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venerdì 20 novembre 2020

52 - "Uno dopo l'Altro" ("The Silent Murders", 1929) di A.G. Macdonell/Neil Gordon

Copertina dell'edizione pubblicata da
Polillo Editore/Rusconi

Come annunciato nella recensione di "Il Capanno sulla Spiaggia" della scorsa settimana, oggi tocca a quella sull'altro bel romanzo giallo che Polillo, per mezzo di Rusconi, ha dato alle stampe di recente, in seguito alla lunga pausa che l'ha caratterizzata dopo la morte del suo fondatore, Marco Polillo. Infatti, chi si fosse perso qualche passaggio sappia che era dalla pubblicazione di "Il Mistero della Candela Ritorta", risalente al luglio del 2019, che questa casa editrice amatissima dagli appassionati di classica crime story aveva interrotto qualunque tipo di uscita, dopo aver già ridotto al minimo i titoli in procinto di essere editi. La causa principale è stata, come dicevo, la morte dello stesso Polillo, il quale se ne è andato alcuni mesi dopo la pubblicazione del mystery di Wallace, lasciandoci smarriti e sconcertati di fronte alla perdita di un grande esperto e generoso complice nel perpetuare la bellezza del tradizionale giallo anglosassone, oltre che seriamente preoccupati per il destino dei suoi lodevoli Bassotti. Tuttavia, per fortuna, le cose sono andate molto bene, per noi fan del genere letterario e della collana di questi libri dalla caratteristica copertina arancione, così strana dopo il monopolio del colore giallo imposto da Mondadori un secolo fa: infatti l'editore Rusconi, già addentro nel campo del romanzo del mistero, è subentrato nella gestione della Polillo assimilandola al suo gruppo e ridandole nuova linfa vitale. Erano programmati ben quattro nuovi titoli, in previsione di maggio di quest'anno, quando i Bassotti sarebbero dovuti tornare in pompa magna; per cui, non vi dico la sensazione che noi appassionati abbiamo provato all'idea di ricominciare a vedere in libreria volumi nuovi di zecca della collana polilliana. Ma poi, come tutti sappiamo, ci è piombata tra capo e collo nientemeno che un pandemia globale, la quale ha fatto subìre una battuta d'arresto a qualunque tipo di attività editoriale (e non solo). Così, tutto quanto è ritardato a una data da destinarsi; fino al mese di ottobre appena finito, quando le cose si sono aggiustate e finalmente sono apparsi "Il Capanno sulla Spiaggia" di Milward Kennedy e "Uno Dopo l'Altro" di A.G. Macdonell. La settimana scorsa, pertanto, ho recensito il romanzo giallo di Kennedy. Se avete letto la mia analisi, vi sarete fatti un'idea su quale genere esso interpreti, andando a sondare temi e situazioni che si rifanno in modo molto sorprendente a quelle di alcuni thriller che vengono pubblicati oggigiorno.

Oggi, invece, passo a qualcosa di totalmente differente, con "Uno Dopo l'Altro" di Macdonell, pubblicato a suo tempo sotto lo pseudonimo di Neil Gordon (Polillo Editore/Rusconi, 2020). Infatti, vi avevo già anticipato come questi due titoli siano molto diversi tra loro; non solo nella forma stilistica e nel modo in cui certe tematiche vengono affrontate, ma pure nei temi e nell'interpretazione della psicologia dell'individuo (non necessariamente il colpevole). Se proverete a confrontarli tra loro, scoprirete che essi si approcciano al delitto come se fossero mondi agli antipodi, con pochissimi punti di contatto: il libro di Kennedy va a soffermarsi su una sorta di indagine in cui contano le cose non dette e ciò che emerge dallo scontro dialogico-ideologico tra i sospettati e i protagonisti, mettendo il luce l'incomprensione che regna sovrana tra gli esseri umani e l'impetuosa corrente sotterranea di passione, odio, violenza ed emozione che intercorre tra loro; "Uno Dopo l'Altro", invece, vuole mettere in scena come l'investigatore, sia professionista sia dilettante, affronti il proprio compito come una battaglia tra il Bene (che egli incarna) e il Male (impersonato dall'assassino), dove il caso viene analizzato in base a fatti ben definiti, a un'implacabile ricerca attiva che non conosce momenti di pausa, e a un approccio logico e del tutto schematico, senza lasciare spazio a riflessioni fantasiose che possano influenzare la Verità delle Prove Materiali. Poi certamente c'è l'elemento di casualità, di pazzia incontrollabile che influenza fin dall'inizio l'indagine di Dewar e Bone; ma è proprio il contrasto tra l'agire senza alcun tipo di regola dell'omicida, e le azioni strutturate delle forze di polizia, improntate su metodi legati alla routine e a una forte pragmaticità, a dare importanza a queste ultime. Detto così, qualcuno potrà credere che quest'ultimo tipo di giallo sia quanto mai noioso e pedante; ma non sottovalutate le capacità dei giallisti della Golden Age britannica. Se alcuni (oggi dimenticati, tra l'altro) esagerarono nel portare la tediosa quotidianità all'interno di una storia fittizia che dovrebbe intrattenere, altri riuscirono a mescolare queste cose in modo da non far rimpiangere lo scandagliare della psiche umana e le riflessioni sulle conseguenze che la perversione umana suscitano nelle persone dei grandi capolavori del tempo. La routine e la tensione suscitata dal caso in "Uno Dopo l'Altro" riescono a tenere alta e a catturare l'attenzione come altri più rinomati esempi di giallo all'inglese; provare per credere.

Case di Contadini, Eragny, Camille Pissarro, 1887
Il romanzo inizia narrando il rinvenimento del cadavere di un vagabondo e di un ricco banchiere, uccisi in modo diverso ma, allo stesso tempo, accomunati da una serie di circostanze alquanto singolari. Il barbone, conosciuto come Sam lo Spocchioso o l'Ex Signorone, ha trovato la morte a causa di una pugnalata alle spalle ed è stato gettato in un fossato lungo una delle strade più trafficate che collegano Londra con la periferia; l'altro gentiluomo, invece, porta l'illustre nome di Aloysius Skinner, presidente della Società Imperiale Cocciniglia e direttore di molte delle aziende sussidiarie di tale vasta impresa, ed è stato ammazzato mentre si trovava a bordo di un taxi, fermo nel traffico caotico e assordante davanti alla Banca d'Inghilterra. Cosa mai avranno da spartire questi due individui così differenti non solo per estrazione sociale, ma pure per conoscenze personali e percorsi esistenziali? Nulla; se non fosse che su entrambi i loro corpi è stato trovato un cartoncino con scritto un numero progressivo: "Tre" e "Quattro". Si tratta di una bella stranezza, per Scotland Yard, la quale all'inizio non dà questa grande importanza alla faccenda. Certo, l'omicidio di un personaggio conosciuto nell'alta società come Skinner non lascia indifferenti i sovrintendenti e gli Alti Commissari; però tutto farebbe pensare al fatto che essa sia in realtà legata con quella dell'Ex Signorone. Nessuno che conoscesse Sam poteva avere conoscenze sociali ai livelli di Skinner. Pertanto, i casi vengono affrontati da investigatori diversi e sfortunatamente non portano a nessun arresto. Poco tempo dopo le due morti, però, si verifica un nuovo decesso per mano violenta: Oliver Maddock, in visita al fratello Henry nella casa di campagna di quest'ultimo, Greenlawns a Enfield, viene assassinato sotto gli occhi stupefatti del gruppo di giovani radunati laggiù per un torneo di tennis dilettantistico. E il misterioso omicida, che si è nascosto tra le frasche del giardino dell'enorme casa, prima di fuggire ha urlato ad alta voce contro Maddock come lui sia il suo Numero Cinque. A questo punto, Scotland Yard capisce di trovarsi di fronte a uno squilibrato che ha tutte le intenzioni di mettere in atto un piano diabolico e sanguinario, il quale potrebbe contare ancora chissà quante vittime.

