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venerdì 11 dicembre 2020

54 - "Morte a Linwood Court" ("Keeps Death his Court", 1946) di Mary Durham

Copertina dell'edizione pubblicata da
Lindau Edizioni
Da alcuni anni ho intrapreso una sorta di tradizione: trascorrere tutto il periodo delle feste di Natale leggendo romanzi gialli a tema, proprio come si potrebbe fare in estate con i mysteries ambientati sulle spiagge e in vacanza. Innanzitutto, perché in questo modo riesco ad entrare meglio nello spirito giusto; ma anche perché in fondo mi piacciono molto i romanzi del mistero dove i delitti e i crimini avvengono in scenari nevosi e in occasioni che dovrebbero essere di pura gioia (ma spesso non lo sono). Il contrasto tra il calore all'interno di salotti illuminati da vivaci fiamme nei caminetti, camere avvolte dalla penombra e ritrovi tra amici e conoscenti, con il gelo che si respira dietro ai vetri appannati delle finestre, le bufere impetuose che scuotono le tegole sui tetti dei cottage e le impetuose correnti sotterranee di passioni, odi e gelosie, è forse quanto di meglio possa chiedere all'interno di un giallo scritto e ideato come si deve. E tutto ciò lo ritrovo più spesso nel "Christmas Murder Mystery". Pertanto, è sottinteso che io faccia di tutto per accaparrarmi qualsiasi titolo abbia a che fare con il Natale e ciò che ne consegue. All'inizio, a sostenermi ed aiutarmi in questa sorta di ricerca selettiva, è stato Polillo coi suoi Bassotti. Proprio in occasione delle feste, infatti, questo editore era solito pubblicare raccolte di racconti a tema (prima) oppure romanzi ambientati verso la fine dell'anno e l'inizio di quello seguente (poi). Penso, ad esempio, a "Delitti di Natale" e "Altri Delitti di Natale", i quali contengono stupende storie brevi degli autori più disparati e meritevoli; oppure a "Il Canto di Natale" di Clifford Witting, "Non si Uccide Prima di Natale" di Jack Iams, "Sotto la Neve" di J. Jefferson Farjeon, "Omicidio a Capodanno" di Christopher Bush, "La Mattina del 25 Dicembre" di C.H.B. Kitchin, "Sangue sulla Neve" di Hilda Lawrence, "Congelato" di Anthony Weymouth e "Asso di Quadri - Asso di Cuori" di Edgar Wallace. Tutti questi titoli (e probabilmente me ne è scappato qualcuno) sono stati portati in Italia e tradotti, affinché il lettore potesse divertirsi e lasciarsi suggestionare. Poi, purtroppo, questa bella iniziativa ha subìto uno stop brusco e per qualche tempo non abbiamo più trovato in libreria romanzi in veste arancione di questo genere. Ma non disperiamo, visto che sembra proprio che le cose si stiano aggiustando...

Nel frattempo, tuttavia, mentre Polillo si è fermata, il suo posto è stato preso da un altro editore, che negli ultimi anni è riuscito a instaurare un bel rapporto col pubblico e gli appassionati di giallo natalizio (e quindi a sopperire alla mancanza dell'altro editore). Lindau, infatti, ha intrapreso l'iniziativa di pubblicare un mystery a tema invernale ogni fine autunno, a partire dal 2017: ha iniziato con "Natale con Delitto" di Mavis Doriel Hay, proseguito nel 2018 con "Morte nella Neve" di J. Jefferson Farjeon (nuova traduzione di quel "Sotto la Neve" che era già stato pubblicato da Polillo, fatto significativo che mette ancora più in luce come Lindau abbia guardato all'esempio di quest'altro editore), nel 2019 "Un Piccolo Omicidio di Natale" di Lorna Nicholl Morgan. Fino a quest'anno, quando poche settimane fa è apparso il libreria "Morte a Linwood Court" di Mary Durham (Lindau Edizioni, 2020). Quest'ultimo titolo è arrivato abbastanza di sorpresa, per quanto mi riguarda: infatti, ero mezzo convinto che sarebbe stato il turno di uno tra quelli di Gladys Mitchell, che di recente sono stati ripubblicati in Inghilterra; mentre in realtà non sapevo neppure che esistesse tale Mary Durham. Però, dopo averlo letto, vi assicuro che non sono stato affatto deluso dal risultato finale. Anzi, adesso sono incuriosito di leggere gli altri romanzi del mistero di questa autrice, nonostante sul suo conto non si sappia assolutamente, categoricamente e insindacabilmente nulla. O meglio, sappiamo che ella scrisse alcuni gialli tra il 1945 e il 1952, ma per il resto la sua esistenza è avvolta nell'oscurità più totale. Un po' come è avvenuto per la stessa Lorna Nicholl Morgan, oppure per H.H. Stanners, autore di "Com'è Morto il Baronetto?", e Annie Haynes, creatrice di "Chi ha Ucciso Charmian Karslake?". Immaginate la situazione: un romanzo del mistero di Natale, ideato da una scrittrice il cui ricordo si è ormai perso nelle pieghe del tempo, e che promette un'atmosfera perfetta per trascorrere qualche ora di svago; ovviamente, mi sono subito affrettato a procurarmene una copia (inviatami da Lindau, che ringrazio). E come dicevo sopra, non posso fare altro che lodare l'iniziativa di aver riportato in auge Durham. Con il suo libro, infatti, lei è stata capace di dare vita a una storia dove non c'è nulla di particolarmente innovativo, se non l'inserimento di alcuni temi di cui vi parlerò tra poco, ma non per questo è risultato scadente. Tutt'altro: un giallo di questo tipo ha come punto forte quello di far divertire il lettore e di calarlo in un racconto dove ciò che accade è in qualche modo prevedibile, pur non essendo banale. E "Morte a Linwood Court" è riuscito perfettamente a raggiungere questo scopo, giocando su elementi tradizionali declinati in modo adeguato alle aspettative e mettendo in scena un enigma col giusto grado di fair play.

Bosco in Autunno, Luigi Bonazza, 1940, raffigurante una
foresta simile a quella intorno a Linwood Court
La vicenda si apre con un breve resoconto del rapporto che lega la giovane e bella Jean Kennet e suo marito, sir Philip Linwood. Tra i due, dopo un iniziale affetto che la ragazza ha scambiato per amore, non corre buon sangue: lui è rimasto ferito a una gamba, ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, e soffre di una nevralgia che lo ha fatto diventare mezzo matto e ha peggiorato il suo già pessimo carattere. Linwood, infatti, non sopporta che chi gli sta intorno sia allegro e conduca una vita piena di soddisfazioni; per cui, si ingegna per esercitare il proprio potere in modo da minare la felicità della servitù e della moglie, fino al punto da gettare tutti in uno stato di assoluta disperazione. Jean fatica a dormire ed è sempre sul chi va là, timorosa delle brutte figure che le possa fare Philip e di ciò che egli possa dire in pubblico; mentre il cameriere personale dell'uomo, un ex-detenuto costretto dalla disperazione ad accettare il posto, non trova un momento di pace dai pungoli che Linwood non manca di infliggergli. Ad esempio, lui vorrebbe sposarsi con la governante della casa del suo padrone; ma quest'ultimo si diverte a giocare al gatto col topo e li tiene entrambi sulla corda, minacciando di licenziarli e di benedirli a secondo dell'umore. Questa, dunque, è la situazione a Linwood Court, la villa di campagna dove si svolgerà la storia. E di essa è ben consapevole Archie, il fratello di Jean, il quale al momento è disoccupato e con la testa calda che si ritrova rischia di restare in tale situazione ancora a lungo. Per il momento è ospite di un vecchio amico di famiglia, Freddie Barrington, e non può fare altro per aiutare la sorella, se non confidando a quest'ultimo i suoi timori e chiedendogli di accompagnarlo fino a Linwood Court per le feste di Natale. Lui, infatti, si recherà laggiù per rispondere alla disperata richiesta di aiuto di Jean: forse vorrebbe dargli man forte? Inoltre, sarebbe un giovanotto capace di rallegrare quel mausoleo che è la casa di sir Philip. Il piano prevede di fare un po' di baldoria con gli altri ospiti della cena di Natale: i coniugi Arnold, che abitano in affitto nel cottage sito all'inizio del vialetto di Linwood Court; Steven Barclay e Fanny Mayne, alcuni loro parenti alla lontana che non hanno altro posto dove andare; il cugino di Philip, Everard Cape, che si è ormai stabilito come un parassita nelle stanze della villa; e un neurochirurgo di fama che sta prendendosi cura del baronetto, Robert Moore.

