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venerdì 22 maggio 2020

33 - "Il Dramma di Corte Rossa" ("The Red House Mystery", 1922) di A.A. Milne

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Con la recensione di oggi, termina la mia breve incursione nel giallo dedicata alle storie ambientate in luoghi esotici oppure vacanzieri. Questo non significa che non esistano altri titoli, dedicati al clima primaverile-estivo, al di fuori di quelli che vi ho presentato in questo primo mese di giornate di sole e timide uscite, in seguito all'isolamento forzato causato dall'epidemia di Coronavirus; in realtà, ci sarebbero molti altri romanzi gialli classici appartenenti a questo filone che meritano un'analisi. Eppure, non voglio diventare troppo noioso e concentrarmi solo su un tipo di crime story. Quindi, tralasciando il prossimo venerdì che vedrà una recensione un po' speciale, dai primi di giugno aspettatevi qualcosa di diverso. Dopotutto, anche se non sono capace di scrivere un romanzo del mistero come quelli che mi piacciono, non voglio rinunciare ad evocare un'aura di mistero sugli argomenti delle mie prossime recensioni. Farò, insomma, un po' come i giallisti di professione, i quali non avvertono il lettore prima di stupirlo con una nuova trovata; a volte addirittura senza tirare in ballo soltanto il loro ingegno. Alcuni di loro, infatti, sono riusciti a creare avvincenti storie di successo e che si ricordano ancora al giorno d'oggi... per poi decidere di punto in bianco, per motivi differenti, di abbandonare il genere giallo. Questo sì che si può definire come un colpo di scena. Chissà cosa è mai passato per la loro testa, per indurli a una decisione tanto drastica. Forse si sono resi conto di non riuscire a tenere il ritmo per pubblicare un nuovo romanzo del mistero in tempi ragionevoli, oppure si è trattato di una sorta di passatempo e non erano interessati a continuare su quella scia, oppure ancora hanno perso interesse col passare del tempo e si sono disaffezionati alle storie di crimini e omicidi. La stessa Dorothy L. Sayers dovette far fronte a questo dilemma, poiché era maggiormente intenzionata a raccontare storie che avevano soltanto un marginale collegamento col delitto; mentre Anthony Berkeley sviluppò un carattere troppo instabile e patì pene troppo segnanti per riuscire a produrre qualcosa d'altro dopo "As For the Woman".

In ogni caso, come dicevo, alcuni scrittori (soprattutto appartenenti alla Golden Age) si sono improvvisamente risolti ad abbandonare il classico giallo ad enigma, spesso dopo il grande successo arriso alla loro prima opera di genere. Tra questi si possono citare C.P. Snow, del quale ho recensito la scorsa settimana quella che per lunghissimo tempo fu la sua unica incursione nel mystery, "Morte a Vele Spiegate"; Dermoth Morrah, che ci ha lasciato "Il Caso della Mummia Scomparsa", esemplare giallo a sfondo universitario, prima di concentrarsi sulla scrittura di articoli di giornale; Ellen Wilkinson, esponente del partito laburista inglese, la quale scrisse "The Division Bell Mystery" basandosi sulla sua esperienza al Governo; la coppia Horatio Winslow-Leslie Quirk, con il capolavoro del delitto impossibile "Svanito nel Nulla"; l'americano F.G. Parke, del quale non si conosce la vera identità ma solo il romanzo "La Sera della Prima"; T.L. Davidson e il suo "Omicidio in Laboratorio"; Richard Connell con il mystery "Delitto in Mare"; Alfred Meyers e il suo "Aria Mortale". Ognuno di questi signori (e signore), pur dedicandosi ad altre occupazioni di carattere politico, scientifico, narrativo, musicale, didattico, cinematografico, tentò la strada del giallo e, sfortunatamente, non riuscì a resistere alla tentazione di prendere altre strade o a sostenere il carico di lavoro che comportava l'ideazione di omicidi fittizi. In compenso, riuscirono a diventare celebri in altri ambiti; sebbene, da parte mia, avrei preferito scoprire quali altri misteri sarebbero riusciti a creare. Eppure, nessuno di loro ha mai raggiunto una fama tanto grande ed è stato tanto in anticipo sui tempi come ha fatto uno dei narratori moderni più importanti tra tutti: A.A. Milne, l'inventore di Winnie-the-Pooh. Ricordato al giorno d'oggi soprattutto per le avventure del piccolo orsetto e dei suoi amici del Bosco dei Cento Acri, Milne compì l'impresa straordinaria di ottenere pari fama sia nell'ambito delle storie per bambini sia in quelle a carattere delittuoso, grazie alla sua unica incursione nel genere giallo, uno dei romanzi gialli più leggeri e divertenti di sempre: "Il Dramma di Corte Rossa" (Polillo Editore, 2003), il quale costituisce un mirabile esempio di giallo "soleggiato-vacanziero" (per restare in tema con i titoli del mese di maggio) e vede, per la prima volta, la nascita della figura dell'investigatore scanzonato e dell'indagine intesa come atto di divertimento e svago, oltre che di inchiesta per la scoperta di un colpevole. Si tratta di un tipico delitto della casa di campagna, in cui si sommano moltissimi elementi di cliché che negli anni a seguire avrebbero costituito il racconto del mistero. Un giallo troppo stereotipato, penserà qualcuno; eppure vi posso assicurare che esso è l'eccezione che conferma la regola, dove l'eccesso di maniera dà vita a quello che Rex Stout, inventore di Nero Wolfe, definì come un libro "semplicemente incantevole" nella sua deliziosa ingenuità.

