alias Basil Willing" fu dedicato proprio a lui e alla moglie Clarice. Manca, invece, l'elemento del delitto impossibile che Helen McCloy ha affrontato in numerosi romanzi proprio per esasperare l'atmosfera irreale delle sue storie, accompagnato da uno spiccato senso per la suspense. Esse possono essere considerate come dei piacevoli ibridi, che mescolano intelligentemente gli elementi del giallo all'inglese con quelli tipici del romanzo psicologico americano: una caratteristica, questa, che li ha resi graditi agli estimatori di entrambi i sottogeneri, e che ha contribuito ad affermare la sua autrice come la più grande scrittrice americana di gialli. Sposata con Davis Dresser, l'autore noto con lo pseudonimo di Brett Halliday e creatore del detective privato Mike Shayne, la McCloy fu, tra le altre cose, direttrice del New York Evening Sun per diciotto anni e il primo presidente donna dell'associazione dei Mystery Writers of America, prima di spegnersi a Boston, nel 1994. Per quel momento aveva contribuito al genere con una trentina di meravigliosi gialli: numerosi furono gli stand-alones proprio come "Panico", ma sono ricordati soprattutto i tredici romanzi con protagonista Basil Willing, tra cui "La Stanza del Silenzio", "Omicidio a Scena Aperta" e "Come in uno Specchio". Su "Panico" vorrei aggiungere soltanto un'ultima considerazione, prima di terminare. Come dicevo, si tratta di un romanzo giallo straordinario sotto molti aspetti; però vale la pena avvertire il lettore che le spiegazioni sulla crittanalisi sono talmente complesse da risultare un po' indigeste. Non aspettatevi una lettura di facile comprensione; per affrontare questo romanzo ci vuole una certa concentrazione.

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venerdì 4 giugno 2021

# - Aggiornamenti dall'Approvvigionatore Letterario (Giugno 2021)

Cari amici e lettori dell'Angolo dell'Approvvigionatore Letterario, eccoci qua per un nuovo appuntamento coi consigli letterari nel segno del giallo tradizionale. Senza che ce ne siamo resi conto (almeno per me è stato così) siamo giunti fino a giugno, alle porte dell'estate e di una stagione che si spera ci porti un po' di sollievo dai disagi della pandemia. La strada per uscire da questa sgradevole situazione è ancora lunga da percorrere, ma l'apertura delle vaccinazioni per tutta la popolazione mi pare un segnale molto buono verso un graduale ritorno alla normalità. Nel frattempo,come sempre, io sono pronto a darvi qualche consiglio su cosa leggere per ingannare il tempo e intrattenervi; soprattutto in vista delle auspicabili settimane di relax e mare o montagna che ci attendono nei prossimi mesi. Pertanto, diamo inizio alla lista!

Copertina dell'edizione pubblicata da
Le Assassine
Come prima lettura in lingua italiana, vi consiglio caldamente di prendere in considerazione il romanzo nuovo di zecca che Le Assassine hanno dato alle stampe: "Un Cappio per Archibald Mitfold" di Dorothy Bowers. Si tratta di una storia straordinaria, scritta da colei la quale veniva considerata come l'erede diretta nientemeno che di Dorothy L. Sayers, dal momento che aveva fatto proprio l'utilizzo di citazioni e di uno stile narrativo complesso come marchi di fabbrica. Sfortunatamente Bowers riuscì a produrre soltanto cinque storie del mistero prima di morire in giovane età, come accadde a Christopher St. John Sprigg, a causa della tubercolosi che contrasse alcuni anni dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale; come unica consolazione, ebbe il privilegio di essere nominata membro del Detection Club. "Un Cappio per Archibald Mitfold" narra una vicenda che si svolge nel 1939, proprio poco dopo la dichiarazione del conflitto mondiale. Il giovane Archibald Mitfold del titolo incontra due vecchi compagni di scuola e rivela loro come sia stato vittima di una serie di tentativi di ucciderlo, ai quali è scampato quasi per miracolo. Ormai è convinto che il pericolo sia passato, per cui non dà importanza ai calorosi consigli degli altri di riguardarsi e prestare attenzione; pertanto, non stupisce venire a sapere come più tardi, proprio in quello stesso giorno, Archy venga trovato morto nella casa della zia. Come si sia verificato il decesso è chiaro fin da subito, ma sull'identità del colpevole e sul movente di questo gesto criminale incombe una cappa di dubbio e sospetto. Fin da subito la soluzione si presenta complessa da trovare; così il caso viene affidato al competente ispettore Pardoe il quale si getta a scavare nella vita della giovane vittima e di chi lo ha circondato nel corso degli anni. Il fatto è che, più va a fondo della faccenda, più emergono nuovi elementi a complicare l'indagine: la cameriera, innanzitutto, testimonia di aver sentito Mitfold fare commenti criptici; ma pure la scomparsa del diario di quest'ultimo, la sua passione per lo strano disegno di un uccello e il calco di gesso che accompagnava con il simbolo di un martello; un incontro avvenuto presso un'organizzazione che simpatizza con i nazisti e la conseguente scomparsa di un milionario, contribuiscono a ingarbugliare la matassa. Qual è la verità sulla faccenda? Tra false piste e capitoli segnati con frasi prese dal "Macbeth" di Shakespeare (come il titolo originale), starà a Pardoe trovare gli elementi necessari per mettere in arresto un assassino che forse non ha ancora terminato di seminare morte e sventura. "Un Cappio per Archibald Mitfold" si preannuncia essere un romanzi del mistero grandioso, insomma.

Copertina dell'edizione pubblicata
nei Classici del Giallo Mondadori
Passando invece alle pubblicazioni da edicola, questo mese voglio segnalare l'uscita di un giallo inedito nei Classici del Giallo Mondadori. Da qualche tempo l'editore ha ricominciato ad investire su traduzioni ex novo di titoli appartenenti alla tradizione della Golden Age, tra Ethel Lina White e Anthony Berkeley. Ecco, proprio all'opera di quest'ultimo appartiene la storia pubblicata a giugno. Si tratta di "Il Problema del Signor Priestley", tra i primi esempi di mystery solcati da una vena ironica. Immaginate la premessa: una persona normalissima, innocente e assolutamente priva di scopi criminali, ammazza per sbaglio qualcuno... e non esistono prove che possano incriminarla. Come dovrebbe comportarsi? Dovrebbe consegnare se stessa alla polizia e rischiare di finire in galera per un errore compiuto in un momento di distrazione, oppure fare finta di nulla e mettere a tacere la propria coscienza? Questo è l'oggetto di un'esperimento psicologico che alcuni compagni di bevute, appassionati di criminologia, decidono di testare sfruttando l'ingenuo e pacifico signor Matthew Priestley. Hanno in mente di elaborare una complicata messinscena, che prevede la partecipazione di una ragazza affascinante che dovrebbe scambiarlo per un altro e coinvolgerlo in un furto nella casa di uno dei complici. Tuttavia, quando il proprietario si affaccia, i proiettili a salve e il finto stramazzo al suolo della "vittima" convincono Priestley di essere davvero colpevole. Da qui poi inizia un'avventura incredibile che vede il poveretto coinvolto in ogni serie di peripezie; e l'ingresso sulla scena di un poliziotto finirà per causare conseguenze inimmaginabili... Dalla fervida immaginazione di Anthony Berkeley, una storia divertente e appassionante.

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla British Library Crime Classics
Per le letture in lingua inglese, invece, questo mese abbiamo una raccolta di racconti per i tipi della British Library Crime Classics dal titolo "Guilty Creatures". Si tratta della periodica pubblicazione curata dal critico Martin Edwards, il quale ha radunato una serie di brevi storie accomunate (in questo caso) dal tema del mondo animale declinato secondo differenti sensi. Fin dagli albori del genere giallo, infatti, bestie di ogni tipo hanno avuto ruoli più o meno importanti all'interno di romanzi e racconti del mistero: basti pensare a titoli quali "Panico" di Helen McCloy, con un cane cieco che involontariamente fornisce indizi per la soluzione del mistero, oppure "Il Pappagallo Bianco" di Mignon G. Eberhart e la serie più leggera prodotta da Lilian Jackson Braun con protagonisti due gatti investigatori. Pertanto, che siano autrici di crimini, testimoni chiave oppure spalle per le forze della legge alla pari del docile e buon dottor Watson, queste creature sono le protagoniste delle quattordici trame racchiuse in "Guilty Creatures" e concentrate su gatti, cani e insetti insieme ad animali più esotici come gorilla, parrocchetti e serpenti velenosi. Spaziando da Arthur Conan Doyle fino a F. Tennyson Jesse, da Christianna Brand a Penelope Wallace, Edwards ha curato questa antologia fin nei minimi particolari, dando vita a una raccolta singolare e originale, nonché piena zeppa di misteri da risolvere.