Stuzzicato dall'idea di rivedere Jean, della quale è ancora innamorato, Freddie accetta prontamente l'invito e decide di correre il rischio di venire offeso da Linwood. Nell'arco di qualche settimana, quindi, Archie e il suo amico raggiungono Linwood Court, dove si rendono conto che la situazione ha raggiunto il limite di sopportazione: Jean si è addirittura recata di nascosto dal medico del paese per tentare di ottenere qualche rassicurazione sulla salute mentale di Philip. Nel frattempo, quest'ultimo ha dato il peggio di sé, lamentandosi e reagendo con violenza ai discorsi degli altri occupanti della casa, oltre a minacciare di dare in escandescenze. La sera della vigilia si avvicina sempre di più, e l'arrivo di Steven Barclay (un giovanotto avvenente della Marina, con una testa calda tanto quanto quella di Archie) mette ancora più in pericolo il futuro di Jean, la quale si scopre innamorata di un uomo diverso da suo marito. Il giorno fatidico, purtroppo, Philip si comporta proprio come gli altri ospiti avevano temuto: sbugiarda la moglie e l'amante mentre il gruppo è riunito a tavola, e fa alcuni apprezzamenti sconvenienti alla moglie di Arnold, il quale si trattiene a stento dal mettergli le mani addosso. Ma non tutto è perduto, anche se l'atmosfera si è guastata. Philip è assonnato e si ritira nello studio col dottor Moore, così i giovani (a parte Arnold che si ritira presto) possono dedicarsi a fare qualche ballo e qualche gioco divertente. L'idea di giocare a nascondino al buio, suggerita da Archie, piace a tutti, e i ragazzi si avventurano a fare qualche manche. In breve in tutta la casa cala il silenzio, rotto soltanto da qualche urlo ogni tanto per avvertire che tocca a qualcun altro nascondersi. Anche nel giardino provato di Philip non vola una mosca... solo che, sul vialetto, giace il cadavere del baronetto. Chi lo ha colpito a morte? I sospettati con un movente valido sono molti, nonostante gli alibi all'apparenza giustificati, e gli agenti recatisi sulla scena del delitto non riescono a fare alcun passo avanti. Toccherà all'ispettore York di Scotland Yard, convocato a Linwood Court, intraprendere un'indagine atta a stabilire quale sia la verità, pescandola in mezzo a moventi, false piste, indizi che sembrano irrilevanti e sospettati recalcitranti a svelare i propri segreti.

Chaponval Landscape, Camille Pissarro, 1880, raffigurante
un villaggio simile a Netherby
Non vorrei essere troppo esagerato, ma dopo la lettura di "Morte a Linwood Court" mi sento di dire con quasi assoluta certezza che questo sia IL romanzo giallo di Natale di questo mio 2020. E il bello è che al suo interno, come scoprirete se lo leggerete, di neve non se ne vede nemmeno il miraggio! Però l'insieme di ciò che presenta e restituisce al lettore (oltre a una quota di tempo comunque plumbeo e suggestivamente tormentato) non viene intaccato da questa mancanza. Il romanzo di Durham ha tutte le carte in regola per essere il mystery ideale che qualunque appassionato di classica crime story sente il bisogno di divorare; quello che riesce a mettere insieme un giusto grado di tradizione con qualche tema più innovativo e in sintonia con l'anno in cui venne scritto, quando ormai la Golden Age si stava avviando alla sua conclusione in favore di un approccio più moderno dell'enigma. Infatti, a ben guardare, troviamo alcuni elementi (in realtà, quelli più numerosi) che si rifanno a una passata visione degli usi e costumi della società medio-alta inglese. Fino a un certo punto, ad esempio, possiamo seguire lo stesso percorso che Agatha Christie aveva tracciato in "Il Caso del Dolce di Natale", dove ci viene descritto a grandi linee quale fosse il modo di celebrare il Natale dei britannici: osserviamo i personaggi mentre si preparano a fare un viaggio che li porterà a contatto con amici e parenti in qualche luogo comune, come essi siano elettrizzati dall'incombente festeggiamento e si impegnino ad invitare pure persone costrette a restare da sole, la tradizione di andare alla messa del giorno di Natale, l'ideazione di balli e giochi per passare il tempo in compagnia a divertirsi, la preparazione della celebre "cena" che non può mancare in una casa di veri signori. In seguito, troviamo quell'atmosfera confortevole che spesso viene associata al giallo natalizio, fatta di nostalgia e malinconia suscitate dai caminetti accesi in camere in penombra, da stanze riscaldate contro il gelo esterno, da signore che lavorano a maglia alla luce delle lampade da tavolo e uomini intenti a leggere il giornale o un buon libro. La stessa ambientazione di "Morte a Linwood Court", quindi, ricalca il modello classico, dando vita a scenari in cui dominano i sentimenti e le passioni (pp. 56, 78, 81, 107-109). Pure le scene all'esterno, come le passeggiate di Jean e Steven, oppure le camminate che gli agenti intraprendono tra il Lodge, la casa degli Arnold, e Linwood Court lasciano sottintendere un certo coinvolgimento emozionale: dopotutto, il "Christmas Murder Mystery" è celebre proprio per le sue fortissime correnti sotterranee di gelosie e rancori. Infine, l'uso dei personaggi come punto focale della narrazione, come motore di ogni cosa ed elementi capaci di dare svolte improvvise all'indagine, e la presenza di numerose citazioni ad attestare come questo sia un libro destinato a un pubblico con un livello di cultura medio (tra gli altri, vengono nominati "Alice nel Paese delle Meraviglie", "Ignoto Contro Ignoto" di Philip MacDonald e una raccolta poetica di Wordsworth), sanciscono come il romanzo del mistero di Durham possa essere incluso nel genere crime più tradizionale.