Red Cottage (Essex), 1927, di Eric Ravilious, simile alla
Corte Rossa di proprietà di Mark Ablett
La vicenda si apre fin da subito in un un'atmosfera da sogno: a Corte Rossa, la casa di campagna del filantropo e gentiluomo Mark Ablett, è l'ora della siesta, quel particolare momento della giornata in cui si è troppo stanchi per muovere un dito e si prova un particolare piacere nel restare ad ascoltare il lieve suono della falciatrice al lavoro sui campi lontani. Nell'edificio si trovano pochissime persone, poiché gli ospiti dell'ultimo fine settimana hanno deciso di recarsi al vicino campo da golf per fare qualche oziosa partita: nell'atrio ombroso e fresco, seduto in una poltrona, Matthew Cayley, cugino di Mark, sta leggendo un libro; in un punto imprecisato della casa, Ablett si aggira turbato in attesa dello sgradevole incontro che a breve dovrà affrontare con Robert, il fratello; in cucina, infine, alcune domestiche stanno allegramente chiacchierando proprio sull'imminente ricongiungimento degli ultimi esponenti dell'antica famiglia degli Ablett. Come fa notare l'anziana signora Stevens alla nipote Audrey, a Corte Rossa non succedeva niente del genere da tempo immemore: infatti, Mark ha sempre tenuto nascosto il fatto di essere legato da rapporti di parentela con un individuo che, a suo tempo, è stato allontanato dall'Inghilterra e additato come "pecora nera". Eppure, adesso sembra sia giunto il momento che tutti i nodi vengano al pettine, poiché l'arrivo di Robert è stato annunciato all'ora della colazione con grande enfasi a tutti quanti (forse per avvertirli in caso di cattive sorprese?) e le premesse lasciano intendere come egli stia per sconvolgere la pacifica tranquillità della casa di campagna.

E infatti Robert arriva, puntuale come un orologio svizzero e con un'aria tanto scontrosa che Audrey si chiede quali siano le sue reali intenzioni. Subito il visitatore viene fatto accomodare nello studio a est della casa e la ragazza corre ad avvertire il padrone di casa, incuriosita dalla reazione di quest'ultimo alla vista del fratello; tuttavia, ben presto la faccenda si fa complicata e tragica. Mentre Audrey si trova in giardino, dentro Corte Rossa si ode uno sparo che mette in allarme tutti quanti, a partire dalle domestiche in cucina fino a Cayley, il quale scopre di non riuscire ad aprire la porta che collega lo studio all'atrio in cui si trova. Cos'è successo davvero dietro l'uscio serrato? L'arrivo fortuito di Anthony Gillingham, amico di uno degli ospiti della casa, Bill Beverley, permette la repentina scoperta del cadavere di Robert, chiuso nella stanza in cui egli era stato sistemato in attesa del fratello. A quanto pare, è stato ammazzato da un colpo di pistola e Mark, che secondo la testimonianza del cugino si era unito al morto pochi minuti prima dello sparo, è svanito nel nulla. Che sia fuggito perché temeva di essere accusato del delitto? Tutti si convincono che le cose siano andate così, da Cayley al giovane Beverly agli altri ospiti della casa; eppure Gillingham ha qualche dubbio a riguardo. Alla scoperta del cadavere, egli ha notato una serie di strani dettagli che lo hanno insospettito sul reale svolgersi dei fatti e, un po' per mancanza di altri passatempi e un po' per curiosità, decide di mettersi ad indagare per conto proprio, con Beverly a fargli da spalla. I due si trovano ben presto di fronte a una serie di sfide e di ostacoli che li metteranno alla prova, tra passaggi segreti e gite subacquee, fino a scoprire una verità forse non così imprevedibile, ma di sicuro sorprendente se basata sulle convinzioni che la polizia e gli altri testimoni si erano costruiti all'inizio della vicenda.