Copertina dell'edizione pubblicata
da Penzler Publishing
Infine, per restare sempre nel mondo animale, per coincidenza pure Penzler Publishing ha pubblicato un romanzo giallo su questo genere. Infatti, in questo mese ci viene presentato "The Cat Saw Murder" di Dolores Hitchens. Protagoniste della storia sono l'investigatrice privata Rachel Murdock e sua sorella Jennifer, convocate d'urgenza da parte della loro nipote preferita Lilly in California. Prima di mettersi in viaggio, tuttavia, le due sistemano la loro preziosa gatta Samantha per portarla da Lilly: Samantha, infatti, non è una gatta qualunque, ma addirittura un'ereditiera benedetta da un ricco parente con una fortuna pecuniaria pressoché inestinguibile. Per questo motivo l'animale deve essere trattato con tutte le cure e preservato. Tuttavia, non appena giunte in California, Samantha subisce un attentato e rischia di restare uccisa. Sotto shock, Rachel e Jennifer non fanno in tempo a riprendersi dallo spavento che un nuovo incidente si verifica... ma stavolta a rimetterci la pelle è Lilly. All'arrivo della polizia, gli indizi iniziano ad andare a posto: la cugina aveva contratto pesanti debiti di gioco ed era solita barare a bridge, pertanto sembrerebbe che la colpevole dell'attentato a Samantha alla fine sia rimasta vittima del proprio piano diabolico per impossessarsi del denaro ereditato dalla bestia. Tutto risolto, quindi? Affatto, dal momento che presto compare un altro cadavere, semisepolto in una spiaggia vicina. Appare quindi chiaro che questa storia di follia omicida non sia legata soltanto ai problemi finanziari di Lilly, ma si articoli seguendo una pista più contorta e difficile da sondare. Per fortuna, niente è impossibile per Rachel Murdock e la gatta Samantha, le quali surclasseranno le forze dell'ordine nello scoprire le sottigliezze di un caso davvero strabiliante.

Anche per questo mese i consigli di lettura in giallo sono terminati. Come al solito, se dovessi venire a sapere di qualche titolo che mi sia sfuggito, lo aggiungerò in coda qui sotto con un avviso. Nel frattempo, vi auguro un buon inizio d'estate con tante letture e una graduale ripresa della routine quotidiana. A presto!

Link ai titoli consigliati su IBS:
"Un cappio per Archibald Mitfold" di Dorothy Bowers.

Link ai titoli consigliati su Libraccio:
"Un cappio per Archibald Mitfold" di Dorothy Bowers.

Link ai titoli consigliati su Amazon:
"Un cappio per Archibald Mitfold" di Dorothy Bowers;
"Il problema del signor Priestley" di Anthony Berkeley (solo ebook);
"Guilty creatures" curato da Martin Edwards;
"The cat saw murder" di Dolores Hitchens.

venerdì 28 maggio 2021

73 - "Occhiali Neri" ("The Black Spectacles"/"The Problem of the Green Capsule", 1939) di John Dickson Carr

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Il mese scorso, nel recensire "Il Mostro del Plenilunio", mi sono reso conto di una grave mancanza che affliggeva Three-a-Penny; ovvero, non avevo ancora letto ed analizzato per voi un romanzo giallo scritto da John Dickson Carr con il suo personaggio più conosciuto, quel Gideon Fell che di frequente viene definito "dottore" ma in realtà è più un lessicografo ed esperto di lingue, oltre che investigatore dilettante celebre per le sue indagini su casi di delitti della camera chiusa. Si trattava di una circostanza ben strana, dal momento che Carr non è certo un giallista sconosciuto (io stesso, nonostante preferisca le storie ideate da Dorothy L. Sayers e Agatha Christie, lo ritengo uno tra i Grandi del genere) e in Italia, almeno tra gli appassionati, non passa molto tempo senza che qualcuno citi lui o una sua opera proprio con protagonista Fell. Avrei già dovuto sopperire a questa lacuna tra i post del blog; forse la causa di tale dimenticanza è da riscontrare nel fatto che istintivamente ricollego questo personaggio al libro "Le Tre Bare", da tanti ritenuto il capolavoro dell'autore e una tra le opere più straordinarie e spettacolari di tutta la storia della crime story di stampo tradizionale. Purtroppo, ancora una volta, esso si può trovare soltanto nei mercatini dell'usato oppure (però bisogna essere fortunati) nei siti di remainders; per questo motivo, credo, ho come "messo da parte" Fell in attesa di una ristampa di questo titolo, per introdurvelo al meglio. Eppure, ripensandoci, non è necessario aspettare che "Le Tre Bare" venga pubblicato di nuovo perché possiate fare un lieto incontro col buon, seppur burbero, dottore: ci sono tanti altri libri in cui egli appare che sono considerati come pietre miliari della classica crime novel. Penso, ad esempio, a "Il Terrore che Mormora". Non vorrei dilungarmi troppo su questo libro, nel caso in cui non lo conosciate e rischi quindi di rovinarvi la lettura, ma sappiate che tutto ruota attorno a un omicidio avvenuto in cima a una torre nel bel mezzo di un bosco, dove nessuno tranne la vittima può essere salita. L'assassino è forse un essere soprannaturale, dal momento che tra le altre cose nel libro viene affrontato nientemeno che il tema del vampirismo?

Polillo ha ripubblicato questo titolo alcuni anni fa e Rusconi lo darà in ristampa entro l'anno, per cui magari più avanti potrei approfittarne per rileggerlo e recensirlo. Ma oggi ho preferito puntare a qualcosa di diverso, proprio per presentarvi Gideon Fell in tutta la sua astuzia diabolica e forma smagliante (almeno in senso figurato). Infatti, tra le altre opere di Carr disponibili in libreria si può trovare pure la decima avventura in ordine cronologico del mastodontico dottore: "Occhiali Neri" (Polillo Editore, 2005). Questo romanzo del mistero brilla per numerosi motivi, tra i quali figurano ovviamente l'enigma, come l'autore ci ha ben abituato nel corso della sua prolifica carriera, e l'atmosfera che egli riesce a creare e a mescolare con la tensione, fino a dare vita a un miscuglio che rasenta il filo che separa il terrore dall'inquietudine. Ciò per cui penso sia fondamentale "Occhiali Neri", tuttavia, riguarda qualcosa che ha a che fare col suo contenuto, con una serie di quesiti che la sua storia solleva e diversi temi che vengono affrontati. Infatti, come era solito fare Carr nell'ideazione di trame intricate e di delitti straordinari ed eclatanti, dentro questo romanzo del mistero viene in qualche modo analizzato uno tra i crimini (e criminali) più sinistri e spaventosi: l'avvelenamento. L'autore non si è limitato a ideare una trama liscia e scorrevole, piena di tensione e di mistero, oppure ad escogitare qualche trucco per ingannare anche il lettore più attento; in questo caso, ha tracciato ad uso e consumo di quest'ultimo un ritratto realistico e veritiero di quei criminali che dimostrano di possedere abbastanza sangue freddo da somministrare qualche sostanza letale alle proprie vittime e assistere al loro lento deperimento culminante con la morte. Ancora una volta, quindi, Carr ha dimostrato non solo di essere un inventore prolifico di modi per uccidere senza essere scoperti (o quasi), ma anche di possedere una vasta cultura in fatto di criminologia e di saper applicare quanto imparato e studiato all'occorrenza, nel caso in cui avesse bisogno di mettere in piedi una storia fittizia.

