Copertina dell'edizione pubblicata dalla Polillo Editore |
Io, ad esempio, sto approfittando del nuovo momento di prudenza e ridimensionata allerta per pianificare le letture dei prossimi mesi. Ovviamente mi concentrerò come sempre sul giallo classico e su quei libri che già in marzo, allo scoppio della pandemia, mi erano sembrati i più adatti alla realtà quotidiana che stiamo vivendo, nei quali contano la condizione della mente umana, portata al limite della pazzia e prigioniera di ossessioni sconvolgenti, e la psicologia nelle sue multiple manifestazioni. Detto ciò, conto di inserire qualche lettura a tema natalizio quando inizieremo ad avvicinarci al periodo delle feste; ma intanto mi concentrerò su altro. Quello che mi ripropongo di fare per almeno un paio di settimane, è di pescare qualche titolo caratterizzato da un'ambientazione dove il mistero assume una connotazione "fisicamente costretta" e claustrofobica (tipo "delitto della camera chiusa"), oppure di soffermarmi su mysteries che sappiano farci empatizzare al meglio con i personaggi e le situazioni che essi andranno a vivere. Con questo non voglio dire che la mia scelta cadrà solo sul giallo di stampo britannico: nonostante esso resti il mio preferito, quello a cui voglio dare la precedenza, intendo comunque fare qualche incursione anche in quello americano, le cui caratteristiche forse incarnano al meglio i nostri quotidiani sentimenti e condizione mentale. Infatti, la grande atmosfera di angoscia che minacciava e schiacciava i personaggi dei romanzi sullo stile delle women in jeopardy, le “donne in pericolo” di Mary Roberts Rinehart e Mignon G. Eberhart, e la paranoia in cui essi venivano gettati (aspetto in seguito sviluppato da autrici quali Helen McCloy ed Elizabeth Daly) trovano molte affinità con la società di oggi e, assieme al soprannaturale in procinto di Halloween, non guasteranno. Questo tipo di narrativa espresse al meglio la realtà del suo tempo, così simile al nostro; ma allo stesso modo venne influenzata dall'analisi in profondità della psiche dell'individuo, dallo straniamento e dalle sensazioni suscitate negli stessi personaggi e nel lettore. Le paranoie inconsce e le ossessioni assunsero connotazioni tangibili, e il significato di bene e male venne trattato in innumerevoli declinazioni, spesso senza fare distinzioni nette; mentre temi come quello delle aspettative da parte del prossimo e della sensibilità ferita da tragedie personali, divennero terreno fertile su cui sviluppare trame intriganti e originali in cui le manie proliferavano. I protagonisti, spesso esponenti di famiglie aristocratiche decadute a nuclei familiari borghesi oppure poveri diavoli sui quali la sfortuna si è accanita, sono attori che agiscono a braccio dal momento che non hanno avuto una parte da imparare, sperando di azzeccare la battuta giusta e di poter così vivere un po' più a lungo la loro vita grama, senza fronzoli. Il loro scopo è quello di non farsi notare e vivere nell'ombra, in silenzio, mentre sviluppano complessi mentali dannosi che li riducono al silenzio e il loro umore vira verso la depressione e fissazioni malsane.