Pianta di Corte Rossa
Anche questa volta, ci troviamo nella situazione di partenza che avevamo riscontrato con "Morte a Vele Spiegate": tratteggiata così, infatti, la trama pare avere tutti gli ingredienti del tipico romanzo giallo che gli appassionati di crime story classica amano; anzi, se li contiamo risultano quasi troppi per poter essere accettati e sopportati. Non che la cosa stupisca più di tanto: "Il Dramma di Corte Rossa", infatti, risale al 1922, agli albori di quella che sarà la Golden Age del mystery di stampo inglese; per cui è abbastanza prevedibile che non ci sia chissà quale elemento di originalità al suo interno e che a dominare la scena siano soprattutto quelli che oggi consideriamo cliché a tutti gli effetti. Inoltre, non bisogna aspettarsi che questo romanzo rivoluzioni il genere; ricordiamo che il mondo era nel bel mezzo di una guerra sanguinosa, dalla quale si cercava di sfuggire per qualche ora impegnando la mente in esercizi divertenti, e che quindi la priorità era quella di ideare vicende leggere e intriganti ma non aveva ancora preso piede la vera e propria sfida tra narratore e lettore. Eppure, a differenza del libro di Snow, in questo caso ho amato ogni pagina di "Il Dramma di Corte Rossa". Cosa strana, considerando il fatto che, oltre alla presenza di aspetti inflazionati nel racconto del mistero, l'enigma stesso sia da considerare come molto inferiore a quello che è stato costruito in "Morte a Vele Spiegate", in quanto a complessità ed ingegnosità.

Come spiegare questa reazione da parte dei lettori (parlo al plurale perché ho accertato che siamo stati in molti ad apprezzare e lodare il romanzo di Milne)? Ebbene, la risposta che mi sono dato è che, sebbene entrambi gli autori abbiano dato vita a una sola opera di pregio di genere giallo, Snow non possedesse la capacità di dipingere una storia di omicidi di stampo prettamente classico, dotata di quegli elementi che la caratterizzarono per tutto il corso della sua epoca più sfavillante e capace, allo stesso tempo, di raccontare come fosse il mondo del primo Novecento e di intrattenere chi leggeva con grazia e simpatia; cosa che, invece, Milne ha dimostrato a più riprese di possedere. Mi spiego meglio, prendendo a sostegno come "Il Dramma di Corte Rossa" è stato giudicato da uno scrittore molto famoso negli Stati Uniti, uno dei padri del giallo hard-boiled, Raymond Chandler. Egli ha passato al setaccio questo romanzo e ne ha fatto oggetto di una celebre analisi all'interno del saggio "La Semplice Arte del Delitto", osservando come esso tratti una storia tutt'altro che credibile, se confrontata con altri romanzi del mondo dei duri a cui lui era molto legato. Secondo lui, non era plausibile che tanti elementi del mistero fossero lasciati al caso: che l'inchiesta del coroner venisse basata su un processo privo di alcun documento ufficiale sulla vittima e su Mark Ablett; senza l'analisi del cadavere da parte del medico legale, indispensabile in casi di delitto; sulla testimonianza di molti testimoni sospettati; sulla quasi totale ignoranza nei confronti della figura di Robert; sulla troppo ingenua fiducia della polizia. Per non parlare del fatto che Gillingham fosse raffigurato in modo troppo irreale e scherzoso ("rabbrividisco al pensiero di quello che gli farebbero i ragazzi della Squadra Omicidi del mio paese" sentenziò).

