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venerdì 27 novembre 2020

53 - "Sangue sul Monte Bianco" ("The Ice Axe Murders", 1958) di Glyn Carr

Copertina dell'edizione pubblicata
da Mulatero Editore

Ci siamo, ormai stiamo per addentrarci nel periodo dell'anno che preferisco: quello delle feste natalizie, che intercorre tra fine novembre-inizio dicembre e circa metà gennaio. Finalmente, aggiungerei. Soprattutto in questo maledetto 2020, infatti, nonostante percepisca meno lo spirito del Natale rispetto alle altre volte, sento impellente la voglia di calarmi in letture che sappiano rilassarmi ancor più del solito. Già mi immagino, seduto accanto alla stufa, mentre il fuoco arde e fuori dalla finestra soffia il vento (o magari nevica, chi può dirlo in quest'anno così strano?), con un libro fresco di stampa e pronto a tuffarmici dentro da sotto una calda coperta. Le preoccupazioni saranno messe da parte, la frenesia dei regali da comprare quasi del tutto scomparsa, di fronte alle restrizioni che presumo ci impediranno di fare resse alle casse e nei negozi. E per lenire le delusioni, cosa c'è di meglio di un buon romanzo che sappia sottrarci alla realtà un po' deprimente dei nostri giorni; meglio ancora se ambientato durante le feste o in inverno, quando un po' tutti ci lasciamo affascinare e suggestionare? Anche un bel film, come "La Vita è Meravigliosa" di Frank Capra, può andare bene, per carità; ma siccome questo blog si concentra sulla narrativa del mistero, da parte mia punterò su quelle letture che in qualche modo coccolano il lettore. In particolare, da appassionato di classica crime story, tornerò prepotentemente al giallo con la neve a fare da scenario, a quel "Christmas Murder Mystery" di cui ho già parlato l'anno scorso, dove non deve necessariamente essere presente qualche tipo di festività; ma di sicuro ciò può costituire un'aggiunta utile a dare fascino al tutto. In questo sottogenere, dove si mescolano affetto e brutalità violenta, sorrisi e coltellate alla schiena (spesso in senso letterale), si dà vita a qualcosa di perversamente gradevole, che vanta un enorme successo in tutto il mondo e affonda le proprie radici molto indietro nel tempo. Magioni o capanne isolate nel biancore accecante e a volte letale, nuclei familiari dove serpeggia il malcontento ma nessuno può ribellarsi al comportamento fin troppo civile che bisogna mantenere in riunioni con i congiunti, stili caratterizzati da toni a volte tanto confortanti, quanto altre taglienti come lame di rasoi affilate che lacerano l'anima: questo per me è il "vero" giallo all'inglese di carattere invernale, quello che amo di più in assoluto e su cui mi soffermerò anche quest'anno.

A partire da oggi, dunque, voglio recensire alcuni titoli a tema nevoso-festivo, sperando che apprezziate il mio intento. E lo faccio iniziando da un romanzo che, curiosamente, non doveva essere pubblicato in questo periodo, dal momento che è stato solo a causa del COVID che esso è slittato alla metà di novembre, ma è comunque risultato perfetto nella sua attuale uscita nelle librerie dettata dal Caso. Dovete sapere, infatti, che Mulatero Editore (sempre sia lodata per avermi introdotto a Glyn Carr) aveva programmato il nuovo volume della serie di Abercrombie Lewker, scritto da quest'ultimo, proprio per il mese di marzo di quest'anno, quando è scoppiata la pandemia mondiale. Poi come tutti sappiamo i piani sono stati sconvolti, i ritardi si sono accumulati l'uno sull'altro, ognuno ha visto la propria vita cambiare o comunque uscire da un percorso prestabilito e andare incontro a una serie di nuove circostanze. Ma adesso, pian piano, ogni cosa sta riprendendo i ritmi di quasi un anno fa; e anche Mulatero ha dato alle stampe "Sangue sul Monte Bianco" (2020). Si tratta dell'ennesimo mystery dell'autore a seguire i canoni che lo hanno reso celebre all'interno del genere giallo: ispirato al classico romanzo del mistero di tradizione britannica, sul sottogenere della camera chiusa, ma declinato secondo l'originale elemento di sfruttare un'ambientazione che non ha più solidi muri a fare da confini, trasportando chi legge lontano sia nel tempo sia nello spazio, in luoghi selvatici senza alcuna limitazione se non ripide pareti di roccia e il cielo delle quote più elevate. Se avete letto le altre recensioni che ho scritto sull'opera di questo autore, saprete infatti che lo scenario prediletto da Carr è quello dell'alta montagna, dove il suo investigatore dilettante, nonché capocomico e alpinista, Abercrombie Lewker, si diletta a risolvere enigmi. E questa volta, l'autore ha fatto trasferire il suo personaggio nientemeno che sul Monte Bianco, sul versante francese ai cui piedi si trova Chamonix. In questo luogo impervio e aspro, sulla cui cima si abbattono tempeste di neve pure in luglio, egli ha tratteggiato una storia in cui perfettamente si equilibrano i punti forti della sua narrativa: la descrizione della dura vita dell'individuo che intende praticare sport sui monti, e una serie di delitti che vengono spiegati e delineati seguendo un rigoroso fair play. In tal modo, Carr non si è allontanato dalla sua comfort zone che vede l'utilizzo della montagna come speciale luogo del delitto, ma non ha neppure deluso gli appassionati di crime e ha regalato loro un mystery coi fiocchi (in tutti i sensi). Ringrazio ancora Mulatero per avermi inviato una copia del romanzo affinché lo possa recensire: questo è di sicuro il migliore finora pubblicato, e come dicevo si adatta perfettamente ad introdurre il periodo invernale che stiamo per affrontare.

Una foto del Monte Bianco visto dal versante di Chamonix
La storia, infatti, nonostante si svolga nel mese di luglio, vede ben presto l'abbattersi di una furiosa bufera di neve sulla vetta del Monte Bianco, la quale muta l'atmosfera radicalmente e coinvolge nel profondo i personaggi. Ma andiamo con ordine. Tutto inizia sul treno che sta conducendo Jim Osborne, giornalista di "Feature", a Chamonix, località famosa in tutto il mondo come meta sciistica e che, in questo particolare frangente, sta per diventare celebre pure in ambito cinematografico. Il giovanotto, in effetti, ha intenzione di raggiungere il regista Leo Perren e il suo rissoso e scorbutico protagonista, Grieg Osborne, per scrivere un lungo articolo sul film che i due sono in procinto di mettere in lavorazione. Si tratterà di una storia vera trasposta su pellicola, la quale racconterà della prima ascesa sul Monte Bianco da parte di Paccard e Balmat, e lui ha tutte le intenzioni di ricavarne un ottimo articolo che gli permetta di fare carriera. Tuttavia, prima di giungere sul posto, è costretto ad ammazzare il tempo e non è che ci siano chissà quali alternative tra cui scegliere: potrebbe tentare di avviare una conversazione con Abercrombie Lewkre, il celebre attore teatrale che sta viaggiando sul suo stesso treno, assieme a sua moglie Georgie e a una coppia formata da una modesta ma bellissima attrice, Dagmar Lewis, e il suo tutore, il colonnello Pound; oppure trascorrere ore ed ore nello scompartimento che divide con due zitelle, miss Harriet Bristow e miss Elsie Semple. Però entrambe le alternative paiono sconfortanti: Lewker lo ha accusato di essere alla ricerca di un pretesto per strappargli un'intervista e lo ha allontanato, mentre Bristow è chiaramente ostile a qualsiasi tipo di interazione civile. Per fortuna, il viaggio in treno giunge al termine e tutto il gruppo si sposta verso Chamonix per sistemarsi in albergo. E in questa occasione il giovane Osborne si rende conto di come tutti quanti (compresi Perren e Grieg Osborne) siano in qualche modo legati tra loro. Le zitelle conoscono Dagmar, poiché quest'ultima è stata allieva nella scuola gestita da miss Harriet; Lewker ha instaurato alcuni rapporti legati all'esercito con Pound; e Grieg Osborne si è fidanzato nientemeno che con la giovane attrice che lo stesso Jim ammira in cuor suo.

Una bella coincidenza, non è vero? Tanto più che, la sera stessa del loro arrivo a Chamonix, tutti quanti vengono invitati a una cena per festeggiare la lieta unione tra Dagmar e Grieg. Al tavolo siedono le due zitelle, i coniugi Lewker, Pound, ovviamente i due promessi sposi, Jim, Perren, e due amici di Abercrombie e Georgie: il prefetto di polizia della cittadina, Marius Menier, e sua moglie. L'atmosfera è influenzata in senso alternato dalle chiacchiere allegre dei commensali e dall'umore turbolento e lunatico del celebre attore; ma è solo quando al cospetto del gruppo si presenta una guida alpina che la situazione, già surriscaldata, degenera. L'arrivo di Henri Cachat e il suo conseguente annuncio sull'essere pronto a portare, fin sulla vetta del Monte Bianco, miss Bristow e miss Semple il giorno dopo, scatena una discussione tra lui e Grieg Osborne, il quale sminuisce la sua esperienza come guida alpina a favore di quella di un altro individuo, Luigi Carrell. Quest'ultimo, afferma l'attore, lo porterà fin sulla cima della montagna con qualunque clima, nonostante la preoccupazione di Cachat e degli altri commensali. Ciò che consegue al litigio gela l'atmosfera, e Jim Osborne se ne va a dormire pensando a quanto sia odioso il suo omonimo. E il giorno dopo, quando tutti quanti (in cordate diverse) si accingono a salire sulla funivia che li porterà sotto ai Grands Mulets, egli è ancora dello stesso parere; condiviso per altro dai rimanenti componenti del gruppo. Nel corso dell'ascesa, infatti, Grieg si attira l'odio di ogni singolo individuo attorno a sé, e ben presto l'alta montagna fa cadere le maschere di civiltà che gli alpinisti indossano quando hanno i piedi per terra. In ogni caso, prima di raggiungere la capanna Vallot poco sotto la meta, gli incidenti di percorso che si verificano non hanno conseguenze fatali. Sarà mentre alcuni salgono fino a toccare la cima della montagna, che il tempo peggiorerà e costringerà i temerari a un rapido riparo alla Vallott... e ad assistere alla violenta caduta di una persona con un berretto rosso sul versante orientale. Con una morte sulle spalle, il gruppo si rifugia nella capanna, in attesa che il tempo migliori; quando il cadavere rispunta dalla tormenta e si scopre che la causa del decesso non è stato un semplice volo dalla cresta, ma nientemeno che una picconata sulla testa. Qualcuno deve averla sferrata, ma chi? Il sospetto si insinua nel gruppo, e nella ristretta stanza in cui sono rintanati tutti, ognuno inizia a fare ipotesi... Sarà però Abercrombie Lewker a dover risolvere il caso, prima che diventi troppo tardi e i morti aumentino.

