Copertina dell'edizione pubblicata dalla Polillo Editore |
Se ben ricordate, lo avevo recensito in occasione della riedizione in lingua inglese del primo giallo in assoluto che Carr pubblicò nella sua lunga carriera, quel "Il Mostro del Plenilunio" che in Italia è stato pubblicato in forma ridotta soltanto nel Giallo Mondadori da edicola e andrebbe riproposto quanto prima per noi lettori. In quell'occasione, avevo fatto un lungo excursus sul travaglio editoriale che era servito perché esso potesse tornare a vedere la luce in libreria; ebbene arrivati a questo punto, grazie agli aggiornamenti mensili che preparo ogni mese, saprete che la British Library ha rimesso a disposizione del suo bacino di lettori tutte le quattro opere prime del Maestro del Delitto della Camera Chiusa. Si è trattato di un'operazione splendida, che come dico sarebbe da mettere in atto pure nel nostro Paese; non solo per l'ammirazione che moltissimi di noi appassionati nutre per John Dickson Carr e la sua opera complessiva, ma anche per il semplice fatto che romanzi del mistero di tale caratura dovrebbero essere a disposizione di chiunque ne sia attratto oppure incuriosito. Ma non sono io a decidere queste cose (anche se mi piacerebbe moltissimo ritradurre l'esordio del Maestro per una collana prestigiosa come Polillo), per cui intanto ci dobbiamo accontentare di ciò che ci è stato dato. Proprio Polillo/Rusconi, tuttavia, ha in programma di ripubblicare un titolo di Carr che già in passato era apparso nei suoi Bassotti ed è ormai esaurito, se non nei siti di remainders o su piattaforme di commercio online: "I Delitti della Vedova Rossa" (2011), firmato sotto le pseudonimo di Carter Dickson. Ambientato in una Londra tetra e marzolina, avvolta dalla nebbia nonché sottoposta a oscuri presagi e leggende legate al Terrore francese del post-Rivoluzione, mi è sembrato la lettura ideale per aprire il nuovo corso di Three-a-Penny; per cui, ecco qui i miei pensieri su questo giallo strano e terrorizzante, nel quale l'autore ci mette davanti a una domanda tanto lapidaria quanto inquietante: "può una stanza uccidere?".
Una foto di Londra durante la Great Smog, nel dicembre 1952 raffigurante un paesaggio che ricorda la nebbia che avvolge la città nel romanzo |
Inoltre, non bisogna trascurare un altro fatto molto importante ai fini del gioco a cui tutti quanti stanno per approcciarsi. I Mantling sono conosciuti in città per la loro fama di famiglia antichissima, ma ben pochi sanno che il primo individuo della casata è stato un reduce della Rivoluzione Francese e del Regime del Terrore che ne è seguito. Costui a un certo punto era come impazzito, forse influenzato dall'esperienza sul continente e dalla famiglia della moglie (quella dei boia della neonata Repubblica in terra francese), e da allora si era tramandata la diceria che tra i Mantling si aggirasse lo spettro della follia; intesa non tanto come tara mentale, ma quanto come eccentricità volta ad isolare dalla società gli individui da essa affetti. Ma adesso un cane e un pappagallo sono stati trucidati dentro la casa, e il sospetto che un maniaco omicida si aggiri per i suoi corridoi si è fatto pressante. Per cui, chi osi sfidare la Vedova Rossa corre il rischio di ritrovarsi pure in balìa di un degenerato. Lord Mantling tenta di minimizzare il pericolo, come suo fratello Guy il quale deride qualunque tipo di sospetto e crede che gli unici rischi possano derivare dalla credenza degli antichi rituali esoterici di cui è appassionato; eppure la vecchia Isabel non si sente per nulla tranquilla. Anche alcuni tra gli ospiti, come Anstruther, Tairlane e il perspicace H.M., temono possibili ripercussioni sui membri della famiglia; però quando il prescelto per la prova viene sorteggiato, le cose sembrano risolversi. Toccherà al giovane Bender sfidare la Vedova, e chi può mai voler fargli del male? Così, egli entra nella camera della morte mentre altri fanno la guardia all'unica porta dalla quale si può passare per uscire (la finestra della stanza, infatti, è sprangata con sbarre di ferro molto solide). Trascorrono le ore, e ad intervalli regolari la voce dell'artista risuona dietro il battente serrato... fino ad arrivare alla mezzanotte, quando la prova ha termine. Sembra che tutto sia andato per il verso giusto? All'apparenza... Infatti, non appena l'uscio viene riaperto, il cadavere di Bender fa la sua comparsa accanto al letto a baldacchino all'interno della Vedova Rossa: la camera ha avuto ancora una volta la meglio sul suo occupante. Ciò che lascia stupefatti tutti quanti, però, è ciò che il corpo rivela durante l'autopsia: il giovane è morto da almeno un'ora. Allora, chi rispondeva al suo posto alle chiamate periodiche? Questo è solo uno degli interrogativi a cui il Vecchio dovrà trovare risposta, nel corso di un'indagine allucinante e spaventosa... prima che qualcun altro venga eliminato dalla rosa dei sospetti con brutalità.