Vesuvius and Pompeii, Robert S. Duncanson, 1870
Tutto ha inizio in un luogo che non ci si aspetterebbe di trovare dentro un romanzo giallo inglese: Pompei. Infatti è proprio nella più viva delle città morte (come l'ha definita il divulgatore scientifico Alberto Angela) che facciamo la conoscenza dei principali personaggi della storia. In un peristilio di una villa romana, ci vengono presentati i Chesney: Marcus, il capofamiglia, un signore piccoletto e di mezza età che osserva il mondo con sguardo disilluso e cinico; suo fratello Joe, un medico con il cattivo vizio di bere e che soffre di un'indolenza che si potrebbe definire cronica, nonostante abbia una buona reputazione e svolga il proprio lavoro con diligenza; la loro nipote Marjorie Wills, una giovane ragazza molto bella ma alquanto taciturna. Assieme a loro tre troviamo alcuni amici: il professor Ingram, il quale è una vecchia conoscenza dei Chesney e si diletta nello studio della psicologia; il giovane Wilbur Emmet, che dirige la filiale principale dell'azienda di Marcus ed è segretamente innamorato di Marjorie; un altro giovanotto di nome George Harding, il quale si è unito alla comitiva quasi per caso e adesso è in procinto di fidanzarsi ufficialmente con la signorina Wills. Tutti loro vengono illustrati al lettore attraverso lo sguardo di un'altra persona ancora, un individuo che si rivelerà essere nientemeno che l'ispettore Andrew Elliot di Scotland Yard, il quale si è imbattuto nel gruppo per caso e li sta osservando dall'ombra delle colonne romane. Il motivo? Ebbene, se dapprima lo ha fatto per mera curiosità, in seguito la sua mente attenta è stata catturata da una parola sinistra e inquietante: avvelenatore. In uno strano impeto di confidenza, infatti, Marcus ha capito come Marjorie e George abbiano intenzione di fare sul serio e ha rivelato al giovanotto il motivo per cui la sua famiglia si trova in Italia; ovvero, per sfuggire alle malelingue che vedrebbero proprio sua nipote come la responsabile di una serie di avvelenamenti avvenuti nel villaggio da cui loro provengono. A Sodbury Cross, infatti, alcuni cioccolatini di un negozietto sono stati alterati con la stricnina e un bambino ci ha rimesso la vita, e del crimine è sospettata l'unica persona ad aver avuto un contatto con la merce: Marjorie.

Se in un primo momento Harding appare sconcertato, Chesney si affretta a rassicurarlo: non deve aver alcun timore che qualsiasi persona possa accusare qualcuno di loro degli avvelenamenti. Lui, che si vanta di vedere cose che le altre persone trascurano per pigrizia e svogliatezza, ha un'idea di come debbano essere andate le cose nella faccenda dei cioccolatini: nessuno della famiglia è colpevole, e intende dimostrare quanto prima la propria teoria. Per questo motivo (e per il fatto che George si comporti in modo molto arrendevole nei suoi confronti), Marcus ha accettato di includere George nella famiglia e lo invita a riaccompagnarli in patria, per assistere a una rappresentazione della tesi che ha elaborato. Eppure, le cose non si risolveranno in modo tanto semplice. Dopo aver lasciato Pompei, i Chesney e l'ispettore Elliot si separano... per poi incontrarsi di nuovo proprio a Sodbury Cross, dove il poliziotto viene inviato per indagare sugli avvelenamenti. Ma non è tutto qui: infatti, la notte stessa in cui quest'ultimo giunge alla stazione di polizia, un allarmato Joe Chesney telefona in centrale per annunciare come il fratello sia stato ucciso davanti agli occhi di numerosi testimoni, proprio nel corso della famosa rappresentazione che doveva svelare il metodo attraverso il quale il misterioso avvelenatore avrebbe messo in pratica il proprio piano. E a coronare il tutto, il delitto è stato accuratamente registrato da una telecamera. Questo dovrebbe semplificare le cose, giusto? E invece le testimonianze degli spettatori della recita non coincidono, si confondono, ingarbugliano un caso che fin dall'inizio si presenta insolitamente caotico. Marcus è stato ucciso perché sapeva troppo? Oppure il movente è un altro? Muovendosi tra i Chesney e i loro amici (ma sono davvero tali?), Elliot dovrà fare del proprio meglio per non perdere la ragione davanti a un'indagine all'apparenza senza alcuna logica. Ma soprattutto starà al dottor Gideon Fell, di soggiorno nella vicina Bath per una cura delle acque, sbrogliare la matassa e trovare un senso logico alle pazzie che si sono verificate a Sodbury Cross e non hanno ancora trovato risposta.

Bolton Abbey, Wharfedale, Stanley Roy Badmin, 20th secolo
John Dickson Carr ha legato per sempre il proprio nome a una serie di caratteristiche stilistiche e formali che si ritrovano spesso all'interno dei suoi gialli. Tra tutte, però, penso che l'importante fulcro attorno a cui ruotano le vicende che egli ha ideato sia l'enigma (pp. 23-34, 44-45, 51-52, 60-65, 69, 88, 90, 93-94, 97, 99-100, 103-108, 121-123, 131-132, 140-147, 157-160, 182-184, 190-192, cap. 20). Forse soltanto Agatha Christie, nel corso della sua carriera e dello scorrere degli anni, si è avvicinata alla grandezza di Carr nella creazione di assassinii originali e strabilianti; eppure, nel suo caso spesso più del mistero "duro e puro" conta un'attenzione ai personaggi e alla psicologia che essi rivelano, la quale influenza l'indagine con ampio margine. L'autore di "Occhiali Neri", invece, ha fatto proprio il caso suscitato dal delitto e lo ha trasformato in una sorta di materia primordiale da plasmare, di volta in volta, per definire la struttura delle sue storie. In parole povere, non sono i personaggi a plasmare il caso investigativo, quanto il caso stesso il punto di partenza da cui poi sviluppare i suoi protagonisti. Gli omicidi di "Occhiali Neri" sono un esempio di questo procedimento: non vediamo mai un processo di scavo profondo nel sentimento e nell'emozione degli attori sulla scena (a parte qualche eccezione), quanto percepiamo questi ultimi come simili a pedine da muovere su di una scacchiera ipotetica in favore di quanto accadrà di lì a poco. I crimini che Carr decide di mettere in scena dentro ai suoi romanzi di mistero sono pianificati con una cura del dettaglio quasi maniacale; ciò che accade davanti agli occhi del lettore non è causale, ma sistematicamente organizzato come i giochi di prestigio di un mago su di un palco. Se un certo individuo farà quella cosa, dietro ci sarà la volontà dell'autore di fargli fare e agire in quel determinato modo, poiché è nella meccanica del delitto che Carr dà il meglio di sé. Meccanica che, tra l'altro, si esprime in "Occhiali Neri" in una duplice forma a dir poco suggestiva: nell'alterazione di alcuni cioccolatini all'interno di un negozio e nella scenografica uccisione di un uomo nientemeno che davanti a un pubblico attento e all'occhio inesorabile di una telecamera. Si tratta di due forme di crimine che giocano su trucchi e spiegazioni logiche, basati su domande e risposte ben precise ma che possono variare e rigirare le carte in tavola più e più volte, e affascinano non solo chi legge saltuariamente un giallo classico, ma pure gli appassionati studiosi e critici del genere, dal momento che pongono quesiti interessanti con risposte tanto inaspettate quanto ragionevoli, simili a cruciverba (non per niente proprio "Occhiali Neri" è stato dedicato a Powys Mathers, ovvero il celebre Torquemada).