Pianta della via per la vetta del Monte
Bianco dai Grands Mulets, disegnata da
Abercrombie Lewker

Ormai sembra una barzelletta: soltanto qualche settimana fa, recensendo "Il Picco delle Streghe", avevo affermato come a mio parere esso fosse il migliore romanzo giallo di Glyn Carr che avessi letto fino a quel punto. Ebbene, oggi mi ritrovo a smentire me stesso e a dire che è questo "Sangue sul Monte Bianco" a raggiungere la vetta di un mio ipotetico podio. E aggiungerei che, a quest punto, vedo molto difficile che l'autore riesca a superarsi con le uscite che arriveranno in futuro. Infatti, come dicevo poso sopra, l'equilibrio tra l'elemento dell'alpinismo e della vita di montagna, e quello del puro enigma da sciogliere che si trova solitamente all'interno di un classico romanzo del mistero, qui trova una manifestazione a dir poco perfetta (o almeno quanto di più simile alla perfezione ho trovato da quando ho iniziato la serie di Lewker). O meglio, si avvicina ad essere in tutto e per tutto IL romanzo giallo di Glyn Carr se teniamo da conto alcuni elementi. Infatti, pensandoci bene, "Il Picco delle Streghe" può essere considerato (contando i libri finora pubblicati) il più completo dal punto di vista dell'enigma; ovvero, è quello dove il mistero occupa la parte più estesa delle pagine e viene affrontato fin dal principio. In "Sangue sul Monte Bianco" e nei precedenti (a parte forse "Assassinio sul Cervino"), avevamo trovato più un racconto incentrato sulla vita dell'escursionista e scalatore, e di conseguenza l'indagine aveva occupato un ruolo un po' più marginale rispetto al fulcro attorno al quale si sarebbero sviluppate le vicende. D'altro canto, però, bisogna pensare pure che Carr intendeva scrivere i suoi libri non tanto per dare vita a complicati casi di omicidio, o almeno non era questa la sua principale meta da raggiungere; quanto per decantare quanto fosse bella la vita dell'appassionato di sport alpini e della vita all'aria aperta. Ecco perché, a mio parere, nonostante in "Sangue sul Monte Bianco" sia tornato a dare risalto ai paesaggi mozzafiato e alle tecniche per arrampicare spuntoni di roccia, questo romanzo è forse il migliore di quelli scritti dall'autore: per il fatto di essere riuscito a mostrare quanto più realmente cosa si prova a salire una via normale sul Monte Bianco, e allo stesso tempo imbastire un caso adeguato al tenore del libro, capace di dare soddisfazione al lettore ma senza usurpare il ruolo di fulcro di tutto alla descrizione della montagna. Forse la differenza si può trovare nel fatto che il titolo recensito oggi sia composto da un numero di pagine più numeroso dei precedenti: avendo a disposizione uno spazio più esteso, Carr ha potuto dare libero sfogo alla sua eloquenza sull'alpinismo, pur riuscendo a tratteggiare gli assassinii in modo esaustivo, ed equilibrando ogni cosa con maestria.

Nella prima parte del romanzo, fino a circa metà, si è concentrato sullo scenario e su quanto altro avesse a che fare con esso, tanto da quasi eliminare qualunque riferimento utile al tratteggio dell'indagine (anche se così non è, fate attenzione!): come in "Un Cadavere al Campo Due", ha destinato le sue osservazioni ai dettagli dei luoghi e a soffermarsi sulle piccolezze per contestualizzare l'insieme. Si percepisce l'urgenza dell'autore nel rendere vivaci i passaggi da un picco all'altro, da un lato del ghiacciaio fino a una sporgenza da intagliare con la piccozza, arrivando a delineare quali siano i movimenti e i pensieri dei personaggi, i quali si ingegnano a proseguire in un contesto di grande spessore e davvero autentico (da quanto ho potuto capire, infatti, Carr ha descritto come al solito il percorso reale per raggiungere la vetta, come era già accaduto nei precedenti gialli). Ci immergiamo negli sforzi che ognuno compie per portare il proprio corpo verso altitudini più elevate, per vincere la nausea e per assaporare ogni momento di un'esperienza unica; e lo facciamo, come dicevo, quasi dimenticando che quello che stiamo leggendo è un mystery, tanto l'elemento crime viene accantonato con sapienza. Insomma, l'impressione che ricaviamo dalla lettura di questa parte del racconto è quella di essere immersi in una sorta di sospensione temporale, dove la narrazione ci viene restituita densa e complessa. Nel resto del libro, tuttavia, è il mistero a farla da padrone: smettiamo di girovagare per creste e pendii ripidi a favore di una chiave di lettura focalizzata sull'indagine poliziesca. Dalla discesa dalla vetta del Monte Bianco in poi, è quest'ultima ad occupare il centro dell'attenzione; c'è un momento in cui i personaggi si allontanano dalla capanna Vallot, questo è vero, ma si tratta soltanto di un'espediente per alimentare la tensione e il terrore. Le descrizioni della vita dell'escursionista lasciano il posto a sospetti e teorie, a un'atmosfera che risente in minia parte del luogo in cui il gruppo è riunito. Ma soprattutto, in "Sangue sul Monte Bianco" troviamo una vera e propria applicazione del delitto impossibile, come mai finora era accaduto. Nelle precedenti avventure di Lewker, infatti, ci eravamo imbattuti in enigmi che, a mio parere, non erano sempre riusciti del tutto, per motivi differenti (poca cura nella costruzione, ingenuità legate all'inesperienza, ecc...); qui invece abbiamo il tratteggio di un caso investigativo dove ogni cosa è stata ponderate, approfondita, sviscerata e data in pasto al lettore, riuscendo comunque a sorprenderlo con una rivelazione finale alla quale si poteva giungere prestando attenzione ai cenni nascosti tra le righe. Più di una volta, mi sono domandato quale fosse la soluzione dell'enigma e se non ci fosse lo zampino di qualche entità demoniaca ad orchestrare il tutto; ma alla fine l'illuminazione è arrivata, poco prima che lo stesso Carr la svelasse, lasciandomi quindi una buona impressione generale. La follia si è manifestata ancora una volta, emergendo dei fiocchi bianchi che cadono furiosi sulla cresta del Monte Bianco. Sul serio, sono entusiasta di come sia risultato essere "Sangue sul Monte Bianco": al suo interno sono presenti la dolce claustrofobia dettata dalla bufera di neve, una serie di digressioni stupende sul paesaggio e l'alpinismo, un mistero congegnato ottimamente e una schiera di personaggi capaci di affrancarsi dagli stereotipi quanto basta per restare impressi. Dire che sono rimasto affascinato è poca cosa.

Frank Showell Styles (alias Glyn Carr)
nato nel 1908 e morto nel 2005
Ma chi fu Frank Showell Styles, vero nome di Glyn Carr, ovvero l'autore di questo straordinario libro? Nato a Birmingham nel 1908, dopo la scuola egli lavorò in banca per una decina d'anni, finché decise di mollare questo impiego che non lo soddisfaceva. Partì quindi per un lungo viaggio in giro per l'Europa, che dovette tuttavia interrompere allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Arruolatosi nella Royal Navy come artigliere, durante il conflitto riuscì a salire di grado fino a giungere a quello di comandante. Tornata la pace, Styles decise di rinunciare a tornare a lavorare nel mondo della finanza e si trasferì in Galles, dove trascorse il tempo ad arrampicare (fu da sempre la sua passione più grande), a dedicarsi al teatro e a progettare la sua nuova carriera di scrittore. Nel 1947, infatti, diede alle stampe il suo primo romanzo, "Traitor's Mountain", una spy story che mescolava il genere a quello umoristico, e il successo di quest'ultimo lo spinse a dare il via a una serie più convenzionale, sotto pseudonimo e con protagonista un divertente capocomico un po' sovrappeso e dalla citazione facile che si ritrova ad indagare su casi misteriosi ambientati in alta montagna. In realtà, già durante una scalata del Milestone Buttress gli balzò in mente come "fosse facile progettare un omicidio perfetto in quel luogo"; pertanto decise di "ideare un sistema [adatto] e costruirci attorno una trama adeguata". In questo modo, come Glyn Carr firmò "Morte Dietro la Cresta" (primo di quindici gialli classici, tra cui vanno ricordati "Assassinio sul Cervino" e "C'è un Cadavere al Campo Due") e Abercrombie Lewker fece il proprio ingresso nella letteratura del mistero, dopo tre romanzi più avventurosi. La serie fu accolta favorevolmente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, soprattutto per la capacità dell'autore di descrivere con doverosa attenzione le scene di arrampicata e i luoghi in cui esse si svolgevano. Dopo "Fat Man Agony" (1969), Styles concluse le avventure di Lewker per dare il via a un'altra serie, il cui protagonista divenne un ufficiale della marina britannica al tempo delle guerre napoleoniche; nel frattempo, tuttavia, continuò a scalare e a fare escursioni, oltre a scrivere una quantità enorme di guide, manuali e racconti sulla montagna (in totale furono circa 160), finché non morì nel 2005.

