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venerdì 22 novembre 2019

15 - "L'Occhio di Osiride" ("The Eye of Osiris", 1911) di Richard Austin Freeman

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore
L'ho spiegato anche nella presentazione di questo blog e nella recensione di "La Figlia del Tempo" di Josephine Tey, ma lo ripeto sempre volentieri: senza alcun dubbio, una delle ragioni che hanno contribuito a farmi diventare un appassionato della classica crime story (in particolare quella inglese) si può ritrovare nella capacità, insita in questo genere letterario, di saper evocare di volta in volta un mondo affascinante, come quello degli anni suggestivi e imperfetti tra la fine dell'età Vittoriana e la rinascita tumultuosa che seguì la fine della Seconda Guerra Mondiale, attraverso le piccole attività quotidiane di uomini e donne morti da tempo ma, in qualche modo, pur sempre "vivi" agli occhi dei suoi lettori. È questa una caratteristica peculiare della narrativa gialla, la quale spesso riesce a ridare vita al passato altrimenti noioso dei freddi resoconti nei libri di Storia e nei saggi stesi da asettici studiosi, interessati più ai Grandi Avvenimenti che alla Vita Quotidiana. La compilazione di un diario giornaliero, ad esempio, con quel gusto nel dare risalto al racconto delle vicende di ogni giorno; il complesso rapporto tra conoscenti e il corteggiamento dei gentiluomini nei confronti di garbate signorine, fatti di inchini formali e toni lirici; oppure il ritratto di una via piena di negozi e dei suoi abitanti, nati o stabilitasi proprio lì da tempi immemori, o la descrizione di antiche dimore distrutte dalle bombe o dal progresso: tutte queste abitudini e luoghi che ci parlano di un'epoca passata sono stati man mano cancellati (o quasi) dal passare degli anni, con la conseguenza che noi non potremmo più vederli rivivere davanti ai nostri occhi e rischierebbero di essere dimenticati, se non fosse stato per l'opera di alcuni giallisti, ignari biografi della società, i quali hanno destinato all'eternità un'eredità preziosissima di piccoli frammenti che, tutti insieme, tracciano un godibile ritratto delle usanze tradizionali, capaci di resistere fino ad oggi grazie al fatto di essere stati impressi nelle pagine dei loro romanzi. Oltre a soddisfare la mera curiosità ed arricchire le vicende fittizie, infatti, tutto ciò riveste una grande importanza nel mostrare l'evoluzione della società di un tempo e ci permette di apprendere fatti che altrimenti sarebbero andati perduti tra le pieghe della Storia; mica male, per una forma letteraria famosa per descrivere situazioni perlopiù fittizie.

La stessa P.D. James, scrittrice di crime novels classiche, ha osservato che si può "apprendere molto di più sui costumi sociali dell'epoca in cui un giallo è stato scritto, di quanto si possa fare dalla letteratura più pretenziosa". E anche se, in questo caso specifico, lei si riferisce al periodo della Golden Age, in cui il genere ha raggiunto l'apice in quanto ad inventiva e tratteggio dell'atmosfera sociale, secondo me la stessa cosa vale per gli anni immediatamente precedenti, quelli che vanno dalla fine dell'Ottocento agli inizi del Novecento: pure allora, infatti, vennero prodotte opere del mistero degne di essere ricordate per il loro piacevole racconto della quotidianità; certo, magari alcune non hanno resistito alla prova del tempo, a causa di uno stile che nel frattempo si è evoluto, ma altre conservano tutt'oggi un certo fascino che mescola enigmi in anticipo sui tempi e una narrazione perlomeno suggestiva, dando prova della solidità di un genere che resiste con successo da oltre 150 anni e in cui si sono cimentati, oltre ad alcuni storici, anche poeti, economisti e scienziati. In particolare, l'oggetto della recensione di quest'oggi, "L'Occhio di Osiride" di Richard Austin Freeman (Polillo Editore, 2014), è un esempio dell'opera complessiva di uno stimato e controverso dottore, vissuto a cavallo di XIX e XX secolo, la quale si può ascrivere tra tali libri datati ma ancora godibili: si tratta infatti di un romanzo stupefacente, datato 1911 ma che si legge perfettamente anche ai nostri giorni e presenta alcuni aspetti tanto innovativi da apparire molto più recente, in cui il primo investigatore scientifico della Storia (dopo l'eccezione Sherlock Holmes) indaga su un delitto misterioso, che mescola Antico Egitto, sentimento autentico e l'applicazione di un metodo che non sfigurerebbe nelle moderne sezioni della "scientifica", e persegue la propria meta senza tregua, confidando nel potere della chimica, della biologia, della legge e della Giustizia.

