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venerdì 28 maggio 2021

73 - "Occhiali Neri" ("The Black Spectacles"/"The Problem of the Green Capsule", 1939) di John Dickson Carr

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Il mese scorso, nel recensire "Il Mostro del Plenilunio", mi sono reso conto di una grave mancanza che affliggeva Three-a-Penny; ovvero, non avevo ancora letto ed analizzato per voi un romanzo giallo scritto da John Dickson Carr con il suo personaggio più conosciuto, quel Gideon Fell che di frequente viene definito "dottore" ma in realtà è più un lessicografo ed esperto di lingue, oltre che investigatore dilettante celebre per le sue indagini su casi di delitti della camera chiusa. Si trattava di una circostanza ben strana, dal momento che Carr non è certo un giallista sconosciuto (io stesso, nonostante preferisca le storie ideate da Dorothy L. Sayers e Agatha Christie, lo ritengo uno tra i Grandi del genere) e in Italia, almeno tra gli appassionati, non passa molto tempo senza che qualcuno citi lui o una sua opera proprio con protagonista Fell. Avrei già dovuto sopperire a questa lacuna tra i post del blog; forse la causa di tale dimenticanza è da riscontrare nel fatto che istintivamente ricollego questo personaggio al libro "Le Tre Bare", da tanti ritenuto il capolavoro dell'autore e una tra le opere più straordinarie e spettacolari di tutta la storia della crime story di stampo tradizionale. Purtroppo, ancora una volta, esso si può trovare soltanto nei mercatini dell'usato oppure (però bisogna essere fortunati) nei siti di remainders; per questo motivo, credo, ho come "messo da parte" Fell in attesa di una ristampa di questo titolo, per introdurvelo al meglio. Eppure, ripensandoci, non è necessario aspettare che "Le Tre Bare" venga pubblicato di nuovo perché possiate fare un lieto incontro col buon, seppur burbero, dottore: ci sono tanti altri libri in cui egli appare che sono considerati come pietre miliari della classica crime novel. Penso, ad esempio, a "Il Terrore che Mormora". Non vorrei dilungarmi troppo su questo libro, nel caso in cui non lo conosciate e rischi quindi di rovinarvi la lettura, ma sappiate che tutto ruota attorno a un omicidio avvenuto in cima a una torre nel bel mezzo di un bosco, dove nessuno tranne la vittima può essere salita. L'assassino è forse un essere soprannaturale, dal momento che tra le altre cose nel libro viene affrontato nientemeno che il tema del vampirismo?

Polillo ha ripubblicato questo titolo alcuni anni fa e Rusconi lo darà in ristampa entro l'anno, per cui magari più avanti potrei approfittarne per rileggerlo e recensirlo. Ma oggi ho preferito puntare a qualcosa di diverso, proprio per presentarvi Gideon Fell in tutta la sua astuzia diabolica e forma smagliante (almeno in senso figurato). Infatti, tra le altre opere di Carr disponibili in libreria si può trovare pure la decima avventura in ordine cronologico del mastodontico dottore: "Occhiali Neri" (Polillo Editore, 2005). Questo romanzo del mistero brilla per numerosi motivi, tra i quali figurano ovviamente l'enigma, come l'autore ci ha ben abituato nel corso della sua prolifica carriera, e l'atmosfera che egli riesce a creare e a mescolare con la tensione, fino a dare vita a un miscuglio che rasenta il filo che separa il terrore dall'inquietudine. Ciò per cui penso sia fondamentale "Occhiali Neri", tuttavia, riguarda qualcosa che ha a che fare col suo contenuto, con una serie di quesiti che la sua storia solleva e diversi temi che vengono affrontati. Infatti, come era solito fare Carr nell'ideazione di trame intricate e di delitti straordinari ed eclatanti, dentro questo romanzo del mistero viene in qualche modo analizzato uno tra i crimini (e criminali) più sinistri e spaventosi: l'avvelenamento. L'autore non si è limitato a ideare una trama liscia e scorrevole, piena di tensione e di mistero, oppure ad escogitare qualche trucco per ingannare anche il lettore più attento; in questo caso, ha tracciato ad uso e consumo di quest'ultimo un ritratto realistico e veritiero di quei criminali che dimostrano di possedere abbastanza sangue freddo da somministrare qualche sostanza letale alle proprie vittime e assistere al loro lento deperimento culminante con la morte. Ancora una volta, quindi, Carr ha dimostrato non solo di essere un inventore prolifico di modi per uccidere senza essere scoperti (o quasi), ma anche di possedere una vasta cultura in fatto di criminologia e di saper applicare quanto imparato e studiato all'occorrenza, nel caso in cui avesse bisogno di mettere in piedi una storia fittizia.