I romanzi di Abercrombie Lewker (in parte ripubblicati dalla Rue Morgue Press, secondo la quale pare esista un romanzo inedito andato perduto) sono libri dove regna l'ironia e a volte gli stereotipi tendono ad abbondare, soprattutto nella delineazione dei personaggi. Eppure, come dicevo sopra, in "Sangue sul Monte Bianco" ho notato come questi ultimi siano risultati meno "prevedibili" di quanto fosse finora successo nelle altre storie (a parte "Il Picco delle Streghe"). Certo, restano tutti gli elementi che hanno caratterizzato i precedenti titoli della serie di Abercrombie Lewker: il gruppo di escursionisti che vengono in qualche modo riuniti/isolati in qualche luogo lontano dalla civiltà, sullo stile del circolo di sospettati che ha reso famosa nel mondo Agatha Christie; l'uso dell'ambientazione come elemento principale della storia per dare vivacità e realtà ai fatti raccontati, quasi paradisiaca nel suo essere incontaminata e indomabile, ma aspra e ostile nelle salite per i pendii ghiacciati e nelle frugali sistemazioni per la notte; il coesistere di momenti drammatici e terrorizzanti, alternati a scenette allegre e divertenti dove il protagonista è spesso Lewker. Nonostante qualche piccolo stereotipo sia duro a morire (penso al rapporto amoroso a triangolo), però, trovo che "Sangue sul Monte Bianco" sia stato assolutamente stupendo, e bisogna darne atto a Glyn Carr. Inoltre, trovo che siano sempre più coinvolgenti e meno "fuori posto" tutte le digressioni che l'autore fa a riguardo dell'alpinismo e dell'escursionismo, tanto da inserirle all'interno della storia così che esse giochino un ruolo importante nel mistero e nel tratteggiare la stessa psicologia dei personaggi, la quale si "riflette" in esse (pp. 16-17, 19-20, 26-27, 30-31, 38-40, 46-48, 50, 57, 60-61, 65-67, capp. 4-5-6-7-8, pp. 164-165, 171, 173, 211-214). La stessa ambientazione, tutto sommato, compie un'operazione del genere, facendo cadere le maschere degli attori sulla scena (pp. 25-28, 30-32, 81-82, 86, 113, 116...): abbiamo scenari indomabili e ancestrali, pur familiari per chi (come me e lo stesso Carr) abbia vissuto in montagna o alle sue pendici, nei quali ci caliamo con piacere per evadere dalla noiosa quotidianità o dal deprimente isolamento dovuto alla situazione sanitaria mondiale. Essi danno originalità agli assassinii inventati dall'autore, e ci fanno provare quel senso di inferiorità tanto familiare all'appassionato di sport estremi all'aperto; oltre a restare vividi ai nostri occhi, come se stessimo sfogliando una guida turistica in cui essi vengono descritti. L'attinenza alla realtà gioca un ruolo importante nel sottolineare i movimenti dei personaggi e nel farceli comprendere con maggiore chiarezza.

Infine, proprio sugli attori del dramma voglio soffermarmi (pp. 160-161). Si tratta di individui che spiccano grazie alla loro anima, che non restano imbrigliati dalle parole ma trovano una ragione d'essere. Ho notato un progressivo miglioramento in questa capacità dell'autore, da "Morte Dietro la Cresta" al titolo preso in esame oggi, e tra i protagonisti del primo e del secondo c'è una grossa differenza, a mio parere. Il narratore, Jim Osborne, è forse il più caratterizzato, dal momento che vediamo tutta la faccenda dal suo punto di vista e, di conseguenza, è sempre sulla scena: percepiamo le sue emozioni, osserviamo cosa pensa degli altri seguendo i suoi ragionamenti, ci immedesimiamo in lui e filtriamo gli eventi attraverso il suo sguardo acuto di giornalista. Il suo omonimo, Grieg Osborne, riesce a suscitare la nostra antipatia dall'inizio alla fine, oserei dire addirittura prima di entrare in scena; niente male! Incarna lo stereotipo dell'attore viziato ed egocentrico, che non si piega ad alcun compromesso e pretende di essere sempre al centro dell'attenzione; trasuda arroganza e qualcosa di velatamente violento. Sarebbe il cattivo ideale in un melodramma shakespeariano, con una paio di calzamaglia addossi e una gorgiera. Dagmar Lewis, al contrario, non impersona il ruolo dell'attricetta novellina dall'aria svanita e fatua, ma è una ragazza sveglia e per nulla spaventata dallo sforzo fisico, nonostante abbia ancora un'animo nobile che le impedisce di ribellarsi alle convenzioni della società. Suo zio, il colonnello Pound, appare quanto più simile a un soldato della vecchia guardia, ma lascia presagire come sotto sotto sia astuto e niente affatto sciocco come può sembrare a prima vista. Le zitelle Bristow e Semple, da parte loro, impersonano il ruolo assegnato loro con grande entusiasmo e, pur nella loro relativa prevedibilità, lasciano intravvedere una forza interiore che la "solita" signorina di un tempo per antonomasia non avrebbe. Pure miss Elsie, la quale viene angariata da miss Harriet, rivela una fibra robusta nei silenziosi sguardi inceneritori che indirizza all'amica. Marium Menier, invece, è il tipico poliziotto un po' ottuso che ragiona soltanto seguendo la logica ed è incapace di contemplare soluzioni fantasiose in base ai fatti di cui dispone. Però non bisogna pensare che sia uno sprovveduto. Henri Cachat e Luigi Carrell, le guide alpine, sono tanto simili nel ruolo quanto differenti nella personalità: il primo è integro, coscienzioso e realista, l'altro vanesio e corrotto. Persino Leo Perren, il quale appare nella vicenda soltanto fino a un certo punto, è stato caratterizzato con originalità. Tutti questi individui, insomma, hanno un'anima che li rende imprevedibili, sospetti e molte volte simpatici. A dominare, tuttavia, è sempre lui: Abercrombie Lewker, istrionico e padrone del palcoscenico fuori e dentro la finzione.

Originale, brillante, ironico, creativo, fantasioso, il capocomico incarna la figura del Grande Detective dedito alla cultura e all'arte (dal momento che cita Shakespeare a ogni piè sospinto, come alle pp. 23-25), ma allo stesso tempo non ha paura di mettere in moto il proprio fisico per cercare prove atte ad incastrare il colpevole. Pomposo e carismatico, ma capace di provare pietà, egli è consapevole del proprio personaggio e agisce come se si trovasse in una delle tragedie che è abituato a portare sulle scene dei teatri più importanti d'Inghilterra. Si lancia nell'indagine con il piglio del dilettante, ma è pure capace di comprendere quando la situazione si sta facendo seria. Insomma, si comporta come ci si aspetterebbe da un segugio da romanzo giallo, e di conseguenza il suo autore lo fa agire seguendo i passi che un tale personaggio dovrebbe compiere. Ma Lewker non si limita ad incarnare uno stereotipo; lo rifuggire allo stesso tempo. Infatti, se da un lato possiede il tipico carattere eccentrico del dilettante e abbraccia i metodi d'indagine più tradizionali, dall'altro ama intrattenersi con attività straordinarie rispetto ai soliti svaghi dei segugi del giallo: condivide con il suo autore la passione per la vita di montagna e per ciò che si può fare quando ci si trova all'aria aperta, ai piedi di una catena alpina. La vita dell'escursionista, presentata in un modo vivido e romanzato sul quale viene modellata la trama, si fa telo su cui proiettare il delitto fittizio, in un contesto in cui vengono inserite nozioni dettagliate, tra aneddoti sull'arrampicata, buone norme da seguire quando si scala una vetta oppure si intraprende un'escursione, piccoli dettagli sulla vita di montagna, accorgimenti e abitudini che gli alpinisti devono adottare e buone norme da seguire quando si decide di scalare una parete rocciosa. Se inseriamo tutto ciò in una narrazione dallo stile ironico, estesa ma coinvolgente, introspettiva in modo tale da approfondire numerosi temi ed argomenti e segnata da una gran quantità di dialogo, ricaviamo un romanzo stupendo e divertente che non ha nulla da invidiare a uno scritto da autori più celebrati. In modo simile alle precedenti avventure di Lewker, esso ci trasporta in un mondo quasi onirico, in un momento in cui non possiamo spostarci: continuerò a ribadire il fatto che leggere Glyn Carr durante la pandemia può essere il passatempo perfetto per trovare un po' di sollievo e svagarsi. Grazie Mulatero, adesso aspetto solo la prossima indagine di Abercrombie.


Link a Sangue sul Monte Bianco su Libraccio

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venerdì 30 ottobre 2020

50 - "Il Picco delle Streghe" ("The Youth Hostel Murders", 1952) di Glyn Carr

Copertina dell'edizione pubblicata da
Mulatero Editore

Torna a farsi sentire la minaccia del Coronavirus in tutta Italia. Per domenica è prevista una conferenza del Presidente del Consiglio, e il mio pessimismo cronico (che per fortuna riesco a tenere a bada) mi suggerisce che non sarà certo un'occasione gioiosa. Detto ciò, però, non ho voglia di alimentare troppo le ansie e le preoccupazioni di me stesso e di voi lettori, che di sicuro vorrete leggere qualunque cosa tranne le mie riflessioni su un tema tanto triste. Già un paio di settimane fa mi sono dilungato a riguardo. Piuttosto, oggi voglio subito tornare ad allietarvi (come avevo anticipato nell'analisi di "La Casa Senza Porta" e già avevo fatto in marzo) con quella serie di recensioni che vi avevo promesso, così da suggerirvi alcuni titoli per svagare la mente ed evadere dalla situazione in cui ci troviamo tutti quanti. Il romanzo giallo classico, infatti, penso debba parte del suo successo al fatto di riuscire a trasportare chi legge lontano dalla realtà a volte triste in cui egli si trova immerso. La crime story, a mio modesto parere, è in grado di evocare un mondo suggestivo, che spazia dalla fine dell'Ottocento ai primi anni del Novecento, passando per i tumultuosi e imperfetti periodi in cui si verificarono quelle tragedie che portano il nome di Prima e Seconda Guerra Mondiale, e giungendo fino ai primi anni '60 (in qualche caso pure oltre, oserei dire). E lo fa attraverso le febbrili attività quotidiane di donne e uomini che ormai non ci sono più, ma sono rimasti vividi ai nostri occhi per mezzo di una sorta di incantesimo, permettendoci di calarci nei loro panni e di vivere per qualche tempo un'esistenza che ci è estranea, magari nel corso di un'indagine su un crimine efferato oppure un mistero da brivido. È questa una caratteristica peculiare del giallo, il quale riesce a ridare vita nuova al passato altrimenti noioso di libri di Storia; e sono più che convinto che esso, nel momento storico in cui ci troviamo, possa essere ciò di cui abbiamo più bisogno per allontanare la triste realtà in cui siamo stati catturati. Non solo per mio diletto e per tenermi occupato, ma proprio per questo continuo a recensire su Three-a-Penny: considero ciò come il modo migliore che possiedo per smorzare la tensione e dare il mio contributo al benessere di tutti, pur nel mio piccolo.