Un ventriloquo assieme al suo pupazzo, 1920 circa |
Qui dominano di nuovo scenari lussuosi e decadenti di case di famiglie aristocratiche sull'orlo del baratro, nei quali si percepisce con chiarezza un'aura marcescente che non lascia presagire nulla di buono; anzi, accentua una sorta di deviazione dalla normalità che pare riflettere la situazione psicologica del gruppo di esseri umani che li popolano (pp. 8, 11-15, 52-53, 66-67, 149, 175, 203-205, 210-211, 253, 268, 272-275, 281-282, 286, 288-289, 296-298, 301). Non siamo ai livelli di quelle della saga di Bencolin, ma comunque pure in "I Delitti della Vedova Rossa" non ci appare strano che succedano vicende di sangue, al debole chiarore della luce delle candele e dei caminetti quasi spenti, dal momento che è come se l'autore ci avesse proiettato indietro nel passato e immerso in una storia ambientata tra la fine del Settecento e Ottocento: ciò che accade esprime un modo di vivere che mescola la raffinatezza snobistica dell'epoca dei proprietari terrieri e, allo stesso tempo, getta una luce potente su quanto in quel momento storico quegli stessi agissero da semi barbari, assetati di odii e vendette per amori tormentati. La stessa Londra di "I Delitti della Vedova Rossa", come quella di "L'Arte di Uccidere", è talmente nebbiosa e misteriosa e in qualche modo impersonale che potrebbe nascondere fantasmi che emergono dal vittorianesimo come automobili dei primi del Novecento; turba il lettore il quale non riesce a farsi un'idea chiara del luogo in cui si sta svolgendo il racconto, simile a un incubo ad occhi aperti in cui avvengono fatti inspiegabili. L'invito rivolto a Tairlane, passante semi disinteressato, di unirsi al circolo di giocatori intenzionati a sfatare il mito della Vedova, con il suo carico di incertezza e di mistero sottolineato dall'aspetto deserto e solitario di Curzon Street; i continui riferimenti al pericolo che la Camera può scatenare sui suoi occupanti, nonostante l'aria dimessa e quieta; i numerosi momenti in cui Casa Mantling ci viene presentata come mezza disabitata e popolata dagli spettri del passato: tutto viene caricato di una forte emozione che si divide tra il brivido di eccitazione e quello dello sgomento che paralizza. È in questo senso che Carr ha mantenuto un'espressione dei fatti un po' sopra le righe; per il resto, come dicevo, la tensione e la cappa pesante di dramma che avevamo trovato in "L'Arte di Uccidere" viene almeno un po' alleggerita. In quale modo? Ebbene, in "I Delitti della Vedova Rossa" l'autore riesce a trovare una valvola di sfogo a questa sua tendenza ad esagerare nell'essere pittoresco grazie all'uso della Storia, intesa con l'iniziale maiuscola e uno tra i suoi interessi principali (come dimostreranno i gialli storici che produrrà più in là con gli anni).