Al di là dell'enigma, poi, questo romanzo giallo di Carr assume valore aggiunto per la ragione di cui ho parlato nell'introduzione: affrontare l'indagine non solo da un punto di vista "pratico", con l'investigatore fittizio che interpreta gli indizi e li sistema come in un mosaico per ristabilire l'armonia, ma pure da quello puramente teorico, utilizzando esempi tangibili per sostenere le tesi di Elliot e Fell e trasformare un racconto di finzione in un piccolo compendio della letale arte dell'avvelenatore (cap. 18). Carr, da membro del Detection Club e fervente sostenitore del valore del giallo tradizionale, ha quindi sfruttato la propria conoscenza di criminologia per illustrare al meglio a chi legge quanto i contenuti dei libri gialli siano superficiali soltanto fino a un certo punto: le storie possono essere inventate, ma in giro per il mondo reale sono esistiti e continueranno purtroppo ad esistere biechi individui, decisi ad ottenere ciò che desiderano utilizzando qualsiasi mezzo abbiano a disposizione, lecito o meno che esso sia. Pertanto, non ci stupiamo a ritrovare citati nientemeno che il sinistro H.H. Crippen, al quale l'autore curiosamente conferisce il beneficio del dubbio sul fatto che la morte di Belle Elmore sia stata o meno accidentale; i medici Palmer (che era lieto di offrire da bere agli amici intrugli letali), Pritchard (talmente desideroso di libertà da uccidere moglie e suocera che lo soffocavano troppo), Buchanan (omicida della moglie per mezzo di un mix di morfina e belladonna), Cream (antesignano del serial killer che contò vittime in Canada, America e Inghilterra) e Lamson (assassino del giovane nipote storpio con della torta avvelenata); il sacerdote Richeson che avvelenò la consorte per sposare una ragazza più giovane e ricca; l'artista Wainewright, il quale ammazzò innumerevoli persone per incassare il denaro della loro assicurazione; l'avvocato Armstrong, il quale si offendeva quando gli ospiti rifiutavano le tartine letali che offriva loro; il chimico Hoch che simile a Barbablù si liberò di diverse mogli grazie a una penna stilografica avvelenata; il dentista Waite, reo di aver tentato di ammazzare i suoceri con germi di difterite, tubercolosi, polmonite e influenza; l'inventore Vaquier, che voleva letteralmente la botte(ga) piena e la moglie dell'oste; lo studente di medicina Carlyle Harris. Tutti costoro non solo sono vissuti realmente, ma svolgono la funzione di arricchire il caso dei delitti di Sodbury Cross e ampliare il discorso sul delitto che Carr aveva sempre in mente, quando scriveva. In questo modo, "Occhiali Neri" non è soltanto un magistrale esempio di come si costruisca un mistero credibile e stupefacente, ma anche una sorta di studio sul temibile crimine dell'avvelenamento degno di un trattato di medicina. In una parola, straordinario.

John Dickson Carr, nato nel 1906 e morto nel 1977
L'ingegnosità delle trame e il fascino per "l'impossibile che diventa realtà", oltre che per i trucchi di prestigiatori come quello sopra citato, sono sempre state caratteristiche innate di John Dickson Carr (o Carter Dickson, per usare lo pseudonimo con cui firmò i romanzi con Henry Merrivale), alla pari del concetto di voler "giocare una partita" col suo pubblico ad armi pari. La pretesa del rispetto del fair-play e la scommessa che poneva in ognuno dei suoi numerosi libri (come quella costituita dallo speciale sigillo che è stato messo nella prima edizione di "Il Mostro del Plenilunio", col quale sfidava i lettori a batterlo in astuzia) farebbero pensare che egli fosse nato in Inghilterra, la patria del giallo deduttivo; invece, la città che gli diede i natali fu l'americana 
Uniontown, in Pennsylvania. Laggiù, mentre suo padre aveva felicemente intrapreso la carriera di avvocato e pregustava una futura associazione col figlio, Carr iniziò invece il lungo percorso che lo avrebbe portato a diventare uno dei giallisti più famosi di tutti i tempi: dapprima, dimostrando una memoria formidabile con la recitazione di monologhi tratti da "Amleto", pagine di D'Artagnan, Sherlock Holmes e "Il Mago di Oz"; e poi attraverso la scrittura di racconti, pubblicati sul giornale scolastico dello Haverford College, dove esordì la figura del giudice istruttore Henri Bencolin di Parigi. Nel 1928, lo scarso rendimento scolastico spinse i suoi genitori a compiere la scelta estrema di allontanarlo dagli Stati Uniti in favore della Francia, dove avrebbe dovuto studiare alla Sorbonne. Il posto, tuttavia, non si addiceva a un giovane dalle idee conservatorie come lui e la vita da bohémien trovò una ferma opposizione da parte sua; eppure, l'ambiente si mostrò favorevole per dare il tocco finale al romanzo che stava scrivendo. Fu così che nacque "Il Mostro del Plenilunio", la versione ampliata e rivista di un lungo racconto che Carr aveva scritto ai tempi della scuola americana, "Grand Guignol", proprio con Bencolin quale personaggio principale. Il modesto successo che arrise al suo protagonista, rispetto ai successivi Fell e Merrivale, per qualche tempo costrinse Carr a tornare in America dai genitori; finché, nel 1930, durante una crociera, incontrò Clarice Cleaves, una ragazza di Bristol che poco dopo sarebbe diventata sua moglie. È curioso come proprio "Il Mostro del Plenilunio" sia stato il tramite attraverso cui Carr e Clarice iniziarono a scambiarsi le prime confidenze: in "The Golden Age of Murder", infatti, Martin Edwards ha spiegato che, in seguito al loro primo incontro nella sala del parrucchiere di bordo, i due futuri sposi trascorsero una serata a ballare e chiacchierare del più e del meno, finché Carr non accennò al fatto che aveva scritto una detective novel e chiese a Clarice se le avrebbe fatto piacere leggerla. In realtà, la ragazza non nutriva un particolare interesse in indagini e assassini fittizi; eppure, non ebbe cuore di deludere le evidenti aspettative del suo nuovo amico ed accettò di dargli un responso su quel libro. In quel modo, tra i due scoccò la scintilla ed entro un paio d'anni si trasferirono definitivamente in Inghilterra, dove la novella signora Carr intendeva far nascere le sue figlie. Anche suo marito (che nel frattempo aveva deciso di abbandonare Bencolin in favore di altri due personaggi molto simili tra loro, il dottor Gideon Fell e l'avvocato Henry Merrivale) fu entusiasta della scelta: dopotutto, era la patria dei suoi idoli d'infanzia, Chesterton e Doyle (del quale in seguito fu co-autore della biografia ufficiale), e sembrava che laggiù fosse il posto ideale per scrivere gialli sullo stile tradizionale; senza contare il fatto che la Storia dell'Europa cui poteva attingere avrebbe fornito molto materiale per il tipo di libri che intendeva scrivere.

Un'altra caratteristica dell'opera di Carr, infatti, è quella di affondare le proprie radici in miti e leggende molto antiche: ne sono un esempio le numerose citazioni che possiamo trovare all'interno di romanzi come "Il Terrore che Mormora", la cui trama ruota sul vampirismo, oppure dello stesso "Il Mostro del Plenilunio". Qui sono i lupi mannari, le bestie assetate di sangue e capaci di trasformarsi in uomini e donne pur mantenendo la loro anima selvaggia, ad occupare la trama e a fornire la base per i misteri del libro. Si tratta di argomenti che, proprio grazie alla loro aura di velato soprannaturale, si prestano ad essere interpretati e sfruttati in modo da fornire al lettore una base relativamente reale per un delitto immaginario, e che permisero a Carr di dare sfogo a un'insaziabile sete di ricerca storica. Questa passione emerge dalla lettura di alcuni romanzi giallo-storici, come "La Sposa di Newgate", "Il Diavolo Vestito di Velluto" e "La Corte delle Streghe" (uno dei suoi capolavori) e viene spesso incarnata dai personaggi dei suoi gialli. Tuttavia, fu il Delitto l'argomento a cui Carr si sentì più legato; tanto che i suoi detective soffrirono di una vera e propria ossessione nei confronti della Storia del Crimine: Bencolin, Merrivale e Fell, infatti, di volta in volta si fecero portavoce dei pensieri dell'autore, attraverso semplici citazioni (pure di casi reali, come avviene proprio in "Occhiali Neri", pp. 32, 76-77, 113, 152, 195, 197, 201, 262, 263) ma anche con l'utilizzo di piccole "conferenze" sull'omicidio e la sua applicazione nei romanzi del mistero. Oltre agli avvelenatori celebri sopra citati, si possono aggiungere Edith Thompson e Frederick Bywaters che cospirarono per eliminare il marito di lei pur fallendo nel loro piano diabolico, e il celebre caso di Christiana Edmunds il quale vede proprio l'utilizzo di cioccolatini avvelenati come mezzo di eliminazione di massa e fu di ispirazione dieci anni prima per "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" di Anthony Berkeley.

