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venerdì 12 marzo 2021

64 - "I Delitti della Vedova Rossa" ("The Red Widow Murders", 1935) di Carter Dickson

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore
Dopo mesi e mesi di temperature rigide e giornate uggiose o invernali, alla fine siamo giunti a marzo e a quella che si preannuncia essere un'altra primavera molto particolare per tutti noi. Già quella dello scorso anno, infatti, è stata unica nel suo genere, dal momento che ci ha visto nientemeno che rinchiusi in casa, per proteggerci dal contagio della pandemia da Coronavirus. Dopo tanto tempo, la situazione si è perlomeno raddrizzata un po', visto che sono iniziate le somministrazioni di alcuni vaccini fortunatamente sviluppati con infaticabile determinazione dagli scienziati di tutto il mondo; però la luce in fondo al tunnel appare ancora lontana e temo che la situazione resterà atipica per un bel po'. Pertanto, ci dobbiamo accontentare di quel poco che abbiamo a disposizione: giornate che pian piano si allungano e una primavera che, come dicevo, appare strana ma allo stesso tempo come una fonte di fiducia. In cuor mio, mi auguro che essa ci permetta almeno di riprendere quei contatti sociali che sono mancati negli ultimi dodici mesi; io stesso, durante la pandemia, ho rivalutato i rapporti con persone che prima conoscevo e ne ho creati altri che spero con forza possano diventare più solidi una volta allentate le misure di contenimento del virus. Quindi, nonostante la persistenza di questo periodaccio, spero che le cose possano migliorare. Da parte mia, continuerò a recensire romanzi gialli per voi e per me stesso; però mettendo da parte quelle letture che sono confinate all'autunno e all'inverno. Con un graduale passaggio, inizierò da romanzi popolati dalle scroscianti piogge di marzo per arrivare a quelli più assolati e vacanzieri dei mesi estivi (anche se non so quanto potremmo goderci le ferie anche quest'anno). Se non potremmo farlo "dal vivo", mettetela così: almeno vi farò viaggiare con la mente e sognare un po' con me. E per iniziare questa nuova fase del viaggio nelle recensioni di Three-a-Penny, ho deciso di tornare a una vecchia conoscenza di voi lettori; a quel John Dickson Carr che vi avevo già presentato molto tempo fa, quando analizzai il suo terzo romanzo con protagonista il giudice istruttore Henri Bencolin, "L'Arte di Uccidere".

Se ben ricordate, lo avevo recensito in occasione della riedizione in lingua inglese del primo giallo in assoluto che Carr pubblicò nella sua lunga carriera, quel "Il Mostro del Plenilunio" che in Italia è stato pubblicato in forma ridotta soltanto nel Giallo Mondadori da edicola e andrebbe riproposto quanto prima per noi lettori. In quell'occasione, avevo fatto un lungo excursus sul travaglio editoriale che era servito perché esso potesse tornare a vedere la luce in libreria; ebbene arrivati a questo punto, grazie agli aggiornamenti mensili che preparo ogni mese, saprete che la British Library ha rimesso a disposizione del suo bacino di lettori tutte le quattro opere prime del Maestro del Delitto della Camera Chiusa. Si è trattato di un'operazione splendida, che come dico sarebbe da mettere in atto pure nel nostro Paese; non solo per l'ammirazione che moltissimi di noi appassionati nutre per John Dickson Carr e la sua opera complessiva, ma anche per il semplice fatto che romanzi del mistero di tale caratura dovrebbero essere a disposizione di chiunque ne sia attratto oppure incuriosito. Ma non sono io a decidere queste cose (anche se mi piacerebbe moltissimo ritradurre l'esordio del Maestro per una collana prestigiosa come Polillo), per cui intanto ci dobbiamo accontentare di ciò che ci è stato dato. Proprio Polillo/Rusconi, tuttavia, ha in programma di ripubblicare un titolo di Carr che già in passato era apparso nei suoi Bassotti ed è ormai esaurito, se non nei siti di remainders o su piattaforme di commercio online: "I Delitti della Vedova Rossa" (2011), firmato sotto le pseudonimo di Carter Dickson. Ambientato in una Londra tetra e marzolina, avvolta dalla nebbia nonché sottoposta a oscuri presagi e leggende legate al Terrore francese del post-Rivoluzione, mi è sembrato la lettura ideale per aprire il nuovo corso di Three-a-Penny; per cui, ecco qui i miei pensieri su questo giallo strano e terrorizzante, nel quale l'autore ci mette davanti a una domanda tanto lapidaria quanto inquietante: "può una stanza uccidere?".