Dipinto raffigurante Nevill's Court, quartiere di Londra
distrutto in seguito ai bombardamenti della Seconda Guerra
Mondiale
La vicenda si apre con una scena all'ospedale St. Margaret di Londra, dove il protagonista e narratore della storia, il dottor Paul Berkeley, assiste a una conferenza dello stimato John Thorndyke, suo docente e investigatore dilettante. L'argomento della lezione appena terminata ha riguardato il come si possa stabilire con certezza il momento della scomparsa di una persona, e il professore ha deciso di presentare agli alunni interessati un esemplare caso atto ad illustrare le teorie che ha fin lì esposto: quello di John Bellingham, egittologo di fama mondiale, sparito in circostanze eccezionali dalla casa del cugino Hurst, in cui si era recato di ritorno da un viaggio sul continente. La cameriera lo aveva accolto e fatto accomodare nello studio del padrone, in attesa che quest'ultimo ritornasse da un appuntamento in città, per poi dedicarsi alle faccende domestiche lasciate in sospeso; tuttavia, quando Mr. Hurst era rincasato, si era scoperto che Bellingham si era volatilizzato senza alcun motivo, sgusciando da un cancello sul retro. Preoccupato dallo strano comportamento del cugino, Hurst aveva subito allertato l'avvocato di Bellingham, Mr. Jellicoe, ed insieme si erano diretti dal fratello dell'archeologo, Godfrey, per scoprire che in un momento imprecisato della serata il fuggiasco aveva fatto una tappa a casa di quest'ultimo, senza farsi riconoscere dal personale, seminando sul suo cammino uno scarabeo da cui non si separava mai e facendo perdere ancora una volta le proprie tracce. E se è vero che, al di là di allarmare i suoi parenti e Jellicoe, l'atteggiamento di John Bellingham non farebbe necessariamente pensare a una disgrazia, è altrettanto vero che dà adito a numerosi dubbi sui motivi che possano averlo spinto a mettere in atto una tale messinscena. Se stava bene, perché Bellingham avrebbe dovuto lasciar cadere a terra lo scarabeo e abbandonarlo, prima di sparire? Perché ha architettato una fuga tanto pirotecnica? Ma soprattutto, adesso è morto oppure si sta nascondendo?

Il problema ha suscitato l'interesse accademico di Thorndyke e ha acceso l'immaginazione di Berkeley il quale, appena due anni dopo la scomparsa e la fine dei suoi studi, incappa per puro caso proprio in Godfrey Bellingham, caduto in disgrazia in seguito alla sospensione del reddito concessogli dal fratello, e in sua figlia Ruth. Dalla sua posizione di medico condotto, ora Berkeley può accedere a confidenze personali e a documenti che tempo prima erano stati preclusi ai giornali; e un interesse decisamente sentimentale, legato all'impressione che un grave pericolo gravi sui suoi nuovi amici, gli suggerisce di interpellare proprio John Thorndyke, affinché lo possa aiutare a risolvere il caso. Tuttavia, alcuni presagi fanno intendere che possa essere accaduto qualcosa di grave all'egittologo e non è facile intraprendere un'indagine adeguata: le complicazioni, infatti, sembrano moltiplicarsi man mano che passano i giorni. Innanzitutto, niente conferma il momento esatto in cui Bellingham è scomparso: ha fatto visita prima al fratello oppure al cugino, visto che in realtà nessuno può confermare di averlo visto di persona dopo il suo ritorno in Inghilterra? In secondo luogo, la spinosa questione del testamento del (presunto) defunto, la cui stesura presenta condizioni alle quali pare impossibile adempiere, suscita ben più di un dilemma, coinvolgendo Jellicoe e Hurst tra i sospettati di una congiura cui forse hanno avuto una parte anche i Bellingham; senza contare il misterioso affare del rinvenimento di alcuni resti umani, sparpagliati in diversi laghetti e stagni nei dintorni della vecchia casa di Godfrey e Ruth. La vicenda si protrarrà tra un idillio al British Museum, gite in vecchi cimiteri e vicoli della Londra Edoardiana, processi e inchieste del coroner, mentre Thorndyke si interroga sulla soluzione del caso, tra un esperimento e l'altro; finché egli sarà ricompensato per l'attesa e, grazie a un passo falso del suo misterioso avversario, il quale si delinea sempre più sullo sfondo della scomparsa di Bellingham, riuscirà a far luce sulla misteriosa scomparsa dell'egittologo.