D'altra parte, però, non è tutto qui. Se finora "Morte a Linwood Court" ha fatto propri alcuni cliché del giallo classico, bisogna pur evidenziare come esso stesse già compiendo alcuni passi in avanti, verso un modello meno impostato e meno necessariamente attinente a un tipo ben definito di racconto. Lo stile, ad esempio, mi è subito balzato agli occhi, fin dalle prime pagine. Se è vero che esso è elegante e coinvolgente, d'altra parte l'ho percepito più schietto di quanto fosse in altri romanzi del mistero che mi è capitato di leggere. Tra le altre cose, si fa un chiaro riferimento al sesso e a fare figli (pp. 9-11, 212-216), nonostante non si scada mai nel volgare e nel vouyerismo: una tresca amorosa tra amanti viene tranquillamente ammessa, quando solo qualche decennio prima si sarebbe fatto un largo giro di parole e sottintesi per suggerirla al lettore, e la situazione iniziale di Jean lascia ben poco spazio all'immaginazione. Inoltre, il sentimento che lega la protagonista a Steven Barclay viene espresso in termini sia poetici sia passionali, con momenti in cui i due si lasciano andare all'affetto l'uno per l'altra senza avere rimorsi di coscienza: mi è molto piaciuta questa chiara espressione di amore. A fare da contraltare a tutto ciò, però, è presente pure il lato negativo della psicologia umana: l'anormalità occupa un ampio spazio, incarnata dalla figura di sir Philip, e manifesta le proprie conseguenze nell'impressionante serie di sotterfugi, imbrogli e incomprensioni che costellano il caso sulla sua morte. Al carattere di Linwood è legato pure il tema della malattia nervosa e della pazzia, il quale non è poi così innovativo, tutto sommato, ma viene affrontato da un punto di vista medico attraverso il personaggio del dottor Moore e mette il luce come l'autrice dovesse avere qualche tipo di esperienza alle spalle, riguardo il trattare con persone affette da manie psicofisiche ossessive. La psicologia, tuttavia, è declinata all'interno di "Morte a Linwood Court" in molteplici forme (pp. 259-261, 263, 326-330): non solo dal punto di vista attinente alla medicina, ma pure da quello umano, descrivendo come una mente deviata possa influenzare quella degli altri e avere ripercussioni sull'esistenza delle sue vittime. È interessante notare quanto sia presente il sentimento, all'interno del libro: viene manifestato sotto forma della passione tra Jean e Steven, ma anche nella gelosia di Arnold nei confronti della bella moglie, in quella di sir Philip per le sue "amate", nel dolce corteggiamento tra Freddie e Fanny, nel disincanto di Moore per la felicità perduta dei giovanotti tornati dal fronte, i quali non possono trovare una soddisfazione dopo tanti sacrifici. Proprio il tema della guerra viene toccato e approfondito da Durham (pp. 192-193, 240-241, 243, 248, 253, 261, 299): il lettore percepisce perfettamente quale dovesse essere la frustrazione dei soldati, la loro voglia di trovare ad ogni costo un risvolto positivo in una situazione in cui erano stati gettati, senza preparazione e costretti ad arrangiarsi alla bell'e meglio. All'idealismo di un amore da sogno, si scontra la dura realtà in cui nulla viene garantito ed elargito con parsimonia; sconforto ed irrequietezza si mescolano a questa passione tenuta a malapena a freno, e l'idea di dover attendere per poter raggiungere ciò che si vuole diventa insopportabile, dopo la già lunga aspettativa. Tale disillusione, in forma meno forte, penso la sentiamo in qualche modo pure noi tutti al giorno d'oggi: sempre più spesso sentiamo il bisogno di trovare nuove forme di felicità, senza badare alle conseguenze, e ci aggrappiamo a ciò che ci dà conforto; forse è uno dei motivi per cui ho tanto apprezzato "Morte a Linwood Court", la descrizione di un'amare avventatezza per la quale siamo disposti a fare anche una pazzia. Ecco, per tirare le somme, soprattutto questo ho ricavato dall'esperienza di lettura del romanzo di Durham: un misto di classico e moderno, di tradizione e innovazione, equilibrato e divertente, all'interno del quale non mancano a manifestarsi brevi momenti di suspense e di tesa azione; cosa non scontata in un giallo che ha "solo" l'ambizione di far trascorrere qualche ora di svago, e niente più.

Durham Cathedral, di Autore Ignoto
Pertanto, adesso sono enormemente incuriosito dalla figura della sua autrice, Mary Durham. Figura che, come dicevo nell'introduzione alla recensione, è tangibile tanto quanto uno spettro: di lei, infatti, non sappiamo neppure la data di nascita e di morte, né dove visse né se si sposò mai, né se ebbe una vita felice oppure un'esistenza costellata da una lunga serie di infelicità. Tutto quanto conosciamo, si riduce al fatto che scrisse undici romanzi gialli, spesso ambientati in Cornovaglia e con protagonista (almeno in quattro casi) l'ispettore York di Scotland Yard, tra i quali ricordo "Hate is my Livery" (il primo), "Cornish Mystery" (il terzo), questo "Morte a Linwood Court", "Crime Insoluble" (il quinto), "Murder has Charms" (il settimo), "Corpse Errant" (l'ottavo) e "Castle Mandragora" (il nono). Questo è quanto. Anzi, una cosa posso aggiungerla: l'amministratore del blog "Furrowed Middlebrow" ha raccontato di aver saputo che l'editore di Durham aveva ultimamente rivelato come, nei registri della società, potesse esserci qualche resoconto su di lei. Purtroppo, alla fine la cosa non ha avuto seguito e non si è saputo nulla; però forse esiste qualche speranza di conoscere nuove informazioni in futuro. In ogni caso, è ben poca cosa. Per cui, come fare a fornire qualche informazione su Mary Durham? Da parte mia, mi diverto sempre a tentare di scovare qualche piccolo dettaglio all'interno dei suoi romanzi, che possa mettere in luce un lato del carattere dell'autore oppure qualche sua esperienza. E lo stesso farò in questa occasione, partendo dalla curiosa dedica che si trova all'inizio di "Morte a Linwood Court". Essa è composta da quattro lettere: A. C. C. H. Si tratta di una dicitura ben strana, non trovate? Quello che posso presumere è che si tratti di un conoscente, un amico o forse un parente, dell'autrice; comunque qualcuno con un nome altisonante (altrimenti sarebbe ben strano che esso sia composto da ben quattro parole). E questo mi porta a fare una piccola riflessione sul fatto che, a mio parere, Mary Durham sia uno pseudonimo. Nel nord dell'Inghilterra, infatti, si trova una contea chiamata proprio come il presunto cognome della scrittrice del nostro romanzo, con una cattedrale (sita nella città omonima) divenuta celebre per essere la "classe" di Minerva McGranitt nella saga di Harry Potter. Può essere che la scrittrice si sia magari ispirata al proprio luogo di nascita, quando decise di intraprendere la carriera letteraria? La giovane Mary, il cui cognome inizia per H, magari lo ha fatto per mancanza di alternative. Ma allora, cosa c'entra la Cornovaglia tanto inserita nei suoi romanzi gialli, se essa si trova quasi agli antipodi dell'isola britannica? E se la ragazza, in tempo di guerra, avesse fatto la stessa scelta di Christie di diventare infermiera, e si fosse trasferita in un centro sulla costa sud dell'Inghilterra per fornire il proprio aiuto? Mi piace questa idea e il fatto che, alla fine del conflitto, abbia deciso di mettersi a scrivere.

Ma non è finita qui. Avendo letto soltanto un suo romanzo è molto difficile farsi un'idea, ma può darsi che anche la trama romantica di "Morte a Linwood Court" abbia qualche eco autobiografico di quella di Durham. Il fatto che la protagonista abbia una certa propensione allo studio della psicologia e un passato da infermiera, potrebbe essere un ulteriore sostegno alla tesi che ho esposto qui sopra. Oppure magari lei è stata sposata con qualcuno che aveva bisogno di aiuto, un mezzo invalido che la trattò male come fa sir Philip con Jean. Forse Mary (se si chiamava così) ha incontrato un bel giovanotto, simile a Steven, e insieme hanno condiviso la stessa passione che infiamma i due personaggi del suo libro. Oppure in verità non è esistito nulla di tutto ciò: magari l'autrice si è identificata con la giovane Fanny, insicura ma dolce, che pian piano esce dal suo guscio di timidezza e costruisce la sua storia con l'eccentrico Freddie. O ancora, Mary ha messo se stessa in Maud, sposata ma non abbastanza adulta da rinunciare a giocare a nascondino al buio con ragazzi e ragazze più giovani, e dedita a una vita coniugale con un compagno che la ama e farebbe l'impossibile per proteggerla. Forse, forse, forse... Niente di tutto questo è sicuro. Però mi piace pensare a Mary Durham come ve l'ho descritta. E ritengo che almeno un po' lei fosse così, dal momento che ci vuole una grande sensibilità per poter ritrarre personaggi tanto umani, come quelli in "Morte a Linwood Court" (pp. 186-187). Allo stesso modo di come avvenuto in "Natale con Delitto" di Mavis Doriel Hay, ognuno di loro esprime una forte personalità, nel bene e nel male, e ci capita di confonderli tra loro poche volte. Sir Philip è meschino, gretto, vendicativo, cattivo e, tutto sommato, un pover'uomo; Jean è bella, giovane, sensibile, insicura ma decisa a trovare la felicità; Steven ha un carattere passionale, forte, è innamorato ma pure disilluso e in qualche modo ferito; Archie e Freddie, tanto diversi nell'aspetto e nel carattere, si presentano come giovani in procinto di affrontare il futuro, un po' spaesati e immaturi ma di buona volontà; Fanny è legata al mondo della provincia e ha timore, ma una volta uscita dal guscio appare inarrestabile (pp. 108-112); gli Arnold sono la tipica coppia innamorata che niente e nessuno potrà mai separare, nemmeno un bieco individuo come il baronetto. Più o meno allo stesso modo si presentano Hare e la signora Wood, innamorati e decisi a spuntarla sul resto del mondo a qualunque costo; mentre Moore incarna il brillante medico ormai divenuto anziano, e quindi cinico nei confronti della vita. Ecco, forse soltanto Everard Cape resta una figura abbastanza indistinta sullo sfondo; ma in fin dei conti non è una persona che potrebbe assumere grande rilevanza in alcun contesto.