Una foto di Londra durante la Great Smog, nel dicembre 1952
raffigurante un paesaggio che ricorda la nebbia che avvolge
la città nel romanzo
La camera in questione è la "Vedova Rossa" del titolo, chiusa da moltissimi anni e avvolta da un'aura malsana causata da una leggenda che vedrebbe spacciato chiunque osasse restare al suo interno da solo per troppo tempo. Tra l'inizio e la fine del 1800, infatti, essa ha già causato la morte violenta di almeno quattro persone, tutte imparentate tra loro oppure legate da rapporti di amicizia, ritrovate con il volto annerito e orribili ghigni stampati in volto, e rattrappite sul pavimento dagli spasmi causati da un veleno che non è stato trovato da nessuna parte. Già una volta, la Vedova Rossa è stata smontata pezzo per pezzo, assieme ai mobili che contiene, soffitto e pavimento compresi, ma nessuno è stato capace di scoprire quale diabolico marchingegno abbia causato la morte di Charles Brixham padre, di sua figlia Marie (deceduta il giorno prima delle nozze), del vecchio amico di famiglia Martin Longueval e del nonno dell'attuale Lord Mantling, Alan. Così, la camera è stata sigillata per impedirle di portare ancora morte e tragedia. Tuttavia, adesso Casa Mantling sta per essere abbattuta per fare posto a un nuovo centro residenziale a Mayfair e l'attuale Lord vuole scoprire quale sia il segreto della Vedova Rossa a tutti i costi. Pertanto, ha ideato un macchinoso e terrificante metodo per sincerarsi della verità: accompagnato dai familiari (suo fratello Guy, studioso della famigerata storia di famiglia; sua zia Isabel, la matrona della casa; la sorella Judith) e di alcuni amici e conoscenti (l'avventuriero Robert Carstairs, l'arredatore francese Martin Longueval Ravelle, l'artista Ralph Bender, lo psichiatra Eugene Arnold, il professore di letteratura Michael Tairlane, il direttore del British Museum Sir George Anstruther e il celebre Henry Merrivale, il Vecchio del Ministero della Guerra), aprirà nuovamente la stanza. Poi, ognuno degli ospiti convitati alla sua tavola dovrà estrarre a sorte una carta da gioco da un mazzo nuovo, e chi avrà il dubbio onore di pescare quella col valore più elevato dovrà trascorrere almeno due ore dentro la Vedova Rossa. Si tratta di una sfida da non prendere con cuore leggero: infatti, nonostante tutti quanti siano consapevoli che, se mai c'è stato una terribile trappola mortale dentro la stanza, dopo tanto tempo esse debba aver perso la propria letalità, è pur vero che la suggestione gioca brutti scherzi a chi non ha i nervi abbastanza saldi per resistere alla prova.