Come dicevo, quindi, oggi torno a concentrare le mie forze sul giallo che riesce a distrarre e svagare meglio: cioè quello che ci trasporta lontano nello spazio e nel tempo, in luoghi selvatici e senza alcuna limitazione. E quale scelta migliore poteva essere, dopo le atmosfere inquietanti e psicologiche di "La Casa Senza Porta" di Daly, se non l'ultimo romanzo di Glyn Carr che mi resta da leggere, con il suo illimitato senso delle distanze geografiche e della mancanza di isolamento? Questo autore, infatti, si è specializzato nell'ideare storie che prendono ispirazione dal classico mystery di tradizione britannica e filone narrativo che rese celebre John Dickson Carr: quello del mistero della camera chiusa e del delitti impossibile. Tuttavia, ha compiuto una sostanziale virata dal tipo più classico, dal momento che ha portato l'ambientazione a livelli più estremi, dove i confini non sono più costituiti da solidi muri, ma da ripide pareti di roccia il cui limite superiore è il cielo azzurro delle quote più elevate. Per il resto, si è attenuto ai canoni del genere; però quella speciale caratteristica di usare la montagna come luogo del delitto lo ha reso speciale, e legato ai misteri ben studiati ha dato vita a un piccolo miracolo del crime. Miracolo che, tra l'altro, l'editore Mulatero si appresta a rendere sempre più concreto per i lettori italiani: infatti, dopo che Rue Morgue ha abbandonato la ripubblicazione dell'opera in lingua originale, in seguito a numerose vicissitudini, proprio nel nostro Paese è partita questa iniziativa che prevede l'intero corpus letterario su Abercrombie Lewker in procinto di essere reso disponibile. Un compito che vede il riconoscimento degli appassionati di giallo e il mio personale; soprattutto, perché l'editore si è reso disponibile a darmi (finora) diversi volumi da recensire, e io lo faccio sempre con piacere perché si tratta di storie molto interessanti e divertenti. Pertanto, dopo "Morte Dietro la Cresta", "Assassinio sul Cervino" e "Un Cadavere al Campo Due", oggi è il turno di "Il Picco delle Streghe" (Mulatero Editore, 2019), in attesa del prossimo in procinto di uscire nel mese di novembre. Ambientato nel Cumberland, in un villaggio in cui splende il sole ma le atmosfere non sono mai scaldate a fondo, in questa storia troviamo un gruppo di escursionisti riuniti in un ostello della gioventù, sullo stile del circolo di sospettati che ha reso famosa in tutto il mondo Agatha Christie, nelle cui vicinanze si verificano strani eventi. Come di consueto, l'alpinismo e l'escursionismo giocano un ruolo importante all'interno di un mistero in cui la psicologia dell'assassino e dei personaggi viene sviscerata, con una corrente di invidie e segreti nascosti; però in questo particolare titolo, oltre ai tipici caratteri più classici della tradizionale partita tra lettore e scrittore e al rispetto del fair play, vi è un elemento molto intrigante che ha dato una marcia in più agli eventi e si accorda perfettamente con l'arrivo imminente di Halloween: la presenza di stregoneria e forze (all'apparenza?) oscure che agitano e acuiscono la tensione.

Cumberland Mountains, T.C. Steele, 1899, raffigurante un
tipico paesaggio delle ambientazioni che costituiscono lo
sfondo alle vicende di "Il Picco delle Streghe"

Tutto inizia con una perfetta scenetta famigliare, che vede il capocomico e investigatore dilettante Abercrombie Lewker e la sua dolce metà, Georgina, fare una pausa in un prato alle pendici dei monti del Cumberland. Con la loro auto, stanno andando a Birkerdale, uno di quei villaggi al confine della civiltà in cui si può ancora percepire l'atmosfera della vera campagna inglese e aleggia un'aura di velato bigottismo e superstizione, dove li attende una vacanza e il meritato riposo in seguito alla consueta stagione teatrale che ha visto entrambi molto occupati. Con la scusa di far ammirare alla moglie lo splendido paesaggio che si può scorgere nel passare la cima della collina che li separa dal minuscolo gruppetto di case, Lewker fa in modo di giungere a Birkerdale giusto in tempo per fare una tappa al pub locale, l'Herdwick Arms, in attesa dell'orario perfetto per ricongiungersi con un vecchio amico di Georgina, nientemeno che il celebre collezionista ed esperto di quadri Sir Walter Haythornthwaite, nella sua casa poco oltre il villaggio chiamata Riding Mount. Nel locale, mentre sorseggiano una bevanda, il capocomico e sua moglie scoprono tuttavia che nel villaggio c'è una strana diceria, alimentata da un pastore di nome Ben Truby, secondo la quale i monti a sud sarebbero infestati da entità maligne, le "Vecchie" che dimorano sul Picco delle Streghe. Lewker e Georgina, da cittadini del mondo e di una metropoli come Londra, non si lasciano impressionare dai racconti macabri che Truby propina loro, nonostante il gestore del pub insista nel voler minimizzare ogni caso; eppure, quando Vera Crump e Ted Somerset, una coppia di escursionisti, irrompe nel locale con la richiesta di organizzare una squadra di ricerca per una loro compagna di viaggio, una ragazza di nome Gay Johnson, i due non possono fare a meno di temere che sia accaduta qualche disgrazia. La giovane, infatti, è scomparsa da quasi due giorni, dopo aver annunciato la propria intenzione di scalare una parete pericolosa che si getta sul fiume Riggin Spout, in seguito a una lite furibonda col suo fidanzato Leonard Bligh. Già un altro escursionista e arrampicatore, appena qualche mese prima, aveva fatto una brutta fine in questo modo. Così, allertati alcuni uomini e istruito Truby e Roughten, il gestore dell'Herdwick Arms, Lewker si fa accompagnare dalla moglie e dai due giovani fino alla fattoria in cui sarebbe dovuto soggiornare, e si incammina di buon passo con Vera Crump e Somerset alla volta della Riggin Spout.

Giunti in prossimità di una cascata lungo il corso del fiume, i tre fanno la terribile scoperta. Gay Johnson giace ormai cadavere da tempo proprio dentro la pozza d'acqua in cui il Riggin Spout si getta, sotto alla parete del Black Crag. Si tratta di una tragedia considerevole, dal momento che getterà nello sconforto i due giovani e i loro compagni che sono rimasti all'ostello della gioventù in cui stavano tutti alloggiando, nella piana di Cauldmoor che sovrasta la valle di Birkerdale e si trova a pochi passi dal Picco delle Streghe. Però, mentre il cadavere viene portato a valle grazie a una barella approntata da Truby e sollevata dai suoi compagni, Lewker non riesce a fare a meno di notare come siano strane le ferite visibili sul corpo di Gay Johnson. A quanto pare, solo dietro la nuca il cranio è stato sfondato, come se la ragazza avesse battuto la testa su un sasso e fosse morta sul colpo; mentre nel resto del corpo si vede qualche graffio appena, impossibili da conciliare con una caduta rovinosa da una parete roccioso come quella del Black Crag. Così, Lewker immagina che dietro al decesso di Gay si celi qualche segreto che si deve portare alla luce e che può dare vita a un'indagine per omicidio. Oltretutto, lo stesso Ted Somerset dà l'impressione di sapere qualcosa che potrebbe incriminare i suoi compagni di viaggio, e gli accertamenti del medico legale indicano come un'inchiesta dovrebbe studiare la questione a fondo. Pertanto, fingendosi un appassionato di ostelli e abbandonando l'idea di una vacanza meritata, il capocomico svesta ancora una volta i panni del comune cittadino per indossare quelli del Geniale Dilettante, che già in precedenza ha avuto l'onore e l'onere di portare. E una volta giunto a Cauldmoor, Lewker si imbatte in una serie di personaggi che farebbero invidia a un palcoscenico e a un'opera teatrale di Shakesperare: oltre alla fumantina Vera Crump e al suo sottomesso Somerset, infatti, ci sono Janet e Hamish Macrae, fratello e sorella diversi come il sole dalla notte e specializzati rispettivamente in spettacolo (e bugie) e ingegneria; Leonard Bligh, scontroso come solo gli artisti sanno essere; un gallese dall'aria ambigua di nome Bodfan Jones; e il gestore pro tempore della baita, un viscido individuo chiamato Paul Meirion che nutre un'ossessiva mania per la stregoneria e le arti occulte. Forse uno di questi personaggi ha avuto qualcosa a che fare con la morte di Gay Johnson? All'apparenza, tutti quanti avrebbero avuto un movente per cui eliminare la ragazza, oppure l'opportunità per farlo; ma gli alibi si incastrano quasi alla perfezione ed è difficile capire quale sia la verità che si cela dietro il decesso di Gay. Abercrombie Lawker dovrà impegnarsi a fondo per scoprire dove si trova l'inganno, esplorando in prima persona gli scenari mozzafiato e gli abissi di follia in cui può cadere la mente umana; nonché sfidando forze oscure che paiono spuntare dalle ombre della pietra delle montagne che circondano Birkerdale.

Schizzo della valle di Birkerdale, disegnato da Abercrombie
Lewker
Arrivato al quarto volume della serie, penso che "Il Picco delle Streghe" sia il migliore romanzo di Glyn Carr, tra i suoi che ho letto. Qui, infatti, si sono riuniti tutti i caratteri che avevano giocato un ruolo di primo piano all'interno degli altri e l'autore ha perfezionato i loro difetti, pur continuando a dare la precedenza ad alcuni aspetti stilistici e tematici rispetto al mero enigma. Ad esempio, Carr ha ancora una volta concentrato il punto di forza del libro sulle descrizioni delle ambientazioni, che rimandano in qualche modo alla Zermatt di "Assassinio sul Cervino" ma declinandole attraverso una chiave più selvaggia e indomabile: in questo caso, infatti, non troviamo alberghi e nuclei abitativi sfarzosi, ma un villaggio di campagna il quale si avvicina all'idea che potrebbe emergere da un contesto "alla Agatha Christie", con abitanti meno costruiti e tutto sommato semplici. In tal modo, torniamo agli scenari indomabili e ancestrali di "Un Cadavere al Campo Due", ma non abbiamo quella soffocante preponderanza a ridurre ai minimi termini il mistero, fino a farlo quasi scomparire. Il contorno delle vicende si fa parte integrante delle stesse e riporta alla mente quelle di "Morte Dietro la Cresta", familiari all'autore e in qualche modo anche al lettore che, come me, vive alle pendici delle cime rocciose. È un piacere calarci in suggestivi paesaggi aspri e montuosi, che danno originalità agli omicidi inventati da Carr, ed immergersi in luoghi solenni e un po' spaventosi, coi loro pericoli nascosti dietro gli angoli e nelle fessure in ombra tra le crepe sulla pietra (pp. 17, 19, 21-23, 34-39, 41-43, 45-46, 55-56, 74-75, 77, 82-85, 92-96, 117-124, 132-133, 135, 139, 166-167, 176, 178-181, 189, 191-197, 200-201...). In essi, l'uomo si riscopre ad essere una misera parte del creato, cosa di cui l'appassionato alpinista ed escursionista è ben consapevole, e quello che dovrebbe essere solo un abbellimento alle vicende si trasforma nel punto focale della narrazione. L'ambientazione, infatti, è forse l'elemento più debole tra quelli che costituiscono un romanzo giallo, dal momento che necessita di essere affiancato da un altro elemento per poter esprimere al meglio il proprio potenziale; eppure qui lo scenario diventa qualcosa di più, tanto viene curato nelle descrizioni, al punto da tramutare all'occorrenza una storia fittizia in una sorta di guida turistica in cui vengono rispettate le caratteristiche reali dei luoghi tratteggiati (nei romanzi di Glyn Carr ogni paesaggio, proprio come Birkerdale e i monti ai quali si trova ai piedi, corrisponde al vero). Saliamo e scendiamo dal villaggio alla piana di Cauldmoor, percorrendo il sentiero che passa vicino alla Riggin Spout; ci abbarbichiamo sul Black Crag al seguito di Hamish Macrae e di Lewker; sediamo con il capocomico sulle rocce mentre osserva la valle di Birkerdale dal Picco delle Streghe; trascorriamo la serata all'interno dell'ostello della gioventù con i sospettati. Questa attinenza al vero permette di comprendere meglio i movimenti dei personaggi e contribuisce a calare chi legge all'interno della storia, oltre a tenerlo incollato alle pagine come per mezzo di un sortilegio miracoloso (come se le Vecchie ci avessero incantato), che non permette di stancarsi e di trovare noiose queste digressioni e rende giustificabili gli eventuali piccoli difetti della trama.