Il giovane ispettore Dewar, coadiuvato dal sovrintendente Bone, viene quindi incaricato di svolgere le doverose indagini sul caso di questo atipico serial killer; e ciò che emerge dai suoi ragionamenti e da quelli del suo superiore è qualcosa di sconcertante: probabilmente, ad essere stato ucciso è stato il Maddock sbagliato. Infatti, tanto Oliver è stato un tizio tranquillo, dedito all'insegnamento e in seguito ritiratosi a vita privata per studiare antichi tomi in una sorta di roccaforte scozzese, quanto suo fratello Henry ha avuto una vita segnata dalla disonestà e dalla violenza. Quest'ultimo, col suo carattere arrogante e modi bruschi al limite del manesco, si è attirato l'antipatia di chiunque gli stia attorno, a parte forse i figli; per cui, agli agenti appare chiaro come sia molto probabile che l'assalitore abbia sbagliato mira e colpito la vittima errata. A convincerli di questa cosa, inoltre, gioca un ruolo importante il fatto che, a collegare Skinner e Henry, ci sia il Sudafrica. Sia l'uno che l'altro, infatti, hanno intrattenuto dei rapporti d'affari in tale continente, prima di fare ritorno in Inghilterra. Sembra proprio che la chiave dell'enigma si trovi laggiù, e così Dewar inizia una serrata caccia all'uomo che coinvolge non solo le forze dell'ordine di tutta Europa, ma pure polverosi archivi, sornioni presidenti di banche e di società londinesi, ricordi di vecchi soldati e qualunque pista gli si venga presentata, spostandosi in tutta l'isola britannica e seguendo la buona ed infallibile routine. In tutto ciò, però, i passi avanti si fanno attendere: la quantità di indizi non manca, quello è sicuro; ma il fatto che nessuno di loro riesca ad incastrarsi con gli altri esaspera e frustra gli sforzi di Scotland Yard. Forse stanno sbagliando qualcosa? E se fosse così, cosa? E dove sono le vittime "Uno" e "Due"? Un ulteriore tentativo di uccidere il Maddock sopravvissuto rafforza le convinzioni degli agenti, e il reo confesso ha tutta l'aria di essere la persona giusta a cui addossare gli omicidi del famigerato killer. Tuttavia Dewar, che non segue mai le proprie fantasiose teorie per disciplina impartita, sente che Henry nasconde qualcosa e, facendo pressione su Bone, riesce ad ottenere un mandato per scavare nel giardino di Greenlawns, trovando... Se pensate che ci siano fin troppe sorprese a questo punto, sappiate che ancora dovete scoprire il bello; in questa storia che non lascia un attimo di respiro ma, al contempo, ha il potere di rilassare il lettore grazie al lento lavorio della polizia e il suo incedere implacabile verso un assassino che non si lascerà vincere facilmente.

Copertina dell'edizione originale di "Uno Dopo l'Altro"
Tengo subito a dire come a me "Uno Dopo l'Altro" sia proprio piaciuto. E pensare che, nelle premesse, temevo di trovarlo tutto sommato lontano dal tipo di mystery che prediligo, e fin troppo convenzionale a causa di qualche elemento al suo interno ancora legato alla letteratura di fine Ottocento, che mi aveva un po' messo in allarme. Fin dalle prime righe, infatti, ci troviamo di fronte a uno stile molto schematico, il quale si traduce in un modo di esporre i fatti come una sorta di resoconto, rimandante ai rapporti che i poliziotti devono scrivere in merito ai casi su cui indagano: ogni cosa è riportata fin nei minimi dettagli, all'interno di una narrazione asciutta e senza fronzoli, dove i punti salienti vengono affrontati punto dopo punto in modo da ricordare una tabella mentale oppure una scaletta. Quando veniamo introdotti ai personaggi, essi ci vengono descritti fin da subito come individui che non si perdono in chiacchiere inutili, che affrontano i problemi di petto e sono abituati ad avere risposte pronte o comunque veloci da tradurre in azioni concrete. Non esistono piacevoli intrattenimenti come cerimonie del tè o divertenti facezie: il Cittadino richiede a gran voce una soluzione e non c'è tempo da perdere per trovarla. Inoltre, in un romanzo dove al centro di tutto stanno le forze dell'ordine, non ci si può aspettare che il lavorio mentale sia molto accentuato. Con questo non voglio affatto dire che gli agenti siano degli stupidi; anzi, al contrario, essi dimostrano di possedere l'importante caratteristica di saper prendere una decisione in fretta e di tramutarla in un'azione pragmatica. Di conseguenza, però, quest'opera di attività materiale viene a sostituirsi a quella psicologica del giallo "alla Agatha Christie" a cui gli appassionati sono di solito più legati, più affascinante di quella dei primi anni del secolo scorso, introducendo una narrazione dove non conta molto l'introspezione e la scena del crimine torna ad essere quella delle origini, con i rilevamenti scientifici e tutto quello che ne consegue. In terzo luogo, poi, mi intimoriva il fatto che "Uno Dopo l'Altro" potesse scadere troppo nel genere avventuroso, tipico del romanzo vittoriano. Macdonell, infatti, è conosciuto dai fan del romanzo del mistero per essere la "metà nascosta" del duo di scrittori che diede alle stampe "Il Mistero del Diario", l'opera prima di Milward Kennedy (il quale firmò il volume solo col suo nome) che non brilla certo per straordinari colpi di genio. A pensarci bene, c'è dell'ironia nel fatto che proprio con questo titolo di Macdonell sia stato ristampato pure "Il Capanno sulla Spiaggia". Ma bando alle ciance; l'importante è che temevo che l'autore fosse di quelli nostalgici e fin troppo legati a una letteratura il cui focus era ancora improntato all'intrattenimento puro e semplice dell'enigma "da cruciverba". Insomma, che questo fosse un tipo di libro diverso da quello inteso come giallo della Golden Age, dove il contorno è un'importante aspetto nella riuscita finale. Abbiamo la presenza del Sudafrica, zona che apparteneva all'Impero Britannico da molti anni e veniva tratteggiata come se fosse un paese all'altro capo del mondo, esotico e irraggiungibile; una serie di scenari che cambiano in continuazione, dalla periferia di Londra all'aperta campagna, dai sobborghi della metropoli a polverosi archivi di villaggi sperduti, dalle case di campagna a cittadine sul mare, i quali però non sono mai del tutto identificati dal lettore poiché l'azione si sposta velocemente da una parte all'altra; la presenza di personaggi legati a stereotipi, quali l'ex-galeotto oppure l'uomo-che-si-è-fatto-da-solo cinico e pieno di nemici pronti a tagliargli la gola, oltre al poliziotto testardo e incapace di formulare una teoria fantasiosa. Oltre ad essere dei cliché pericolosi da maneggiare, questi elementi lasciano trasparire una sorta di povertà di idee e mancanza di originalità che fanno seriamente temere per il risultato finale del romanzo.