Inoltre, non bisogna trascurare un altro fatto molto importante ai fini del gioco a cui tutti quanti stanno per approcciarsi. I Mantling sono conosciuti in città per la loro fama di famiglia antichissima, ma ben pochi sanno che il primo individuo della casata è stato un reduce della Rivoluzione Francese e del Regime del Terrore che ne è seguito. Costui a un certo punto era come impazzito, forse influenzato dall'esperienza sul continente e dalla famiglia della moglie (quella dei boia della neonata Repubblica in terra francese), e da allora si era tramandata la diceria che tra i Mantling si aggirasse lo spettro della follia; intesa non tanto come tara mentale, ma quanto come eccentricità volta ad isolare dalla società gli individui da essa affetti. Ma adesso un cane e un pappagallo sono stati trucidati dentro la casa, e il sospetto che un maniaco omicida si aggiri per i suoi corridoi si è fatto pressante. Per cui, chi osi sfidare la Vedova Rossa corre il rischio di ritrovarsi pure in balìa di un degenerato. Lord Mantling tenta di minimizzare il pericolo, come suo fratello Guy il quale deride qualunque tipo di sospetto e crede che gli unici rischi possano derivare dalla credenza degli antichi rituali esoterici di cui è appassionato; eppure la vecchia Isabel non si sente per nulla tranquilla. Anche alcuni tra gli ospiti, come Anstruther, Tairlane e il perspicace H.M., temono possibili ripercussioni sui membri della famiglia; però quando il prescelto per la prova viene sorteggiato, le cose sembrano risolversi. Toccherà al giovane Bender sfidare la Vedova, e chi può mai voler fargli del male? Così, egli entra nella camera della morte mentre altri fanno la guardia all'unica porta dalla quale si può passare per uscire (la finestra della stanza, infatti, è sprangata con sbarre di ferro molto solide). Trascorrono le ore, e ad intervalli regolari la voce dell'artista risuona dietro il battente serrato... fino ad arrivare alla mezzanotte, quando la prova ha termine. Sembra che tutto sia andato per il verso giusto? All'apparenza... Infatti, non appena l'uscio viene riaperto, il cadavere di Bender fa la sua comparsa accanto al letto a baldacchino all'interno della Vedova Rossa: la camera ha avuto ancora una volta la meglio sul suo occupante. Ciò che lascia stupefatti tutti quanti, però, è ciò che il corpo rivela durante l'autopsia: il giovane è morto da almeno un'ora. Allora, chi rispondeva al suo posto alle chiamate periodiche? Questo è solo uno degli interrogativi a cui il Vecchio dovrà trovare risposta, nel corso di un'indagine allucinante e spaventosa... prima che qualcun altro venga eliminato dalla rosa dei sospetti con brutalità.

Un ventriloquo assieme al suo pupazzo, 1920
circa
Se ricordate un po' quello che avevo scritto nella recensione di "L'Arte di Uccidere", probabilmente ritroverete pure in "I Delitti della Vedova Rossa" certi aspetti che avevo trattato allora. Infatti, penso che la narrativa di Dickson/Carr si possa riassumere in alcuni punti specifici, i quali prenderò in esame man mano che mi imbatterò in essi. Però, come prima cosa, voglio dire di non essere stato del tutto convinto da questo romanzo. Certo, questo non significa che esso sia scadente; anzi, alcuni elementi sono molto suggestivi e riescono ad impressionare favorevolmente il lettore. Però, qualcosa non ha funzionato del tutto, forse per il fatto che "I Delitti della Vedova Rossa" è comunque uno tra i primi gialli della serie di Merrivale e, quindi, le capacità di Carr non erano ancora nel pieno delle loro forze. In ogni caso, ci sono notevoli miglioramenti rispetto all'altro giallo dell'autore che ho recensito. Ad esempio, l'atmosfera che si respira leggendo è gotica ma non grottesca ed esagerata, quindi meno pesante al punto di diventare opprimente che in "L'Arte di Uccidere"; nonostante permanga comunque l'eredità che l'autore raccolse dai racconti di G.K. Chesterton con protagonista Padre Brown (nei quali era presente una sorta di incombente irrequietezza o timore) e dai romanzi di cappa e spada "alla Dumas", dove una parte importante è occupata da fatti pittoreschi. Carr mise insieme questo tipo di letteratura con la narrativa del mistero, dando vita a storie tratteggiata con uno stile unico ed inimitabile, adornato di scenari inquietanti i quali spesso vengono collegati ad eventi funesti (in questo caso, la Camera della Vedova Rossa si rifà al Regno del Terrore francese) e di descrizioni che trasudano presagi densi e gravosi i quali sembrano schiacciare i personaggi coinvolti negli omicidi terrificanti che egli ha ideato, nel quale inoltre si mescolano tantissimi temi. In seguito, Carr sarebbe riuscito ad alleggerire ancora di più i toni di quanto fatto in questo libro, fino a trovare l'equilibrio giusto senza dover ricorrere a inseguimenti nella notte o a minacce fin troppo spaventose; nel caso di "I Delitti della Vedova Rossa", però, ricorre ancora a scenari notturni e a scene in cui il melodramma e il soprannaturale sono un po' eccessivi per poter affermare che sia stato al suo meglio.