Infine, sono di importanza capitale l'ispettore York e i suoi sottoposti, dal fedele Hammond appena tornato dalla guerra e influenzato da ciò che ha provato sulla propria pelle, fino a Cullen, l'agente di provincia che vuole diventare qualcuno che conta. Nel ritratto di ognuno di loro, e in quello dei rapporti che instaurano gli uni con gli altri, emerge un'umanità che fa quasi commuovere (pp. 228-237, 390, capp. 12-18): York si preoccupa del benessere dei suoi sottoposti, diventa come un padre per loro, un mentore dal quale trarre insegnamento e col quale si può creare un rapporto di vera amicizia. Per carità, è sempre presente l'elemento del police procedural, ma esso non domina quasi mai del tutto sul rapporto emozionale. È questo un approccio che non si trova spesso, all'interno di un romanzo del mistero: è più probabile che venga messa in luce l'efficienza data dalle forze di polizia. Per concludere, insomma, a me "Morte a Linwood Court" è piaciuto moltissimo, dal momento che è riuscito a mettere insieme tantissime cose e a farlo risultando in una lettura gradevole. Soprattutto, cosa da non sottovalutare, la sua autrice ha ideato un enigma con non ha nulla da invidiare a quello di opere più celebrate. Senza svelare troppe cose, vi posso dire che ha una costruzione solida, complessa e sostanzialmente originale, e che in esso c'è un buon grado di fair play e i colpi di scena non mancano: abbiamo sospetti che cambiano in modo rapido, moventi che di volta in volta emergono e poi svaniscono, occasioni che sembrano quelle giuste ma poi si rivelano infondate, e un buon grado di tensione e di azione che non sovrasta il lavorio mentale. Spero che, se il livello è questo, Lindau riesca a portare in Italia qualche altra prova narrativa di Mary Durham. E poi voglio mettere alla prova le mie teorie sulla sua evanescente persona. Speriamo sarà così.

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venerdì 20 novembre 2020

52 - "Uno dopo l'Altro" ("The Silent Murders", 1929) di A.G. Macdonell/Neil Gordon

Copertina dell'edizione pubblicata da
Polillo Editore/Rusconi

Come annunciato nella recensione di "Il Capanno sulla Spiaggia" della scorsa settimana, oggi tocca a quella sull'altro bel romanzo giallo che Polillo, per mezzo di Rusconi, ha dato alle stampe di recente, in seguito alla lunga pausa che l'ha caratterizzata dopo la morte del suo fondatore, Marco Polillo. Infatti, chi si fosse perso qualche passaggio sappia che era dalla pubblicazione di "Il Mistero della Candela Ritorta", risalente al luglio del 2019, che questa casa editrice amatissima dagli appassionati di classica crime story aveva interrotto qualunque tipo di uscita, dopo aver già ridotto al minimo i titoli in procinto di essere editi. La causa principale è stata, come dicevo, la morte dello stesso Polillo, il quale se ne è andato alcuni mesi dopo la pubblicazione del mystery di Wallace, lasciandoci smarriti e sconcertati di fronte alla perdita di un grande esperto e generoso complice nel perpetuare la bellezza del tradizionale giallo anglosassone, oltre che seriamente preoccupati per il destino dei suoi lodevoli Bassotti. Tuttavia, per fortuna, le cose sono andate molto bene, per noi fan del genere letterario e della collana di questi libri dalla caratteristica copertina arancione, così strana dopo il monopolio del colore giallo imposto da Mondadori un secolo fa: infatti l'editore Rusconi, già addentro nel campo del romanzo del mistero, è subentrato nella gestione della Polillo assimilandola al suo gruppo e ridandole nuova linfa vitale. Erano programmati ben quattro nuovi titoli, in previsione di maggio di quest'anno, quando i Bassotti sarebbero dovuti tornare in pompa magna; per cui, non vi dico la sensazione che noi appassionati abbiamo provato all'idea di ricominciare a vedere in libreria volumi nuovi di zecca della collana polilliana. Ma poi, come tutti sappiamo, ci è piombata tra capo e collo nientemeno che un pandemia globale, la quale ha fatto subìre una battuta d'arresto a qualunque tipo di attività editoriale (e non solo). Così, tutto quanto è ritardato a una data da destinarsi; fino al mese di ottobre appena finito, quando le cose si sono aggiustate e finalmente sono apparsi "Il Capanno sulla Spiaggia" di Milward Kennedy e "Uno Dopo l'Altro" di A.G. Macdonell. La settimana scorsa, pertanto, ho recensito il romanzo giallo di Kennedy. Se avete letto la mia analisi, vi sarete fatti un'idea su quale genere esso interpreti, andando a sondare temi e situazioni che si rifanno in modo molto sorprendente a quelle di alcuni thriller che vengono pubblicati oggigiorno.

Oggi, invece, passo a qualcosa di totalmente differente, con "Uno Dopo l'Altro" di Macdonell, pubblicato a suo tempo sotto lo pseudonimo di Neil Gordon (Polillo Editore/Rusconi, 2020). Infatti, vi avevo già anticipato come questi due titoli siano molto diversi tra loro; non solo nella forma stilistica e nel modo in cui certe tematiche vengono affrontate, ma pure nei temi e nell'interpretazione della psicologia dell'individuo (non necessariamente il colpevole). Se proverete a confrontarli tra loro, scoprirete che essi si approcciano al delitto come se fossero mondi agli antipodi, con pochissimi punti di contatto: il libro di Kennedy va a soffermarsi su una sorta di indagine in cui contano le cose non dette e ciò che emerge dallo scontro dialogico-ideologico tra i sospettati e i protagonisti, mettendo il luce l'incomprensione che regna sovrana tra gli esseri umani e l'impetuosa corrente sotterranea di passione, odio, violenza ed emozione che intercorre tra loro; "Uno Dopo l'Altro", invece, vuole mettere in scena come l'investigatore, sia professionista sia dilettante, affronti il proprio compito come una battaglia tra il Bene (che egli incarna) e il Male (impersonato dall'assassino), dove il caso viene analizzato in base a fatti ben definiti, a un'implacabile ricerca attiva che non conosce momenti di pausa, e a un approccio logico e del tutto schematico, senza lasciare spazio a riflessioni fantasiose che possano influenzare la Verità delle Prove Materiali. Poi certamente c'è l'elemento di casualità, di pazzia incontrollabile che influenza fin dall'inizio l'indagine di Dewar e Bone; ma è proprio il contrasto tra l'agire senza alcun tipo di regola dell'omicida, e le azioni strutturate delle forze di polizia, improntate su metodi legati alla routine e a una forte pragmaticità, a dare importanza a queste ultime. Detto così, qualcuno potrà credere che quest'ultimo tipo di giallo sia quanto mai noioso e pedante; ma non sottovalutate le capacità dei giallisti della Golden Age britannica. Se alcuni (oggi dimenticati, tra l'altro) esagerarono nel portare la tediosa quotidianità all'interno di una storia fittizia che dovrebbe intrattenere, altri riuscirono a mescolare queste cose in modo da non far rimpiangere lo scandagliare della psiche umana e le riflessioni sulle conseguenze che la perversione umana suscitano nelle persone dei grandi capolavori del tempo. La routine e la tensione suscitata dal caso in "Uno Dopo l'Altro" riescono a tenere alta e a catturare l'attenzione come altri più rinomati esempi di giallo all'inglese; provare per credere.