Copertina dell'edizione più recente di
"Uno Dopo l'Altro" in lingua originale

Soprattutto, però, mi lasciava molto freddo l'idea che il caso fosse seguito da Scotland Yard nella sua interezza; quindi non solo dal punto di vista del protagonista (che è un ispettore di professione), ma pure con l'intervento nel caso da parte di fotografi, analisti di laboratorio, sovrintendenti e quante altre figure si trovano in un'istituzione complessa e articolata come la polizia metropolitana londinese, le quali di solito finiscono per togliere a mio avviso qualunque brio alla trama. Capirete, quindi, che non avessi chissà quali grandi aspettative da "Uno Dopo l'Altro". E invece, come dicevo, mi sono divertito a leggere questo romanzo giallo, trovandomi di fronte all'ennesima conferma del fatto che selezionare le nostre letture secondo pregiudizi legati alla preferenza spesso sia una stupidaggine. Può essere benissimo che, nonostante le apparenze, qualcosa che temiamo ci deluderà si possa rivelare una grande sorpresa. E nel caso di questo romanzo, è stato proprio il suo essere popolato da un mondo tanto strutturato quanto dinamico, e in qualche modo normale e privo di quelle trovate particolarmente originali che si trovano a ogni piè sospinto in un mystery classico, ad affascinarmi e a stupirmi, pur giocando in fatto di enigma su una variante interessante del delitto da serial killing. Ho trovato riposante seguire le vicende narrate da Macdonell; vicende che, tutto sommato, non sono caratterizzate da scoperte sensazionali (a parte un paio di colpi di scena abbastanza sorprendenti legati all'enigma) oppure da un ritmo serrato come se ad indagare fosse un segugio libero da vincoli burocratici. Però il ritmo solido e scorrevole ha conferito alla narrazione un perfetto equilibrio tra azione e riflessione, tra eccitamento per le scoperte che pian piano venivano alla luce e il placido incedere in questo percorso verso la verità. Credo sia questa la causa principale che mi ha spinto ad amare "Uno Dopo l'Altro" e che, già in precedenza, aveva influenzato il mio giudizio positivo di "Ipotesi per un Delitto" di Clifford Witting (ricordate che anche allora avevamo Charlton che interagiva con il suo sergente?). Pure qui ho semplicemente sorriso nell'immaginare i battibecchi tra Dewar e Bone, giocati sulla regione di provenienza del primo e sul fatto che il secondo, nonostante ricopra una carica importantissima all'interno di Scotland Yard, sia prima messo in difficoltà dalle pressioni che i suoi superiori gli fanno, e poi corretto in più occasioni dal suo sottoposto. Allo stesso tempo, però, l'incedere inesorabile della macchina della giustizia che mi ha guidato nel percorso fino alla verità, attraverso ricerche sfibranti e frustranti in tantissimi luoghi diversi, mettendo in luce quanto sia difficile per il tanto criticato poliziotto svolgere il proprio compito, mi ha dimostrato come il police procedural non abbia nulla da invidiare al più tradizionale mystery incentrato sul segugio dilettante (pp. 19-23, 30-35, 46-50, 52-53, 55-56, 59-63, 67-69, 72-75...).

La routine si è trasformata in una serie di passaggi i quali, al posto della prosaica descrizione che ci viene propinata di solito, hanno assunto la forma di esaltanti cacce all'uomo o al documento, di ricognizioni su scene del crimine, di interrogatori dove i sospettati si trasformano in sfingi a cui l'agente deve cavare le informazioni con le tenaglie. La visione di Scotland Yard che emerge da "Uno Dopo l'Altro" è quella di un'organizzazione in cui ognuno gioca un ruolo minore per il bene della comunità: non esistono capi, nonostante al suo interno ci sia una gerarchia effettiva, perché ognuno potrebbe essere quel "qualcuno" che serve nel momento del bisogno. Ad indagare sono esseri umani, con tutte le loro afflizioni ed emozioni e pressioni sociali, decisi più che mai ad aiutarsi l'un l'altro, a condividere esperienze comuni. Il rapporto che nella tradizione viene incarnato da un paio di individui come il protagonista investigatore e la sua spalla (pensate ad esempio a Poirot e Hastings), qui viene tratteggiato su scala più larga a includere personaggi che magari fanno un'apparizione fugace in un paio di scene e poi svaniscono, ma non significa che esso sia meno importante di quello tra due persone; anzi, se possibile viene sottolineato quanta importanza esso incarni per riuscire ad arrivare a una degna conclusione. Tutto ciò, almeno all'apparenza, sembra sia lontano anni luce da quanto troviamo di solito dentro un romanzo giallo; e invece dimostra quanti elementi comuni siano alla base di questo genere letterario capace di ramificarsi e dare vita a molteplici sottogeneri. E tutte quelle critiche che in un primo momento uno vorrebbe fare a libri come "Uno Dopo l'Altro" si dissolvono quasi del tutto. Lo schematismo che potrebbe intimidire e scoraggiare la lettura si trasforma in un elemento che va a sostegno di uno stile narrativo in cui è essenziale la logica; anzi, conferisce maggiore chiarezza al tutto. Predomina l'azione sul lavorio mentale, questo è vero; ma allo stesso tempo essa ci impedisce di annoiarci e, almeno in questo caso specifico, fa da contraltare in modo eccellente a quel poco di psicologia che viene sondato. L'uso della polizia come organizzazione che indaga, l'ho detto sopra, trova un'applicazione che restituisce le stesse sensazioni che avremmo se il caso fosse stato conferito a un dilettante e al suo Watson personale, dal momento che essa affronta di base la stessa missione contro il Male impersonato dall'assassino. Insomma, nonostante personalmente continui a preferire il giallo che si basa sullo studio della psicologia, come quelli di Berkeley e Christie, o quello che tratta un racconto di costume e approfondisce temi sociali quale quello di Sayers, inizio a nutrire un sincero rispetto per il mystery puro e incentrato sull'indagine logica vera e propria, introdotto da Arthur Conan Doyle e il suo Sherlock Holmes. Dopotutto, Macdonell non ha fatto altro che applicare l'approccio del segugio di Baker Street al punto di vista della polizia metropolitana di Londra, senza farci rimpiangere il romanzo più classico improntato sull'interpretazione dei comportamenti dei sospettati e delle loro passioni, rispetto a questa valida variazione del genere in cui sono i fatti pragmatici ad avere l'ultima parola.

Archibald Gordon Macdonell, nato
nel 1985 e morto nel 1941
A mio parere, "Uno Dopo l'Altro" rispecchia al meglio quale sia stata la formazione letteraria di Archibald Gordon Macdonell. Nato a Poona in India, nel 1985, lui fu figlio di un facoltoso mercante di Bombay il quale, tuttavia, quando il bambino aveva soltanto un anno, si trasferì col resto della famiglia in Scozia. Fu quindi in questo Paese che Archie compì gli studi, forte di un solido background che non gli fece mancare nulla. Nonostante ciò, la sua esistenza non fu tutta rose e fiori; a partire dall'ombra oscura costituita dalla Prima Guerra Mondiale che andava profilandosi dietro l'angolo. Macdonell, infatti, dal 1916 entrò a far parte assieme ai suoi coetanei della 51° divisione delle Highland nella Royal Field Artillery, ovvero quella sezione dell'esercito che i tedeschi soprannominarono "le signore dell'inferno" poiché i suoi soldati combattevano indossando il kilt. Si trattava di una formazione militare molto temuta e conosciuta, la quale diede all'autore motivo di orgoglio; ma sfortunatamente proprio a causa di ciò essa veniva spesso impiegata in operazioni rischiose che la decimarono e misero a dura prova. Di conseguenza, i suoi componenti soffrirono gravi traumi e lo stesso Archie fu costretto a tornare a casa con una diagnosi di PPT (sindrome da Stress Post-Traumatico), cosa che lo perseguitò per il resto della sua vita. In ogni caso, questo non gli impedì di farsi una famiglia: nel 1926 sposò Mona Sabine Mann e con lei ebbe una figlia, Jennifer. Inoltre, nel 1928 riuscì a dare alle stampe la sua prima fatica letteraria in fatto di crime story, quel "Il Mistero del Diario" che spiritualmente firmò in coppia con l'amico Milward Kennedy ma costui soltanto mise il proprio nome sulla copertina. Ancora mi domando come mai sia successo ciò; se Kennedy giocò un brutto tiro a Macdonell, oppure quest'ultimo rinunciò all'onore per il semplice fatto di aver messo poco di sé all'interno di quella specifica storia. Forse, però, la spiegazione è che Archie non era ancora interessato a seguire questa strada, dal momento che il suo interesse prevalente fu per la critica teatrale, campo in cui si distinse grazie ai suoi scritti per il "London Mercury", giornale che contribuì a fondare e del quale era direttore una altro suo grande amico, John Collings. Oltre a ciò, Macdonell è inoltre celebrato per essere stato uno scrittore satirico e per il suo "England, Their England", una sferzante critica sugli usi e costumi della società inglese che gli valse il premio James Tait Black Award. Gli appassionati di giallo, tuttavia, lo ricordano per ciò che produsse sotto gli pseudonimi di Neil Gordon e John Cameron: sei più due titoli nel solco della tradizione più classica, dove non manca l'ironia e un a forte dose di avventura sapientemente mescolata ad enigmi sorprendenti. Tra questi, vanno ricordati "The Professor's Poison", "Seven Stabs", "Body Found Stabbed" e "The Shakespeare Murders"; quest'ultimo a conclusione di una carriera che poteva dare molto di più, ma trovò un brutto arresto quando Macdonell, dopo essersi separato dalla prima moglie che lo accusava di adulterio ed essere convolato a seconde nozze con la viennese Rose Paul-Schiff, nel 1941 morì improvvisamente a Oxford, in seguito a un arresto cardiaco suscitato dalla sua debilitante esperienza di soldato.