Qui dominano di nuovo scenari lussuosi e decadenti di case di famiglie aristocratiche sull'orlo del baratro, nei quali si percepisce con chiarezza un'aura marcescente che non lascia presagire nulla di buono; anzi, accentua una sorta di deviazione dalla normalità che pare riflettere la situazione psicologica del gruppo di esseri umani che li popolano (pp. 8, 11-15, 52-53, 66-67, 149, 175, 203-205, 210-211, 253, 268, 272-275, 281-282, 286, 288-289, 296-298, 301). Non siamo ai livelli di quelle della saga di Bencolin, ma comunque pure in "I Delitti della Vedova Rossa" non ci appare strano che succedano vicende di sangue, al debole chiarore della luce delle candele e dei caminetti quasi spenti, dal momento che è come se l'autore ci avesse proiettato indietro nel passato e immerso in una storia ambientata tra la fine del Settecento e Ottocento: ciò che accade esprime un modo di vivere che mescola la raffinatezza snobistica dell'epoca dei proprietari terrieri e, allo stesso tempo, getta una luce potente su quanto in quel momento storico quegli stessi agissero da semi barbari, assetati di odii e vendette per amori tormentati. La stessa Londra di "I Delitti della Vedova Rossa", come quella di "L'Arte di Uccidere", è talmente nebbiosa e misteriosa e in qualche modo impersonale che potrebbe nascondere fantasmi che emergono dal vittorianesimo come automobili dei primi del Novecento; turba il lettore il quale non riesce a farsi un'idea chiara del luogo in cui si sta svolgendo il racconto, simile a un incubo ad occhi aperti in cui avvengono fatti inspiegabili. L'invito rivolto a Tairlane, passante semi disinteressato, di unirsi al circolo di giocatori intenzionati a sfatare il mito della Vedova, con il suo carico di incertezza e di mistero sottolineato dall'aspetto deserto e solitario di Curzon Street; i continui riferimenti al pericolo che la Camera può scatenare sui suoi occupanti, nonostante l'aria dimessa e quieta; i numerosi momenti in cui Casa Mantling ci viene presentata come mezza disabitata e popolata dagli spettri del passato: tutto viene caricato di una forte emozione che si divide tra il brivido di eccitazione e quello dello sgomento che paralizza. È in questo senso che Carr ha mantenuto un'espressione dei fatti un po' sopra le righe; per il resto, come dicevo, la tensione e la cappa pesante di dramma che avevamo trovato in "L'Arte di Uccidere" viene almeno un po' alleggerita. In quale modo? Ebbene, in "I Delitti della Vedova Rossa" l'autore riesce a trovare una valvola di sfogo a questa sua tendenza ad esagerare nell'essere pittoresco grazie all'uso della Storia, intesa con l'iniziale maiuscola e uno tra i suoi interessi principali (come dimostreranno i gialli storici che produrrà più in là con gli anni).