Vesuvius and Pompeii, Robert S. Duncanson, 1870
Tutto ha inizio in un luogo che non ci si aspetterebbe di trovare dentro un romanzo giallo inglese: Pompei. Infatti è proprio nella più viva delle città morte (come l'ha definita il divulgatore scientifico Alberto Angela) che facciamo la conoscenza dei principali personaggi della storia. In un peristilio di una villa romana, ci vengono presentati i Chesney: Marcus, il capofamiglia, un signore piccoletto e di mezza età che osserva il mondo con sguardo disilluso e cinico; suo fratello Joe, un medico con il cattivo vizio di bere e che soffre di un'indolenza che si potrebbe definire cronica, nonostante abbia una buona reputazione e svolga il proprio lavoro con diligenza; la loro nipote Marjorie Wills, una giovane ragazza molto bella ma alquanto taciturna. Assieme a loro tre troviamo alcuni amici: il professor Ingram, il quale è una vecchia conoscenza dei Chesney e si diletta nello studio della psicologia; il giovane Wilbur Emmet, che dirige la filiale principale dell'azienda di Marcus ed è segretamente innamorato di Marjorie; un altro giovanotto di nome George Harding, il quale si è unito alla comitiva quasi per caso e adesso è in procinto di fidanzarsi ufficialmente con la signorina Wills. Tutti loro vengono illustrati al lettore attraverso lo sguardo di un'altra persona ancora, un individuo che si rivelerà essere nientemeno che l'ispettore Andrew Elliot di Scotland Yard, il quale si è imbattuto nel gruppo per caso e li sta osservando dall'ombra delle colonne romane. Il motivo? Ebbene, se dapprima lo ha fatto per mera curiosità, in seguito la sua mente attenta è stata catturata da una parola sinistra e inquietante: avvelenatore. In uno strano impeto di confidenza, infatti, Marcus ha capito come Marjorie e George abbiano intenzione di fare sul serio e ha rivelato al giovanotto il motivo per cui la sua famiglia si trova in Italia; ovvero, per sfuggire alle malelingue che vedrebbero proprio sua nipote come la responsabile di una serie di avvelenamenti avvenuti nel villaggio da cui loro provengono. A Sodbury Cross, infatti, alcuni cioccolatini di un negozietto sono stati alterati con la stricnina e un bambino ci ha rimesso la vita, e del crimine è sospettata l'unica persona ad aver avuto un contatto con la merce: Marjorie.