La sua fu comunque un'esistenza piena di soddisfazioni, la quale influì sul suo modo di scrivere; e "Uno Dopo l'Altro" riflette proprio questo aspetto. Si tratta infatti di un libro ironico, come solo un grande della satira come lui poteva produrre, con i numerosi momenti in cui i personaggi vengono messi in ridicolo e una sottile vena critica verso i loro comportamenti più comici; dove non manca una buona dose di azione ma senza che questo aspetto prenda troppo il sopravvento, e nel quale l'enigma trova uno sviluppo che al tempo dovette sorprendere più di una persona, nonostante un piccolo intoppo causato dal Fato avverso. Dovete sapere, infatti, che agli inizi del Novecento il giallo sul serial killing, di cui questo "Uno Dopo l'Altro" è uno straordinario esempio, non era così diffuso come lo è ai giorni nostri. Nella nostra epoca, ormai, questo sottogenere è stato del tutto sdoganato, forse fin troppo; ma allora romanzi del mistero di questo tipo si contavano sulle dita di una mano. Come riporta Martin Edwards nel suo "The Story of Classic Crime in 100 Books", i delitti di Whitechapel attribuiti a Jack lo Squartatore (peraltro citati alle pp. 86 e 146) e gli omicidi di Ratcliffe Highway (per non parlare della vicenda del dottor Palmer) avevano già posto l'attenzione sul cosiddetto assassino seriale, pur non chiamando costui in tale modo, e spinto la letteratura fittizia ad occuparsi di uccisioni di massa indiscriminate ben prima dell'avvento della Golden Age; però era pur vero che in pochi avevano compreso la potenzialità di questo sottogenere del giallo. Giocare sul dilemma se la psicologia dell'assassino fosse del tutto preda di istinti selvaggi, oppure governata da un movente razionale, non si poteva ancora fare al meglio. Pertanto, come dicevo, i pochi che provarono ad esplorare questo tipo di giallo seguirono necessariamente strade simili; e alla fine si verificò proprio quello che gli scrittori temevano: due di loro si ritrovarono ad aver sfruttato lo stesso aspetto peculiare per spiegare il movente del loro omicida. Cosa che, come penso avrete capito, coinvolse Macdonell, il quale scoprì con disappunto come John Rhode, appena una anno prima, gli avesse soffiato l'idea senza volerlo. Se confrontiamo "Uno Dopo l'Altro" con XXXXX (non farò il nome per non rovinare la lettura a chi avesse già affrontato Rhode), infatti ci rendiamo conto di quanto entrambi giochino su una svolta caratteristica della trama, pur distanziandosi l'uno dall'altro nella resa complessiva. Detto ciò, non intendo affatto sminuire quanto sia comunque affascinante il romanzo di Macdonell: esso gareggia in modo eccellente proprio col libro di Rhode e i due ne escono alla pari, un po' al di sotto di "La Morte Cammina per Eastrepps" all'interno del sottogenere del serial killing ma con dignità.

Waterloo Place, London, 1899 (foto di Leonard Misonne)
Tutti e due, ad esempio, sono magnetici nel tenere incollato il lettore alle vicende che narrano; avvincono e permettono di esplorare, pur con alcuni limiti legati al ristretto spazio dedicato alla psicologia, la mente dell'assassino per scoprire quale sia stata la causa del suo malsano intento vendicativo, e tratteggiano la partita personale di quest'ultimo contro la polizia e l'ordine costituito continuamente messi alla prova e sfidati. Uno degli elementi dominanti nelle loro trame, inoltre, riguarda i metodi attraverso i quali le vittime trovano la morte, ed entrambe le storie spiegano in modo mirabile fin dove possa spingersi la follia sconclusionata e tutt'altro che ordinaria di un pazzo, nascondendo questa sua condizione sotto un'apparenza di civiltà che turba le coscienze. Tornando a concentrarci solo su "Uno Dopo l'Altro", però, troviamo invece alcune peculiarità nella trama. Innanzitutto essa è stratificata più di quanto uno si aspetterebbe, con un colpo di scena a metà della storia che rimescola tutte le carte e, nonostante una conclusione affrettata e un po' troppo precipitosa, apre a nuovi scenari come pochi altri sono riusciti a fare. Anche se la scienza non occupa uno spazio più di tanto preponderante nel racconto, il necessario tecnico per poter comprendere la logica delle uccisioni e ciò che ne consegue viene fornito a chi legge (penso alla balistica per stabilire se alcuni colpi di pistola sono stati sparati da una stessa arma. L'ironia, come ho detto, è molto più presente nel giallo di Macdonell rispetto a quello di Rhode, dove tutto è serio come ci si aspetterebbe da una storia raccontata da un signore tutto d'un pezzo come lui. Ci sono più digressioni in "Uno Dopo l'Altro", le quali tuttavia restano confinate in brevi paragrafi per essere adeguate al ritmo del romanzo: sui brevi incontri che Dewar fa con le persone che possono aiutarlo ad avanzare verso la scoperta della verità, sui luoghi che egli visita, su moltissimi aspetti dello stesso caso investigativo di cui egli si occupa. Personalmente, mi è rimasto impresso tra gli altri il buffo scambio di battute tra l'ispettore e l'agente esperto degli scavi geologici, come pure la gita a Petworth del poliziotto (pp. 69-70, 87, 91, capp 13-14...). I cliché abbondano, sfortunatamente, dal momento che sono peculiari nello stile di Macdonell assieme al carattere avventuroso del racconto; questi sono il punto dolente dell'intera indagine, basata forse troppo su di essi per potersi dire davvero "da Golden Age". Infine, a differenza di quanto accade negli altri libri di questo genere che ho preso in considerazione, il carattere da police procedural è molto accentuato. Ma questa non è una novità per voi che leggete questa recensione.