Attraverso di essa, infatti, Carr sfrutta la capacità di descrivere scene raccapriccianti calandole in un passato che pare ossessionare i personaggi, ma senza renderle il centro della vicenda. Mi spiego meglio. Il capitolo 9 è un chiaro esempio di ciò che intendo, dal momento che narra una sorta di lunghissimo flashback nel quale ci viene raccontato con doverosi dettagli veritieri quanto dovesse essere terribile vivere nella Francia post Rivoluzione, nel Regno del Terrore. In esso, l'autore si diverte a scendere in particolari spaventosi, ad evocare immagini di gente decapitata in nome della Libertà e di un ideale che non era riuscito a manifestarsi con i dovuti contenimenti, a spiegare quanto Charles Brixham abbia patito e sia rimasto profondamente segnato da quanto ha visto coi propri occhi. Carr narra del suo incontro con la bella Marie-Hortense Sanson, del suo sbigottimento nello scoprire che i membri della famiglia di lei erano incaricati da secoli del triste ruolo di boia, della situazione insopportabile che la vecchia Marthe si era impegnata a creare per farlo impazzire; e fa tutto questo senza lesinare nel raccontare quanto di più orribile dovrebbe essere accaduto nella realtà dei fatti. Per il resto della storia, egli non si sofferma più di tanto su scenari paurosi e inquietanti, pur senza dimenticare di dare qualche tocco horror ad essa. Però nell'ideare la leggenda della Camera della Vedova ha lasciato libera la propria fantasia; in questo modo, ha trovato un adeguato compromesso alla propria inclinazione come narratore tra il "gotico" e il puro enigma tradizionale all'inglese. In sostanza, ha creato una sorta di miasma che parte dal passato e si propaga nel presente, influenzandolo ma non pregiudicandolo... O forse è così, in un certo senso? In molti, infatti, hanno lamentato come questa soluzione sia di poca efficacia e contribuisca soltanto a mostrare come egli fosse interessato a descrivere invece di intrattenere. In realtà, io non lo penso. Certo, Carr si diletta nel dilungarsi su fatti che magari sono inutili al fine della scoperta della verità sugli omicidi di Casa Mantling; ma sono convinto che senza di essi il mistero di "I Delitti della Vedova Rossa" non avrebbe avuto quella speciale aura tra il minaccioso e l'ipnotico. Essi sono parte integrante e necessaria di questo interessante romanzo, perché contribuiscono ad evocare l'atmosfera gelida degli ambienti in cui è calato il racconto e le tenebre pervase dall'orrore e dalla tensione in cui si muovono i personaggi. Sembra come di camminare in stati d'animo che non ci lasciano mai indifferenti. Ciò che convince meno e piazza "I Delitti della Vedova Rossa" sotto ad altri titoli dell'autore come "Le Tre Bare" e "Il Terrore che Mormora", a mio parere, riguarda l'enigma stesso.

John Dickson Carr, nato
nel 1906 e morto nel 1977
Questo è un peccato, dal momento che l'ingegnosità delle trame e il fascino per "l'impossibile che diventa realtà" sono sempre state caratteristiche innate di John Dickson Carr (o Carter Dickson, per usare lo pseudonimo con cui firmò i romanzi con Henry Merrivale), alla pari del concetto di voler "giocare una partita" col suo pubblico ad armi pari. La pretesa del rispetto del fair-play e la scommessa che poneva in ognuno dei suoi numerosi libri farebbero pensare che egli fosse nato in Inghilterra, la patria del giallo deduttivo; invece, la città che gli diede i natali fu l'americana 