Attraverso di essa, infatti, Carr sfrutta la capacità di descrivere scene raccapriccianti calandole in un passato che pare ossessionare i personaggi, ma senza renderle il centro della vicenda. Mi spiego meglio. Il capitolo 9 è un chiaro esempio di ciò che intendo, dal momento che narra una sorta di lunghissimo flashback nel quale ci viene raccontato con doverosi dettagli veritieri quanto dovesse essere terribile vivere nella Francia post Rivoluzione, nel Regno del Terrore. In esso, l'autore si diverte a scendere in particolari spaventosi, ad evocare immagini di gente decapitata in nome della Libertà e di un ideale che non era riuscito a manifestarsi con i dovuti contenimenti, a spiegare quanto Charles Brixham abbia patito e sia rimasto profondamente segnato da quanto ha visto coi propri occhi. Carr narra del suo incontro con la bella Marie-Hortense Sanson, del suo sbigottimento nello scoprire che i membri della famiglia di lei erano incaricati da secoli del triste ruolo di boia, della situazione insopportabile che la vecchia Marthe si era impegnata a creare per farlo impazzire; e fa tutto questo senza lesinare nel raccontare quanto di più orribile dovrebbe essere accaduto nella realtà dei fatti. Per il resto della storia, egli non si sofferma più di tanto su scenari paurosi e inquietanti, pur senza dimenticare di dare qualche tocco horror ad essa. Però nell'ideare la leggenda della Camera della Vedova ha lasciato libera la propria fantasia; in questo modo, ha trovato un adeguato compromesso alla propria inclinazione come narratore tra il "gotico" e il puro enigma tradizionale all'inglese. In sostanza, ha creato una sorta di miasma che parte dal passato e si propaga nel presente, influenzandolo ma non pregiudicandolo... O forse è così, in un certo senso? In molti, infatti, hanno lamentato come questa soluzione sia di poca efficacia e contribuisca soltanto a mostrare come egli fosse interessato a descrivere invece di intrattenere. In realtà, io non lo penso. Certo, Carr si diletta nel dilungarsi su fatti che magari sono inutili al fine della scoperta della verità sugli omicidi di Casa Mantling; ma sono convinto che senza di essi il mistero di "I Delitti della Vedova Rossa" non avrebbe avuto quella speciale aura tra il minaccioso e l'ipnotico. Essi sono parte integrante e necessaria di questo interessante romanzo, perché contribuiscono ad evocare l'atmosfera gelida degli ambienti in cui è calato il racconto e le tenebre pervase dall'orrore e dalla tensione in cui si muovono i personaggi. Sembra come di camminare in stati d'animo che non ci lasciano mai indifferenti. Ciò che convince meno e piazza "I Delitti della Vedova Rossa" sotto ad altri titoli dell'autore come "Le Tre Bare" e "Il Terrore che Mormora", a mio parere, riguarda l'enigma stesso.
John Dickson Carr, nato nel 1906 e morto nel 1977 |
È curioso come proprio "Il Mostro del Plenilunio" sia stato il tramite attraverso cui Carr e Clarice iniziarono a scambiarsi le prime confidenze: in "The Golden Age of Murder", infatti, Martin Edwards ha spiegato che, in seguito al loro primo incontro nella sala del parrucchiere di bordo, i due futuri sposi trascorsero una serata a ballare e chiacchierare del più e del meno, finché Carr non accennò al fatto che aveva scritto una detective novel e chiese a Clarice se le avrebbe fatto piacere leggerla. In realtà, la ragazza non nutriva un particolare interesse in indagini e assassini fittizi; eppure, non ebbe cuore di deludere le evidenti aspettative del suo nuovo amico ed accettò di dargli un responso su quel libro. In quel modo, tra i due scoccò la scintilla ed entro un paio d'anni si trasferirono definitivamente in Inghilterra, dove la novella signora Carr intendeva far nascere le sue figlie. Anche suo marito (che nel frattempo aveva deciso di abbandonare Bencolin in favore di altri due personaggi molto simili tra loro, il dottor Gideon Fell e l'avvocato Henry Merrivale) fu entusiasta della scelta: dopotutto, era la patria dei suoi idoli d'infanzia, Chesterton e Doyle (del quale in seguito fu co-autore della biografia ufficiale), e sembrava che laggiù fosse il posto ideale per scrivere gialli sullo stile tradizionale; senza contare il fatto che la Storia dell'Europa cui poteva attingere avrebbe fornito molto materiale per il tipo di libri che intendeva scrivere. Un'altra caratteristica dell'opera di Carr, infatti, è quella di affondare le proprie radici in miti e leggende molto antiche: ne sono un esempio le numerose citazioni che possiamo trovare all'interno di romanzi come "Il Terrore che Mormora", la cui trama ruota sul vampirismo, oppure i culti segreti, le maledizioni e la religione degli antichi Egizi, assieme ai più recenti racconti sul boia di Londra, Jack Ketch, citati in "L'Arte di Uccidere". Si tratta di argomenti che, proprio grazie alla loro aura di velato soprannaturale, si prestano ad essere interpretati e sfruttati in modo da fornire al lettore una base relativamente reale per un delitto immaginario, e che permisero a Carr di dare sfogo a un'insaziabile sete di ricerca storica. Questa passione emerge dalla lettura di alcuni romanzi giallo-storici, come "La Sposa di Newgate", "Il Diavolo Vestito di Velluto", "La Corte delle Streghe" (uno dei suoi capolavori) e l'ultimo suo giallo pubblicato nel 1972, qualche anno prima della morte: "Il Mistero di Muriel".