Se in un primo momento Harding appare sconcertato, Chesney si affretta a rassicurarlo: non deve aver alcun timore che qualsiasi persona possa accusare qualcuno di loro degli avvelenamenti. Lui, che si vanta di vedere cose che le altre persone trascurano per pigrizia e svogliatezza, ha un'idea di come debbano essere andate le cose nella faccenda dei cioccolatini: nessuno della famiglia è colpevole, e intende dimostrare quanto prima la propria teoria. Per questo motivo (e per il fatto che George si comporti in modo molto arrendevole nei suoi confronti), Marcus ha accettato di includere George nella famiglia e lo invita a riaccompagnarli in patria, per assistere a una rappresentazione della tesi che ha elaborato. Eppure, le cose non si risolveranno in modo tanto semplice. Dopo aver lasciato Pompei, i Chesney e l'ispettore Elliot si separano... per poi incontrarsi di nuovo proprio a Sodbury Cross, dove il poliziotto viene inviato per indagare sugli avvelenamenti. Ma non è tutto qui: infatti, la notte stessa in cui quest'ultimo giunge alla stazione di polizia, un allarmato Joe Chesney telefona in centrale per annunciare come il fratello sia stato ucciso davanti agli occhi di numerosi testimoni, proprio nel corso della famosa rappresentazione che doveva svelare il metodo attraverso il quale il misterioso avvelenatore avrebbe messo in pratica il proprio piano. E a coronare il tutto, il delitto è stato accuratamente registrato da una telecamera. Questo dovrebbe semplificare le cose, giusto? E invece le testimonianze degli spettatori della recita non coincidono, si confondono, ingarbugliano un caso che fin dall'inizio si presenta insolitamente caotico. Marcus è stato ucciso perché sapeva troppo? Oppure il movente è un altro? Muovendosi tra i Chesney e i loro amici (ma sono davvero tali?), Elliot dovrà fare del proprio meglio per non perdere la ragione davanti a un'indagine all'apparenza senza alcuna logica. Ma soprattutto starà al dottor Gideon Fell, di soggiorno nella vicina Bath per una cura delle acque, sbrogliare la matassa e trovare un senso logico alle pazzie che si sono verificate a Sodbury Cross e non hanno ancora trovato risposta.

Bolton Abbey, Wharfedale, Stanley Roy Badmin, 20th secolo
John Dickson Carr ha legato per sempre il proprio nome a una serie di caratteristiche stilistiche e formali che si ritrovano spesso all'interno dei suoi gialli. Tra tutte, però, penso che l'importante fulcro attorno a cui ruotano le vicende che egli ha ideato sia l'enigma (pp. 23-34, 44-45, 51-52, 60-65, 69, 88, 90, 93-94, 97, 99-100, 103-108, 121-123, 131-132, 140-147, 157-160, 182-184, 190-192, cap. 20). Forse soltanto Agatha Christie, nel corso della sua carriera e dello scorrere degli anni, si è avvicinata alla grandezza di Carr nella creazione di assassinii originali e strabilianti; eppure, nel suo caso spesso più del mistero "duro e puro" conta un'attenzione ai personaggi e alla psicologia che essi rivelano, la quale influenza l'indagine con ampio margine. L'autore di "Occhiali Neri", invece, ha fatto proprio il caso suscitato dal delitto e lo ha trasformato in una sorta di materia primordiale da plasmare, di volta in volta, per definire la struttura delle sue storie. In parole povere, non sono i personaggi a plasmare il caso investigativo, quanto il caso stesso il punto di partenza da cui poi sviluppare i suoi protagonisti. Gli omicidi di "Occhiali Neri" sono un esempio di questo procedimento: non vediamo mai un processo di scavo profondo nel sentimento e nell'emozione degli attori sulla scena (a parte qualche eccezione), quanto percepiamo questi ultimi come simili a pedine da muovere su di una scacchiera ipotetica in favore di quanto accadrà di lì a poco. I crimini che Carr decide di mettere in scena dentro ai suoi romanzi di mistero sono pianificati con una cura del dettaglio quasi maniacale; ciò che accade davanti agli occhi del lettore non è causale, ma sistematicamente organizzato come i giochi di prestigio di un mago su di un palco. Se un certo individuo farà quella cosa, dietro ci sarà la volontà dell'autore di fargli fare e agire in quel determinato modo, poiché è nella meccanica del delitto che Carr dà il meglio di sé. Meccanica che, tra l'altro, si esprime in "Occhiali Neri" in una duplice forma a dir poco suggestiva: nell'alterazione di alcuni cioccolatini all'interno di un negozio e nella scenografica uccisione di un uomo nientemeno che davanti a un pubblico attento e all'occhio inesorabile di una telecamera. Si tratta di due forme di crimine che giocano su trucchi e spiegazioni logiche, basati su domande e risposte ben precise ma che possono variare e rigirare le carte in tavola più e più volte, e affascinano non solo chi legge saltuariamente un giallo classico, ma pure gli appassionati studiosi e critici del genere, dal momento che pongono quesiti interessanti con risposte tanto inaspettate quanto ragionevoli, simili a cruciverba (non per niente proprio "Occhiali Neri" è stato dedicato a Powys Mathers, ovvero il celebre Torquemada).