Una cosa, tuttavia, mi preme sottolineare per concludere: si tratta del tratteggio dei personaggi, legato proprio a questo elemento poliziesco. Nonostante siano un po' tutti quanti ritratti come macchiette sarcastiche o individui a volte poco, a volte troppo originali per essere del tutto credibili, nelle loro azioni i membri di Scotland Yard, in particolare, assumono un ruolo totalmente diverso. Le caratterizzazioni dimostrano lo sforzo che Macdonell fece per infondere loro una minima parvenza di vitalità: fece esprimere loro gioie e dolori, frustrazione e delusione per essersi fatti gabbare dall'assassino, dinamismo nello svolgere il proprio gravoso compito, ligi al dovere, sicuri di sé davanti ai superiori ma segretamente dubbiosi. Sono esseri umani in carne ed ossa, i quali si sforzano per aiutarsi tra colleghi e battibeccano coi i capi, sentono la pressione della stampa sulle loro spalle e si impegnano a rispettare i protocolli senza abusare del proprio potere, e soprattutto agiscono come un sol uomo. Mi è piaciuto che l'autore abbia compiuto un'azione del genere, poiché avvicina il lettore alle difficoltà del poliziotto e gli fa comprendere come la sua non sia una figura da schernire, quanto da compatire. Nonostante abbiano prodotto romanzi più riusciti dal punto di vista dell'enigma, J.J. Connington e Clifford Witting (coi loro Sir Clinton Driffield e ispettore Charlton) non sono riusciti a rendere tanto bene quanto Macdonell come la macchina della giustizia di Scotland Yard sia composta da tanti ingranaggi che si muovono tutti assieme. Infatti, sulla carta il protagonista è Dewar (pp. 45-46, 68, 83-84, 91-92, 111-112, 121-123...), ma in realtà non c'è mai un battitore libero che orchestra gli sforzi degli altri agenti per catturare il colpevole (nemmeno Bone ci riesce): finora la polizia era stata incarnata da un deus ex machina capace di catalizzare su di sé l'attenzione e mettendo in ombra i sottoposti (vedasi i poliziotti sopra citati), invece in "Uno Dopo l'Altro" è la comunità a garantire il successo dell'impresa. Se proprio volessimo trovare qualcuno da far spiccare sul gruppo, potremmo prendere in considerazione proprio l'ispettore e i sovrintendente, antitesi l'uno dell'altro ma indispensabili tra loro per riuscire a concludere l'inchiesta. Il primo è giovane, vigoroso, rigoroso, inesperto, scozzese; il secondo saggio, sedentario, acuto, londinese e più anziano. Si prendono in giro l'uno con l'altro, si sostengono di fronte ai superiori, avanzano ipotesi diversissime e si sfidano per trovare la soluzione, in una sorta di gara dove il vincitore deve essere Dewar, dal momento che Bone è "già arrivato". Formano una coppia stupenda e una grande squadra, la quale muove tutto ciò che sta intorno e impedisce di annoiare: sono a caccia e fanno sul serio.

Insomma, per tirare le fila del discorso e mettere un punto a questo lungo flusso di coscienza. "Uno Dopo l'Altro" soffre di sicuro di alcuni difetti che impediscono di collocarlo tra i capolavori del genere giallo. Come dicevo, i cliché e la vena avventurosa forse un po' troppo calcata allontanano il romanzo da quella perfezione a cui ci hanno abituato i Grandi Autori della Golden Age. Inoltre, il cardine della storia non è originale per la "questione Rhode" e la storia non si sofferma molto sull'indagine interiore del lato psicologico del delitto, come all'assassino non viene data quella profondità caratteristica dei colpevoli più diabolici e astuti. Però non mi sento di condannare l'approccio con cui il caso è stato intrapreso. Su Internet mi è capitato di leggere che quest'ultimo è stato paragonato a quelli delineati da Freeman Wills Crofts, il quale è rimasto famoso nel tempo per la cura nei dettagli e per l'ossessiva strutturazione delle indagini che inventava; ecco, in un certo senso anche Macdonell ha compiuto un'operazione del genere. C'è del metodo nella ricerca di un modo per collegare la morte di tante persone così diverse tra loro, nello sfruttamento delle complete forze di polizia e nel far quadrare una certa svolta del caso fino a metà del racconto. "Uno Dopo l'Altro", alla fin fine, è un romanzo solido e leggibile, che intrattiene e fa passare il tempo molto velocemente, tanto che io stesso mi sono stupito della rapidità con con l'ho portato a termine. Bisogna considerarlo più come la narrazione di un processo fluido, in cui accadono atti casuali e commessi da un pazzo il cui movente non è da ricondursi a cause strabilianti e particolarmente profonde, rispetto a un giallo dove gli indizi vengono forniti di fair play. Questo è il segreto per poterlo apprezzare al meglio. Da parte mia, ribadisco come abbia apprezzato comunque il risultato finale: emozionante, ironico e arguto. E condivido il giudizio che i critici Barzun & Taylor diedero a "Uno Dopo l'Altro": "Un primo e impressionante esempio di routine poliziesca, pieno di legittima azione e completo di contrasto tra superiore e subordinato. La varietà e la sorpresa negli incidenti mantengono un alti grado di tensione e l'individuazione è solida quanto la spiegazione, che viene in mente al lettore pochi secondo prima dell'ispettore scozzese Dewar. Quando arriva, essa costituisce quello che è probabilmente un primo esempio del suo utilizzo [NB. non è così]: nel complesso un libro da amare per il suo valore e il suo ingegno".

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venerdì 14 agosto 2020

42 - "La Morte Cammina per Eastrepps" ("Death Walks in Eastrepps", 1931) di Francis Beeding

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore

All'interno della crime story in generale, classica o contemporanea che essa sia, il sottogenere del giallo sul serial killing (ovvero sull'uccisione indiscriminata di persone in rapida successione) è forse uno tra i più battuti dagli scrittori di genere. Soprattutto se applicato al thriller, come è accaduto negli ultimi tempi, esso viene declinato in innumerevoli forme, nonostante la qualità dell'enigma si sia via via sempre più concentrata sugli aspetti deviati della psicologia dell'assassino, tralasciando l'elemento del fair play e una costruzione di indizi a portata del lettore atta a permettergli di scoprire la verità per conto suo. In ogni caso, al pubblico di appassionati questa mancanza (tanto grave per i fan del romanzo del mistero tradizionale e i puristi del rompicapo) pare non preoccupare più di tanto, vista la mole di carta stampata che viene pubblicata al giorno d'oggi a riguardo; forse ciò sarà in parte dovuto alla mera fantasia degli autori, ma sono convinto che loro non sarebbero tanto prolifici se i lettori si fossero stufati di divorare le loro opere. Il giallo del serial killer, quindi, al giorno d'oggi gode di una grande popolarità che non smette di sorprendere e non accenna a diminuire; e ciò fa ancora più specie se si considera che questo tipo di romanzo ha origini ben più datate di quanto si possa pensare. Infatti, come riporta Martin Edwards nel suo "The Story of Classic Crime in 100 Books", la letteratura fittizia ha iniziato ad occuparsi delle uccisioni in massa e indiscriminate ben prima dell'avvento della Golden Age. Addirittura prima dei delitti di Whitechapel, nonostante siamo ormai abituati ad affiancare la figura di Jack lo Squartatore a quella del primo individuo che si sia prodigato nel compiere crimini efferati e azioni delittuose in sequenza, il serial killer era una creatura conosciuta; anche se non veniva certo definito in questo modo.