Mi rendo conto che tutto ciò possa apparire quanto meno sconfortante, ma credo anche che possa diventare catartico e lenire almeno un po' la desolazione che ogni tanto proviamo, facendoci capire che la situazione potrebbe andare peggio. Se non si sta attenti, infatti, noi stessi possiamo diventare i nostri peggiori nemici, e costringerci a compiere azioni e assumere atteggiamenti che ci danneggiano. È questo il caso della protagonista di "La Casa Senza Porta" (Polillo Editore, 2017) di Elizabeth Daly. I romanzi gialli di quest'autrice sono tra le letture di questo tipo che preferisco, assieme a quelli scritti da Margaret Millar, in cui il fatalismo e la desolazione si accaniscono contro l'essere umano, e quelli di Helen McCloy, della quale vorrei recensire qualcosa di nuovo a breve (ma prima devo controllare che le edizioni in mio possesso siano integrali, per fare un buon lavoro). Nel libro di cui parlerò oggi, il tema centrale attorno a cui si sviluppa il mistero e che viene sviscerato è quello della condanna, la "casa senza porta" del titolo. Quando una persona può dirsi del tutto libera dai sospetti e in grado di tornare a vivere la propria esistenza davanti al mondo intero? La protagonista è stata assolta dall'accusa di aver ucciso il marito, ma allo stesso tempo è stata costretta a nascondersi agli occhi della società perché la gente non è mai stata convinta del tutto della sua innocenza. Questa situazione ha generato numerosi traumi nella vita della donna e un clima di irrealtà e di sospensione temporale caratteristico dei romanzi di Daly, dando vita a una storia suggestiva, scritta splendidamente, ambientata in uno scenario in cui l'atmosfera di abbattimento e incertezza e la tensione psicologica si rafforzano l'una con l'altra. Come era stato per "Morte al Telefono", i puristi dell'enigma potrebbero lamentare una scarsa attinenza al fair play da parte dell'autrice; eppure vi assicuro che il bello dei gialli di Daly non sta tanto nella costruzione dell'enigma (comunque spesso di fattura più che ottima), quanto nel malessere incarnato dai loro protagonisti e dai disagi psicologici che essi incarnano.
L station, New York, 1951 circa, in una foto di Evelyn Hofer, raffigurante uno scorcio della metropoli simile alle Third Avenue in cui vive Mrs Vina Gregson |
Spaventata, Mrs Gregson si è rivolta a Colby per ottenere aiuto e consigli su come comportarsi, e a sua volta l'agente immobiliare ha chiesto a Gamadge di dire la propria a riguardo. L'investigatore si informa sulla storia della donna, e scopre che i tentativi di ammazzarla molto probabilmente sono legati al caso mai risolto della morte di Mr Gregson; per cui decide di incontrare chiunque avesse avuto un ruolo di rilievo al processo e raccogliere qualche informazione in più. Nel frattempo, Mrs Gregson dovrà scomparire del tutto stavolta; ovvero, nascondersi anche da Mrs Stoner e dagli amici più intimi, come lo stesso Colby. Gamadge organizza quindi ogni cosa affinché la donna si trasferisca in una casa di cura, un edificio isolato dal resto del mondo e gestito da una coppia di sue amiche, dove sarà al sicuro da chiunque intenda farle del male; e alle calcagna, a sua insaputa, le mette il suo assistente, Harold Bantz. Da parte sua, lui si mette in contatto coi i pochi individui che Mrs Gregson ha tenuto accanto a sé dopo l'inizio della sua seconda vita: il figlio acquisito di suo marito, un ballerino stravagante di nome Benton Locke; una nipote impiegata presso la vedova di un ricco senatore, Cecilia Warren; la stessa Minnie Stoner e il fidanzato di Cecilia, Paul Benton. Nel corso degli interrogatori, tuttavia, Gamadge sente che c'è qualcosa che non va, qualcosa che gli è stato nascosto e che ci sono potenti correnti sotterranee emotive che scorrono tra i sospettati degli attentati alla vita di Mrs Gregson; e quando uno di loro verrà ucciso a sangue freddo, dovrà fare del suo meglio per evitare che altro sangue venga sparso. Per fortuna, al suo fianco ci sono Harold e Clara, la sua adorata moglie, assieme a un paio di uomini fidati che possono raccogliere informazioni presso enti che a lui sono preclusi. Il cuore del mistero, però dovrà andare a scovarlo con le proprie mani, fino a una lontana cittadina che porta il nome di una lettera greca, Omega: sarà laggiù che la verità salterà ai suoi occhi e le prove di un crimine efferato torneranno alla luce, per impedire un grave errore giudiziario e la condanna di un innocente.