Fotografia raffigurante il sarcofago della
mummia di Artemidoro
Richard Austin Freeman non è propriamente da considerarsi un autore della Golden Age del romanzo giallo inglese; nel senso che ha iniziato a scrivere nell'epoca precedente a quella di altri grandi e più famosi esponenti del genere, come Agatha Christie o Dorothy L. Sayers. Ad esempio, le avventure con protagonista Romney Pringle, le quali costituiscono il suo primo sforzo letterario, risalgono al 1902, mentre l'esordio del professor Thorndyke al 1907, poco meno di 15 anni prima di quello di Poirot. Questo fatto potrebbe indurre a credere che l'opera di Freeman sia purtroppo datata e molto meno interessante di quella dei suoi colleghi più giovani; eppure, niente potrebbe essere tanto sbagliato, e per averne conferma basta leggere "L'Occhio di Osiride". Quest'ultimo appartiene a un filone di mysteries che mi piace definire "antiquati", ma non per sottolineare in senso negativo il loro essere superati e antichi; piuttosto, per indicare come essi siano stati capaci di sfruttare il passato così da accrescere il proprio valore intrinseco nel futuro. Considerateli come se fossero scrivanie d'epoca accostate a tavoli dal design moderno: magari non reggono il confronto con alcuni capolavori venuti in seguito, soprattutto in fatto di complessità di enigma oppure di emancipazione dei personaggi; però non si può negare il fatto che i gialli di Freeman, allo stesso modo di quelli scritti (per fare un esempio) da J. Jefferson Farjeon, riescano ad esercitare un'attrazione irresistibile nei lettori nostalgici e costituiscano dei piacevoli esempi di period novel, ovvero quel tipo di romanzo in cui viene ritratto lo stile di vita di un definito arco di tempo, con i suoi pregi e i suoi difetti. Si tratta di opere suggestive, le quali sanno raccontare vicende avvolte da una sorta di alone onirico, che vediamo come attraverso la nebbia del tempo, ed intrattenere il proprio pubblico con una semplicità soltanto apparente: in realtà, infatti, in "L'Occhio di Osiride" ma non solo, ci troviamo di fronte a complessi mosaici fatti di piccole tessere dettagliate, tenute insieme da un collante costituito da stile, ambientazione e caratterizzazione dei personaggi "alla Dickens"; tutti quanti solidi contro il passare del tempo (anche se soggetti alle mode) e, nonostante la pesantezza che ogni tanto lasciano trasparire, mescolati all'indubbia attrattiva del mistero.