Sempre secondo l'ottima guida di Edwards (che vi consiglio di recuperare, assieme a "The Golden Age of Murder"), era infatti già celebre la serie di assassinii di Ratcliffe Highway, nel corso della quale vennero attaccate due famiglie separate e trovarono la morte ben sette persone; tanto che questa fornì l'ispirazione a Thomas de Quincey per il suo "L'Omicidio come una delle Belle Arti". Inoltre, apparteneva alla storia fin dalla metà del diciannovesimo secolo pure l'audace serie di delitti perpetrati da William Palmer, la quale venne citata in esempi di letteratura del mistero quali il racconto "La Banda Maculata" di Arthur Conan Doyle e "Bellona Club" di Dorothy L. Sayers, e fornì alcuni aspetti peculiari del caso in "Il Sospetto" di Francis Iles e "Murderer at Large" di Donald Henderson. Nonostante ciò, tuttavia, furono gli omicidi dello Squartatore a catturare l'attenzione della fiction letteraria, dal momento che posero per la prima volta la questione sul fatto se la psicologia dell'omicida fosse del tutto preda di istinti selvaggi, oppure fosse essa governata da un movente razionale che si sposasse in qualche modo con la brutalità delle uccisioni. Fu questo aspetto del caso che fornì l'ispirazione agli autori della Golden Age (e ad alcuni giallisti d'oltreoceano, come Ellery Queen e Patrick Quentin) per immaginare una declinazione dell'indagine su un pazzo adatta alle loro storie; e il risultato fu che effettivamente qualcosa poteva nascere da una simile riflessione, tanto che in molti riuscirono a dare vita a storie spettacolari, pur senza rovinare la sorpresa del lettore con l'indicazione di un un assassino palese. Tra gli altri, visto che siamo in tempo di vacanze, oggi voglio concentrarmi su "La Morte Cammina per Eastrepps" di Francis Beeding (Polillo Editore, 2005), un romanzo che tratta una storia di questo tipo ma non si limita a fare ciò. Oltre al terrore serpeggiante nella cittadina sul mare che si ritrova preda di un maniaco omicida, all'atmosfera di tensione e di sospetto che grava sui personaggi del caso e alla sensazione che tutti covino sentimenti poco lusinghieri, è la questione sulla pazzia e su come essa viene trattata dal prossimo ad occupare il fulcro delle vicende; oltre a una pungente critica alla giustizia che non riesce sempre a svolgere il compito che le viene assegnato, a causa dell'influenza del sentimento nel rigido scorrere dei propri ingranaggi.

Bathing Machines, Aldeburgh (Suffolk), Eric Ravilious, 1938,
il quale potrebbe raffigurare la spiaggia di Eastrepps in seguito
al fuggi fuggi generale suscitato dal Mostro

La trama si apre con una scena alla stazione di Fenchurch Street, a Londra. Il signor Robert Eldridge, direttore di una società londinese, siede in uno scompartimento da solo e sta recandosi in tutta segretezza fino ad Eastrepps, una cittadina sul Mare del Nord, dove conta di trascorrere la consueta serata del mercoledì con la sua amante, Margaret Withers. Finché la donna non riuscirà ad ottenere l'affidamento della figlioletta e il divorzio alle proprie condizioni (cosa che, se ella si è resa colpevole di adulterio, non è possibile nell'Inghilterra del tempo), i due innamorati devono mantenere tutti all'oscuro delle loro manovre per vedersi; pertanto, Eldridge ha elaborato un complicato piano che prevede la sua permanenza in città un solo giorno, invece che due, e la costruzione di un alibi fasullo che metta a tacere le chiacchiere dei compaesani di Margaret. Ormai sono sei mesi che la faccenda si protrae, e tutto pare andare per il meglio; una bella soddisfazione per l'uomo, il quale ha trascorso molti anni lontano dall'Europa a causa di una bancarotta fraudolenta, per la quale non ha mai scontato alcuna condanna e molti personaggi di Eastrepps hanno patito delusioni e ingenti perdite di denaro. Eppure, il rapporto tra Eldridge e Margaret è destinato a subire più di uno scossone: infatti il cugino della donna, Dick, ha scoperto la tresca tra i due e intende ricattarli, sia per racimolare facilmente più denaro possibile senza faticare, sia per riportare accanto a sé la donna di cui è innamorato da sempre.

Ma non è finita qui; la sera in cui Eldridge si reca a Eastrepps in incognito, la signorina Mary Hewitt viene assassinata in un boschetto poco lontano dalla casa di Margaret. La scoperta del cadavere, il mattino seguente, getta la cittadina nel terrore e i poliziotti del posto, l'ispettore Protheroe e il sergente Ruddock, nel panico più totale, dal momento che fattacci del genere accadono piuttosto di rado da quelle parti. La poveretta non aveva nemici; quindi deve trattarsi di un assassinio dovuto a un pazzo, pensano i concittadini della vittima, a partire dalla gentile signora Dampier, che nelle sere d'estate siede sempre nel suo giardino. Così, ognuno fa la propria parte per dare una mano nelle indagini; persino il baronetto Alistair Rockingham, affetto da un fortissimo esaurimento nervoso, non vede il motivo per cui qualcuno dovrebbe sottrarsi al fare il proprio dovere; soprattutto se ciò gli permette di mettersi in bella mostra col gentil sesso. Peccato che la situazione degeneri ben presto: alla signorina Hewitt, succederanno una seconda vittima, e una terza, e una quarta, e una quinta; tutte legate tra loro dal fatto di essere state truffate da Robert Eldridge... Finché la situazione diventa insostenibile e la gente si rinchiude in casa, mentre i turisti accorsi ad Eastrepps fuggono a gambe levate e una ronda pattuglia le strade. Solo i giornalisti assediano ancora la cittadina, alla ricerca di un Mostro che pare imprendibile anche da Scotland Yard, impersonata dall'ispettore Wilkins. Riuscirà la polizia ad arrestare il colpevole, o consegnerà alla corte un innocente e lo farà impiccare per colpe che non ha commesso?

Pianta di Norwich Road, Eastrepps, dove si trova la casa in affitto del
baronetto Alistair Rockingham

C'è qualcosa di magnetico nelle storie con i serial killer; meglio ancora se contenute in romanzi appartenenti alla tradizione classica. Esse sono capaci di avvincere chi legge e permettono di entrare nella mente dell'assassino per scoprire perché senta l'impulso di uccidere la gente secondo uno schema preciso. "La Morte Cammina per Eastrepps" non è stato il primo giallo di questo tipo che ho letto; nel mio caso, prima sono venuti "I Delitti di Praed Street" di John Rhode e "La Morte è Impazzita" di Philip MacDonald. Eppure è stato il romanzo di Beeding a restarmi più impresso tra questi tre, a causa della questione principale che esso ha sviluppato. Infatti, se nel caso di Rhode l'elemento dominante della trama era dato dai metodi con cui gli omicidi venivano perpetrati (oltre che dalla presenza di un gettone d'osso sulle vittime, usato come marchio dell'assassino, primo esempio di questo tipo in assoluto nell'immaginario del crimine) e in quello di MacDonald, curiosamente dello stesso 1931 di "La Morte Cammina per Eastrepps" ma molto diverso nel risultato, si trattava di una partita personale del colpevole contro la polizia e l'ordine costituito, continuamente messi alla prova e sfidati per il gusto del rischio, oltre che ridicolizzati; nel romanzo di Beeding invece la faccenda viene trattata in modo differente, soffermandosi soprattutto su come un assassino seriale possa essere mosso da una pazzia fino a un certo punto lucida, insospettabile a prima vista, e capace di dare vita a un piano diabolico per incastrare gli innocenti. In questo ultimo caso, a cui appartiene non solo il romanzo che recensisco oggi, ma pure "Delitti di Seta" di Anthony Berkeley, "L'Enigma dell'Alfiere" di S.S. Van Dine, "Il Gatto dalle Molte Code" di Ellery Queen, "Presagio di Morte" di Patrick Quentin e il celeberrimo "Dieci Piccoli Indiani" di Agatha Christie, è la psicologia dell'individuo a farla da padrone nello sviluppo della trama; quell'affascinante e terrificante insieme di impulsi ed emozioni che si palesano nel colpevole solo di tanto in tanto, al momento delle uccisioni, per poi tornare a nascondersi dietro la maschera, in attesa della prossima vittima.