Compo House, 19th century, Westport, raffigurante il Sanatorium o casa di cura del luogo |
E in America, se ci facciamo caso, ci rendiamo conto che questa attenzione alla psicologia e a una narrativa onirica ha trovato il terreno ideale per fiorire. Prendendo spunto dal romanzo vittoriano di Austen e Collins, con la descrizione della società del tempo con i suoi pregi e difetti e l'attenzione alla interazioni e conflitti tra i personaggi, Daly (ma non solo) è riuscita a restituire un racconto in cui i protagonisti sono le storie familiari di persone decadute oppure ferite, con la loro generalità e straordinarietà; anticipando in questo modo l'interesse che oggi ha catturato i lettori di thriller moderni per la psicopatologia e la socio-patologia. Magari non riesce a reggere il confronto con le storie fin troppo violente dei suoi colleghi contemporanei; ma chi conosce il giallo classico (oppure ha visto alcuni film in bianco e nero degli anni '50-'60) non può fare a meno di notare come la narrativa di Daly sia raffinata e riesca a toccare punti nevralgici, andando a concentrarsi su situazioni solo all'apparenza insipide e neutre, ma in realtà celanti segreti oscuri e cose non dette. Così accade pure in "La Casa Senza Porta", dove storie tormentate e indecisioni e terrore si mescolano insieme. Immersi in una specie di nebbia onirica, dove niente è certo e ogni cosa può rovesciarsi da un momento all'altro per mostrare un volto finora nascosto, entriamo in contatto con quell'angoscia che era presente da molto tempo in America e stava facendosi sempre più insostenibile. Diffusa come un virus nell'aria o un gas che si respirava giorno per giorno, essa era un pensiero fisso con cui bisognava fare i conti e che logorava i rapporti all'interno della società, attraverso sintomi fisici e psichici, arrivando ad avvelenarne gli equilibri al punto che i timori crebbero fino a trasformarsi in ossessioni vere e proprie. In "La Casa Senza Porta", Vina Gregson si trova vittima di una forte emozione, di una sorta di bisogno irrinunciabile a preoccuparsi per la propria posizione sociale, costantemente alla ricerca di pace e stabilità mentale e fisica; non riesce a togliersi dalla testa l'idea di essere considerata colpevole di un'assassinio a sangue freddo, e soffre nel pensare che il resto del mondo le tenga gli occhi incollati addosso (pp. 8-13, 15-19, 21-24, 26-27, 29-32, 34-35, 43-47, 53-56, 70, 79, 117-125, 151-152, 225-228, 232-235, 245-251). Benton Locke, nonostante sia ancora giovane agli occhi del mondo, ha ormai assunto un atteggiamento cinico verso il prossimo e soprattutto verso se stesso, dal momento che si sente già percorrere il viale del tramonto in ambito artistico e del ballo: non intende mollare, ma è consapevole di essersi perso il "suo" momento a causa della povertà e di una serie di circostanze che si ricollegano a Mr e Mrs Gregson (pp. 24, 28-29, 57, 77-78, 80-95). Cecilia Warren, dal canto suo, è stata costretta fin da bambina a badare a se stessa: orfana di madre, poi allontanatasi dal padre malato e affidata agli zii, assieme a un cugino eccentrico, in una casa che non sentiva sua e circondata da individui che non sentiva di conoscere, ricambiata. Da adulta, ha scelto di fare una scuola per stenografe con l'intenzione di mantenersi da sola; e ora si ritrova alle dipendenze di una donna che le vuole bene, ma rischia di trattarla troppo come una bambola con cui baloccarsi. La ribellione non è contemplata, e frustrazione e delusione montano nel suo animo sempre più (pp. 24, 28, 56, 63-65, 101-102, 104-115, 140-142, 172, 186, 192, 201-204, 254, 256-258). Anche nel rapporto con Paul Belden, almeno all'apparenza, non riesce a ricavare molto conforto: lui è un dongiovanni che proviene da un mondo differente dal suo, abituato a un rapporto più schietto con prossimo e ad accettare ogni cosa senza pensare a quale sia il prezzo da pagare per averla (pp. 112-115, 140-145, 172, 174-175, 185, 191-192, 254-258).