Case di Contadini, Eragny, Camille Pissarro, 1887
Il romanzo inizia narrando il rinvenimento del cadavere di un vagabondo e di un ricco banchiere, uccisi in modo diverso ma, allo stesso tempo, accomunati da una serie di circostanze alquanto singolari. Il barbone, conosciuto come Sam lo Spocchioso o l'Ex Signorone, ha trovato la morte a causa di una pugnalata alle spalle ed è stato gettato in un fossato lungo una delle strade più trafficate che collegano Londra con la periferia; l'altro gentiluomo, invece, porta l'illustre nome di Aloysius Skinner, presidente della Società Imperiale Cocciniglia e direttore di molte delle aziende sussidiarie di tale vasta impresa, ed è stato ammazzato mentre si trovava a bordo di un taxi, fermo nel traffico caotico e assordante davanti alla Banca d'Inghilterra. Cosa mai avranno da spartire questi due individui così differenti non solo per estrazione sociale, ma pure per conoscenze personali e percorsi esistenziali? Nulla; se non fosse che su entrambi i loro corpi è stato trovato un cartoncino con scritto un numero progressivo: "Tre" e "Quattro". Si tratta di una bella stranezza, per Scotland Yard, la quale all'inizio non dà questa grande importanza alla faccenda. Certo, l'omicidio di un personaggio conosciuto nell'alta società come Skinner non lascia indifferenti i sovrintendenti e gli Alti Commissari; però tutto farebbe pensare al fatto che essa sia in realtà legata con quella dell'Ex Signorone. Nessuno che conoscesse Sam poteva avere conoscenze sociali ai livelli di Skinner. Pertanto, i casi vengono affrontati da investigatori diversi e sfortunatamente non portano a nessun arresto. Poco tempo dopo le due morti, però, si verifica un nuovo decesso per mano violenta: Oliver Maddock, in visita al fratello Henry nella casa di campagna di quest'ultimo, Greenlawns a Enfield, viene assassinato sotto gli occhi stupefatti del gruppo di giovani radunati laggiù per un torneo di tennis dilettantistico. E il misterioso omicida, che si è nascosto tra le frasche del giardino dell'enorme casa, prima di fuggire ha urlato ad alta voce contro Maddock come lui sia il suo Numero Cinque. A questo punto, Scotland Yard capisce di trovarsi di fronte a uno squilibrato che ha tutte le intenzioni di mettere in atto un piano diabolico e sanguinario, il quale potrebbe contare ancora chissà quante vittime.

Il giovane ispettore Dewar, coadiuvato dal sovrintendente Bone, viene quindi incaricato di svolgere le doverose indagini sul caso di questo atipico serial killer; e ciò che emerge dai suoi ragionamenti e da quelli del suo superiore è qualcosa di sconcertante: probabilmente, ad essere stato ucciso è stato il Maddock sbagliato. Infatti, tanto Oliver è stato un tizio tranquillo, dedito all'insegnamento e in seguito ritiratosi a vita privata per studiare antichi tomi in una sorta di roccaforte scozzese, quanto suo fratello Henry ha avuto una vita segnata dalla disonestà e dalla violenza. Quest'ultimo, col suo carattere arrogante e modi bruschi al limite del manesco, si è attirato l'antipatia di chiunque gli stia attorno, a parte forse i figli; per cui, agli agenti appare chiaro come sia molto probabile che l'assalitore abbia sbagliato mira e colpito la vittima errata. A convincerli di questa cosa, inoltre, gioca un ruolo importante il fatto che, a collegare Skinner e Henry, ci sia il Sudafrica. Sia l'uno che l'altro, infatti, hanno intrattenuto dei rapporti d'affari in tale continente, prima di fare ritorno in Inghilterra. Sembra proprio che la chiave dell'enigma si trovi laggiù, e così Dewar inizia una serrata caccia all'uomo che coinvolge non solo le forze dell'ordine di tutta Europa, ma pure polverosi archivi, sornioni presidenti di banche e di società londinesi, ricordi di vecchi soldati e qualunque pista gli si venga presentata, spostandosi in tutta l'isola britannica e seguendo la buona ed infallibile routine. In tutto ciò, però, i passi avanti si fanno attendere: la quantità di indizi non manca, quello è sicuro; ma il fatto che nessuno di loro riesca ad incastrarsi con gli altri esaspera e frustra gli sforzi di Scotland Yard. Forse stanno sbagliando qualcosa? E se fosse così, cosa? E dove sono le vittime "Uno" e "Due"? Un ulteriore tentativo di uccidere il Maddock sopravvissuto rafforza le convinzioni degli agenti, e il reo confesso ha tutta l'aria di essere la persona giusta a cui addossare gli omicidi del famigerato killer. Tuttavia Dewar, che non segue mai le proprie fantasiose teorie per disciplina impartita, sente che Henry nasconde qualcosa e, facendo pressione su Bone, riesce ad ottenere un mandato per scavare nel giardino di Greenlawns, trovando... Se pensate che ci siano fin troppe sorprese a questo punto, sappiate che ancora dovete scoprire il bello; in questa storia che non lascia un attimo di respiro ma, al contempo, ha il potere di rilassare il lettore grazie al lento lavorio della polizia e il suo incedere implacabile verso un assassino che non si lascerà vincere facilmente.