Al di là dell'enigma, poi, questo romanzo giallo di Carr assume valore aggiunto per la ragione di cui ho parlato nell'introduzione: affrontare l'indagine non solo da un punto di vista "pratico", con l'investigatore fittizio che interpreta gli indizi e li sistema come in un mosaico per ristabilire l'armonia, ma pure da quello puramente teorico, utilizzando esempi tangibili per sostenere le tesi di Elliot e Fell e trasformare un racconto di finzione in un piccolo compendio della letale arte dell'avvelenatore (cap. 18). Carr, da membro del Detection Club e fervente sostenitore del valore del giallo tradizionale, ha quindi sfruttato la propria conoscenza di criminologia per illustrare al meglio a chi legge quanto i contenuti dei libri gialli siano superficiali soltanto fino a un certo punto: le storie possono essere inventate, ma in giro per il mondo reale sono esistiti e continueranno purtroppo ad esistere biechi individui, decisi ad ottenere ciò che desiderano utilizzando qualsiasi mezzo abbiano a disposizione, lecito o meno che esso sia. Pertanto, non ci stupiamo a ritrovare citati nientemeno che il sinistro H.H. Crippen, al quale l'autore curiosamente conferisce il beneficio del dubbio sul fatto che la morte di Belle Elmore sia stata o meno accidentale; i medici Palmer (che era lieto di offrire da bere agli amici intrugli letali), Pritchard (talmente desideroso di libertà da uccidere moglie e suocera che lo soffocavano troppo), Buchanan (omicida della moglie per mezzo di un mix di morfina e belladonna), Cream (antesignano del serial killer che contò vittime in Canada, America e Inghilterra) e Lamson (assassino del giovane nipote storpio con della torta avvelenata); il sacerdote Richeson che avvelenò la consorte per sposare una ragazza più giovane e ricca; l'artista Wainewright, il quale ammazzò innumerevoli persone per incassare il denaro della loro assicurazione; l'avvocato Armstrong, il quale si offendeva quando gli ospiti rifiutavano le tartine letali che offriva loro; il chimico Hoch che simile a Barbablù si liberò di diverse mogli grazie a una penna stilografica avvelenata; il dentista Waite, reo di aver tentato di ammazzare i suoceri con germi di difterite, tubercolosi, polmonite e influenza; l'inventore Vaquier, che voleva letteralmente la botte(ga) piena e la moglie dell'oste; lo studente di medicina Carlyle Harris. Tutti costoro non solo sono vissuti realmente, ma svolgono la funzione di arricchire il caso dei delitti di Sodbury Cross e ampliare il discorso sul delitto che Carr aveva sempre in mente, quando scriveva. In questo modo, "Occhiali Neri" non è soltanto un magistrale esempio di come si costruisca un mistero credibile e stupefacente, ma anche una sorta di studio sul temibile crimine dell'avvelenamento degno di un trattato di medicina. In una parola, straordinario.