Ora, se confrontate con altri mysteries del periodo, tra quelli di Sayers, Christie o Berkeley, queste critiche alle inesattezze sono fondate: ci troviamo senza dubbio di fronte a un giallo tutt'altro che perfetto e pieno di cliché, e non possiamo che essere d'accordo con le argomentazioni di Chandler; benché voglia ricordare ancora una volta come il libro di Milne appartenesse agli albori del giallo ad enigma della Golden Age. Però, detto questo, vorrei sottolineare due cose: innanzitutto, nel fare la sua analisi, Chandler era di parte e avrebbe apertamente considerato qualunque cosa al di sotto del romanzo dei duri, se solo avesse potuto farla franca; quindi, bisogna intendere le sue parole negative sul caso di Corte Rossa con molta cautela. Inoltre, cosa più importante, vorrei mettere in luce un fatto che moltissimi critici tendono a dimenticare, quando recensiscono un'opera di svago: ognuno di noi decide di approcciarsi alla storia fittizia in modo differente, quindi non è detto che, se a uno non è piaciuto un dato libro, esso debba fare schifo anche a un altro (e viceversa). La cosa varia in base a fattori diversi: c'è chi leggere per intraprendere una sfida mentale, chi fa come le persone vissute nel 1920 e vuole soltanto svagarsi un po', chi intende la crime story come passatempo e perciò non ha grandi pretese sul rispetto delle regole del fair-play, o sul fatto che vengano impiegati cliché o introdotte innovazioni originali. Personalmente, dalla lettura di gialli cerco di ricavare informazioni sul mondo del primo Novecento, oltre che desiderare un mistero affascinante e una certa sorpresa. Quindi, per concludere la digressione, bisogna tenere da conto, quando si fanno delle critiche su un dato argomento (io stesso mi sforzo di mettere in luce pregi e difetti allo stesso modo, così da dare una visione d'insieme), che ciò che noi amiamo potrebbe essere noioso per altri. E "Il Dramma di Corte Rossa" ha messo d'accordo un sacco di persone, nonostante le sue lacune. Come mai?

Esso può essere considerato secondo diversi punti di vista. Da quello strettamente enigmistico, può non valere molto per un appassionato: infatti, è innegabile che nel libro ci sia, da parte dell'autore, un uso smodato di passaggi segreti, travestimenti e altri elementi fin troppo usati nel giallo, insieme a molte imperfezioni e ingenuità. D'altra parte, però, è pur vero che il romanzo si legge che è un piacere, proprio grazie al suo essere leggero, grazioso, confortante. In esso, sembra contare più il viaggio del mistero, come se l'autore volesse intrattenere con una storia graziosa piuttosto che creare chissà quale capolavoro del giallo. Questa è la grande differenza con "Morte a Vele Spiegate" e il motivo per cui Chandler lo bocciò. Nel caso di Snow il delitto, costruito con ingegnosità quasi calcolatrice, era il centro di tutto quanto: esso era stato curato con fredda astuzia e costruito come se la vicenda dovesse essere rappresentata per un pubblico di attenti codebreaker, trattato come un quesito matematico a cui viene accostata l'indagine delle emozioni e dei caratteri dal punto di vista scientifico-analitico, senza dare importanza al sentimento vero e proprio e senza lasciarsi mai andare, come se fosse un delitto far trapelare che, dietro a ogni cosa, ci fosse un'anima. Il risultato, di conseguenza, era stato qualcosa di artificioso e irreale, in cui tutto si concentrava sul caso e mai sul lato "umano" della storia (non per niente le uniche parti dove emerge una parte di genuinità sono quella allo stadio, con l'ironica tirata di Finbow sulle capre e le pecore accostate agli studenti di istituti privati e licei pubblici, e quella all'ospedale, con i pomposi e vivaci Boothby e Parfitt). L’ironia incarnata da Birrell e la signora Tufts veniva trattata da Snow (che ne era privo) come una caratteristica poco seria, che trasformava tali personaggi in macchiette da prendere in giro; non riesce a spezzare la tensione e ad allontanare la mente dal caso, ma costituisce un pretesto cinico per dimostrare come il mistero viene affrontato (malamente) dalla polizia ufficiale in confronto al metodo di Finbow. Milne, invece, con questo romanzo decide di incarnare l'ideale di Thomas de Quincey e il suo "L'Assassinio come una delle Belle Arti" e di dare una svolta al giallo improntato al solo problema matematico, abbandonando l'austerità come avevano già iniziato a introdurre Christie e Sayers in "Poirot a Styles Court" e "Peter Wimsey e il Cadavere Sconosciuto", introducendo per la prima volta il componente principale che avrebbe fatto la fortuna delle storie di Berkeley: il brillante chiacchiericcio e il lasciarsi andare un po', trattando il giallo non solo come un austero cruciverba ma raccontando piccoli episodi di vita quotidiana per spezzare la gelida routine dell'indagine.