Copertina dell'edizione originale di "Uno Dopo l'Altro"
Tengo subito a dire come a me "Uno Dopo l'Altro" sia proprio piaciuto. E pensare che, nelle premesse, temevo di trovarlo tutto sommato lontano dal tipo di mystery che prediligo, e fin troppo convenzionale a causa di qualche elemento al suo interno ancora legato alla letteratura di fine Ottocento, che mi aveva un po' messo in allarme. Fin dalle prime righe, infatti, ci troviamo di fronte a uno stile molto schematico, il quale si traduce in un modo di esporre i fatti come una sorta di resoconto, rimandante ai rapporti che i poliziotti devono scrivere in merito ai casi su cui indagano: ogni cosa è riportata fin nei minimi dettagli, all'interno di una narrazione asciutta e senza fronzoli, dove i punti salienti vengono affrontati punto dopo punto in modo da ricordare una tabella mentale oppure una scaletta. Quando veniamo introdotti ai personaggi, essi ci vengono descritti fin da subito come individui che non si perdono in chiacchiere inutili, che affrontano i problemi di petto e sono abituati ad avere risposte pronte o comunque veloci da tradurre in azioni concrete. Non esistono piacevoli intrattenimenti come cerimonie del tè o divertenti facezie: il Cittadino richiede a gran voce una soluzione e non c'è tempo da perdere per trovarla. Inoltre, in un romanzo dove al centro di tutto stanno le forze dell'ordine, non ci si può aspettare che il lavorio mentale sia molto accentuato. Con questo non voglio affatto dire che gli agenti siano degli stupidi; anzi, al contrario, essi dimostrano di possedere l'importante caratteristica di saper prendere una decisione in fretta e di tramutarla in un'azione pragmatica. Di conseguenza, però, quest'opera di attività materiale viene a sostituirsi a quella psicologica del giallo "alla Agatha Christie" a cui gli appassionati sono di solito più legati, più affascinante di quella dei primi anni del secolo scorso, introducendo una narrazione dove non conta molto l'introspezione e la scena del crimine torna ad essere quella delle origini, con i rilevamenti scientifici e tutto quello che ne consegue. In terzo luogo, poi, mi intimoriva il fatto che "Uno Dopo l'Altro" potesse scadere troppo nel genere avventuroso, tipico del romanzo vittoriano. Macdonell, infatti, è conosciuto dai fan del romanzo del mistero per essere la "metà nascosta" del duo di scrittori che diede alle stampe "Il Mistero del Diario", l'opera prima di Milward Kennedy (il quale firmò il volume solo col suo nome) che non brilla certo per straordinari colpi di genio. A pensarci bene, c'è dell'ironia nel fatto che proprio con questo titolo di Macdonell sia stato ristampato pure "Il Capanno sulla Spiaggia". Ma bando alle ciance; l'importante è che temevo che l'autore fosse di quelli nostalgici e fin troppo legati a una letteratura il cui focus era ancora improntato all'intrattenimento puro e semplice dell'enigma "da cruciverba". Insomma, che questo fosse un tipo di libro diverso da quello inteso come giallo della Golden Age, dove il contorno è un'importante aspetto nella riuscita finale. Abbiamo la presenza del Sudafrica, zona che apparteneva all'Impero Britannico da molti anni e veniva tratteggiata come se fosse un paese all'altro capo del mondo, esotico e irraggiungibile; una serie di scenari che cambiano in continuazione, dalla periferia di Londra all'aperta campagna, dai sobborghi della metropoli a polverosi archivi di villaggi sperduti, dalle case di campagna a cittadine sul mare, i quali però non sono mai del tutto identificati dal lettore poiché l'azione si sposta velocemente da una parte all'altra; la presenza di personaggi legati a stereotipi, quali l'ex-galeotto oppure l'uomo-che-si-è-fatto-da-solo cinico e pieno di nemici pronti a tagliargli la gola, oltre al poliziotto testardo e incapace di formulare una teoria fantasiosa. Oltre ad essere dei cliché pericolosi da maneggiare, questi elementi lasciano trasparire una sorta di povertà di idee e mancanza di originalità che fanno seriamente temere per il risultato finale del romanzo.

Copertina dell'edizione più recente di
"Uno Dopo l'Altro" in lingua originale

Soprattutto, però, mi lasciava molto freddo l'idea che il caso fosse seguito da Scotland Yard nella sua interezza; quindi non solo dal punto di vista del protagonista (che è un ispettore di professione), ma pure con l'intervento nel caso da parte di fotografi, analisti di laboratorio, sovrintendenti e quante altre figure si trovano in un'istituzione complessa e articolata come la polizia metropolitana londinese, le quali di solito finiscono per togliere a mio avviso qualunque brio alla trama. Capirete, quindi, che non avessi chissà quali grandi aspettative da "Uno Dopo l'Altro". E invece, come dicevo, mi sono divertito a leggere questo romanzo giallo, trovandomi di fronte all'ennesima conferma del fatto che selezionare le nostre letture secondo pregiudizi legati alla preferenza spesso sia una stupidaggine. Può essere benissimo che, nonostante le apparenze, qualcosa che temiamo ci deluderà si possa rivelare una grande sorpresa. E nel caso di questo romanzo, è stato proprio il suo essere popolato da un mondo tanto strutturato quanto dinamico, e in qualche modo normale e privo di quelle trovate particolarmente originali che si trovano a ogni piè sospinto in un mystery classico, ad affascinarmi e a stupirmi, pur giocando in fatto di enigma su una variante interessante del delitto da serial killing. Ho trovato riposante seguire le vicende narrate da Macdonell; vicende che, tutto sommato, non sono caratterizzate da scoperte sensazionali (a parte un paio di colpi di scena abbastanza sorprendenti legati all'enigma) oppure da un ritmo serrato come se ad indagare fosse un segugio libero da vincoli burocratici. Però il ritmo solido e scorrevole ha conferito alla narrazione un perfetto equilibrio tra azione e riflessione, tra eccitamento per le scoperte che pian piano venivano alla luce e il placido incedere in questo percorso verso la verità. Credo sia questa la causa principale che mi ha spinto ad amare "Uno Dopo l'Altro" e che, già in precedenza, aveva influenzato il mio giudizio positivo di "Ipotesi per un Delitto" di Clifford Witting (ricordate che anche allora avevamo Charlton che interagiva con il suo sergente?). Pure qui ho semplicemente sorriso nell'immaginare i battibecchi tra Dewar e Bone, giocati sulla regione di provenienza del primo e sul fatto che il secondo, nonostante ricopra una carica importantissima all'interno di Scotland Yard, sia prima messo in difficoltà dalle pressioni che i suoi superiori gli fanno, e poi corretto in più occasioni dal suo sottoposto. Allo stesso tempo, però, l'incedere inesorabile della macchina della giustizia che mi ha guidato nel percorso fino alla verità, attraverso ricerche sfibranti e frustranti in tantissimi luoghi diversi, mettendo in luce quanto sia difficile per il tanto criticato poliziotto svolgere il proprio compito, mi ha dimostrato come il police procedural non abbia nulla da invidiare al più tradizionale mystery incentrato sul segugio dilettante (pp. 19-23, 30-35, 46-50, 52-53, 55-56, 59-63, 67-69, 72-75...).

La routine si è trasformata in una serie di passaggi i quali, al posto della prosaica descrizione che ci viene propinata di solito, hanno assunto la forma di esaltanti cacce all'uomo o al documento, di ricognizioni su scene del crimine, di interrogatori dove i sospettati si trasformano in sfingi a cui l'agente deve cavare le informazioni con le tenaglie. La visione di Scotland Yard che emerge da "Uno Dopo l'Altro" è quella di un'organizzazione in cui ognuno gioca un ruolo minore per il bene della comunità: non esistono capi, nonostante al suo interno ci sia una gerarchia effettiva, perché ognuno potrebbe essere quel "qualcuno" che serve nel momento del bisogno. Ad indagare sono esseri umani, con tutte le loro afflizioni ed emozioni e pressioni sociali, decisi più che mai ad aiutarsi l'un l'altro, a condividere esperienze comuni. Il rapporto che nella tradizione viene incarnato da un paio di individui come il protagonista investigatore e la sua spalla (pensate ad esempio a Poirot e Hastings), qui viene tratteggiato su scala più larga a includere personaggi che magari fanno un'apparizione fugace in un paio di scene e poi svaniscono, ma non significa che esso sia meno importante di quello tra due persone; anzi, se possibile viene sottolineato quanta importanza esso incarni per riuscire ad arrivare a una degna conclusione. Tutto ciò, almeno all'apparenza, sembra sia lontano anni luce da quanto troviamo di solito dentro un romanzo giallo; e invece dimostra quanti elementi comuni siano alla base di questo genere letterario capace di ramificarsi e dare vita a molteplici sottogeneri. E tutte quelle critiche che in un primo momento uno vorrebbe fare a libri come "Uno Dopo l'Altro" si dissolvono quasi del tutto. Lo schematismo che potrebbe intimidire e scoraggiare la lettura si trasforma in un elemento che va a sostegno di uno stile narrativo in cui è essenziale la logica; anzi, conferisce maggiore chiarezza al tutto. Predomina l'azione sul lavorio mentale, questo è vero; ma allo stesso tempo essa ci impedisce di annoiarci e, almeno in questo caso specifico, fa da contraltare in modo eccellente a quel poco di psicologia che viene sondato. L'uso della polizia come organizzazione che indaga, l'ho detto sopra, trova un'applicazione che restituisce le stesse sensazioni che avremmo se il caso fosse stato conferito a un dilettante e al suo Watson personale, dal momento che essa affronta di base la stessa missione contro il Male impersonato dall'assassino. Insomma, nonostante personalmente continui a preferire il giallo che si basa sullo studio della psicologia, come quelli di Berkeley e Christie, o quello che tratta un racconto di costume e approfondisce temi sociali quale quello di Sayers, inizio a nutrire un sincero rispetto per il mystery puro e incentrato sull'indagine logica vera e propria, introdotto da Arthur Conan Doyle e il suo Sherlock Holmes. Dopotutto, Macdonell non ha fatto altro che applicare l'approccio del segugio di Baker Street al punto di vista della polizia metropolitana di Londra, senza farci rimpiangere il romanzo più classico improntato sull'interpretazione dei comportamenti dei sospettati e delle loro passioni, rispetto a questa valida variazione del genere in cui sono i fatti pragmatici ad avere l'ultima parola.