John Dickson Carr, nato nel 1906 e morto nel 1977
L'ingegnosità delle trame e il fascino per "l'impossibile che diventa realtà", oltre che per i trucchi di prestigiatori come quello sopra citato, sono sempre state caratteristiche innate di John Dickson Carr (o Carter Dickson, per usare lo pseudonimo con cui firmò i romanzi con Henry Merrivale), alla pari del concetto di voler "giocare una partita" col suo pubblico ad armi pari. La pretesa del rispetto del fair-play e la scommessa che poneva in ognuno dei suoi numerosi libri (come quella costituita dallo speciale sigillo che è stato messo nella prima edizione di "Il Mostro del Plenilunio", col quale sfidava i lettori a batterlo in astuzia) farebbero pensare che egli fosse nato in Inghilterra, la patria del giallo deduttivo; invece, la città che gli diede i natali fu l'americana 
Uniontown, in Pennsylvania. Laggiù, mentre suo padre aveva felicemente intrapreso la carriera di avvocato e pregustava una futura associazione col figlio, Carr iniziò invece il lungo percorso che lo avrebbe portato a diventare uno dei giallisti più famosi di tutti i tempi: dapprima, dimostrando una memoria formidabile con la recitazione di monologhi tratti da "Amleto", pagine di D'Artagnan, Sherlock Holmes e "Il Mago di Oz"; e poi attraverso la scrittura di racconti, pubblicati sul giornale scolastico dello Haverford College, dove esordì la figura del giudice istruttore Henri Bencolin di Parigi. Nel 1928, lo scarso rendimento scolastico spinse i suoi genitori a compiere la scelta estrema di allontanarlo dagli Stati Uniti in favore della Francia, dove avrebbe dovuto studiare alla Sorbonne. Il posto, tuttavia, non si addiceva a un giovane dalle idee conservatorie come lui e la vita da bohémien trovò una ferma opposizione da parte sua; eppure, l'ambiente si mostrò favorevole per dare il tocco finale al romanzo che stava scrivendo. Fu così che nacque "Il Mostro del Plenilunio", la versione ampliata e rivista di un lungo racconto che Carr aveva scritto ai tempi della scuola americana, "Grand Guignol", proprio con Bencolin quale personaggio principale. Il modesto successo che arrise al suo protagonista, rispetto ai successivi Fell e Merrivale, per qualche tempo costrinse Carr a tornare in America dai genitori; finché, nel 1930, durante una crociera, incontrò Clarice Cleaves, una ragazza di Bristol che poco dopo sarebbe diventata sua moglie. È curioso come proprio "Il Mostro del Plenilunio" sia stato il tramite attraverso cui Carr e Clarice iniziarono a scambiarsi le prime confidenze: in "The Golden Age of Murder", infatti, Martin Edwards ha spiegato che, in seguito al loro primo incontro nella sala del parrucchiere di bordo, i due futuri sposi trascorsero una serata a ballare e chiacchierare del più e del meno, finché Carr non accennò al fatto che aveva scritto una detective novel e chiese a Clarice se le avrebbe fatto piacere leggerla. In realtà, la ragazza non nutriva un particolare interesse in indagini e assassini fittizi; eppure, non ebbe cuore di deludere le evidenti aspettative del suo nuovo amico ed accettò di dargli un responso su quel libro. In quel modo, tra i due scoccò la scintilla ed entro un paio d'anni si trasferirono definitivamente in Inghilterra, dove la novella signora Carr intendeva far nascere le sue figlie. Anche suo marito (che nel frattempo aveva deciso di abbandonare Bencolin in favore di altri due personaggi molto simili tra loro, il dottor Gideon Fell e l'avvocato Henry Merrivale) fu entusiasta della scelta: dopotutto, era la patria dei suoi idoli d'infanzia, Chesterton e Doyle (del quale in seguito fu co-autore della biografia ufficiale), e sembrava che laggiù fosse il posto ideale per scrivere gialli sullo stile tradizionale; senza contare il fatto che la Storia dell'Europa cui poteva attingere avrebbe fornito molto materiale per il tipo di libri che intendeva scrivere.