In questo romanzo in particolare, inoltre, l'importanza data al paesaggio va di pari passo con lo sviluppo dell'enigma e dà vita a un equilibrio perfetto in cui entrambi questi elementi coesistono. Se nei titoli precedenti spesso lo scenario dava l'impressione di quasi invadere lo spazio destinato al mistero, tanto era necessario trasportare tra le righe i dettagli dei luoghi e soffermarsi sui dettagli più piccoli per contestualizzare il tutto, finendo per pregiudicare la riuscita complessiva del romanzo, in "Il Picco delle Streghe" c'è meno urgenza nel rendere vividi i movimenti dei personaggi e dare spessore a ciò che li circonda, pur senza venir meno alla resa di autenticità di questi stessi. Ad esempio, c'è comunque la descrizione di un paio di ascese su parete e di un escursione di Lewker, ma queste sono confinate con sapienza come per dare una pausa a chi legge, per alleggerire una narrazione che sarebbe risultata troppo densa e complessa da affrontare tutta d'un fiato. Di conseguenza, è il mistero sulle morti di Peel e Gay Johnson ad occupare il centro dell'attenzione, con tutto quello che ne deriva, tra inchieste investigative più o meno ufficiali e approfondimento di temi affascinanti legati ad esso. La stregoneria accentua la tensione, soprattutto nelle scene notturne, e dà enfasi all'enigma, suggerendo a chi legge ipotesi al limite del concreto: attraverso i racconti grotteschi e macabri di Truby, essa cala dall'alto come i corvi di cui si servivano i negromanti e gli adepti dei culti spiritici per evocare le Vecchie, e influenza la logica e l'indagine della polizia e di Lewker (pp. 27-29, 34, 48-49, 79-82, 88-89, 94, 115, 137, 140-142, 161-163, 171-172, 175, 177-178, 203, 212-213). Mentre proseguiamo nella storia, ci domandiamo se per caso le morti violente non siano state davvero provocate da qualche spirito maligno, e iniziamo a sospettare che una profonda vena di follia si celi dove il sole non riesce a battere e l'acume degli inquirenti fatica a scavare. Tutto ciò, ovviamente, genera curiosità; ma non solo, dal momento che può costituire un motivo in più perché il pubblico si avvicini a "Il Picco delle Streghe": ho sempre avuto l'impressione, infatti, che questa ferma convinzione di Carr di soffermarsi sull'alpinismo e su una narrazione incentrata su di esso, potesse scoraggiare quelle persone che non sono interessate all'argomento. Con la scusa delle forze oscure e il loro indubbio fascino, invece, l'autore riesce a invogliare chi altrimenti avrebbe tentennato. Come se non bastasse, poi, questo tema si sposa magnificamente con altri elementi del romanzo. La stessa ambientazione, che contrasta nel suo apparire quasi paradisiaca (i prati verdi, le giornate soleggiate, i laghi cristallini, i monti solidi e maestosi) con l'atmosfera di follia che regna sovrana e pervade i più piccoli particolari, come una semplice passeggiata o una salita in solitaria; oppure il coesistere tra momenti drammatici oppure paurosi, suscitati da conseguenze delle azioni dei presunti demoni, con scenette allegre e chiaramente ironiche in cui Lewker oppure altri personaggi si scontrano e si azzuffano a parole. Insomma, nonostante la presenza di alcuni stereotipi (ma ormai penso proprio che saranno una costante a cui bisogna abituarsi e non mi pesano più di tanto), "Il Picco delle Streghe" si è dimostrato essere quanto di più vicino ho letto ai romanzi degli autori più blasonati della Golden Age, da parte di un outsider che, nel suo piccolo, ha saputo dare vita a una serie molto divertente, che appassiona e intrattiene con leggerezza.

Frank Showell Styles (alias Glyn Carr)
nato nel 1908 e morto nel 2005
L'ironia fu forse la caratteristica principale nella scrittura di Frank Showell Styles, vero nome di Glyn Carr. Nato a Birmingham nel 1908, dopo la scuola egli lavorò in banca per una decina d'anni, finché decise di mollare questo impiego che non lo soddisfaceva. Partì quindi per un lungo viaggio in giro per l'Europa, che dovette tuttavia interrompere allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Arruolatosi nella Royal Navy come artigliere, durante il conflitto riuscì a salire di grado fino a giungere a quello di comandante. Tornata la pace, Styles decise di rinunciare a tornare a lavorare nel mondo della finanza e si trasferì in Galles, dove trascorse il tempo ad arrampicare (fu da sempre la sua passione più grande), a dedicarsi al teatro e a progettare la sua nuova carriera di scrittore. Nel 1947, infatti, diede alle stampe il suo primo romanzo, "Traitor's Mountain", una spy story che mescolava il genere a quello umoristico, e il successo di quest'ultimo lo spinse a dare il via a una serie più convenzionale, sotto pseudonimo e con protagonista un divertente capocomico un po' sovrappeso e dalla citazione facile che si ritrova ad indagare su casi misteriosi ambientati in alta montagna. In realtà, già durante una scalata del Milestone Buttress gli balzò in mente come "fosse facile progettare un omicidio perfetto in quel luogo"; pertanto decise di "ideare un sistema [adatto] e costruirci attorno una trama adeguata". In questo modo, come Glyn Carr firmò "Morte Dietro la Cresta" (primo di quindici gialli classici, tra cui vanno ricordati "Assassinio sul Cervino" e "C'è un Cadavere al Campo Due") e Abercrombie Lewker fece il proprio ingresso nella letteratura del mistero, dopo tre romanzi più avventurosi.

La serie fu accolta favorevolmente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, soprattutto per la capacità dell'autore di descrivere con doverosa attenzione le scene di arrampicata e i luoghi in cui esse si svolgevano. Dopo "Fat Man Agony" (1969), Styles concluse le avventure di Lewker per dare il via a un'altra serie, il cui protagonista divenne un ufficiale della marina britannica al tempo delle guerre napoleoniche; nel frattempo, tuttavia, continuò a scalare e a fare escursioni, oltre a scrivere una quantità enorme di guide, manuali e racconti sulla montagna (in totale furono circa 160), finché non morì nel 2005. I romanzi di Abercrombie Lewker (in parte ripubblicati dalla Rue Morgue Press, secondo la quale pare esista un romanzo inedito andato perduto), come dicevo, sono libri dove regna l'ironia e gli stereotipi tendono ad abbondare, soprattutto nella delineazione dei personaggi (pp. 23-29, 31-34, 36-38, 40-41, 46-48, 56-58, 77-82, 86-89, 91-92...). Eppure, in "Il Picco delle Streghe" ho notato come questi ultimi siano risultati meno "prevedibili" di quanto fosse finora successo nelle altre storie: il ruolo assegnato a Paul Meirion, ad esempio, è sì in parte modellato su quei trasparenti gestori di locande che si vedono a dozzine in giro, ma allo stesso tempo viene delineato come un appassionato di stregoneria e un semi-praticante negromante; cosa che non può far altro che dargli personalità e originalità. Bodfan Jones è un sorta di bardo gallese, un individuo che gioca moltissimo sulle sue peculiarità e che suscita la curiosità del lettore. Certo, Vera Crump e i suoi amici, con le loro storie d'amore così prevedibili, sono tratteggiati con meno spessore; però Ted Somerset dimostra di possedere uno spirito d'osservazione che si addice poco al classico Watson, e si rivela essere un ragazzo che spicca nella massa. Lo stesso Ben Truby, nonostante sia un comune pastore, grazie all'aura sinistra che lo circonda si staglia sulla scena e cattura l'attenzione; addirittura più di Sir Walter, il quale alterna ruoli in prima fila con altri sullo sfondo. Si tratta di personaggi che hanno un'anima, pur non essendo delineati abbastanza da uguagliare altri loro colleghi più illustri, la quale li rende imprevedibili, sospetti e molte volte simpatici.