"Occhiali Neri" presenta pure un'altra caratteristica tipica della narrativa di Carr: l'atmosfera. Come era già accaduto in "Carte in Tavola" di Agatha Christie e nelle sue opere precedenti, ci troviamo di fronte a una narrazione molto cupa, quasi come se stessimo camminando dentro un incubo ad occhi aperti, dal quale ci è impossibile svegliarci (pp. 7-9, 20, 22, 38-41, 54-57, 59-60, 74-75, 81-83, 95-96, 162-163, 177-184, 187-190, 210-211, 243-247). Spesso l'ambientazione è notturna (gran parte dell'indagine sul delitto si svolge la notte stessa in cui esso si verifica), ma non mancano giornate uggiose dove la pioggia batte sui vetri delle finestre, e pomeriggi di sole nei quali niente farebbe presagire che qualcosa di terribile si stia per verificare; eppure, come recita l'adagio pronunciato dal sacerdote Stephen Lane in "Corpi al Sole", il male si annida pure sotto i caldi raggi della stella che ci illumina e riscalda. Pertanto, veniamo ingannati da questa finta aria di tranquilla quiete a Pompei, mentre i personaggi discutono di avvelenatori seriali, e nel giardino di Bellegarde dove si spande l'odore delle pesche e delle mandorle amare (pp. 23-24, 37-38, 41, 67-69, 102, 118, 127-128, 153-154, 200, 223, 238). Ma non è finita qui. "Occhiali Neri" è un giallo che riveste una certa importanza non solo sotto gli aspetti formali discussi qui sopra, ma anche nei temi in esso trattati. Soprattutto, è centrale la questione sulla validità dei testimoni (cap. 7). Quante volte ci siamo imbattuti, in un classico mystery della Golden Age, su teste indecisi e su prove e dimostrazioni che potrebbero rivelarsi fallaci? Ecco, nel suo romanzo Carr smaschera quanto ci si possa sbagliare nel valutare una faccenda nonostante siamo convinti della nostra percezione sensoriale. Non solo Marcus Chesney, ma pure Fell è scettico nel ritenere valida una testimonianza non suffragata da indizi concreti: sostengono entrambi che tutti noi portiamo dei metaforici occhiali neri, simili a paraocchi, i quali ci impediscono di renderci pienamente conto di quanto ci accade intorno. Io sono del tutto d'accordo, tra l'altro. Quello che importa, tuttavia, è il modo attraverso cui Carr dimostra la sua tesi: se Anthony Berkeley aveva messo alla berlina la possibilità per l'autore di stravolgere a piacimento una trama solo inserendo nuovi indizi in "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati", in "Occhiali Neri" il Maestro del delitto della camera chiusa evidenzia la nostra innata cecità di fondo, peggiorata da chi ci inganna volutamente.

La storia è incentrata sulla percezione che i personaggi (e il lettore) avvertono, sul punto di vista che decidono di adottare e sulla direzione che inevitabilmente si rivela erronea o comunque viziata da abbagli; proprio come in "Carte in Tavola", ci accorgiamo della verità sottoposta al nostro sguardo quando essa ci viene svelata. E non serve proprio a nulla possedere una prova video, poiché anche quella può essere manipolata: mai il detto "vedere per credere" è parso tanto errato. Ciò che dovrebbe dirimere i dubbi, scacciare le ombre, mettere i fatti nero su bianco (oppure a colori, se si tratta di una ripresa più recente), sottoporre al nostro sguardo inquisitorio ciò che è accaduto, in realtà confonde ancora di più le acque, genera nuovi sospetti (perché Tizio ha mentito? Come mai invece Caio ha detto la verità, dal momento che sarebbe il nostro indiziato numero uno?), ingarbuglia la matassa in un moderno Nodo Gordiano dove i lacci sono i ricordi differenti che i vari sospettati presentano alle forze dell'ordine. A chi credere? In fondo, i protagonisti delle storie di Carr sono individui turbati, non solo dal punto di vista mentale (gli assassini), ma anche da quello emozionale: tralasciando il risvolto sentimentale tra Elliot e Marjorie, il quale è un'aggiunta alla storia (pp. 128-129, 134-135, 164, 168-169, 174, 277), essi non suscitano la nostra fiducia a causa di comportamenti ambigui, di azioni melodrammatiche e teatrali che ci fanno pensare "questi stanno fingendo" pure nel momento in cui agiscono secondo la propria particolare natura. Se Marcus si mostra desideroso di stuzzicare un assassino, non vuol necessariamente dire che sia a sua volta un omicida; se Joe Chesney punta una pistola alla tempia a qualcuno forse non lo fa apposta; se Marjorie vuole comprare del cianuro magari lo impiegherà per sviluppare alcune fotografie; se George Harding lavora in un laboratorio chimico non è detto senta l'impulso irreprimibile di sottrarre qualche dose di veleno per scopi delittuosi; se il professor Ingram è appassionato di psicologia criminale, non è detto sia lui stesso un caso clinico. Eppure, il sospetto sorge spontaneo e chi legge non riesce a concedere fiducia con facilità, acuendo i dubbi di premessa dell'enigma. Si tratta di una faccenda di caratura non indifferente, soprattutto dentro a un romanzo giallo come "Occhiali Neri", il quale non è certo facile da interpretare nel modo corretto vista l'abilità del suo autore nel depistare chi legge. Da parte mia, non posso fare altro che ribadire quanto questo libro sia assolutamente strabiliante; forse per alcuni appare un po' troppo centrato sul mistero, con la conseguenza di tralasciare lo studio della psicologia come accaduto in Blake, ma resta una prova incredibile dell'abilità di Carr nel dare vita a racconti entusiasmanti e che meriterebbero di essere senza dubbio più conosciuti.

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venerdì 21 maggio 2021

72 - "La Belva Deve Morire" ("The Beast Must Die", 1938) di Nicholas Blake

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Esistono libri che segnano la storia della letteratura, se non addirittura la Storia con la S maiuscola (tipo la Bibbia di Gutenberg, "L'Interpretazione dei Sogni" di Freud e "Il Capitale" di Marx). Si tratta di opere che, grazie alla forza dirompente delle loro parole (che non sono meno potenti delle intenzioni, come qualche cretino vorrebbe farci credere) e degli argomenti che magari hanno il coraggio di affrontare sotto un nuovo punto di vista, danno come una scossa alle menti dei lettori, gettano benzina su convinzioni nebulose per conferire loro consistenza, irrompono nella vita di tutti i giorni con i loro insegnamenti oppure illuminano e indicano nuove strade per esplorare quella Terra di Nessuno che è il cervello umano, tanto prezioso quanto semisconosciuto. Ora, siccome Three-a-Penny è un blog dedicato alla classica crime story, per introdurre la recensione di oggi non mi dilungherò troppo sul generale, ma mi concentrerò sul particolare e su alcuni titoli che si possono considerare a ragione come veri e proprio outsider. Ad esempio, "Il Mistero della Camera Gialla" di Gaston Leroux è stato uno tra i primi romanzi del mistero a presentare un delitto avvenuto in una stanza chiusa dall'interno. Prima di allora (era il 1907) c'era stato Poe con "I Delitti della Rue Morgue" a fare un tentativo in tal senso, ma finì per scrivere un racconto e non una storia articolata. Pertanto, Leroux ha avuto la brillante idea di estendere questo lampo di genio dello scrittore americano e ha consegnato ai lettori qualcosa di mai visto prima: un crimine il cui colpevole non esiste (almeno in apparenza), dal momento che non si può essere trovato sul luogo della tragedia. Allo stesso modo, E.C. Bentley ha introdotto una grossa innovazione scrivendo "La Vedova del Miliardario" nel 1913, tracciando una sorta di modello a cui si sarebbero ispirati moltissimi tra i suoi colleghi del Detection Club: la casa di campagna, l'investigatore che deve sentire i testimoni racchiusi in una cerchia ristretta di persone, l'uso dell'atmosfera per caricare il racconto di tensione... Richard Austin Freeman, poi, con il personaggio del dottor Evelyn Thorndyke ha inaugurato il giallo scientifico, dove contano le prove di laboratorio, gli indizi sul campo e la logica per trovare un assassino, senza scomodare la psicologia; mentre Francis Iles ha compiuto esattamente il percorso inverso con "L'Omicidio è un Affare Serio" e il calare il lettore dentro la testa del criminale.