Un'altra caratteristica dell'opera di Carr, infatti, è quella di affondare le proprie radici in miti e leggende molto antiche: ne sono un esempio le numerose citazioni che possiamo trovare all'interno di romanzi come "Il Terrore che Mormora", la cui trama ruota sul vampirismo, oppure dello stesso "Il Mostro del Plenilunio". Qui sono i lupi mannari, le bestie assetate di sangue e capaci di trasformarsi in uomini e donne pur mantenendo la loro anima selvaggia, ad occupare la trama e a fornire la base per i misteri del libro. Si tratta di argomenti che, proprio grazie alla loro aura di velato soprannaturale, si prestano ad essere interpretati e sfruttati in modo da fornire al lettore una base relativamente reale per un delitto immaginario, e che permisero a Carr di dare sfogo a un'insaziabile sete di ricerca storica. Questa passione emerge dalla lettura di alcuni romanzi giallo-storici, come "La Sposa di Newgate", "Il Diavolo Vestito di Velluto" e "La Corte delle Streghe" (uno dei suoi capolavori) e viene spesso incarnata dai personaggi dei suoi gialli. Tuttavia, fu il Delitto l'argomento a cui Carr si sentì più legato; tanto che i suoi detective soffrirono di una vera e propria ossessione nei confronti della Storia del Crimine: Bencolin, Merrivale e Fell, infatti, di volta in volta si fecero portavoce dei pensieri dell'autore, attraverso semplici citazioni (pure di casi reali, come avviene proprio in "Occhiali Neri", pp. 32, 76-77, 113, 152, 195, 197, 201, 262, 263) ma anche con l'utilizzo di piccole "conferenze" sull'omicidio e la sua applicazione nei romanzi del mistero. Oltre agli avvelenatori celebri sopra citati, si possono aggiungere Edith Thompson e Frederick Bywaters che cospirarono per eliminare il marito di lei pur fallendo nel loro piano diabolico, e il celebre caso di Christiana Edmunds il quale vede proprio l'utilizzo di cioccolatini avvelenati come mezzo di eliminazione di massa e fu di ispirazione dieci anni prima per "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" di Anthony Berkeley.

"Occhiali Neri" presenta pure un'altra caratteristica tipica della narrativa di Carr: l'atmosfera. Come era già accaduto in "Carte in Tavola" di Agatha Christie e nelle sue opere precedenti, ci troviamo di fronte a una narrazione molto cupa, quasi come se stessimo camminando dentro un incubo ad occhi aperti, dal quale ci è impossibile svegliarci (pp. 7-9, 20, 22, 38-41, 54-57, 59-60, 74-75, 81-83, 95-96, 162-163, 177-184, 187-190, 210-211, 243-247). Spesso l'ambientazione è notturna (gran parte dell'indagine sul delitto si svolge la notte stessa in cui esso si verifica), ma non mancano giornate uggiose dove la pioggia batte sui vetri delle finestre, e pomeriggi di sole nei quali niente farebbe presagire che qualcosa di terribile si stia per verificare; eppure, come recita l'adagio pronunciato dal sacerdote Stephen Lane in "Corpi al Sole", il male si annida pure sotto i caldi raggi della stella che ci illumina e riscalda. Pertanto, veniamo ingannati da questa finta aria di tranquilla quiete a Pompei, mentre i personaggi discutono di avvelenatori seriali, e nel giardino di Bellegarde dove si spande l'odore delle pesche e delle mandorle amare (pp. 23-24, 37-38, 41, 67-69, 102, 118, 127-128, 153-154, 200, 223, 238). Ma non è finita qui. "Occhiali Neri" è un giallo che riveste una certa importanza non solo sotto gli aspetti formali discussi qui sopra, ma anche nei temi in esso trattati. Soprattutto, è centrale la questione sulla validità dei testimoni (cap. 7). Quante volte ci siamo imbattuti, in un classico mystery della Golden Age, su teste indecisi e su prove e dimostrazioni che potrebbero rivelarsi fallaci? Ecco, nel suo romanzo Carr smaschera quanto ci si possa sbagliare nel valutare una faccenda nonostante siamo convinti della nostra percezione sensoriale. Non solo Marcus Chesney, ma pure Fell è scettico nel ritenere valida una testimonianza non suffragata da indizi concreti: sostengono entrambi che tutti noi portiamo dei metaforici occhiali neri, simili a paraocchi, i quali ci impediscono di renderci pienamente conto di quanto ci accade intorno. Io sono del tutto d'accordo, tra l'altro. Quello che importa, tuttavia, è il modo attraverso cui Carr dimostra la sua tesi: se Anthony Berkeley aveva messo alla berlina la possibilità per l'autore di stravolgere a piacimento una trama solo inserendo nuovi indizi in "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati", in "Occhiali Neri" il Maestro del delitto della camera chiusa evidenzia la nostra innata cecità di fondo, peggiorata da chi ci inganna volutamente.