In ogni caso, però, è Abercrombie Lewker, protagonista istrionico e padrone del palcoscenico fuori e dentro la finzione, a dominare ed emergere tra le righe: grazie alla sua originalità, al suo essere brillante e dotato di senso dell'umorismo, acuto e creativo, egli rappresenta un perfetto Geniale Detective da operetta (pp. 17-20, 31-33, 39, 42-43, 49-50, 53, 67-69, 73-74, 203-204). Carr teneva in alta considerazione la cultura e l'arte in generale (non per niente, in "Il Picco delle Streghe" occupano un ruolo importante un libro di incantesimi e alcuni acquerelli, come la collezione di Sir Walter); pertanto, anche il suo investigatore è un appassionato cultore della letteratura e del teatro, tanto da citare continuamente Shakespeare (pp. 18, 20-22, 28, 30, 36, 40, 49-51, 55, 57-59...). Pomposo e carismatico, ma capace di provare pietà, egli è consapevole del proprio personaggio e agisce come se si trovasse in una delle tragedie che è abituato a portare sulle scene dei teatri più importanti d'Inghilterra. Si lancia nell'indagine con il piglio del dilettante, ma riesce a comprendere quando la situazione si sta facendo seria e vorrebbe abbandonare il suo ruolo; però non può, e si costringe ad analizzare tutte le ipotesi per inchiodare il colpevole. Insomma, si comporta come ci si aspetterebbe da un segugio da romanzo giallo, e di conseguenza il suo autore lo fa agire seguendo i passi che un tale personaggio dovrebbe compiere, spesso prendendo in giro le rigide regole del genere e gli assurdi cliché inventati dagli altri scrittori (pp. 65, 68-69, 71-74, 106-107, 111, 141, 142, 187-188, 197, 203, 223, 240). Ma non solo; Lewker riesce ad incarnare uno stereotipo e a rifuggire da esso allo stesso tempo: infatti, se da un lato possiede il tipico carattere eccentrico del dilettante e abbraccia i metodi d'indagine più tradizionali, dall'altro ama intrattenersi con attività straordinarie rispetto ai soliti svaghi dei segugi del giallo: condivide con il suo autore la passione per la vita di montagna e per ciò che si può fare quando ci si trova all'aria aperta, ai piedi di una catena alpina. La vita dell'escursionista ci viene presentata in un modo tutt'altro che freddo e descrittivo, ma piuttosto da un punto di vita attivo sul quale viene modellata la trama (pp. 27, 33-34, 37-39, 41-43, 67, 84-85, 88, 90-91, 108-109, 114, 117-124, 149, 156-157, 180, 226-230, 233). Il delitto diventa qualcosa che possiamo proiettare in un contesto in cui vengono inserite nozioni dettagliate, pur senza estraniare queste ultime, tra aneddoti sull'arrampicata, buone norme da seguire quando si scala una vetta oppure di intraprende un'escursione, piccoli dettagli sulla vita di montagna, accorgimenti e abitudini che gli alpinisti devono adottare e buone norme da seguire quando si decide di scalare una parete rocciosa. A tutto ciò, infine, si aggiunge uno stile ironico e un enigma che, come dicevo, penso sia il migliore tra quelli ideati da Carr, nei suoi libri che ho letto. La costruzione del mistero, l'aggiunta dell'elemento di impossibilità e del tema delle forze oscure, l'alternanza tra momenti di azione e altri di riflessione, danno vita a un caso variegato in cui non ci si annoia mai e che possiede una certa solidità, rispettando oltretutto il fair play. Per concludere e tirare le somme, con "Il Picco delle Streghe" Glyn Carr fa centro e ci consegna un mystery di tutto rispetto, che non ha nulla da rimproverarsi e si dimostra una lettura affascinante e capace di intrattenere. Inoltre, grazie al fatto di riuscire ad evocare tanto bene la campagna del Cumberland, questo libro è perfettamente adatto come lettura nel periodo storico in cui viviamo: se non possiamo allontanarci più di tanto da casa, ci pensa Glyn Carr a farci fare un viaggio con la mente. Alla prossima, e buon Halloween a chi sta leggendo!

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venerdì 12 giugno 2020

35 - "La Dama in Rosso" ("The Holbein Mystery"/"The Red Lady", 1935) di Anthony Wynne

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
All'interno della crime story, soprattutto quella di stampo classico e appartenente all'epoca della Golden Age, il colore assume da sempre un ruolo di considerevole importanza. Non che questa sia una caratteristica esclusiva del genere, visto che anche ad altre tipologie narrative vengono spesso associate le tonalità più disparate (ad esempio, al romanzo gotico vengono spesso affiancati il nero e il grigio, come a sottolineare le atmosfere oscure, cupe e inquietanti che esso evoca). Eppure, per quanto riguarda il romanzo giallo non possiamo ignorare il fatto che il colore, riferito ad esso, sia diventato un vero e proprio simbolo, tanto da entrare nel gergo comune. Infatti, tra le altre cose, quando in Italia parliamo di mystery usiamo l'espressione che io stesso ho impiegato poco fa, "romanzo giallo". Questo curioso modo di esprimersi è dovuto a due motivazioni: la prima è dovuta al fatto che in America, agli inizi dell'Ottocento, le notizie di cronaca venivano pubblicate su fogli di carta poco raffinata e quindi di tonalità più scura rispetto al solito bianco, in una sorta di giallognolo sporco; con la conseguenza che la gente imparò ad associare a queste "pagine gialle" occasioni come uccisioni e delitti. La seconda e più importante dal nostro punto di vista, invece, va fatta risalire alle prime pubblicazioni di romanzi del mistero nel nostro Paese: a quegli innovativi e magnetici "Gialli Mondadori" dell'estate del 1929, con le loro copertine luminose come il sole, i quali diedero il via all'epopea della crime novel in Italia e ad oggi, tra alti e bassi, continuano ad appassionare i lettori ogni mese dell'anno. Ma non solo il colore in senso estetico gioca un ruolo di primo piano nel romanzo giallo. Infatti, se andiamo a controllare i titoli che vengono fatti rientrare in questo genere letterario, a ben guardare ci accorgiamo che questi stessi giocano spesso su contrasti cromatici e su immagini dominate da tinte che risaltano sullo sfondo. Ad esempio, per rimanere sulla tonalità da cui in Italia tutto ha avuto inizio, abbiamo "Il Mistero della Camera Gialla" di Gaston Leroux, uno dei padri fondatori del romanzo del mistero: in questo libro, il delitto avviene all'interno di una stanza colorata della tonalità del titolo, dalla quale nessuno può essere uscito ma in cui si trova soltanto la vittima. Oppure, per cambiare colore, ci sono "Il Dramma di Corte Rossa" di A.A. Milne, "La Rossa Mano Destra" di Joel Townsley Rogers, "Il Cerchio Rosso" di Edgar Wallace e "I Delitti delle Vedova Rossa" di Carter Dickson alias John Dickson Carr; tutti accomunati dalla tinta che richiama il colore del sangue e, quindi, è strettamente legata al tema delle uccisioni trattato in questi libri.

Altre volte, il nero costituisce una sorta di rappresentazione del muro contro cui si scontra l'indagine dell'investigatore e della fitta oscurità in cui egli si trova immerso ("Occhiali Neri" di John Dickson Carr); oppure il bianco rappresenta il timore che fa sbiancare i volti dei sospettati e delle facce che emergono dalla notte come fantasmi ("Maschera Bianca" di Edgar Wallace). Senza dimenticare il blu, inteso come sinonimo di malinconia e abbattimento in seguito a qualche disgrazia, come in "L'Inquilino del Piano di Sopra" di Harriet Rutland (il cui titoli inglese è "Blue Murder"). Anche nel cinema, declinato al genere del thriller, il colore rappresenta un elemento di grande importanza: basti pensare a film come "Marnie" di Alfred Hitchcock, in cui la protagonista ha subìto un trauma legato al colore rosso e reagisce in malo modo quando esso viene accostato al bianco, oppure al capolavoro italiano "Profondo Rosso" del maestro Dario Argento, dove questa tinta ritorna ciclicamente ad ossessionare lo spettatore e il protagonista. Ma Three-a-Penny è pur sempre un blog sulla narrativa del mistero; quindi, concentrerò la mia attenzione sulle opere scritte. E questo mese, come vi avevo anticipato, ho deciso di dedicarmi ad alcune letture legate proprio al tema del colore (soprattutto rosso) nel romanzo giallo, esplorando opere poco conosciute dal lettore medio. Per iniziare, dunque, questa settimana mi soffermerò su un libro che non è stato quasi recensito su Internet, ma che merita maggiore attenzione: "La Dama in Rosso" di Anthony Wynne, conosciuto con i titoli inglesi "The Holbein Mystery" e "The Red Lady" (Polillo Editore, 2016). Si tratta di una storia molto complessa e articolata, in cui trovano spazio nientemeno che cinque delitti (degno del caso Crippen!), due dei quali perpetrati in un modo talmente ingegnoso da far sospettare che siano stati opera di fantasmi o di assassini invisibili. Alta finanza, politica, filosofia, medicina sono alcuni tra gli argomenti trattati all'interno del romanzo, tra momenti di attività mentale e altri di attività fisica per il dottor Hailey, il medico e investigatore dilettante protagonista della vicenda; preparatevi a mettere in moto il cervello e a seguire quest'uomo ingegnoso alla scoperta della verità, in mezzo a personaggi sospetti e a pericoli di ogni tipo.

Farm House and Field (Ironbridge Farm, Shalford, Essex),
1941, di Eric Ravilious, raffigurante una tenuta simile ai
Kennels di Bob Budley
Tutto ha inizio nella casa di Eustace Hailey, dove il medico ha fatto accomodare un suo vecchio amico, il colonnello Wickham di Scotland Yard. Quest'ultimo si è presentato dal dottore per proporgli una collaborazione ufficiosa, nei confronti di un caso spinoso al quale egli è stato sollecitato di prendere parte: ai Kennels, la sontuosa tenuta di campagna dell'azionista ed esponente politico Bob Budley, si è verificato un decesso violento che potrebbe sconvolgere l'opinione pubblica fin dalle sue fondamenta. Infatti Sir Mark Fleet, un noto parlamentare inglese e grande speculatore in azioni di alta finanza, è stato apparentemente assassinato da un fantasma, mentre si trovava nella casa del suo socio in affari per tenere un discorso davanti al comitato elettorale. Un momento prima stava mangiando a tavola con gli altri commensali ed ospiti di Budley, ridendo e scherzando prima di salire sul palco che era stato approntato per la sua conferenza; e quello seguente era stramazzato sul tavolo approntato nel salotto per sua comodità, sotto i riflettori puntati sulla sua figura e davanti al pubblico incredulo e sconcertato, con il manico di un coltello che gli spuntava dalla schiena, mentre sulla parete dietro di lui il quadro "La Dama in Rosso" di Holbein osservava stoico la scena. La particolarità del caso, dunque, non sta tanto nel fatto che egli sia stato ammazzato, quanto sulla modalità utilizzata per assassinarlo: dalle testimonianze di una cinquantina di persone, infatti, tutto lascia intendere che nessuno si sia avvicinato alla vittima dal momento in cui egli aveva iniziato a parlare. Certo, il pianoforte sulla destra e alcuni ostacoli a sinistra potevano nascondere la scena agli occhi di qualcuno tra il pubblico; ma non certo un omicida, un uomo o una donna in piedi alle spalle del deputato. Solo "La Dama in Rosso" era presente sul palco, oltre a Fleet. Incuriosito dalle caratteristiche insolite del caso, Hailey si lascia convincere a prendere parte alle indagini e, il giorno seguente, si dirige a Rutton assieme a Wickham per un sopralluogo scrupoloso della scena del crimine.