Tutti questi romanzi, pertanto, hanno dato uno scossone non da poco alle convenzioni che volevano il giallo come una sorta di mero cruciverba, in grado di distrarre senza spendere troppe energie. Ed è stata una cosa molto buona; ma da un certo punto la faccenda è cambiata ancora e un'altra rivoluzione è giunta a scardinare le certezze del genere mystery. Infatti, alcuni autori hanno iniziato a veicolare messaggi importanti attraverso un tipo di letteratura "commerciale" come quella del giallo, innalzando questi libri alla pari con opere più pretenziose: così non solo ci si ritrovava a scorgere usi e costumi dell'epoca, ma pure convinzioni e cambiamenti che stavano avvenendo dentro alla società. E in molti hanno fatto tutto ciò attingendo dal passato e dando vita a una crime novel che mette insieme logica e psicologia, praticità e riflessione, creando opere senza tempo che resistono ancora oggi. Ad esempio, "Assassinio sull'Orient-Express" di Agatha Christie è ancora in vetta alle classifiche di tutto il mondo perché racconta una storia dove esiste un caso "tangibile", con tanto di indizi, ma pure mette in discussione il senso di giustizia. Cosa è Bene e cosa è Male? Questo è il punto cruciale del successo del romanzo. Stessa cosa per l'opera di Dorothy L. Sayers, la quale riesce ad andare molto più in profondità di qualsiasi altra nel declinare innumerevoli temi, trattandoli con serietà e rispetto. Oppure ancora certi gialli di John Dickson Carr, come "Le Tre Bare" e "Il Terrore che Mormora" che suscitano dibattiti accesi, oltre a presentare enigmi di prim'ordine. In questo numero di giallisti e di titoli immortali io personalmente aggiungo pure Nicholas Blake assieme alla sua opera. Blake è stato una delle stelle più fulgide del giallo di seconda generazione all'interno del Detection Club, assieme a Edmund Crispin, Michael Innes e Christianna Brand: nelle sue trame non sono mancate indagini improntate sulla raccolta di indizi tangibili, ma allo stesso tempo la ricerca della verità attraverso lo studio del comportamento umano ha avuto un enorme sviluppo, portando all'evoluzione di alcuni concetti considerati immutabili. Dilemmi morali e questioni esistenziali non sono mancate all'interno dei suoi gialli (basti pensare a "Quando l'Amore Uccide" che ho già recensito), e oggi voglio ribadire questo concetto presentandovi quello che viene considerato come il suo mystery più celebre e acclamato: "La Belva Deve Morire" (Polillo Editore, 2002), una storia di dramma, tormento, disperazione, vendetta, rancore e giustizia che trova pari esempio in pochissime altre occasioni e mostra fin dove ci si può spingere nell'innovare un genere letterario.

A Lane near Arles, Vincent van Gogh, 1888
Il racconto si apre con un breve quanto lapidario paragrafo: "Ho deciso di uccidere un uomo. Non so chi sia né dove viva, non ho idea di che aspetto abbia. Ma lo troverò e lo ucciderò". Molto melodrammatico, vero? D'altronde, a parlare in prima persona è uno scrittore di romanzi gialli, Frank Cairnes, il quale sta scrivendo un diario sotto lo pseudonimo di Felix Lane che funzioni come "complice muto" del proposito criminale che si è prefisso di assolvere: trovare l'autista dell'automobile che ha investito e ucciso il suo piccolo Martie e ripagarlo della stessa moneta, poiché la polizia è arrivata a un punto morto. Eppure Felix sembra preda di una sorta di disarmante avvilimento: nonostante voglia riuscire nel proprio compito, non ha la più pallida idea di come fare per portarlo a termine e la sua coscienza ogni tanto fa capolino per metterlo in guardia. Oltretutto, i pochi rapporti che ha deciso di mantenere lo inducono a trovare conforto nel prossimo; ma Lane è deciso: non riuscirà a vivere se prima non avrà giustiziato l'assassino di suo figlio e riversa il suo odio sulla carta, per poter ragionare con lucidità maggiore. E se all'inizio le cose non promettono molto bene, al punto di indurlo quasi a rinunciare per la sfiducia, ben presto alcuni dettagli sulla figura del misterioso omicida iniziano ad emergere. Durante un viaggio in macchina, infatti, Felix si imbatte in una fattoria molto isolata dove viene a sapere che un certo autista è finito in una gora d'acqua proprio nel periodo cruciale della tragedia occorsa a Martie. Perché lavare di proposito un parafango, se non ci fosse stata dietro una coscienza sporca? Nell'auto si trovavano due persone: un omone volgare che continuava a blaterare e una ragazza che aveva tutta l'aria di essere sull'orlo di una crisi di nervi. Per una coincidenza fortuita, costei è un'attrice conosciuta in Inghilterra, Lena Lawson, e Felix riesce ad ottenere un incontro con lei con la scusa di raccogliere materiale per un suo prossimo libro. La ragazza è molto bella, anche se un po' vanesia e superficiale, e pare abbia avuto un forte esaurimento nervoso qualche tempo prima: forse a causa del trauma di un investimento? Da questo punto in poi, Lane inizia a ricostruire il passato della giovane e si rende conto di come i tasselli vadano pian piano al loro posto: c'è addirittura un certo George Rattery che compare di sfuggita nei suoi discorsi e che viene subito scacciato, come se fosse un orrendo ricordo...

Felix Lane ormai è certo che il suo uomo (e vittima designata) sia Rattery; per cui, con una scusa, si fa presentare alla sua famiglia da Lena e inizia a sondare il terreno per capire se i suoi sospetti siano fondati o meno. Al di là di questo discorso, comunque, George si rivela essere un uomo terribile: alza la voce e le mani con la moglie Violer e con il figlioletto Phil, asseconda le idee antiquate e rivoltanti della madre Ethel che governa la casa a proprio piacimento, flirta con la signora Rhoda Carfax, la moglie del socio in affari con cui gestisce un'officina per automobili. E poi assume comportamenti egocentrici e pretende di essere l'unico in grado di sapere come stare al mondo. Felix ha deciso che, anche se non fosse l'uomo che sta cercando, l'assassino del suo piccolo Martie, Rattery deve scomparire dalla faccia della terra per non rischiare di influenzare negativamente Phil e portarlo alla pazzia. Però le cose sono più facili a dirsi che a farsi: come ha insegnato il mite dottor Bickleigh di "L'Omicidio è un Affare Serio", non è semplice ideare un delitto e poi farla franca. Servono doti particolari quali sangue freddo, un cervello capace di prevedere le mosse degli investigatori, essere in grado di dimostrare di non poter essere sospettabili. Felix possiede tutto ciò? A quanto pare è così poiché, nonostante un tentativo andato a vuoto, adesso ha trovato il modo giusto per sbarazzarsi di George Rattery: un finto incidente in barca, dal momento che l'altro non sa nuotare. Così arriva il gran giorno, tutto è pronto fin nei minimi dettagli... Quando all'improvviso il Fato decide di metterci lo zampino ancora una volta: dopo aver favorito Lane, ora pare ostacolarlo. Ma le cose non sono così semplici e ci saranno ancora tanti colpi di scena, prima della scoperta della verità sul caso raccontato in "La Belva Deve Morire". Perché ci sarà davvero un delitto, ma non certo come il lettore si aspetterebbe; e nemmeno Nigel Strangeways, convocato d'urgenza da Felix per un aiuto disperato, assieme alla moglie Georgia. Il racconto, da psicologico puro, si trasforma in un misto affascinante che saprà catturare il lettore e non gli permetterà di chiudere il libro. "La belva deve morire" recita il titolo: chissà se le cose andranno davvero in questo senso.