Nel caso specifico del romanzo di Freeman, quattro sono gli elementi che risaltano al suo interno e gli hanno permesso di sopravvivere alla prova del tempo: una scrittura ironica seppur specialistica, magari un po' nostalgica ma mai banale, attenta e a suo modo coinvolgente; un enigma capace di soddisfare anche i lettori più esigenti, imperniato su un metodo d'indagine scientifico ma non per questo poco appassionante; un sapiente uso delle descrizioni degli ambienti che fanno da sfondo alle vicende raccontate, capaci di proiettare chi legge direttamente dentro le pagine; una grande attenzione al rapporto tra i personaggi, costruito di interazioni che si inseriscono molto bene tra i momenti più "seri" dell'indagine e che permette di spezzare un racconto altrimenti troppo schematico e serioso. La critica che il più delle volte viene rivolta a Freeman (e al suo Thorndyke), infatti, è quella di adottare un atteggiamento a dir poco gelido e molto tecnico; certamente comprensibile, se si presta attenzione alla semplice esposizione del mistero, ma bisognerebbe sottolineare anche il fatto che un simile giudizio è alquanto riduttivo e arbitrario, se si tiene conto pure del contenuto effettivo e di quanto fa da contorno ai casi di cui uno è inventore e l'altro protagonista. Il buon professore sarà anche il più scientifico degli investigatori e il primo medico legale mai apparso sulla scena della narrativa del mistero, ma che dire  dell'empatia di cui dà prova in alcune occasioni? E tornando a Freeman, cosa dire delle città che ha ritratto come dipinti in movimento, dei dialoghi brillanti, dei temi toccati e dei complessi rapporti tra innamorati che letteralmente pullulano nelle sue crime novels?

Sono soprattutto questi i motivi che spingono ancora adesso alla lettura di questi straordinari romanzi. Lo stesso Raymond Chandler, durissimo nei confronti del giallo classico, elogiò apertamente il loro autore, definendolo “un magnifico artista” che “non ha eguali”. Al fine di convincervi della bontà del mio pensiero, ora prenderò in esame ognuno di questi elementi caratteristici di "L'Occhio di Osiride", partendo dai contenuti che mescolano scienza forense, pratica legale, romanticismo ed egittologia. Spesso, nei mysteries contemporanei, mi sono reso conto di come la "sostanza" sia debole e fiacca, poiché mancante di una base stabile e salda per quanto riguarda il fattore stilistico e contenutistico; nel caso di questo libro, invece, mi è sembrato che l'autore sapesse molto bene di che cosa stava parlando e avesse tutte le intenzioni di renderlo noto ai suoi lettori: lo dimostrano non solo i continui riferimenti alla pratica legale (pp. 161-198, ovvero i capitoli sull'inchiesta e sul processo di morte presunta, ma anche pp. 80-91, 122-123 e cap. 9, quest'ultimo sul modo di ragionare di un avvocato fin troppo zelante) e alla medicina (pp. 59-60, 128-131, 134, 138, 150-160, 165-169, 284-288), i quali possono essere ascritti alle critiche di cui sopra pur presentando per la prima volta una grande autorità in merito allo sviluppo di nuove tecniche da applicare alle indagini, tanto da influenzare autori come Dorothy L. Sayers, J.J Connington e John Rhode, ma anche le digressioni sul rapporto tra i personaggi principali, ironiche in modo da alleggerire la pesantezza di uno stile dalle descrizioni troppo dettagliate (come alle pp. 29, 32 2 55), oppure quelle sull'Egittologia, questa scienza strana che si occupa di imbalsamazioni e conservazione di cadaveri (cap 8, p. 221, 228-229) la quale non viene qui sfruttata solo per creare suggestioni più o meno a buon mercato, ma impiegata in modo intelligente attraverso intere pagine dedicate all'antico Egitto, alla sua religiosità, a nozioni interessanti; tanto che, alla fine della lettura, possiamo dire di sapere qualcosa di più sull'argomento.