Uniontown, in Pennsylvania. Laggiù, mentre suo padre aveva felicemente intrapreso la carriera di avvocato e pregustava una futura associazione col figlio, Carr iniziò invece il lungo percorso che lo avrebbe portato a diventare uno dei giallisti più famosi di tutti i tempi: dapprima, dimostrando una memoria formidabile con la recitazione di monologhi tratti da "Amleto", pagine di D'Artagnan, Sherlock Holmes e "Il Mago di Oz"; e poi attraverso la scrittura di racconti, pubblicati sul giornale scolastico dello Haverford College, dove esordì la figura del giudice istruttore Henri Bencolin di Parigi. Nel 1928, lo scarso rendimento scolastico spinse i suoi genitori a compiere la scelta estrema di allontanarlo dagli Stati Uniti in favore della Francia, dove avrebbe dovuto studiare alla Sorbonne. Il posto, tuttavia, non si addiceva a un giovane dalle idee conservatorie come lui e la vita da bohémien trovò una ferma opposizione da parte sua; eppure, l'ambiente si mostrò favorevole per dare il tocco finale al romanzo che stava scrivendo. Fu così che nacque "Il Mostro del Plenilunio", la versione ampliata e rivista di un lungo racconto che Carr aveva scritto ai tempi della scuola americana, "Grand Guignol", proprio con Bencolin quale personaggio principale. In esso, si possono notare le influenze che subì fin da bambino, quando si appassionò 
alla lettura grazie alle lunghe ore trascorse nella biblioteca del padre, a divorare i romanzi di cappa e spada scritti da Dumas, insieme alle avventure narrate da Stevenson e Poe, per poi passare ad Arthur Conan Doyle e soprattutto a G.K. Chesterton, il quale divenne una vera e propria ossessione per lui. Il modesto successo che arrise al protagonista di "Il Mostro del Plenilunio", rispetto ai successivi Fell e Merrivale, per qualche tempo costrinse Carr a tornare in America dai genitori; finché, nel 1930, durante una crociera, incontrò Clarice Cleaves, una ragazza di Bristol che poco dopo sarebbe diventata sua moglie.

È curioso come proprio "Il Mostro del Plenilunio" sia stato il tramite attraverso cui Carr e Clarice iniziarono a scambiarsi le prime confidenze: in "The Golden Age of Murder", infatti, Martin Edwards ha spiegato che, in seguito al loro primo incontro nella sala del parrucchiere di bordo, i due futuri sposi trascorsero una serata a ballare e chiacchierare del più e del meno, finché Carr non accennò al fatto che aveva scritto una detective novel e chiese a Clarice se le avrebbe fatto piacere leggerla. In realtà, la ragazza non nutriva un particolare interesse in indagini e assassini fittizi; eppure, non ebbe cuore di deludere le evidenti aspettative del suo nuovo amico ed accettò di dargli un responso su quel libro. In quel modo, tra i due scoccò la scintilla ed entro un paio d'anni si trasferirono definitivamente in Inghilterra, dove la novella signora Carr intendeva far nascere le sue figlie. Anche suo marito (che nel frattempo aveva deciso di abbandonare Bencolin in favore di altri due personaggi molto simili tra loro, il dottor Gideon Fell e l'avvocato Henry Merrivale) fu entusiasta della scelta: dopotutto, era la patria dei suoi idoli d'infanzia, Chesterton e Doyle (del quale in seguito fu co-autore della biografia ufficiale), e sembrava che laggiù fosse il posto ideale per scrivere gialli sullo stile tradizionale; senza contare il fatto che la Storia dell'Europa cui poteva attingere avrebbe fornito molto materiale per il tipo di libri che intendeva scrivere. Un'altra caratteristica dell'opera di Carr, infatti, è quella di affondare le proprie radici in miti e leggende molto antiche: ne sono un esempio le numerose citazioni che possiamo trovare all'interno di romanzi come "Il Terrore che Mormora", la cui trama ruota sul vampirismo, oppure i culti segreti, le maledizioni e la religione degli antichi Egizi, assieme ai più recenti racconti sul boia di Londra, Jack Ketch, citati in "L'Arte di Uccidere". Si tratta di argomenti che, proprio grazie alla loro aura di velato soprannaturale, si prestano ad essere interpretati e sfruttati in modo da fornire al lettore una base relativamente reale per un delitto immaginario, e che permisero a Carr di dare sfogo a un'insaziabile sete di ricerca storica. Questa passione emerge dalla lettura di alcuni romanzi giallo-storici, come "La Sposa di Newgate", "Il Diavolo Vestito di Velluto", "La Corte delle Streghe" (uno dei suoi capolavori) e l'ultimo suo giallo pubblicato nel 1972, qualche anno prima della morte: "Il Mistero di Muriel".