Two Figures in a Boat, Eric Ravilious, c.1930s
Mi fermo a questo punto nel delineare la trama per non rischiare di rovinarvi la lettura, dal momento che le scoperte che verranno in seguito saranno a dir poco sorprendenti. Tengo comunque a dirvi fin da subito che "La Belva Deve Morire" è proprio il tipo di giallo che oserei definire perfetto. Ogni cosa al suo interno è stata calcolata nei minimi dettagli, gli equilibri dosati da una parte e dall'altra per non sbilanciare un aspetto rispetto a un altro, i temi sono stati approfonditi, sviscerati, analizzati e restituiti al lettore con una forza strabiliante. Insomma, ha letteralmente tutto ciò che uno può chiedere a un autore perché soddisfi i propri desideri. Quello che più si nota leggendo questo romanzo, però, è che Blake vi ha infuso un'attenzione particolare nel trattare la psicologia dei personaggi, compiendo un grosso passo in avanti nella trattazione del senso di ciò che è giusto o sbagliato e quello di colpevolezza, proprio di un criminale. Con Felix, ci troviamo di fronte non solo a uno scrittore di mysteries fin troppo deciso a farsi giustizia da sé, caratterizzato in profondità e le cui caratteristiche mentali vengono continuamente sottoposte al giudizio del lettore, ma pure a una serie di sospettati di un delitto la cui personalità ci viene svelata pian piano, in un crescendo di tensione ed atmosfera a dir poco suggestiva. Dapprima facciamo il nostro incontro con quest'uomo distrutto dall'assassinio del figlioletto, con la vita spezzata e mai più sanabile: grazie al suo diario, riusciamo ad entrare nella sua mente, ad aggirarci tra le macerie che la popolano e agli spettri che la infestano tipo una casa stregata, e scopriamo come non sia quello che viene definito di solito "un assassino nato", quanto piuttosto un individuo portato all'esasperazione (non alla pazzia, sia chiaro, poiché ragiona con una lucidità distorta solo in parte) e che non ha più nulla da perdere. Quello che ci viene descritto è ormai un essere umano finito, straziato nell'animo, incapace di far fronte alla prova alla quale è stato sottoposto. Attraverso le sue stesse parole, veniamo a sapere come il dolore sia diventato talmente forte, per lui, da trasformarsi in cibo di cui nutrirsi, carbone che alimenti la sua sete di vendetta, l'unica cosa che gli resta. E in tutto questo, sembra che Felix Lane stia compiendo una sorta di analisi di Frank Cairnes, come se volesse tentare di comprendere il "se stesso" che fa capolino tra le righe. Credo sia uno dei ritratti più terrificanti e straordinari di assassino (presunto o meno, si scoprirà più avanti) che abbia mai ritrovato in un giallo, poiché non solo riusciamo a percepire i lati più oscuri del suo cuore e della sua mente, ma pure le debolezze a cui va incontro. La sua coscienza, così debole quanto la fiammella di una candela agitata dal vento, sembra sempre lì lì per estinguersi e far diventare Felix un criminale; eppure, resiste tenace contro i soffi malvagi che vogliono soffocarla (pp. 11-13, 18, 20-22, 25, 29, 33, 36-39, 41-42, 44-47, 53, 55-62, 64-69, 73, 75-76, 79-81, 84-86, 88-89, 91, 93-100, 102, 104, 108-109, 112-113, 119-123, 133-134, 136-137, 165-167, 208, 212-213, 253).

Il diario di Felix, tuttavia, non si limita a mostrarci come sia fatto il suo proprietario, cosa pensi, come intenda agire per vendicarsi, quali terribili piani stia facendo contro l'assassino del figlio; attraverso i ritratti che delinea Lane, ci facciamo un'idea ben precisa delle altre persone in cui egli si imbatte e che saranno poi parte integrale dell'indagine successiva. Da fine psicologo e conoscitore della natura umana, egli ci permette di fare il nostro incontro con Lena Lawson, questa attrice un po' sciocca ma decisa, descritta come volgare e appassionata amante in un primo momento, poi come leale amica e confidente. Assistiamo alla sua graduale evoluzione, all'attaccamento sincero che sviluppa verso Felix, ai suoi timori che lui possa considerarla simile a una donna di facili costumi, all'insicurezza nascosta sotto gli atteggiamenti impostati dell'attrice di professione. Anche lei, allo stesso modo del suo amato "Micetto", è sensibile e capisce che c'è qualcosa che non va in Lane, però non riesce ad essergli d'aiuto. Felix lascia emergere il suo lato più frivolo dal racconto, nonostante mostri la preoccupazione di Lena quando si rende conto di come lui la stia allontanando pian piano, mentre si avvicina il momento in cui dovrà mettere in atto il proprio progetto criminoso. Sarà poi in seguito, quando Lane lascerà il posto di narratore, che avremmo un quadro completo della ragazza, molto più benevolo di quello che era stato fin lì tratteggiato. Invece quello di George Rattery si dimostrerà ampiamente negativo: non solo da ciò che emerge dalle parole di Felix, le quali lo descrivono come un rozzo ignorante capace di tormentare il prossimo e abusare di quanti gli stanno intorno, ma pure dal racconto in terza persona che viene fatto in seguito. Rattery incarna allo stesso tempo l'assassino e la vittima ideali, mostrandoci ancora una volta come tutti quanti noi siamo duplici: tanto è spietato, crudele, spregevole, insolente, prepotente quando assume il ruolo del capofamiglia e del vessatore, quanto per queste stesse caratteristiche la preda ideale di un Fato giudizioso e benevolo che dovrebbe toglierlo di mezzo per fare un favore al resto del mondo. Un ritratto altrettanto dettagliato viene fatto per gli altri componenti della famiglia Rattery: la vecchia Ethel, la "matrona romana" che spadroneggia in casa e ritiene giustificato il delitto d'onore, pronta a servirsi di mezzucci e ricatti per ottenere ciò che vuole e spietata addirittura con Phil, ma indifesa e isolata; Violet con il figlio Phil, prede di individui più determinati di loro, costretti a sopportare le angherie e a una sottomissione totale, mentre covano nel proprio cuore il risentimento e l'odio senza sfoghi. Per non parlare dei Carfax, gli amici e vicini di casa che risultano la coppia meno ben assortita ma tutto sommato soddisfatta. Possono nascondere segreti l'uno all'altra, possono essere bugiardi oppure mistificatori, ma assassini? Questa è una domanda a cui Nigel Strangeways dovrà rispondere. Questo studio della psicologia dei personaggi, pertanto, costituisce il perno attorno a cui si sviluppa "La Belva Deve Morire" ed è una sorta di sorgente dalla quale la trama stessa trae vigore, poiché è dal disvelamento di nuovi aspetti caratteriali dei protagonisti che nascono piste da seguire, capovolgimenti e sorprendenti svolte nel racconto. Poche volte prima di questo caso si era verificato qualcosa di simile.

Cecil Day-Lewis, alias Nicholas Blake, nato
nel 1904 e morto nel 1972
Una tra le cose più sconcertanti di tutto quello che riguarda Felix, tuttavia, è il fatto che egli sia una sorta di autoritratto (pp. 14-15, 22, 23) di Cecil Day-Lewis, l'uomo che si nascondeva dietro lo pseudonimo di Nicholas Blake. Poeta Laureato, amico di W.H. Auden, esperto critico, elogiato da Churchill e da Lawrence d'Arabia, nonché padre dell'attore Daniel Day-Lewis, Day-Lewis nacque nel 1904 a Ballintubbert, in Irlanda, ma si trasferì ben presto in Inghilterra, dove venne educato in alcune delle più prestigiose scuole del Regno Unito. Dopo la pubblicazione di una prima raccolta di poesie e la laurea a Oxford nel 1925, egli si sposò con Constance Mary King e iniziò ad insegnare in alcune scuole, trovando tuttavia una certa ostilità a causa della sua adesione al comunismo. Nel 1935, volendo integrare i magri guadagni che gli procacciava la sua produzione poetica, Day-Lewis decise di intraprendere la carriera di scrittore e pubblicò il suo primo mystery, "Questione di Prove", adottano lo pseudonimo di Nicholas Blake. Il romanzo, che ottenne l'elogio della critica ma gli costò anche il posto di lavoro come insegnante (il caso è incentrato su una relazione adulterina tra la moglie del preside e un insegnante), introdusse il personaggio di Nigel Strangeways, l'immagine fittizia di Auden a cui vennero affiancati i tratti peculiari dell'investigatore dilettante: la passione per la citazione (innumerevoli all'interno dei suoi romanzi) e per la declamazione di poesie ad alta voce, l'intelligenza, la cultura, un certo fascino e buone maniere. Prima della morte, avvenuta nel 1972 mentre si trovava ospite dell'amico Kingsley Amis, Day-Lewis usò il suo nom de plume per produrre altri diciannove gialli (tra cui vanno ricordati "La Belva Deve Morire", ispirato da un incidente quasi mortale occorso al figlio e da cui è stato tratto un film diretto da Claude Chabrol, "Le Pentole del Diavolo", "La Testa di Creta" e "Una Lama nel Cuore"), quasi tutti con protagonista Strangeways (il quale compie nel corso della sua esistenza un'evoluzione complicata quanto quella del suo stesso creatore), sostenendo spesso che essi servissero per sovvenzionare le spese della sua famiglia che, nel frattempo, era cambiata molte volte: a partire dagli anni '40, infatti, Day-Lewis divorziò dalla moglie e intraprese una lunga serie di relazioni con altre donne più giovani. Anche Dorothy L. Sayers ed Anthony Berkeley insistettero ad affermare come le loro crime novels fossero un semplice riempitivo per guadagnare soldi facili; il mio modesto parere è che, se davvero fosse stato così, non ci avrebbero mai messo tanto cuore ed anima nel crearli. Tutti e tre, infatti, non studiarono trame insipide e semplicistiche, ma si impegnarono ad innovare il genere, e Blake lo fece soprattutto con lo sviluppo della psicologia emotiva e l'introduzione di quesiti complessi ed intriganti.