Papiro egizio
Senza dimenticare le passeggiate e le visite che vedono protagonisti Berkeley e Ruth Bellingham (sulla loro relazione mi soffermerò più avanti): proprio queste, infatti, legano meglio tra loro ambientazione e scrittura, grazie alla caratteristica di poter essere eventualmente ripercorse anche nella realtà. Le "visioni" evocate dall'autore giocano un ruolo di prima importanza nel creare la giusta atmosfera in cui si svolgono le vicende che egli racconta: solide come sono al limite della pedanteria, risultano caratterizzate da una precisione minuziosa, che rende molto "familiare" e intimo il racconto. Con un tono un po' nostalgico, in cui sembra già affacciarsi lo spettro della Grande Guerra e di un Destino fatale (non bisogna dimenticare che "L'Occhio di Osiride risale al 1911, tre anni prima dello scoppio del primo conflitto mondiale), ci viene presentata la Londra dell'Età Edoardiana, quella che va dal 1901 (anno di morte della regina Vittoria) al 1914. Immaginate: a quel tempo, nella società si andava diffondendo l’onda positivista e la scienza acquisiva sempre più importanza; la gente nutriva ancora una grande fiducia nel futuro, anche se era diffusa la povertà (come si evince dai numerosi cenni sparsi nel libro, a pp. 25, 39, 47, 125, o dall'impiego misero di Ruth Bellingham come "approvvigionatrice letteraria" alle pp. 46-49) e tutti si sforzavano a dare il meglio di sé, dal semplice medico condotto o operaio al professore. Difficile non ritrovare questi caratteri negli allegri quadretti di luoghi come Fetter Lane o Nevill's Court (quest'ultima antica zona di Londra venne distrutta nei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, quindi la sua descrizione assume ancor più importanza) alle pp. 15-16, 57, 245-246. Tutto ciò ci aiuta a visualizzare con la mente le ambientazioni, permettendoci di entrare nella biblioteca o nelle sale del British Museum (pp. 67-70, 94-100) o di percorrere King's Bench Walk (p. 237), Cosmo Place (pp. 74-75), Heathcote Street (pp. 206-211), Gough Street e Wine Office Court (pp. 205-206), oppure sederci in piccole locande di campagna (p. 161).

Oltre alle semplici descrizioni, inoltre, questi luoghi sono spesso dotati della loro fauna caratteristica, fatta di cittadini diversissimi, contadini e locandieri che danno un tocco in più alle descrizioni, gente semplice ritratta mentre compie il proprio rituale quotidiano, il quale ci restituisce usi e costumi dei cittadini del tempo e ci permette di immedesimarci in loro. La suggestione che si ricava dall'insieme di questi due aspetti (contenuti e ambientazione) si somma poi alla scrittura, la quale possiede quella solida costruzione che gli autori nati in pieno Ottocento possono vantare come una propria caratteristica: solenne, quasi pesante in quanto a dettagli, eppure proprio con una marcia in più grazie a questi ultimi, che contribuiscono a renderla piena di sfaccettature e a darle profondità. Le digressioni, che sembrerebbero appesantire il tutto, in realtà sono affascinanti, arricchiscono la trama e ci accompagnano nelle varie situazioni; in modo simile a quelle usate da Sayers e Michael Gilbert in "Il Segreto delle Campane" e "C'è un Cadavere dall'Avvocato", l'autore inserisce una serie di osservazioni che esulano dalla risoluzione dell'enigma (una su tutte, gli splendidi paragrafi sulla mummia di Artemidoro alle pp. 95-100, e la descrizione del metodo di imbalsamazione alle pp. 298-201), pur tuttavia senza far perdere il filo della narrazione al lettore. Certamente, non a tutti può interessare lo svolgimento di un processo o una lezione sugli Egizi o sul distoma epatico; chi presta più attenzione all'enigma e meno ad ambientazione troverà tutto quanto pesante e inutile; da parte mia però trovo che ciò restituisca un pezzetto del momento in cui il romanzo fu scritto, permettendo una maggior identificazione nei personaggi e nei luoghi descritti, senza contare che si ricava la sensazione di leggere qualcosa per cui valga la pena e che non sia superficiale. Oltre ai romanzi già citati, "L'Occhio di Osiride" mi ha ricordato un po' anche "La Pietra di Luna" di Wilkie Collins, con le sue divagazioni che per alcuni distraggono ma per altri sono un motivo in più per continuare la lettura: non si sa mai cosa può essere introdotto nella pagina seguente, magari sarai sorpreso dal racconto di cose che oggi non esistono più, e io lo considero un valore aggiunto. Uno stile tanto articolato, insomma, mette in luce il grande talento degli autori della scuola vittoriana (tra cui inserisco anche Freeman) nel saper creare un piccolo universo a parte; d’altro canto, però, l'appartenere alla generazione più anziana di scrittori di crime novels non fu solo fonte di vantaggi.