Copertina di una vecchia edizione di
"I Delitti della Vedova Rossa"
Tut
tavia, 
fu il Delitto l'argomento a cui Carr si sentì più legato (pp. 24, 59, 66, 98, 101-102, 106-108, 114, 135, 184-187, 191-196, 217-218, 223-226, 245-246, 256-257, 259-260, 265-268, 293-295); tanto che i suoi detectives soffrirono di una vera e propria ossessione nei confronti della Storia del Crimine: Bencolin, Merrivale e Fell, infatti, di volta in volta si fecero portavoce dei pensieri dell'autore, attraverso semplici citazioni (pure di casi reali, come avviene in "Occhiali Neri") ma anche con l'utilizzo di piccole "conferenze" sull'omicidio e la sua applicazione nei romanzi del mistero. In qualche modo, gli omicidi di Carr si ispirano sempre alla realtà per prendere forma nella finzione, e lo scrittore non deve sforzarsi di tradurre con troppo rigore i fatti concreti che lo circondano in materiale per i suoi libri, ma limitarsi a narrare una storia che, per quanto possa apparire a volte improbabile e con personaggi simili ai burattini del teatri, procuri divertimento al lettore. Un assunto che dimostra al meglio quale fosse la concezione di Carr riguardo il romanzo giallo: costruire vicende credibili in cui, tuttavia, non mancasse quel pizzico di irrealtà che li contraddistingue da mere cronache. Non per caso egli fu il primo americano ad essere ammesso nel Detection Club, grazie al sostegno di Dorothy L. Sayers e Anthony Berkeley; dopotutto, sono evidenti la comunione di interessi per il true crime e intenti a cui egli stesso e gli autori della Golden Age miravano. Nei suoi gialli, infatti, si possono ritrovare diversi elementi che rimandano alla crime story di quel periodo: a parte l'ambientazione di cui ho discusso sopra, i personaggi vedono un evolvere della propria situazione, di libro in libro, e possiedono caratteristiche particolari che li contraddistinguono dalla massa (gli investigatori sono bruschi e imponenti, onniscienti e sanguigni; gli antagonisti subdoli e intelligentissimi; i comprimari come Guy Mantling sono interessati ad argomenti insoliti o provengono da luoghi esotici, da cui traggono la loro mentalità particolare): sono eccentrici, quasi picareschi (pp. 232-233), con caratteristiche, manie e ossessioni oppure semplici interessi che comunque li imprimono nella memoria del lettore. Ad esempio la vecchia Isabel, con gli occhi tanto azzurri da sembrare bianchi e il racconto della sua infanzia segnata dalla morte violenta del padre, lascia il segno; allo stesso modo, Alan Mantling è un omone che fa curiose allusioni, pratica il ventriloquismo, è abituato alla vita violenta perché cacciatore e sembra come perseguitato dallo spettro della Vedova Rossa.