Vittima che, bisogna precisare, all'interno del romanzo giallo classico non viene (quasi) mai scelta a caso, senza un fine preciso. A parte in un caso, infatti, mi sono sempre imbattuto in indagini che poi hanno portato alla scoperta di un assassino il cui movente poteva trovare una logica spiegazione. Pertanto, gli autori della Golden Age del giallo riuscirono a trasportare storie di ordinaria e sconclusionata follia all'interno di schemi in cui le azioni dei loro colpevoli psicopatici potevano essere spiegate; e lo fecero attraverso due strade: semplicemente nascondendo la pazzia dei malvagi sotto un'apparenza di civiltà, oppure dando a questi ultimi un movente abbastanza razionale da mettere in primo piano l'intelligenza necessaria alla riuscita del piano, piuttosto che la confusione di una mente stravolta dal delirio. Qualcosa del genere trova una chiara applicazione in "La Morte Cammina per Eastrepps", dove la pura Follia trova un'applicazione insospettabile e letale non soltanto grazie al proprio operato, ma addirittura sfruttando la Giustizia che avrebbe il compito di limitarla e condannarla. Si tratta di un discorso molto complicato, ma che trovo affascinante nel risultato che scaturisce dal romanzo di Beeding. In esso, infatti, a prima vista parrebbe che l'operato del Mostro di Eastrepps sia dettato da un arbitrio senza senso, dove l'importante è trovare una vittima qualunque per soddisfare la propria sete di morte e sangue. Non sembrerebbe esistere alcun legame tra i morti, nonostante ci venga suggerito nel sottotesto che essi un tempo sono stati truffati da Robert Eldridge alias Selby; però noi abbiamo letto come questi si sia recato a casa di Margaret, mentre la povera signorina Hewitt è stata brutalmente uccisa nel boschetto di Coatt, e pertanto lo escludiamo dai sospettati. In sintesi, insomma, il colpevole dovrebbe agire secondo un movente inconsistente ai fini dell'indagine classica, la sua "serie infernale" (per citare un romanzo su questo genere di Christie) è basata su uno schema in cui regna il caos e il cui fine non trova alcuna spiegazione logica. Tuttavia, come in un romanzi giallo classico che si rispetti, nella realtà dei fatti le cose non rispecchiano le apparenze: scopriamo infatti che la serie dei delitti ha uno scopo ben preciso, nasconde una motivazione più diabolica e sottile di quanto immaginassimo in un primo momento.

Certo, esiste pur sempre un fondo di sfida aperta con le forze dell'ordine costituito; ma non nel senso che uno potrebbe intendere fin dall'inizio. C'è un metodo terrificante nelle azioni dell'assassino, che contrasta con il concetto del serial killer a cui uno potrebbe essere abituato: non solo il movente trova una spiegazione simil-razionale al momento della spiegazione/confessione finale, tanto agghiacciante nella sua freddezza quanto comprensibile sotto alcuni aspetti, ma pure la scelta delle vittime mette in luce quanto possa essere lucida la pazzia, nonostante essa resti maligna e diabolica (pp. 58-63, 73-74, 114, 121-126, 129-133, 267-279). Ne consegue, dunque, che dalle pagine di "La Morte Cammina per Eastrepps" emerga una crudeltà impressionante, la quale si abbatte sugli innocenti e viene incarnata un po' da tutti i personaggi del caso. Badate, soltanto uno di essi esprime e in qualche modo orchestra la malvagità in modo totale, sebbene riesca a non farsi scoprire; però quello che ho colto dalla lettura è stato un generale senso di malessere. Anche individui che appaiono per poche pagine, come il colonnello Hewitt, la signora Dampier e Dick, si fanno portavoce di una società incattivita, gelosa e snob che si cura del proprio benessere e pare godere nel rigirare il coltello nella piaga. Ad esempio, le vittime del Mostro sono già state colpite dalla bancarotta dell'Anaconda Ltd. di Selby; eppure, proprio per questo, vengono pure uccise dopo più di dieci anni. Lo stesso Eldridge, tormentato dalla propria coscienza, ha intrapreso un percorso di miglioramento personale grazie a Margaret e (questa è una mia impressione) probabilmente avrebbe risarcito i suoi ex-azionisti una volta sposatosi; tuttavia, trova un'aperta ostilità da parte dei suoi concittadini, i quali decidono di condannarlo a morte non tanto per i sospetti di omicidio che gravano su di lui, quanto per i rigurgiti della vicenda della bancarotta fraudolenta, come se intendessero sostituirsi alla giustizia divina e colpirlo senza pietà. Lo stesso fatto che la testimonianza di Margaret in tribunale, decisa a salvarlo al costo di perdere l'affidamento della figlia, venga ribaltata sfruttando un'immagine di infedeltà coniugale distorta e puritana, mette in luce quanto possa essere traviato il cittadino incattivito e reso cieco. Pertanto, in questo romanzo viene messo in luce non solo quanto la Follia possa essere incanalata in un piano logico e schematico, ma anche come essa riesca a manipolare la mente di chi le sta intorno e il giudizio espresso dalla gente, attraverso l'esasperazione e la frustrazioni a cui uno può essere sottoposto. Le persone sono pedine funzionali al processo finale, sembra suggerire l'autore; innocenti pedinati, osservati, usati e mossi per raggiungere uno scopo terribile, ben preciso, e inquadrate in un progetto di strage grazie alle disgrazie che hanno patito. Sfruttando pure la Giustizia, se è il caso, e la polizia stessa per dare vita a un colpevole ideale; colpevole non tanto reale in quanto tale, ma piuttosto verosimile e apparente.

John Leslie Palmer, nato nel 1885 e morto nel 1944, e Hilary Aidan St.
George Saunders, nato nel 1898 e morto nel 1951, alias Francis Beeding

La psicologia e la capacità nel riuscire a pilotare il prossimo sono temi che vengono ripresi più volte all'interno della produzione crime di Francis Beeding. Probabilmente fu un interesse che accomunò la coppia che si nascondeva sotto questo pseudonimo; già, visto che furono John Leslie Palmer (1885-1944) e Hilary Aidan St. George Saunders (1898-1951) a costituire le due metà della ditta. Incontratisi a Ginevra alla Lega delle Nazioni, dove entrambi erano impiegati (Saunders vi arrivò dopo un periodo al Balliol College di Oxford e un'esperienza nelle Welsh Guards durante la guerra, mentre Palmer era a capo dell'organizzazione), i due divennero presto amici e decisero di intraprendere una collaborazione letteraria congiunta. Nella creazione di uno pseudonimo, entrambi fecero la loro parte: "Francis" era il nome con cui Palmer si sarebbe voluto chiamare, mentre "Beeding" era un villaggio del Sussex dove Saunders aveva un tempo posseduto una casa. Con questo nome diedero alle stampe numerose opere firmando, a partire dal 1925, diciassette spy stories con protagonista il colonnello Alastair Granby e quattordici romanzo gialli. La maggior parte dei libri contiene un numero all'interno del titolo ("The Six Proud Walkers", "The Four Armourers", "The Three Fishers"...), ma sono stati soprattutto i volumi privi di esso a passare alla storia del genere crime: "The Norwich Victims", il quale ha la peculiarità di essere corredato da vere e proprie fotografie dei personaggi principali; "La Morte Cammina per Eastrepps" e "Io ti Salverò", ambientato in un manicomio in Francia e dal quale Hitchcock trasse ispirazione per dare vita all'omonimo primo film sulla psicanalisi.