Per concludere con una riflessione sull'enigma, infatti, Freeman si ritrovò ad usare in gran parte dei suoi gialli (compreso questo) lo schema ripetitivo del "giovane dottore innamorato di una paziente povera o bisognosa di comprensione, in un caso legato alla sua professione", riconoscendolo lui stesso a p. 126, magari focalizzando i sospetti su un gruppo talmente ristretto da rendere ingenua la scoperta del colpevole e peccando quindi di poca originalità in questo senso; bisogna comunque non essere troppo duri con lui e dargli atto che il mistero del romanzo risale all'alba della crime story e presenta notevoli innovazioni scientifiche che, al tempo della sua scrittura, dovettero sembrare degne di orizzonti fantastici (pp. 134, 138, ma soprattutto pp. 250-260 sugli esperimenti al British Museum e pp. 298-301 sulle tecniche di imbalsamazione). Sotto certi aspetti, mi spingerei addirittura ad affermare che questo romanzo si può considerare una sorta di prototipo anticipatore dei gialli che vennero in seguito, nel quale passato e futuro convivono in armonia. Come i suoi successori, infatti, Freeman si diede da fare per creare trame con una forte identità, sviluppò nuovi metodi delittuosi e spesso ideò i suoi delitti fittizi ispirandosi a delitti reali (nel caso di "L'Occhio di Osiride" cita apertamente il caso di George Parkman e John Webster, avvenuto a Boston, che ha portato all'impiccagione di un individuo colpevole grazie alle identificazioni effettuate sulle ceneri di un cadavere); ma era ancora deciso a dare più importanza alle modalità di uccisione, il punto forte dei casi di Thorndyke, sempre perfettamente logico e ispirato a criteri scientifici, a discapito delle sottigliezze psicologiche della Golden Age. Anche per questo motivo alcuni non apprezzano appieno l'opera di Freeman; in ogni caso, nonostante ciò, da parte mia mi sento più che disposto a perdonargli qualche piccola imperfezione.

Richard (Austin) Freeman, nato nel 1862 e
morto nel 1943
Considerando la mole di romanzi e racconti che Richard Austin Freeman pubblicò nella sua lunga vita, sorprende sempre molto venire a sapere che la sua passione per la scrittura ebbe inizio non dalla semplice vocazione, quanto piuttosto da un forte senso di disperazione. L'autore, infatti, nato a Londra nel 1862 e con un passato di medico otorinolaringoiatra, dopo un'esperienza nel servizio coloniale e il matrimonio con Annie Elizabeth Edwards si ritrovò di punto in bianco a dover affrontare una lunga malattia contratta nel continente nero, con la conseguenza di dover rimpatriare al più presto e trovare una nuova occupazione, che si adattasse ai suoi disturbi frequenti e gli permettesse di sopravvivere. La svolta arrivò con un impiego presso la prigione di Holloway, dalla quale trasse cognizioni di procedura penale e psicologia criminale, ma soprattutto con la decisione in extremis (in seguito all'abbandono definitivo della professione) di darsi alla scrittura. Dopo aver raccontato la sua esperienza africana in un volume di genere diverso, nel 1902 esordì nella narrativa gialla con una serie di avventure con protagonista una sorta di furfante gentiluomo, artista della truffa e maestro del travestimento di nome Romney Pringle, scritte in collaborazione con un amico medico. Il genere dovette riuscirgli a genio, poiché appena cinque anni dopo iniziò a sfornare gialli su gialli con protagonista John Evelyn Thorndyke, il primo investigatore scientifico della storia dopo Sherlock Holmes, entrando prepotentemente nella storia della crime novel. Con il suo esordio dal titolo "L'Impronta Scarlatta", infatti, fondò il cosiddetto "giallo scientifico", in cui contano soprattutto le prove ricavate dalle analisi di laboratorio e da ricerche sulle prove materiali, senza affidarsi allo studio della psicologia. Thorndyke, uomo di grande avvenenza (al contrario dei "mostri di bruttezza" partoriti dalla mente dei colleghi del suo inventore), istruito in una quantità incredibile di materie e sempre padrone di sé permetterà a Freeman di dominare per quasi venticinque anni la scena del giallo classico, apparendo in ben 21 romanzi e 42 racconti, tra i quali vanno citati "Arsenico", "Il Testimone Muto", "L'Affare D'Arblay" insieme ai brevi "Il Caso Oscar Brodski" e "The Singing Bone"; quest'ultimo per un motivo ben preciso. Con questa storia breve, infatti, il medico prestato alla letteratura diede il proprio secondo contributo alla storia del mystery classico creando l'inverted story; ovvero, quella tecnica secondo cui il colpevole del crimine-omicidio è già noto al lettore e il gusto del racconto non sta tanto nella scoperta di "chi-l'ha-fatto", quanto del "come-è-stato-fatto" (un po' alla maniera del Tenente Colombo). Già questo mette in luce quanto fosse importante per Freeman lo studio del metodo utilizzato dal colpevole per perpetrare il suo delitto: addirittura, egli si impegnò a sviluppare e testare numerose tecniche criminali.