In questo caso, l’ironia diventa qualcosa di leggero, un elemento che contribuisce a far avvicinare non solo il ristretto numero di amanti del giallo, ma soprattutto la gran quantità di persone che desiderano leggere una storia simpatica, che abbia o meno a che fare con un delitto. Credo sia questa la ragione del successo tra il pubblico e gran parte della critica di "Il Dramma di Corte Rossa"; tanto grande da rendere la disamina denigratoria di Chandler come una sorta di lamentela capricciosa di un collega invidioso. Leggere questo romanzo vuol dire rasserenarsi, entrare in un mondo migliore, garbato, pulito e ordinato, nonostante vi venga commesso un delitto; e alla fine conta poco la perfetta esecuzione del mistero tanto casa a Snow. I difetti scompaiono di fronte al lettore medio (e al giallista meno manicheo di Chandler), poiché egli viene catturato dal racconto e avvolto dal modo grazioso in cui è narrata la storia, dall'intreccio godibile, dal crogiolarsi beato nelle splendide descrizioni della campagna inglese, dai dialoghi brillanti e dall'umorismo garbato che permea tutto il libro, anche nei momenti più drammatici.

Alan Alexander Milne, nato nel 1882 e
morto nel 1956
D'altronde, Alan Alexander Milne era quello che si può definire come "uno scrittore di vocazione". Nato nel 1882, fu il terzo di tre fratelli: egli stesso, Barry (il maggiore) e Ken (il minore). Se col primo ebbe sempre un rapporto molto difficile e caratterizzato da una feroce inimicizia, col secondo instaurò uno straordinario legame di cordialità che gli permise di scoprire la propria strada letteraria. Infatti, dopo gli studi alla Henley House di Londra (diretta dal padre), sotto l'ala protettrice di nientemeno che H.G. Wells, e la Westminster School, approdò col fratellino al Trinity College di Cambridge, dove come duo iniziarono a collaborare a "The Granta", la rivista umoristica pubblicata in loco. Fu questo l'inizio della sua carriera di scrittore, poiché durante gli anni universitari Alan iniziò a scrivere anche per altre testate; tra cui il "Punch", dove venne assunto in pianta stabile nel 1906. Nel frattempo, un anno prima aveva pubblicato una serie di pezzi sotto il titolo "Lovers in London", un volume che in seguito avrebbe ripudiato e del quale si affrettò a riacquistare i diritti per non vederlo più ristampato. Nel 1913 sposò Dorothy de Selincourt, e poco dopo si arruolò per andare in guerra. Nel 1919, al ritorno dal fronte, si aspettava di tornare a scrivere per il "Punch" ma dovette accettare il fatto che, alla redazione, si erano ormai adattati a trovare un suo sostituto, che producesse contenuti adatti alla testata umoristica invece di baloccarsi con opere teatrali (come aveva fatto lui). In questo modo, Milne cambiò rotta e si concentrò sulla scrittura di testi per il teatro, i quali gli diedero tanta fama quanto critiche (egli fu sempre molto suscettibile a riguardo). Ormai famosissimo, decise di nuovo di tentare una strada diversa e, nel 1922, scrisse "Il Dramma di Corte Rossa", il quale venne accolto ancora una volta tra critiche feroci (come quella di Chandler) e lodi sperticate, tanto da diventare in breve uno dei più grandi gialli di tutti i tempi. Questo forse sarebbe bastato per un uomo normale: dopotutto, ormai avrebbe potuto dedicarsi esclusivamente al teatro o al mystery fino alla fine dei suoi giorni. E invece, di nuovo, Milne intraprese una sfida all'apparenza disperata: decise di scrivere per i bambini, ottenendo l'ennesimo trionfo con i quattro volumi sull'orsetto Winnie-the-Pooh e i suoi amici del Bosco dei Cento Acri (tra cui il bambino Christopher Robin, alter ego del figlio di Milne).