Arrivati laggiù, tuttavia, i due scoprono che il poliziotto a capo del caso non ha ancora fatto eseguire un attento esame della stanza del delitto e, poco dopo, vengono a sapere che "La Dama in Rosso" è stata trafugata. Che si tratti di una semplice coincidenza, oppure il furto del quadro ha a che fare con la morte di Mark Fleet? Il caso si ingarbuglia ancor di più quando, giunti sul palco del salotto, Hailey e Wickham si accorgono che i dipinti di Budley hanno tutti una speciale cornice, dietro la quale un uomo può comodamente nascondersi. Alle spalle di quella della Dama, tra l'altro, sono presenti inequivocabili tracce di una recente pulizia del pavimento dalla polvere, come se qualcuno avesse tentato di cancellare ipotetiche impronte lasciate al momento dell'aggressione a Fleet. Forse l'omicida ha provato a pararsi le spalle; ma si tratterebbe comunque di un tentativo piuttosto goffo. Ben presto, però, al dottor Hailey appare chiaro che l'avversario suo e di Wickham non è affatto uno sprovveduto: un misterioso individuo, infatti, sottrae nottetempo alla custodia della polizia il cadavere di Fleet, in attesa dell'autopsia ufficiale; lo fa a pezzi e, come se questo non bastasse, lo dà alle fiamme in un pagliaio poco distante dalla casa di Budley. Hailey inizia a temere di trovarsi davanti a un pericoloso omicida, disposto a tutto pur di cancellare le proprie tracce e ormai in preda al panico; e la scomparsa di un celebre banchiere della City e gli assassinii spregiudicati di una medium dell'alta borghesia e di uno stimato colonnello confermano le sue paure. Chi è il colpevole che si trovava ai Kennels la sera del primo omicidio e, più avanti, aveva seguito le sue prede a Londra? Si tratta forse del padrone di casa, Bob Budley? Oppure delle eredi di Fleet, la moglie Lady Patience o la giovane Miss Gay, la quale conosceva a malapena la vittima ma si ritrova con tre quarti di milione in più nelle tasche? Anche il padre di lei, il colonnello Gay, è sospetto, allo stesso modo del poeta Rade-Rade e dei coniugi Faction, i quali paiono più che decisi ad indirizzare i sospetti contro Miss Gay. Hailey capisce di dover fare in fretta, prima che la lista delle vittime diventi troppo lunga e la scia di sangue che parte dalla drammatica scena della "Dama in Rosso" si allunghi fino a toccare lui stesso; perché di una cosa è certo: chi si avvicina troppo a Mark Fleet e ai segreti che costui si è portato nella tomba, rischia di fare una brutta fine.

Jane Seymour, Hans Holbein,
raffigurante una signora in rosso
simile alla donna del titolo

Se c'è qualcosa che riesce a sorprendermi ancora oggi, quando ormai è diventato quasi di moda essere annoiati di fronte a ciò che ci succede, quello è il romanzo giallo. Anche questo è uno dei motivi per cui sono immensamente affezionato alle storie che appartengono a questo genere letterario. Con la lettura di "La Dama in Rosso", ho avuto una conferma di questa straordinaria capacità della classica rime story di spiazzare i lettore. Dovete sapere, infatti, che nonostante le premesse e la trama in seconda di copertina (molto più stringata di quella che ho riportato io qui sopra, ma comunque intrigante) mi avessero fatto immaginare che la storia raccontata nel libro fosse molto interessante e affascinante, avevo più di una riserva nei confronti del suo autore, Anthony Wynne. Costui era un medico, oltre che scrittore, per il quale lo stile narrativo era caratterizzato da una scrittura alquanto asettica e fredda; un po' sul genere di quella di C.P. Snow e il suo "Morte a Vele Spiegate", dove erano chiaramente emerse le esperienze scientifiche di quest'ultimo e le influenze in tal senso. Nel caso specifico di Wynne, inoltre, avevo ancora più timore nell'affrontare un suo libro poiché, diversi anni fa, avevo deciso di provare un'altra sua opera, "Il Coltello nella Schiena" edito sempre da Polillo, il quale mi aveva lasciato con l'amaro in bocca a causa di diversi fattori, come una certa sgradevolezza dei personaggi e un contorno che aveva l'aria di essere stato composto in fretta e furia, senza un'adeguata revisione finale e con un mistero in cui il fair play era assente. Fino a una settimana fa, quindi, ero fortemente indeciso se rischiare di affrontare una nuova impresa di Wynne oppure rimandare la lettura di "La Dama in Rosso" a una data da destinarsi. Tuttavia, siccome avevo deciso da tempo di occuparmi di romanzi aventi a che fare con i colori, alla fine mi sono risolto a dare un'altra possibilità all'autore; e per fortuna l'ho fatto! Da questa esperienza, infatti, posso dire di aver rivalutato questo scrittore in positivo, con l'ulteriore conseguenza che quest'estate forse mi dedicherò a una rilettura di "Il Coltello nella Schiena" per capire davvero se in quel caso la mia fosse stata un'impressione dettata dall'inesperienza e dall'incapacità di vedere oltre, oppure un giudizio fondato, imparziale e purtroppo negativo.

Pertanto, in modo inaspettato, "La Dama in Rosso" si è rivelato un romanzo giallo più che sufficiente per i miei gusti; anzi, mi ha proprio entusiasmato grazie alle sue numerose caratteristiche che, se applicate singolarmente ad altri mysteries, potrebbero essere giudicate come perfettibili, ma in questo specifico caso a mio parere, messe tutte assieme, hanno dato un risultato soddisfacente. Alcuni amici, tuttavia, hanno giudicato questo libro come troppo approssimativo e fuori dai canoni del genere: i personaggi sono sembrati alquanto abbozzati e privi di personalità e spessore psicologici; i temi dell'alta finanza, della politica, della filosofia e della sua applicazione nella scienza pare siano stati trattati in modo "estremo" per un giallo d'evasione; l'ambientazione non resta sempre quella famosissima della classica casa di campagna inglese; la narrazione è stata troppo concentrata su un'indagine contorta e superficiale (nel senso che l'investigatore ha moltissimi ripensamenti nel corso della storia e non esiste fair play), a discapito del contesto in cui viene calata; sono presenti moltissime scene d'azione e, infine, il detective risulta antipatico. Insomma, sembrerebbe proprio che Wynne abbia compiuto un delitto anche scrivendo questo romanzo giallo, non solo inventando gli omicidi fittizi al suo interno. Eppure, io sono convinto che si debbano tenere a mente alcune condizioni, prima di dilungarsi in un giudizio affrettato. Innanzitutto, non bisogna dimenticare che l'autore del romanzo è considerato uno dei maestri riconosciuti di quella specialità del genere giallo che corrisponde al "delitto impossibile" (alcuni tra gli omicidi a cui assistiamo leggendo "La Dama in Rosso", tra l'altro, sono proprio di questo tipo). Wynne, infatti, viene spesso citato assieme a John Dickson Carr, Edmund Crispin, la coppia Winslow-Quirk, Ellery Queen e Norman Berrow nel numero dei giallisti che fecero la propria fortuna grazie alla sparizione di oggetti, persone e addirittura edifici e alla perpetrazione di crimini all'apparenza ad opera di spiriti maligni; la maggior parte dei quali, tranne poche eccezioni, non sono certo ricordati per i salti mortali stilistici, ma proprio per l'eccezionale complessità dei misteri che hanno tratteggiato. In parole povere, a Wynne e a questi altri autori interessava soprattutto l'enigma, e non quanto stava intorno ad esso; quindi, non bisogna stupirsi troppo se ci si trova di fronte a un modo di raccontare che si discosta da quello di scrittori più interessati al racconto puro (come abbiamo visto, ad esempio, con Milne e il suo "Il Dramma di Corte Rossa").

In secondo luogo, trovo che le critiche riportate sopra non siano del tutto veritiere. Voglio dire, sono d'accordo che alcuni personaggi non vengano più tenuti in considerazione, dopo essere stati presentati al lettore in un primo momento e interrogati (due tra tutti, Lady Patience e il giornalista Donne); però è pur vero che, al contrario, altri sono approfonditi attraverso ulteriori incontri con il protagonista oppure grazie a descrizioni fatte da terzi che riescono a gettare un po' di luce in più sulle loro personalità. Un caso, per esempio, è quello del colonnello Gay, il quale non viene mai presentato a noi ma, attraverso le parole di Rade-Rade e della figlia, impariamo a conoscere. Anche sull'antipatia dei protagonisti sono d'accordo fino a un certo punto. Wickham, soprattutto nei primi capitoli, assume toni alquanto sgradevoli nei confronti del suo sottoposto Bellamy e agisce in modo molto burbero, tanto che sono stato felice di vederlo messo da parte quando Hailey si è allontanato dai Kennels; quindi, capisco benissimo chi si dice scocciato dal suo comportamento. Tuttavia, non ho avuto nulla da ridire su quello assunto dagli altri: Rade-Rade mi è parso un po' fatuo, certo; ma non antipatico. Madame Sévigné è stata un personaggio affascinante; i vari direttori di banca, appassionati di spiritismo, tipografi, portieri sono stati piuttosto divertenti nella loro pomposità. Per non parlare di Hailey, il quale ha assunto un comportamento più "umano" di quanto ricordassi in "Il Coltello nella Schiena". Sull'ambientazione che cambia, stesso discorso: capisco chi potesse desiderare un'indagine in pianta stabile si Kennels, con i suoi campi sterminati, le colline verdi e la casa enorme e misteriosa; ma questo non esclude che anche Londra, con i suoi appartamenti un po' vissuti, gli edifici decadenti e le strade notturne sappia esercitare un certo fascino. Da parte mia, mi sono molto piaciute le scene della seduta spiritica in casa di Madame Sévigné (suggestiva e misteriosa), quella della corsa nella notte di Hailey e Miss Gay verso la casa della zia di quest'ultima (pregna di minacce), e quella tra il dottore e il professor Nicholas, l'anziano appassionato di esoterismo (divertente e giocata sul limite tra l'ironia e la serietà degli argomenti affrontati). Infine, non ho percepito l'indagine condotta da Hailey come troppo approssimativa e incentrata sull'azione: dopotutto, Anthony Berkeley aveva già inventato il suo Roger Sheringham, dedito a continui cambi d'idea e di sospetti nel corso del caso di cui si occupa, e il dosaggio tra attività mentale e attività fisica dell'investigatore mi è parsa ben equilibrata, quindi non c'è niente di nuovo che possa far storcere il naso.