Guy è forse quello più inquietante nella famiglia Mantling: con una testa dalla forma strana, un paio di occhiali scuri che non toglie mai (nemmeno in casa) e un carattere stizzito, nervoso e decisamente asociale, è il candidato perfetto per il ruolo dell'assassino. Robert Carstairs e Martin Ravelle sono un po' meno caratterizzati e questo è un peccato, perché avrebbero meritato un po' più di spazio, come pure il personaggio del dottor Arnold e quella degli aiutanti dell'investigatore. La parte del leone, tuttavia, spetta proprio al Vecchio, a quell'H.M. che spesso viene raffigurato come goffo oppure ironico ma qui è adeguatamente astuto e riflessivo (nonostante gli sfugga un importante indizio che non dovrebbe passare inosservato). Proprio a questo proposito, arriviamo al punto dolente di "I Delitti della Vedova Rossa": il mistero vero e proprio. Solitamente, nella narrativa di Carr gli enigmi sono costruiti con una tecnica che li rende spettacolari, fuori dal comune; un po' alla maniera di quelli di Ellery Queen, come ha sottolineato Howard Haycraft. Si tratta di favole soprannaturali dalle soluzioni apparentemente incredibili, a volte tanto complesse da non permettere al lettore di riuscire a risolvere il mistero prima che l'autore ce lo sveli, in cui il finale lascia spiazzati e sorpresi. Pure in questo caso ciò avviene... ma in una forma meno potente di quanto ci si sarebbe aspettati. Insomma, non è del tutto all'altezza. Va benissimo lo stile con cui è tratteggiato (una volta Dorothy L. Sayers disse: "John Dickson Carr ci trasporta dal piccolo, artificiale mondo del comune intreccio poliziesco nell'oscurità minacciosa che sta al di fuoriÈ in grado di creare un'atmosfera con un aggettivo e di rendere un'immagine da una cancellata di ferro, un tavolo impolverato, una lampada a gas che spunta dalla nebbia. Può metterci in apprensione con un'illusione o deliziarci con un'allegra assurdità. Ogni frase ci dà un brivido di convinto piacere"), ma ciò che critico è il fatto che alla fin fine esso sia basato su una serie di coincidenze un po' campate per aria. Non entro nei dettagli per non spoilerare, ma diciamo che se non si fossero verificate certe circostanze (circostanze che tra l'altro hanno bisogno di una spiegazione molto complessa per essere capite fino in fondo) non esisterebbero i delitti della Vedova Rossa.

Ho avuto la sensazione che l'idea di fondo fosse più interessante di quanto poi si è espresso su carta. Di solito, i delitti migliori e più stupefacenti sono quelli che si basano su trucchi semplici che producono conseguenze impensabili; nel caso di quelli di "I Delitti della Vedova Rossa" accade in contrario: abbiamo premesse che ci fanno immaginare che la storia avrà uno svolgimento pazzesco (e così è in effetti, sia chiaro), le quali però si risolvono con una spiegazione della verità che lascia un po' con l'amaro in bocca. Si prova un po' di delusione nel pensare come sia stato più eccitante il percorso che ha poi portato alla soluzione, rispetto a quest'ultima. Quello che è mancato forse è stato il ritmo giusto nell'esposizione dei fatti, oltre al fatto che le prove non sono del tutto chiare da interpretare per il lettore e il movente si ricava da un'oscura legge inglese del tempo di Enrico VIII. Voglio dire, quando spiegate da Merrivale appaiono più che sufficienti, ma se ci si arrangia non è proprio la stessa cosa perché si rischia di confondersi e infilarsi in vicoli ciechi a ogni piè sospinto. Detto ciò, in ogni caso, i metodi attraverso cui i delitti vengono perpetrati sono strabilianti e molto buoni, perché sorprendono chi legge; e poi l'idea della stanza che uccide viene sviluppata con abilità. Per tirare le somme, quindi: quale è il mio verdetto su "I Delitti della Vedova Rossa"? Se lo si considera come un romanzo giallo da leggere per passatempo, senza avere chissà quali pretese di perfezione e aspirando a trovare un mistero che sappia coinvolgere il lettore, allora questa è la lettura che fa per voi. Se invece siete alla ricerca di qualcosa che sappia darvi soddisfazioni nel campo della costruzione di un enigma plausibile, dettato dalla logica, allora forse potreste restare un po' delusi dal risultato finale. In ogni caso, rispetto ad altri gialli che ho letto negli anni, questo si piazza in una posizione molto elevata della classifica. Non è una stupidaggine e per essere compreso al meglio necessita di una certa concentrazione Semplicemente, nell'opera dell'autore, non è all'altezza di altri titoli nonostante tutto.


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