È curioso come egli, poco dopo, iniziò ad odiare la sua creazione: forse desiderava essere ricordato per le sue opere più impegnate, come accadde a Christopher St. John Sprigg. A quel punto, dunque, decise di abbandonare l'orsetto al suo destino, ma stavolta il pubblico non gli perdonò l'affronto; tanto che le sue opere successive non riuscirono nemmeno lontanamente ad eguagliare il successo ottenuto con Winnie. Intanto i rapporti con Christopher si erano deteriorati poco a poco e Alan decise di trasferirsi con la moglie nel Sussex, a vivere in campagna. Laggiù trascorse gli ultimi anni della sua vita, finché nel 1952 venne colpito da un ictus e dovette essere operato al cervello; l'intervento gli salvò sì la vita, ma lo rese invalido fino al 1956, quando morì. Questo suo carattere difficile può far pensare che Milne fosse un vecchio antipatico, dal quale era meglio stare alla larga; eppure, Clarice Carr (la moglie del celebre giallista John Dickson) lo ricordò in un'occasione particolare, durante una delle cene al Detection Club (al quale Alan venne chiesto di unirsi grazie al suo celebre giallo e ad alcuni racconti sporadici sullo stesso genere): sconcertata, lo descrisse come "il tipo puramente inglese, bello da vedersi come una star cinematografica, magro e ben proporzionato, né piccolo né troppo alto, leggeri capelli marroni... Si portò in un angolo e si sedette laggiù, senza parlare o guardare nessuno". La spiegazione del suo comportamento, tuttavia, non è da imputarsi a snobismo o indole scostante, ma solamente a timidezza e reticenza (come affermarono John Rhode e Dorothy L. Sayers). Da parte mia, l'ho sempre immaginato come uno di quei vecchi gentiluomini d'altri tempi, duri ma capaci allo stesso tempo di essere affascinanti e di intrattenere con storie argute: in fin dei conti, aveva lavorato al "Punch" come Berkeley e non mi sarei aspettato una vena umoristica poco sviluppata. Quella stessa emerge da ogni sua opera letteraria: nei testi teatrali, in Winnie-the-Pooh e, ovviamente, anche in "Il Dramma di Corte Rossa", dove essa riesce ad amalgamare ogni elemento della trama e della struttura narrativa in modo egregio e leggero.