Sanitarium on the Wissahickon, Michael Gessner, raffigurante un bosco simile a quello che circonda Five Acres |
Elizabeth Daly, nata nel 1879 e morta nel 1967 |
Solo nel 1940, dopo aver superato la cinquantina, riuscì però a coronare questo sogno e a pubblicare "Notte d'Angoscia", la prima avventura del suo segugio dilettante Henry Gamadge. Costui è un bibliofilo, un appassionato collezionista di libri rari e antichi e un'autentica autorità in materia, giovane, alto e con un viso dai tratti marcati ma gradevole, il quale vive con un gatto (Martin) e un assistente di nome Harold Bantz, il cui aiuto si rivela sempre prezioso. Gentile, educato e provvisto di un discreto patrimonio, Gamadge venne ripreso in tutti i sedici romanzi successivi di Daly, i più famosi dei quali sono "Murders in Volume 2", "Evidence of Things Seen", "Any Shape or Form", "Death and Letters", "The Book of the Crime", l'ultimo ad apparire prima della sua morte (avvenuta nel 1967, dopo essere stata insignita di uno speciale premio Edgar), "Morte al Telefono" che viene considerato il suo capolavoro, e ovviamente "La Casa Senza Porta". Si tratta di mysteries appartenenti al tradizionale giallo a enigma, dei quali una delle più appassionate ammiratrici fu, come dicevo, nientemeno che Agatha Christie. Come mai? Ebbene, se più sopra avevo osservato come le caratteristiche letterarie delle due autrici fossero molto simili e quindi probabilmente ciò fece entrare in sintonia Christie con Daly, il motivo più importante del giudizio della scrittrice britannica sulla sua collega d'oltreoceano penso sia da rilevare a livello più profondo. A mio parere, ciò che conquistò Agatha (e aggiungo me stesso) fu il fatto che Elizabeth riusciva a dare vita a storie che, pur immerse in un diffuso senso di sconforto misto a desolazione, lasciavano uno spiraglio agli attori che si affannavano sulla scena (al di fuori dell'assassino) per ottenere una seconda possibilità, un'occasione per risvegliarsi dal torpore e dalla stasi in cui essi erano caduti per tornare alla vita. In sintesi, Daly ha saputo confortare il lettore, e questo è ciò che ha fatto innamorare Christie. Lei stessa, come può dire chiunque conosca la sua storia personale, ha sofferto nel corso della sua vita: certo, ha vissuto avventure straordinarie ed è stata in grado di superare ostacoli all'apparenza insormontabili, però ha affrontato un divorzio molto doloroso, che le ha quasi strappato la voglia di scrivere; ha provato sulla sua pelle quanto sia terribile perdere una madre a cui si è legati a doppio filo; come tante altre persone, poi, ha visto la guerra coi proprio occhi e quanto essa possa essere spaventosa. Ecco, a mio parere i personaggi di Daly sono un po' come Christie e come tutti noi, magari delusi dalla miseria della vita oppure dalle delusioni che si susseguono e refrattari a reagire, ma nel profondo combattivi e per nulla arrendevoli. Il racconto di questa sensazione, simile a una convalescenza dopo un periodo di malattia, mi ha colpito ancora una volta, come era accaduto in "Morte al Telefono", e trova una grande affinità con quella dei libri della Regina del Crimine, dove l'esito delle indagini non esclude un finale lieto per i protagonisti. Ed è anche per questo che, sempre secondo me, Daly è superiore a Millar e alle sue colleghe: qui c'è ancora una speranza di guarigione e cure amorevoli possono compiere il miracolo di restituire la vita a chi, affetto da fatalismo, ne ha bisogno.