Archibald Gordon Macdonell, nato
nel 1985 e morto nel 1941
A mio parere, "Uno Dopo l'Altro" rispecchia al meglio quale sia stata la formazione letteraria di Archibald Gordon Macdonell. Nato a Poona in India, nel 1985, lui fu figlio di un facoltoso mercante di Bombay il quale, tuttavia, quando il bambino aveva soltanto un anno, si trasferì col resto della famiglia in Scozia. Fu quindi in questo Paese che Archie compì gli studi, forte di un solido background che non gli fece mancare nulla. Nonostante ciò, la sua esistenza non fu tutta rose e fiori; a partire dall'ombra oscura costituita dalla Prima Guerra Mondiale che andava profilandosi dietro l'angolo. Macdonell, infatti, dal 1916 entrò a far parte assieme ai suoi coetanei della 51° divisione delle Highland nella Royal Field Artillery, ovvero quella sezione dell'esercito che i tedeschi soprannominarono "le signore dell'inferno" poiché i suoi soldati combattevano indossando il kilt. Si trattava di una formazione militare molto temuta e conosciuta, la quale diede all'autore motivo di orgoglio; ma sfortunatamente proprio a causa di ciò essa veniva spesso impiegata in operazioni rischiose che la decimarono e misero a dura prova. Di conseguenza, i suoi componenti soffrirono gravi traumi e lo stesso Archie fu costretto a tornare a casa con una diagnosi di PPT (sindrome da Stress Post-Traumatico), cosa che lo perseguitò per il resto della sua vita. In ogni caso, questo non gli impedì di farsi una famiglia: nel 1926 sposò Mona Sabine Mann e con lei ebbe una figlia, Jennifer. Inoltre, nel 1928 riuscì a dare alle stampe la sua prima fatica letteraria in fatto di crime story, quel "Il Mistero del Diario" che spiritualmente firmò in coppia con l'amico Milward Kennedy ma costui soltanto mise il proprio nome sulla copertina. Ancora mi domando come mai sia successo ciò; se Kennedy giocò un brutto tiro a Macdonell, oppure quest'ultimo rinunciò all'onore per il semplice fatto di aver messo poco di sé all'interno di quella specifica storia. Forse, però, la spiegazione è che Archie non era ancora interessato a seguire questa strada, dal momento che il suo interesse prevalente fu per la critica teatrale, campo in cui si distinse grazie ai suoi scritti per il "London Mercury", giornale che contribuì a fondare e del quale era direttore una altro suo grande amico, John Collings. Oltre a ciò, Macdonell è inoltre celebrato per essere stato uno scrittore satirico e per il suo "England, Their England", una sferzante critica sugli usi e costumi della società inglese che gli valse il premio James Tait Black Award. Gli appassionati di giallo, tuttavia, lo ricordano per ciò che produsse sotto gli pseudonimi di Neil Gordon e John Cameron: sei più due titoli nel solco della tradizione più classica, dove non manca l'ironia e un a forte dose di avventura sapientemente mescolata ad enigmi sorprendenti. Tra questi, vanno ricordati "The Professor's Poison", "Seven Stabs", "Body Found Stabbed" e "The Shakespeare Murders"; quest'ultimo a conclusione di una carriera che poteva dare molto di più, ma trovò un brutto arresto quando Macdonell, dopo essersi separato dalla prima moglie che lo accusava di adulterio ed essere convolato a seconde nozze con la viennese Rose Paul-Schiff, nel 1941 morì improvvisamente a Oxford, in seguito a un arresto cardiaco suscitato dalla sua debilitante esperienza di soldato.

La sua fu comunque un'esistenza piena di soddisfazioni, la quale influì sul suo modo di scrivere; e "Uno Dopo l'Altro" riflette proprio questo aspetto. Si tratta infatti di un libro ironico, come solo un grande della satira come lui poteva produrre, con i numerosi momenti in cui i personaggi vengono messi in ridicolo e una sottile vena critica verso i loro comportamenti più comici; dove non manca una buona dose di azione ma senza che questo aspetto prenda troppo il sopravvento, e nel quale l'enigma trova uno sviluppo che al tempo dovette sorprendere più di una persona, nonostante un piccolo intoppo causato dal Fato avverso. Dovete sapere, infatti, che agli inizi del Novecento il giallo sul serial killing, di cui questo "Uno Dopo l'Altro" è uno straordinario esempio, non era così diffuso come lo è ai giorni nostri. Nella nostra epoca, ormai, questo sottogenere è stato del tutto sdoganato, forse fin troppo; ma allora romanzi del mistero di questo tipo si contavano sulle dita di una mano. Come riporta Martin Edwards nel suo "The Story of Classic Crime in 100 Books", i delitti di Whitechapel attribuiti a Jack lo Squartatore (peraltro citati alle pp. 86 e 146) e gli omicidi di Ratcliffe Highway (per non parlare della vicenda del dottor Palmer) avevano già posto l'attenzione sul cosiddetto assassino seriale, pur non chiamando costui in tale modo, e spinto la letteratura fittizia ad occuparsi di uccisioni di massa indiscriminate ben prima dell'avvento della Golden Age; però era pur vero che in pochi avevano compreso la potenzialità di questo sottogenere del giallo. Giocare sul dilemma se la psicologia dell'assassino fosse del tutto preda di istinti selvaggi, oppure governata da un movente razionale, non si poteva ancora fare al meglio. Pertanto, come dicevo, i pochi che provarono ad esplorare questo tipo di giallo seguirono necessariamente strade simili; e alla fine si verificò proprio quello che gli scrittori temevano: due di loro si ritrovarono ad aver sfruttato lo stesso aspetto peculiare per spiegare il movente del loro omicida. Cosa che, come penso avrete capito, coinvolse Macdonell, il quale scoprì con disappunto come John Rhode, appena una anno prima, gli avesse soffiato l'idea senza volerlo. Se confrontiamo "Uno Dopo l'Altro" con XXXXX (non farò il nome per non rovinare la lettura a chi avesse già affrontato Rhode), infatti ci rendiamo conto di quanto entrambi giochino su una svolta caratteristica della trama, pur distanziandosi l'uno dall'altro nella resa complessiva. Detto ciò, non intendo affatto sminuire quanto sia comunque affascinante il romanzo di Macdonell: esso gareggia in modo eccellente proprio col libro di Rhode e i due ne escono alla pari, un po' al di sotto di "La Morte Cammina per Eastrepps" all'interno del sottogenere del serial killing ma con dignità.