Pensate che, nella ristampa del suo romanzo giallo del 1926, inserì un'introduzione in cui spiegava come egli intendesse la crime story e cosa, a suo parere, essa dovesse essa mettere in scena. Stilò quindi una piccola scaletta di regole da seguire (come fecero Monsignor Knox, T.S. Eliot e S.S. Van Dine; il tutto con intento ironico, s'intende): spiegò che il romanzo doveva essere scritto in inglese corrente; che non doveva esserci al suo interno alcun interesse amoroso, soprattutto per l'investigatore, il quale doveva essere impegnato a risolvere il caso e non ad intrattenere allegre relazioni; che il detective e l'antagonista non dovevano avere conoscenze particolari ad avvantaggiarli nell'ideazione del delitto e nel raggiungere la sua soluzione; che la scienza non doveva essere impiegata troppo spesso per giustificare prove e indizi; che le conoscenze del lettore dovevano essere sempre messe sullo stesso piano di quelle della spalla di turno, senza nascondere alcun elemento fondamentale o a fare rivelazioni finali; infine, che ci dovesse essere uno "Watson" ad interpretare il ruolo del lettore all'interno del racconto. Questa lista deve essere presa in modo ironico, come dicevo; eppure, se ben guardiamo, ci accorgiamo che tutto ciò è stato inserito in "Il Dramma di Corte Rossa": oltre all'ambientazione tradizionale, quella di un mondo "alla Wodehouse" in cui l'estate è eterna, il tè e i tennis party si sprecano, la guerra non è mai esistita e solo ogni tanto appare qualche cadavere di sfuggita, un po' somigliante a quella di "La Pietra di Luna" di Wilkie Collins, in cui viene dipinta la società de tempo; oltre all'atmosfera rilassata e sognante, caratterizzata dal piacevole chiacchiericcio tra una governante e una cameriera, dalla calda giornata estiva nella quale si ode solo il brusio delle api e una falciatrice lontana, da simpatici ospiti scrocconi e sfaccendati (tra cui i proverbiali maggiori dell'esercito, anziane signorine e giovani delicate forse poco tridimensionali, vedi pp. 7-10, 13-15, 17-20, 23-25, 52-58, 63, 75-79) che a quel tempo erano parte del tessuto sociale e tranquillamente tollerati; oltre a tutto ciò, insomma, abbiamo una coppia di protagonisti che, parodiando il genere con la giusta alchimia e battute e riferimenti simpatici, decidono di giocare a Sherlock Holmes e Watson (pp. 87-88, 90, 95-97, 108, 113-118, 121-122, 127-128, 136, 139, 142-143, 147-152, 171-177, 188, 195-196, 201-202, 209, 212, 214, 218-219, 240, 244-245) all'interno di una storia piena di elementi fin troppo usati nel giallo: a partire dal titolo (che sembra proprio accennare al classico delitto della casa di campagna), troviamo poliziotti un po' ottusi ma abbastanza svegli da capire che la faccenda è più complicata di quanto sembri; passaggi segreti dietro gli scaffali pieni di libri, aule di tribunale colme di gente in attesa del verdetto del coroner, confessioni finali in forma di lettera, fantasmi finti.

Lo stesso Gillingham incarna lo stereotipo del giovane ricco che, alla pari di Lord Peter Wimsey, decidere di dedicarsi all'indagine da dilettante per passare il tempo e rendersi utile, grazie alla capacità di registrare tutto e conservarlo nel subconscio; mentre Bill è il giovane sfaccendato "alla Bertie Wooster" tanto presente nei classici mysteries, un po' ingenuo e vanesio ma fedele. Insieme costituiscono le due facce dell'indagine: quella che si diverte ad indagare, per puro spasso, e quella consapevole della tragedia avvenuta, più seria quando fa ragionamenti nella sua testa (pp. 36-39, 56-60, 66-70, 80-81, 89-91, 96-97, 99-102, 104-105, 111-112, 122-123, 132-134, 137-138, 140-141, 143-144, 167-170, 183-184, 191-193, 197-203, 242-244). Lo stile garbato e simpatico, pieno di piccole osservazioni dell’autore (pp. 18, 24-27, 41-42, 52-54, 67-68, 73-77, 95-96, 109-110, 119-121, 147-151, 157-159, 179-182, 186-188, 217, 222) con cui viene tratteggiata tutta la storia, infine, restituisce al lettore un giallo sempre giocato sul filo del divertissement, dove le sue leggerezza e allegria (non c'è praticamente mai un momento di tensione o di reale pericolo per i due protagonisti) non appaiono mai fuori posto. "Il Dramma di Corte Rossa" è un giallo che è invecchiato, sì, ma con grazia. Ed è per questo che, a mio parere, pur nella sua ingenuità viene citato e ricordato con affetto a tutt'oggi (a differenza di altre opere più complesse e ingegnose, ma pesanti e invecchiate male); nonostante il suo enigma poco complesso, carente soprattutto nella parte dell'inchiesta (cap. 19) e nella soluzione finale, il cui confronto coi grandissimi del genere è del tutto impietoso. Penso che, in fondo, lo scopo di Milne non fosse quello di ideare una soluzione plausibile che reggesse a un attento esame, ma che il vero piacere della lettura fosse da ritrovare nell'ingegnosità della sua costruzione e nel rapporto tra i personaggi. Insomma, per concludere: il fatto che questo sia uno dei primi esempi di giallo deduttivo non deve indurci a pensare che esso sia noioso o addirittura scadente. Anzi, secondo me è da considerare ancor più straordinario proprio perché, nonostante questi difetti, "Il Dramma di Corte Rossa" ha saputo mantenere bene la propria fama per tutti questi anni, come un giallo d'epoca arguto che è invecchiato con grazia. Niente male, pur essendo un po' prevedibile sotto alcuni aspetti.

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