Il lettore, assieme ai personaggi, si sente cullato e trova alleviate le sue paure, benché non gli venga risparmiata la visione del Male e della Pazzia. L'atmosfera nella casa di cura, ad esempio, ci mostra come più di uno sia depresso per la situazione in cui si trova la società e il mondo; ma allo stesso tempo restituisce l'immagine di un Eden in cui è ancora possibile trovare ristoro e speranza per andare avanti. Le piccole cose, le faccende quotidiane e il racconto di una normalità dove la gente non è preda di angosce riesce in qualche modo a smorzare la minaccia e la tensione che emergono dai fatti legati al caso su cui indaga Gamadge: abbiamo il racconto del lavoro di Clara, sua moglie, e di Harold nel sistemare la corrispondenza, oppure l'eccentrico passatempo di Mrs Smiles nell'organizzare cene eleganti e divertirsi con i suoi ospiti. Con ritmo lento (forse troppo per alcuni, ma a mio parere necessario per calare chi legge nella giusta atmosfera), Gamadge raccoglie indizi su indizi e agisce di conseguenza con estrema prudenza, proprio come un medico che si accinga a studiare una diagnosi e una cura adeguate a un malanno (pp. 11, 18-19, 28, 37-43, 47-48, 157-162, 166-169, 180-181, 207); e da parte sua Daly traccia una storia tranquilla all'apparenza, dove ogni azione è ponderata e, anche se a volte è necessario agire in fretta, non trasmette mai un senso di fastidiosa urgenza. Inoltre, la New York che percepiamo, assieme al resto delle ambientazioni, sono come ingentilite rispetto al solito (pp. 7-9, 12-16, 23, 25-31, 58-59, 79-80, 100 105, 118, 120-123, 190-196, 175, 177-178, 204-206, 221-224): le descrizioni sono meravigliose, con grandi case site in mezzo ai campi coltivati, oppure sul fianco di colline dove gli unici suoi che vengono percepiti sono i versi degli animali e lo stormire del vento tra le foglie degli alberi. Ogni cosa è vividamente evocata, come un dipinto impressionista; ma questo non vuol dire che sia tutto allegro e divertente. Anzi, spesso è il brivido di terrore che domina la scena, con efferati crimini incorniciati da idilliaci paesaggi dove non ti aspetteresti mai di trovare Morte e Follia. Tutto ciò, viene calato in una fitta nube di sospetto, la quale grava ininterrottamente sopra i protagonisti. Proprio questa capacità di tratteggiare in profondità la psicologia degli attori sulla scena, pur descrivendo le vicende in scenari di tutti i giorni, è uno dei caratteri fondamentali dello stile di Daly (pp. 11-12, 21, 49-52, 55-56, 58-59, 74-76, 97-100, 117-118, 126-132, 143-144, 147, 152-157, 163, 171-172, 195-197, 213-219, 235-243), assieme al fatto che nella sua opera si parli spesso di cultura (pp. 17, 30, 68) e affini con un linguaggio elegante e raffinato. In ogni pagina del libro, aleggia una sorta di patina simile a neve, che ricopre tutto e restituisce una dimensione simile a un sogno, in cui il tempo pare essersi fermato sia per i personaggi, sia per l'ambientazione. Ogni tanto, ci caliamo in contesti quotidiani, mangiamo qualche pasticcino e sorseggiamo una tazza di tè in compagnia di giovani eleganti e taciturni, oppure di signore che sferruzzano tenendo i ferri sulle ginocchia, serene soltanto all'apparenza, mentre i gomitoli rotolano ai loro piedi senza sosta. Se qualcuno deve parlare, lo fa sottovoce; come se nelle vicinanze ci fosse un infermo che riposa ed egli dovesse usare tutte le sue forze per rimettersi in sesto, e non a causa di correnti sotterranee che ruggiscono tumultuose contro fragili argini (pp. 9-11, 3-15, 17-18, 21, 23, 26-27, 30-32, 39, 43-47, 53-57, 62-66, 70-73, 77-78, 81-85, 87-88, 90-92, 94, 101-103, 105-109, 111-115, 117-124, 127, 133-134, 136-142, 145-146, 151-157, 179-183, 185-189, 192-193, 200-203, 225-228, 230, 232-235, 243-251, 254-255).
Copertina dell'edizione pubblicata nei Classici del Giallo Mondadori n. 848 |
Mi addolora sempre molto leggere che i romanzi di Daly vengono definiti noiosi, lenti e banali. Fino a un certo punto posso capire le critiche che vengono loro rivolte, dal momento che sono particolari esempi di quel mystery psicologico che furoreggiò in America e che è per certi versi differente da quello di stampo britannico, basato più sulla miscela di materialità ed elementi intangibili. Però sono convinto che libri come "La Casa senza Porta" siano magistrali esempi di storie in cui viene descritta l'azione di una mente in preda alla follia, e quindi non sempre riesca a restituire un racconto "logico". Inoltre, nonostante sia indubbiamente meno frenetico nella narrazione, lo stile ci permette di entrare appieno in contatto con la società del tempo e di comprendere cosa significasse vivere negli anni in cui i fatti sono ambientati. Questo è ciò a cui dovrebbe mirare un "vero" romanzo giallo, oltre a narrare un enigma intrigante e che appassioni: diventare uno strumento che permetta di analizzare ciò che circonda gli eventi narrati e trasferire questa "indagine" al giorno d'oggi. E Daly, con i suoi libri, riesce a farlo benissimo.
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