Un esempio a sostegno di questa argomentazione è costituito proprio da "La Belva Deve Morire", il quale (come abbiamo visto) riesce a fondere molti aspetti contrastanti della classica crime story. Non solo dal punto di vista della psicologia del personaggi, i quali vengono esaminati come attraverso una lente d'ingrandimento sotto l'aspetto emotivo, ma pure in numerose altre declinazioni possiamo riscontrare l'originalità di Blake nell'approccio al giallo e la sua intenzione nel voler creare opere originali nelle trattazione dei temi e nella composizione stilistica. La trama stessa e l'enigma, che si sviluppano proprio a partire dai risvolti che gli stessi protagonisti mettono in moto, mescolano riflessione e azione e sono centrali nella costruzione del risultato finale: la loro complessità alimenta la curiosità del lettore in modo straordinario, generano equivoci e danno vita a colpi di scena inaspettati poiché improvvisi e governati da un Fato che spesso, nell'opera dell'autore, è beffardo, ironico nella sua malvagità. Spesso mi è capitato di leggere qualche thriller contemporaneo e ho riscontrato come l'ossessione per la costruzione dei personaggi spesso porti a trascurare lo sviluppo della storia; ecco, bisognerebbe prendere esempio da Blake il quale riesce a portare avanti di pari passo entrambi questi aspetti, con equilibrio e soprattutto in modo egregio e diverso. Infatti, basta dare un'occhiata alla struttura del racconto: all'inizio abbiamo un diario che ci permette di avanzare lungo la linea temporale e, allo stesso tempo, di iniziare a comprendere le personalità degli attori sulla scena; poi, cambiando registro, Felix e gli altri personaggi ci vengono mostrati da un punto di vista impersonale; ancora, passiamo a osservare le vicende attraverso gli occhi di Nigel Strangeways, il quale getta una nuova luce su quanto credevamo di conoscere; infine, attraverso note e articoli di giornale, Blake corona il tutto tornando all'impersonalità (o quasi). Tutto ciò è assolutamente sorprendente, poiché permette a chi legge di farsi un'idea a 360 gradi delle personalità e del mondo all'interno di "La Belva Deve Morire": a un certo punto tutto diventa familiare, entriamo in sintonia con gli attori e comprendiamo i loro stati d'animo.

A questa divisione tra una prima parte forte dal punto di vista emotivo e le altre, dove invece lo stile è più impersonale e l'indagine assume una forza tradizionale pur giocando sull'uso della psicologia come punto di partenza per la raccolta di prove tangibili, si aggiunge poi la cupezza dei toni del racconto. "La Belva Deve Morire", allo stesso modo di "Quando l'Amore Uccide", non racconta una vicenda dai contorni frivoli oppure "leggeri" come accade in altri frangenti dentro la classica crime story britannica: qui ci troviamo di fronte a una tragedia umana, che parte fin dalle prime righe con un ritmo serrato e che pone enfasi sulla tristezza dei destini di Martie e di Felix. Se nel caso che coinvolse l'aviatore Fergus O'Brien, quest'ultimo assumeva atteggiamenti cinici verso le minacce di morte che gli venivano rivolte e nella conclusione rivelava quanto la sua esistenza fosse stata caratterizzata da rancori e odii radicati, allo stesso modo Felix Lane ci annuncia subito di essere un potenziale assassino senza scrupoli o riserve, deciso a farsi giustizia da sé e incurante delle conseguenze del proprio gesto. Come due facce di una stessa medaglia, due specchi che riflettono l'uno con l'altro, questi personaggi non aspirano a una forma di redenzione o di riscatto, non agiscono per un fine che appaia nobile ai loro occhi: fanno semplicemente quello che devono per una sorta di senso dell'onore distorto. Anzi, meglio ancora: compiono determinate azioni per ottenere ciò che spetta loro e il Fato ha negato. "Vendetta, il boccone più dolce che sia mai stato cucinato all'inferno" scrisse una volta Walter Scott; ebbene, Felix si ciba in gran quantità di questo piatto in "La Belva Deve Morire". Nutre questo sentimento terribile con gli abusi domestici di cui sono vittime Violet e Phil Rattery, con i flirt di George con Lena e Rhoda, con il ricordo ossessivo della sorte di Martie e i cocci della propria vita. Questo romanzo (come gran parte dell'opera di Blake) non è di facile comprensione dal punto di vista dei contenuti: il rancore, l'odio radicato nel profondo, la vendetta emergono in continuazione, mescolati con la natura meschina (ma sarà davvero così?) del protagonista che non esita a servirsi di qualsiasi mezzo per raggiungere il proprio fine; addirittura ingannando i sentimenti di Lena e la fiducia degli amici come il generale Shrivenham. Nonostante la presenza di toni quasi troppo enfatici soprattutto nella parte del racconto dedicato al diario, c'è un incredibile senso di realtà al fondo di "La Belva Deve Morire": ciò che conduce Lane non è uno scherzo oppure una facezia tipica di un giallo dell'inizio del Novecento, ma un gioco molto pericoloso che può vedere il suo trionfo come la propria caduta inesorabile.

Pertanto, questo giallo dipinge una situazione che potrebbe benissimo rispecchiare la realtà dei fatti, seguendo l'esempio che già in precedenza Dorothy L. Sayers aveva indicato come modello. E lo fa sfruttando non solo uno stile ricercato, complesso, melodrammatico nei toni e carico di una forte corrente di sensibile coinvolgimento interiore, il quale rivisita la poesia classica di Terenzio, Catullo, Ovidio e altri grandi autori più o meno classici (vengono citati Coventry Patmore, poeta ottocentesco, la "Ballata di Lord Randall" e "Vier ernste Gesänge" op. 121 di Brahms, pp. 17, 47, 49, 51, 53, 86, 119, 130, 134-135, 156, 160, 165, 170, 172, 185-186, 230, 232, 247, 253, 266); Blake decide di trattare temi seri e importanti come il senso di giustizia (pp. 11-13, 18, 30-31, 64, 87-89, 257), di coscienza criminale e di riflessione sul delitto (pp. 9-10, 19, 25-28, 31-38, 44, 54, 63, 70-71, 77-78, 81, 92-93, 103, 141-143, 149-150, 152-154, 160-164, 167-168, 195-199, 248-255). Quando una persona è giustificata nel commettere un omicidio? Cosa sono il Bene e il Male, di fronte alla cattiveria innata dell'uomo? Esiste il delitto "buono", quello che permette di liberare alcune vittime dalle angherie di un aguzzino altrimenti intoccabile? Può un assassino essere capace di convivere con la propria colpa, se questa è in qualche modo legittimata? E chi decide tutto ciò? L'autore si interroga su tutti questi quesiti e ci presenta la sua visione delle cose, senza banalizzare. Dimostra come la giustizia sia qualcosa che sta al di sopra dell'essere umano: nessuno di noi può esercitarla oppure governarla fino in fondo, poiché nonostante i nostri piani dettagliati può sempre accadere una coincidenza a scombinare la faccenda. Questo concetto è insondabile; come pure la coscienza di un assassino. Uno può sforzarsi di penetrare nei fili sconnessi di una mente malata, seguirli come dentro un labirinto in cui la perdita dell'orientamento sarà fatale, ma sarà sempre un'indagine condotta solo "fino a un certo punto". Nemmeno il criminale stesso riesce a capire fin dove si può spingere. Si tratta di concetti attuali ancora oggi, che giustificano il perdurato successo di "La Belva Deve Morire"; assieme alla costruzione di personaggi eccellenti, un'atmosfera cupa e terribile, una genuina tensione, un enigma che da solo potrebbe costituire il fulcro di un giallo molto più semplice ma comunque valido, l'esplorazione delle conseguenze della vendetta dà vita a un romanzo del mistero di prima classe. Un vero capolavoro, in cui la coscienza sporca la fa da padrone. Consigliatissimo.

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