Con Palmer che creava personaggi e scriveva vivaci dialoghi, e Saunders che si curava delle parti descrittive, i due proseguirono per molti anni nel loro sodalizio, anche quando intrapresero carriere differenti: il primo si occupò per conto suo di opere teatrali, mentre il secondo, a partire dal 1938, divenne assistente bibliotecario alla Camera dei Comuni e durante il secondo conflitto mondiale lavorò presso il Ministero dell'Aeronautica, per poi tornare alla Camera dei Comuni. In ogni caso, i migliori romanzi gialli che scrissero furono quelli del primo periodo, "Io ti Salverò", "The Norwich Victims" e appunto "La Morte Cammina per Eastrepps". Quest'ultimo, in particolare, ha attirato le lodi di numerosi critici: Ellery Queen e Howard Haycraft lo definirono una pietra miliare e lo inserirono nella loro lista dei cento migliori romanzi del mistero, mentre il saggista Vincent Starrett lo giudicò nientemeno che uno dei dieci migliori gialli di sempre. Forse quest'ultima affermazione è un po' esagerata; ma resta il fatto che il libro rappresenta qualcosa di originale e innovativo per il tempo in cui venne scritto. Non soltanto per la rappresentazione della lucida Pazzia dell'assassino (a differenza di quella malata dell'invalida protagonista di "Murder Intended" e quella delirante di "Io ti Salverò", dove i malati del manicomio francese vengono indotti ad interpretare una sorta di culto satanico), ma anche per altri temi affrontati e uno stile capace di catturare l'attenzione come non mai. La cosa che mi ha colpito fin da subito di "La Morte Cammina per Eastrepps", infatti, è stata la grande attenzione conferita alle ambientazioni, essenziali ma evocative, che vengono tratteggiate nei momenti di assassinio (pp. 13-16, 22-23, 25, 31-32, 60-63, 67-68, 95, 99-102, 124-126, 137-138, 148-150, 164-169, 189-192, 258-259). Grazie ai continui cambi di punto di vista, invece di sentirci spaesati e confusi, riusciamo a farci un'idea delle vicende come se stessimo guardando una pellicola; osserviamo lo scorrere dei fotogrammi e ci sentiamo parte delle scene (non senza un pizzico di terrore, nel percorrere i viali deserti di Eastrepps oppure i campi coltivati immersi nella notte oscura). Il ritmo mantiene un alto grado di mistero e suspense senza diventare melodrammatico; e gli autori sono stati molto bravi in questo, poiché sono riusciti a trasmettere il senso di ansietà crescente e terrore dilagante man mano che le vicende si snodano (pp. 106-109, 118-119, 122, 142-143, 145-147, 164-169, 256-261). Ci sono tanti personaggi diversi: chi sarà il prossimo a morire? Questa è una domanda che finirà per tormentarvi, nonostante i caratteri che emergono dai protagonisti potrebbero non spingervi a dispiacervi troppo per loro (almeno, per alcuni è stato così). Come avevo già accennato, infatti, gli attori sulla scena sono delineati in modo da risultare sia vittime sia carnefici, in un dualismo equilibrato che non riesce a pendere mai da una parte precisa. Si tratta di una rappresentazione spesso tragica, dove gli individui sono preda di passioni ed emozioni inconfessabili, di segreti timori e recondite paure.

Robert Eldridge è spaventato, innamorato, astuto, spietato (pp. 103-106); Mary Hewitt idealista, povera e invidiosa (pp. 18-19, 22); la signora Dampier ricca, cortese e snob (pp. 31-32, 108-109); Ferris competente, fin troppo curioso; Ruddock ambizioso e capace (pp. 117-120, 136, 174-175); Protheroe collerico, incapace e instancabile (pp. 64-67, 79); Dick innamorato e geloso (pp. 245-250); Margaret prudente e fedele (da notare un certo femminismo ante litteram). Ognuno di loro è "orgoglioso della propria chiusura mentale" (pp. 87, 127, 133, 136, 205, 215-219, 231-236, 242-243) e troverà una sorte molto amara, alla fine del racconto; specchio della società frustrata e malata di cui fa parte. Perché, se c'è qualcosa che viene messo in luce oltre alla Pazzia, è proprio il fatto che non esista una Giustizia in questo mondo. L'enigma riflette appieno questo assioma: è tanto innovativo, con il suo movente agghiacciante (dove può arrivare l'orgoglio dell'uomo!), quanto divisivo, nella sua soluzione accusata di aver spezzato più una regola del Decalogo di Knox. Da parte mia, credo ancora in un giusto giudizio da parte degli organi preposti al compito; eppure sono consapevole del fatto che non sempre si riesca ad agire e fare del bene. Ne è un esempio tutta la parte ambientata nel tribunale, con il processo al presunto Mostro (pp. 47-49, 159-162, 166-168, 185-239, 205-223): in quel caso, infatti, nonostante di fatto l'imputato si sia reso colpevole di azioni riprovevoli, esso viene messo alla gogna per qualcosa che risulta essere una vendetta esacerbata dal tempo. In una corte contano i fatti, questo è ciò che viene ripetuto per gran parte dell'istruttoria; ebbene, più di una volta entriamo nella testa degli spettatori e troviamo giudizi affrettati, già stabiliti prima di aver ascoltato tutte le prove e aver preso visione degli indizi. Addirittura, pure durante la consulta della giuria leggiamo commenti dettati da rancori personali e influenzati da una visione impura. Il risultato di tutto ciò, pertanto, non può che essere un madornale errore, o un convinto metodo per trasformare la Giustizia in uno strumento a proprio uso e consumo. Si realizza così lo scopo criminale del Mostro di Eastrepps, con la complicità di un responso feroce da parte di esseri umani ridotti alla stregua delle bestie, che rispondono con una fucilata a un morso. È questa la visione dell'opinione pubblica che scaturisce da "La Morte Cammina per Eastrepps" e contribuisce a rendere questo romanzo ancora attuale: estremamente negativa e cattiva, influenzata dal pregiudizio e da mille pensieri che si sovrappongono l'uno all'altro. Beeding qui trascende il semplice romanzo d'evasione, e con la sua storia straordinaria in tutti i sensi (visto che racchiude più generi insieme) fa una potente critica sociale al sistema e alla sua espressione più inflessibile: la pena di morte. Perché in questo ha fallito miseramente il suo scopo (in modo simile a quanto accaduto in "Signori della Corte" di Edgar Lustgarten), dopo aver rischiato in un'altra occasione di compiere lo stesso sbaglio. Infatti, anche con l'accusa al baronetto Alistair Rockingham, affetto suo malgrado da un esaurimento nervoso, la Giustizia e il suo strumento, la polizia (pp. 96-98, 117-121, 152-160, 170-173, 176-184), si erano avvicinati in modo pericoloso a un verdetto di colpevolezza che avrebbe costretto il giovane ad essere rinchiuso a vita in un manicomio. Bisogna ammettere che, al momento in cui il romanzo fu scritto, la follia veniva vista come una malattia molto più grave di quanto accada al giorno d'oggi; non c'era pietà per i poveretti affetti da turbe mentali e se si poteva li si usava come capri espiatori. Però resta il fatto che la leggerezza con cui vengono stabilite la colpevolezza di un imputato e la successiva condanna fanno specie: sembra quasi che chi deve decidere lo faccia svogliatamente, senza curarsi del ruolo che ricopre (pp. 205, 220).

Ciò è spaventoso, se uno ci pensa con attenzione. Potremmo essere tutti Robert Eldridge, colpevoli perfetti a discapito delle azioni compiute. Potremmo essere accusati di qualunque cosa dalla polizia, e magari vederci condannare in un processo solo perché non andiamo a genio alla giuria o al giudice incaricato di istruire i dodici rappresentanti del popolo. Nemmeno lo testimonianze utili potrebbero servire, perché capovolte a nostro svantaggio. Se ci imbattiamo in un giudizio privo di consistenza giuridica, perché amorale e prevenuto, Dio ci salvi. Questo sembra dire Beeding, in una buona imitazione dell'oscura vena di Francis Iles, col suo finale oscuro: in "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati", infatti, Berkeley/Iles osservò come sia facile costruire un castello di accuse contro un innocente, se uno ne ha le capacità e soprattutto la determinazione. Mi ha dato molto su cui riflettere, "La Morte Cammina per Eastrepps", e penso che non mi toglierò dalla testa tanto facilmente la sua triste storia.


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