Copertina di una vecchia edizione di "I Delitti della Vedova Rossa" |
Guy è forse quello più inquietante nella famiglia Mantling: con una testa dalla forma strana, un paio di occhiali scuri che non toglie mai (nemmeno in casa) e un carattere stizzito, nervoso e decisamente asociale, è il candidato perfetto per il ruolo dell'assassino. Robert Carstairs e Martin Ravelle sono un po' meno caratterizzati e questo è un peccato, perché avrebbero meritato un po' più di spazio, come pure il personaggio del dottor Arnold e quella degli aiutanti dell'investigatore. La parte del leone, tuttavia, spetta proprio al Vecchio, a quell'H.M. che spesso viene raffigurato come goffo oppure ironico ma qui è adeguatamente astuto e riflessivo (nonostante gli sfugga un importante indizio che non dovrebbe passare inosservato). Proprio a questo proposito, arriviamo al punto dolente di "I Delitti della Vedova Rossa": il mistero vero e proprio. Solitamente, nella narrativa di Carr gli enigmi sono costruiti con una tecnica che li rende spettacolari, fuori dal comune; un po' alla maniera di quelli di Ellery Queen, come ha sottolineato Howard Haycraft. Si tratta di favole soprannaturali dalle soluzioni apparentemente incredibili, a volte tanto complesse da non permettere al lettore di riuscire a risolvere il mistero prima che l'autore ce lo sveli, in cui il finale lascia spiazzati e sorpresi. Pure in questo caso ciò avviene... ma in una forma meno potente di quanto ci si sarebbe aspettati. Insomma, non è del tutto all'altezza. Va benissimo lo stile con cui è tratteggiato (una volta Dorothy L. Sayers disse: "John Dickson Carr ci trasporta dal piccolo, artificiale mondo del comune intreccio poliziesco nell'oscurità minacciosa che sta al di fuori. È in grado di creare un'atmosfera con un aggettivo e di rendere un'immagine da una cancellata di ferro, un tavolo impolverato, una lampada a gas che spunta dalla nebbia. Può metterci in apprensione con un'illusione o deliziarci con un'allegra assurdità. Ogni frase ci dà un brivido di convinto piacere"), ma ciò che critico è il fatto che alla fin fine esso sia basato su una serie di coincidenze un po' campate per aria. Non entro nei dettagli per non spoilerare, ma diciamo che se non si fossero verificate certe circostanze (circostanze che tra l'altro hanno bisogno di una spiegazione molto complessa per essere capite fino in fondo) non esisterebbero i delitti della Vedova Rossa.
Ho avuto la sensazione che l'idea di fondo fosse più interessante di quanto poi si è espresso su carta. Di solito, i delitti migliori e più stupefacenti sono quelli che si basano su trucchi semplici che producono conseguenze impensabili; nel caso di quelli di "I Delitti della Vedova Rossa" accade in contrario: abbiamo premesse che ci fanno immaginare che la storia avrà uno svolgimento pazzesco (e così è in effetti, sia chiaro), le quali però si risolvono con una spiegazione della verità che lascia un po' con l'amaro in bocca. Si prova un po' di delusione nel pensare come sia stato più eccitante il percorso che ha poi portato alla soluzione, rispetto a quest'ultima. Quello che è mancato forse è stato il ritmo giusto nell'esposizione dei fatti, oltre al fatto che le prove non sono del tutto chiare da interpretare per il lettore e il movente si ricava da un'oscura legge inglese del tempo di Enrico VIII. Voglio dire, quando spiegate da Merrivale appaiono più che sufficienti, ma se ci si arrangia non è proprio la stessa cosa perché si rischia di confondersi e infilarsi in vicoli ciechi a ogni piè sospinto. Detto ciò, in ogni caso, i metodi attraverso cui i delitti vengono perpetrati sono strabilianti e molto buoni, perché sorprendono chi legge; e poi l'idea della stanza che uccide viene sviluppata con abilità. Per tirare le somme, quindi: quale è il mio verdetto su "I Delitti della Vedova Rossa"? Se lo si considera come un romanzo giallo da leggere per passatempo, senza avere chissà quali pretese di perfezione e aspirando a trovare un mistero che sappia coinvolgere il lettore, allora questa è la lettura che fa per voi. Se invece siete alla ricerca di qualcosa che sappia darvi soddisfazioni nel campo della costruzione di un enigma plausibile, dettato dalla logica, allora forse potreste restare un po' delusi dal risultato finale. In ogni caso, rispetto ad altri gialli che ho letto negli anni, questo si piazza in una posizione molto elevata della classifica. Non è una stupidaggine e per essere compreso al meglio necessita di una certa concentrazione Semplicemente, nell'opera dell'autore, non è all'altezza di altri titoli nonostante tutto.
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