La storia è incentrata sulla percezione che i personaggi (e il lettore) avvertono, sul punto di vista che decidono di adottare e sulla direzione che inevitabilmente si rivela erronea o comunque viziata da abbagli; proprio come in "Carte in Tavola", ci accorgiamo della verità sottoposta al nostro sguardo quando essa ci viene svelata. E non serve proprio a nulla possedere una prova video, poiché anche quella può essere manipolata: mai il detto "vedere per credere" è parso tanto errato. Ciò che dovrebbe dirimere i dubbi, scacciare le ombre, mettere i fatti nero su bianco (oppure a colori, se si tratta di una ripresa più recente), sottoporre al nostro sguardo inquisitorio ciò che è accaduto, in realtà confonde ancora di più le acque, genera nuovi sospetti (perché Tizio ha mentito? Come mai invece Caio ha detto la verità, dal momento che sarebbe il nostro indiziato numero uno?), ingarbuglia la matassa in un moderno Nodo Gordiano dove i lacci sono i ricordi differenti che i vari sospettati presentano alle forze dell'ordine. A chi credere? In fondo, i protagonisti delle storie di Carr sono individui turbati, non solo dal punto di vista mentale (gli assassini), ma anche da quello emozionale: tralasciando il risvolto sentimentale tra Elliot e Marjorie, il quale è un'aggiunta alla storia (pp. 128-129, 134-135, 164, 168-169, 174, 277), essi non suscitano la nostra fiducia a causa di comportamenti ambigui, di azioni melodrammatiche e teatrali che ci fanno pensare "questi stanno fingendo" pure nel momento in cui agiscono secondo la propria particolare natura. Se Marcus si mostra desideroso di stuzzicare un assassino, non vuol necessariamente dire che sia a sua volta un omicida; se Joe Chesney punta una pistola alla tempia a qualcuno forse non lo fa apposta; se Marjorie vuole comprare del cianuro magari lo impiegherà per sviluppare alcune fotografie; se George Harding lavora in un laboratorio chimico non è detto senta l'impulso irreprimibile di sottrarre qualche dose di veleno per scopi delittuosi; se il professor Ingram è appassionato di psicologia criminale, non è detto sia lui stesso un caso clinico. Eppure, il sospetto sorge spontaneo e chi legge non riesce a concedere fiducia con facilità, acuendo i dubbi di premessa dell'enigma. Si tratta di una faccenda di caratura non indifferente, soprattutto dentro a un romanzo giallo come "Occhiali Neri", il quale non è certo facile da interpretare nel modo corretto vista l'abilità del suo autore nel depistare chi legge. Da parte mia, non posso fare altro che ribadire quanto questo libro sia assolutamente strabiliante; forse per alcuni appare un po' troppo centrato sul mistero, con la conseguenza di tralasciare lo studio della psicologia come accaduto in Blake, ma resta una prova incredibile dell'abilità di Carr nel dare vita a racconti entusiasmanti e che meriterebbero di essere senza dubbio più conosciuti.

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