Waterloo Place, London, 1899 (foto di Leonard Misonne)
Tutti e due, ad esempio, sono magnetici nel tenere incollato il lettore alle vicende che narrano; avvincono e permettono di esplorare, pur con alcuni limiti legati al ristretto spazio dedicato alla psicologia, la mente dell'assassino per scoprire quale sia stata la causa del suo malsano intento vendicativo, e tratteggiano la partita personale di quest'ultimo contro la polizia e l'ordine costituito continuamente messi alla prova e sfidati. Uno degli elementi dominanti nelle loro trame, inoltre, riguarda i metodi attraverso i quali le vittime trovano la morte, ed entrambe le storie spiegano in modo mirabile fin dove possa spingersi la follia sconclusionata e tutt'altro che ordinaria di un pazzo, nascondendo questa sua condizione sotto un'apparenza di civiltà che turba le coscienze. Tornando a concentrarci solo su "Uno Dopo l'Altro", però, troviamo invece alcune peculiarità nella trama. Innanzitutto essa è stratificata più di quanto uno si aspetterebbe, con un colpo di scena a metà della storia che rimescola tutte le carte e, nonostante una conclusione affrettata e un po' troppo precipitosa, apre a nuovi scenari come pochi altri sono riusciti a fare. Anche se la scienza non occupa uno spazio più di tanto preponderante nel racconto, il necessario tecnico per poter comprendere la logica delle uccisioni e ciò che ne consegue viene fornito a chi legge (penso alla balistica per stabilire se alcuni colpi di pistola sono stati sparati da una stessa arma. L'ironia, come ho detto, è molto più presente nel giallo di Macdonell rispetto a quello di Rhode, dove tutto è serio come ci si aspetterebbe da una storia raccontata da un signore tutto d'un pezzo come lui. Ci sono più digressioni in "Uno Dopo l'Altro", le quali tuttavia restano confinate in brevi paragrafi per essere adeguate al ritmo del romanzo: sui brevi incontri che Dewar fa con le persone che possono aiutarlo ad avanzare verso la scoperta della verità, sui luoghi che egli visita, su moltissimi aspetti dello stesso caso investigativo di cui egli si occupa. Personalmente, mi è rimasto impresso tra gli altri il buffo scambio di battute tra l'ispettore e l'agente esperto degli scavi geologici, come pure la gita a Petworth del poliziotto (pp. 69-70, 87, 91, capp 13-14...). I cliché abbondano, sfortunatamente, dal momento che sono peculiari nello stile di Macdonell assieme al carattere avventuroso del racconto; questi sono il punto dolente dell'intera indagine, basata forse troppo su di essi per potersi dire davvero "da Golden Age". Infine, a differenza di quanto accade negli altri libri di questo genere che ho preso in considerazione, il carattere da police procedural è molto accentuato. Ma questa non è una novità per voi che leggete questa recensione.

Una cosa, tuttavia, mi preme sottolineare per concludere: si tratta del tratteggio dei personaggi, legato proprio a questo elemento poliziesco. Nonostante siano un po' tutti quanti ritratti come macchiette sarcastiche o individui a volte poco, a volte troppo originali per essere del tutto credibili, nelle loro azioni i membri di Scotland Yard, in particolare, assumono un ruolo totalmente diverso. Le caratterizzazioni dimostrano lo sforzo che Macdonell fece per infondere loro una minima parvenza di vitalità: fece esprimere loro gioie e dolori, frustrazione e delusione per essersi fatti gabbare dall'assassino, dinamismo nello svolgere il proprio gravoso compito, ligi al dovere, sicuri di sé davanti ai superiori ma segretamente dubbiosi. Sono esseri umani in carne ed ossa, i quali si sforzano per aiutarsi tra colleghi e battibeccano coi i capi, sentono la pressione della stampa sulle loro spalle e si impegnano a rispettare i protocolli senza abusare del proprio potere, e soprattutto agiscono come un sol uomo. Mi è piaciuto che l'autore abbia compiuto un'azione del genere, poiché avvicina il lettore alle difficoltà del poliziotto e gli fa comprendere come la sua non sia una figura da schernire, quanto da compatire. Nonostante abbiano prodotto romanzi più riusciti dal punto di vista dell'enigma, J.J. Connington e Clifford Witting (coi loro Sir Clinton Driffield e ispettore Charlton) non sono riusciti a rendere tanto bene quanto Macdonell come la macchina della giustizia di Scotland Yard sia composta da tanti ingranaggi che si muovono tutti assieme. Infatti, sulla carta il protagonista è Dewar (pp. 45-46, 68, 83-84, 91-92, 111-112, 121-123...), ma in realtà non c'è mai un battitore libero che orchestra gli sforzi degli altri agenti per catturare il colpevole (nemmeno Bone ci riesce): finora la polizia era stata incarnata da un deus ex machina capace di catalizzare su di sé l'attenzione e mettendo in ombra i sottoposti (vedasi i poliziotti sopra citati), invece in "Uno Dopo l'Altro" è la comunità a garantire il successo dell'impresa. Se proprio volessimo trovare qualcuno da far spiccare sul gruppo, potremmo prendere in considerazione proprio l'ispettore e i sovrintendente, antitesi l'uno dell'altro ma indispensabili tra loro per riuscire a concludere l'inchiesta. Il primo è giovane, vigoroso, rigoroso, inesperto, scozzese; il secondo saggio, sedentario, acuto, londinese e più anziano. Si prendono in giro l'uno con l'altro, si sostengono di fronte ai superiori, avanzano ipotesi diversissime e si sfidano per trovare la soluzione, in una sorta di gara dove il vincitore deve essere Dewar, dal momento che Bone è "già arrivato". Formano una coppia stupenda e una grande squadra, la quale muove tutto ciò che sta intorno e impedisce di annoiare: sono a caccia e fanno sul serio.

Insomma, per tirare le fila del discorso e mettere un punto a questo lungo flusso di coscienza. "Uno Dopo l'Altro" soffre di sicuro di alcuni difetti che impediscono di collocarlo tra i capolavori del genere giallo. Come dicevo, i cliché e la vena avventurosa forse un po' troppo calcata allontanano il romanzo da quella perfezione a cui ci hanno abituato i Grandi Autori della Golden Age. Inoltre, il cardine della storia non è originale per la "questione Rhode" e la storia non si sofferma molto sull'indagine interiore del lato psicologico del delitto, come all'assassino non viene data quella profondità caratteristica dei colpevoli più diabolici e astuti. Però non mi sento di condannare l'approccio con cui il caso è stato intrapreso. Su Internet mi è capitato di leggere che quest'ultimo è stato paragonato a quelli delineati da Freeman Wills Crofts, il quale è rimasto famoso nel tempo per la cura nei dettagli e per l'ossessiva strutturazione delle indagini che inventava; ecco, in un certo senso anche Macdonell ha compiuto un'operazione del genere. C'è del metodo nella ricerca di un modo per collegare la morte di tante persone così diverse tra loro, nello sfruttamento delle complete forze di polizia e nel far quadrare una certa svolta del caso fino a metà del racconto. "Uno Dopo l'Altro", alla fin fine, è un romanzo solido e leggibile, che intrattiene e fa passare il tempo molto velocemente, tanto che io stesso mi sono stupito della rapidità con con l'ho portato a termine. Bisogna considerarlo più come la narrazione di un processo fluido, in cui accadono atti casuali e commessi da un pazzo il cui movente non è da ricondursi a cause strabilianti e particolarmente profonde, rispetto a un giallo dove gli indizi vengono forniti di fair play. Questo è il segreto per poterlo apprezzare al meglio. Da parte mia, ribadisco come abbia apprezzato comunque il risultato finale: emozionante, ironico e arguto. E condivido il giudizio che i critici Barzun & Taylor diedero a "Uno Dopo l'Altro": "Un primo e impressionante esempio di routine poliziesca, pieno di legittima azione e completo di contrasto tra superiore e subordinato. La varietà e la sorpresa negli incidenti mantengono un alti grado di tensione e l'individuazione è solida quanto la spiegazione, che viene in mente al lettore pochi secondo prima dell'ispettore scozzese Dewar. Quando arriva, essa costituisce quello che è probabilmente un primo esempio del suo utilizzo [NB. non è così]: nel complesso un libro da amare per il suo valore e il suo ingegno".

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