Insomma, per concludere, penso che le critiche che sono state rivolte a "La Dama in Rosso" siano da avvalorare solo in parte e siano dettate soprattutto dal gusto personale, nonostante le piccole imperfezioni che ho messo in luce qui sopra. Io stesso, nel caso di "Un Coltello nella Schiena" (citato tra l'altro in questo romanzo, a p. 148), avevo rivolto più o meno quelle stesse a Wynne; tuttavia, in questo caso, l'insieme degli elementi inseriti nel romanzo non mi è affatto dispiaciuto, nonostante esso contasse su uno stile alquanto scarno e su una quantità di temi difficili da digerire. Anche a questo proposito, infatti, non mi sento di condividere del tutto il discorso sull'inserimento di argomenti troppo difficili all'interno della storia: se da un lato è innegabile che termini come "holding", diritto di prelazione, negoziati, emissione di obbligazioni e buoni azionari non siano alla portata di tutti, dall'altro essi hanno permesso la costruzione di un enigma originale e assolutamente stupefacente, molto complesso e straordinario nella sua eccezionalità (e nel quale il colore, per tornare all'introduzione della recensione, gioca un ruolo importante ai fini della soluzione finale). L'idea di romanzo giallo di Wynne può benissimo discostarsi dalla nostra, ma questo non significa che ciò che egli ha scritto non sia da considerare valido per qualcun altro: tutto sta in ciò che il lettore cerca in un romanzo giallo. Se uno ama leggere tantissime descrizioni sulla montagna, considererà "Un Cadavere al Campo Due" di Glyn Carr un libro stupendo, nonostante il suo enigma scadente; se un altro adora le atmosfere macabre, apprezzerà "Notti di Halloween" di Leo Bruce nonostante gli altri suoi difetti; infine, se un altro ancora non pretende altro che lasciarsi catturare da un mistero complesso e capace di stuzzicare la sua curiosità, nonostante i temi fuori dal comune che affronta, allora sarà soddisfatto come il sottoscritto da "La Dama in Rosso"

Robert McNair Wilson, alias
Anthony Wynne, nato nel 1882
e morto nel 1963

In ogni caso, in "La Dama in Rosso " non deve stupire l'inserimento di un tema insolito come quello dell'alta finanza, visto che quest'ultimo era uno degli argomenti preferiti di Anthony Wynne, pseudonimo di Robert McNair Wilson. Nato nel 1882, probabilmente in Scozia, della sua vita si sa molto poco. Una certezza è che aveva un fratello più giovane, William, e una sorella di nome Doris. Un'altra, il fatto che lui e William si laurearono entrambi in medicina alla Glasgow University; anche se il fratello iniziò a lavorare nel paese natio, mentre Robert si trasferì a Londra, dove sposò Winnifred Paynter (dal cui nomignolo, Winnie, forse prese ispirazione per la costruzione dello pseudonimo che avrebbe utilizzato per la scrittura dei suoi romanzi gialli). Infine, è assodato che, oltre ad essere stato amico di Ezra Pound, col suo vero nome egli collaborò a lungo col "Times" scrivendo articoli di medicina, diede alle stampe una biografia del celebre cardiologo scozzese Sir James MacKenzie ("The Beloved Physician" del 1926) e pubblicò alcuni saggi storici sull'epoca napoleonica, altra sua grande passione; mentre con lo pseudonimo di Anthony Wynne, ovviamente, diede alle stampe ben ventinove mysteries. Questi ultimi, tranne il primo intitolato "The Sign of Evil" del 1925, vennero tutti pubblicati a coppie fino agli anni Trenta, quando la sua produzione si ridusse a un volume l'anno per arrestarsi nel 1942, con "Murder in a Church". L'ultimo suo romanzo del mistero, tuttavia, fu "Death of a Shadow" del 1950 (pubblicato tredici anni prima della morte), dove fece la comparsa finale il protagonista di tutti i suoi libri di narrativa fittizia: il dottor Eustace Hailey, uno psichiatra che vive al n. 22 di Harley Street ed è soprannominato "Il Gigante" di quella stessa strada a causa della sua stazza. Oltre a "La Dama in Rosso", Hailey è presente in altri capolavori dell'autore come "The Dagger", "Morte al Castello", "Il Coltello nella Schiena" e "Murder in Thin Air", e indaga sugli omicidi seguendo un metodo analitico soprattutto per il piacere di analizzare la psicologia del criminale. Ad interessarlo, non è il maniaco omicida, l'assassino che uccide perché malato mentale, ma l'omicida occasionale, cioè quella persona che in circostanze normali avrebbe vissuto al sua vita senza colpa. La tragedia di questa persona e di quelle che gli stanno intorno, pertanto, "è che esse si sono imbattute in circostanze straordinarie. Forse a causa dei loro stessi errori, o forse per un caso fatale, la pressione esercitata dalla società è diventata improvvisamente superiore alla loro capacità di adattamento". È la società che, a suo parere, crea l'assassino; e questo è messo in luce proprio in "La Dama in Rosso".

La psicologia criminale (pp. 211, 214-215, 223, 278, 281-285) e dei personaggi principali, infatti, viene sondata a fondo e passata al setaccio, alla ricerca di ogni indizio utile per decifrare la mente che si nasconde dietro alle facciate e alle maschere che celano gli istinti e le emozioni. Hailey si pone domande sui comportamenti di Mark Fleet e, pur senza conoscerlo di persona, arriva a comprendere la sua continua sfida contro il tempo, l'egoismo e la premura che gli pesano sulle spalle e la sua grande voglia di vivere, oltre che di sopravvivere (pp. 57, 103, 149-152, 167-168, 170, 182-183, 191, 220, 237, 241, 254-255). Tra le parole pregne di melodramma di Rade-Rade, riesce a cogliere il suo affetto per Una Gay e il suo sentirsi inadeguato; negli incontri con Miss Gay, intuisce come la ragazza serbi un segreto nel suo cuore e sia tenuta sotto pressione dal giudizio che la gente può emettere da un momento all'altro contro di lei e suo padre; un uomo buono ma povero e, quindi, considerato inferiore agli occhi dei ricchi ospiti di Bob Budley. Lo stesso Budley, poi, lascia intendere di essere un personaggio complesso, intimorito dagli eventi che si sono scatenati nella sua casa ma, allo stesso tempo, deciso a non lasciarsi sopraffare da questi ultimi. Negli incontri con Wickham, poliziotto della vecchia guardia incapace di perdonare gli errori, e con gli altri personaggi minori (che appaiono e scompaiono nell'arco di brevi parentesi, senza essere approfonditi, ma capaci di svilupparsi nella nostra testa assieme alle loro particolari manie, vedasi il cap. 12), Hailey ricostruisce inoltre la figura dell'assassino, in modo che il lettore possa farsi un'idea della sua personalità deviata e provare ad applicare la sagoma evocata ad ogni sospettato. Attraverso l'uso di numerosi indizi materiali, ogni riga del romanzo, in accordo con la tipologia di racconto che ci si aspetterebbe da un giallista votato al delitto impossibile, contribuisce a rafforzare il far chiarezza sull'elusiva figura dell'assassino e sul mistero ideato dall'autore, così da facilitare il procedimento di analisi e scoperta del colpevole; che a volte può portare su un sentiero errato, ma non per questo si deve smettere di porre rimedio agli sbagli commessi e correggerli in corsa. Eppure, una volta tanto, Wynne riesce a dare spessore anche a ciò che sta intorno all'enigma. In "La Dama in Rosso" è presente una grande senso dell'ambientazione, tratteggiata spesso per immagini che non si dilungano in pesanti descrizioni ma comunque capaci di restituire uno scenario visibile con gli occhi della mente, ad effetto, in grado di trasmettere a chi legge le sensazioni di terrore e inquietudine suscitate nel dottore (pp. 19-20, 53, 71-73, 75-78, 90-92, 111-112, 135-136, 140-141, 145, 205, 225-226, 249-252, 257-258).

A dare man forte a questi rapidi ritratti emozionali e un po' suggestivi, inoltre, Wynne aggiunge un linguaggio complesso e denso (pp. 60-62, 97-101, 117-122, 185-195, 239-244, 262-279) il quale, accostato a un ritmo in cui si alternano e scandiscono alla perfezione attività mentale e attività fisica, riesce ad equilibrare il romanticismo intrinseco degli ampi prati della tenuta dei Kennels e delle strade affollate della metropoli con la serietà dei toni con cui viene messa in scena l'indagine (non per niente, il gergo finanziario non viene mai utilizzato a sproposito, a dimostrazione della dimestichezza dell'autore nell'argomento trattato). L'alta finanza, la politica, la scienza (pp. 97-101, 199-200, 227-229, 232) e la sua applicazione in un modo che osserva i cambiamenti moderni come poco affidabili, lo spiritismo (cap. 15, pp. 163, 207) e la filosofia sono temi che entrano in conflitto tra loro a causa della loro natura contrastante: da una parte, abbiamo le leggi matematiche che, grazie a discorsi elaborati, regolano la vita di tutti i giorni; dall'altro, il mondo degli spiriti che tenta di influenzare quella parte della società in cui gli individui sono superstiziosi. Particolari macabri e arcani sembrano assediare la costruzione di un enigma schematico e agile, sorretto da dialoghi serrati e veloci ma nel quale l’atmosfera gelida della stanza, la medium in trance, la risata di un bambino, clangori, strilli odiosi, tonfi e gemiti nel buio provocano un forte effetto e suscitano il timore che gli spettri abbiano attraversato il confine tra la finzione e la realtà. Può la ragione spiegare qualunque cosa? A questa domanda, gli autori di delitti impossibili provano a rispondere quando costruiscono le loro storie cariche di funesti presagi e fantasmi, ma fortunatamente sempre spiegate grazie alla logica. Il contorno del mistero di "La Dama in Rosso", quindi, aiuta a sostenere l'enigma senza mai prendere il sopravvento su quest'ultimo e gli conferisce plausibilità, nonostante la indagini specifiche su ogni delitti vengano lasciate un po' andare: soprattutto il riferimento al teatro (pp. 112-113, 237, 247-248, 256) giocherà un ruolo fondamentale nella soluzione finale, ma pure i brevi cenni che vengono fatti a corollario delle ipotesi sulla psicologia dei personaggi e dei riferimenti medici non sono da trascurare (pp. 56-57, 65-66, 97-99, 102-104, 113, 125-126, 136-137, 140, 149-152, 154-155, 165-166, 171, 173-174, 249-252, 289-290). Il risultato di tutti questi elementi messi insieme, in conclusione, dà vita a un romanzo che presenta un ritmo più veloce rispetto al resto dell'opera di Wynne, in cui il linguaggio non sempre chiaro a una rapida lettura viene accostato a un mistero sorprendente e plausibile nella sua soluzione, contornato da temi insoliti e da un'atmosfera da brivido. Come dicevo sopra, entro la fine dell'estate rileggerò "Il Coltello nella Schiena" per capire se "La Dama in Rosso" sia un'eccezione all'interno della produzione di Anthony Wynne, oppure se abbia dato un giudizio troppo affrettato. In ogni caso, consiglio caldamente la lettura di questo romanzo giallo, suggerendovi di metterla in pratica in un momento in cui abbiate la possibilità di concentrarvi al meglio per cogliere tutte le sue sfumature.

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