Grande esperto di procedure legali e di true crime (oltre ad inserire casi reali nei suoi gialli, analizzò a fondo il mistero di Croydon), innovativo finché mori nel 1943, promotore dell'autorità della chimica e della biologia applicate alle indagini, oltre che sostenitore dell'eugenetica (al contrario di moltissimi colleghi giallisti), Richard Austin Freeman è stato un grande giallista, resta uno dei pochi autori di polizieschi dell’epoca Edoardiana ad essere letto ai giorni nostri, assieme a G.K. Chesterton ed E. C. Bentley e, cosa ancor più rara, un'esponente del giallo degli albori come di quello della Golden Age. Oltre a quelli di Chandler, inoltre, riuscì ad ottenere anche gli elogi di George Orwell, il quale considerava la crime story della Golden Age come troppo moderna, al contrario di quella più formale e "antiquata" da lui rappresentata: "Ricordi la nostra passione per R. Austin Freeman? Io non l'ho mai davvero dimenticata, e penso che dovrei leggere tutti i suoi libri eccetto alcuni dei suoi ultimi" osservò quest'ultimo in una lettera a un'amica nel 1949, senza contare le numerose citazioni alle opere del suo idolo che fece in altri saggi. Per quanto mi riguarda, Golden Age e giallo degli inizi non fa differenza, se si tratta di opere di valore come questo "L'Occhio di Osiride": un eccezionale romanzo, da recuperare solo nell'edizione dei “Grandi del mistero”, nel "Classico del giallo n. 759" e nell'edizione Polillo, e una pietra miliare del poliziesco, importante e bellissimo per i numerosi motivi di cui vi ho parlato sopra. Certo, forse un po' datato nel comportamento dei suoi personaggi, i quali si inchinano ai nemici e agli amici con una frequenza a dir poco allarmante (pp. 23, 283) e evitano di ostentare pubblicamente i propri sentimenti da buoni vittoriani; eppure tutto ciò ha anche un'aria vagamente retrò, come di qualcosa di garbatamente educato che ricorda come si comportavano le vecchie zie quando erano giovani e i tempi erano diversi e bisognava mantenere un certo contegno altrimenti si faceva brutta figura e si arrossiva per l'imbarazzo. Il rapporto tra i personaggi (unico punto su quale dovevo ancora soffermarmi) presenta l'ultimo gioiello della corona costituito da "L'Occhio di Osiride": pur essendo un po' come dei manichini fatti muovere secondo uno schema ingessato, essi posseggono un'anima ben più viva di quella delle mere marionette. Hanno una personalità solida, sono ben caratterizzati, e ciò indica come Freeman non fosse l'individuo gelido che il lettore medio pensa di conoscere. "Saremmo dei cattivi biologi, e dei medici ancora peggiori se sottovalutassimo l'importanza di quella che è la funzione principale della natura [...] l'importanza vitale del sesso" e del sentimentalismo, spiegò per bocca di Thorndyke a p. 234 per poi mettere in pratica le sue parole.

L'ironia tra l'investigatore e Jervis umanizza personaggi che altrimenti apparirebbero freddi (pp. 29, 32, 55), le dispute tra Berkeley e miss Oman ci restituiscono allegri ritratti della quotidianità (pp. 63-64, 105-108), nel cap. 9 ci viene descritto Jellicoe in tutta la sua riservatezza; ma sono Berkeley e Ruth Bellingham su tutti, nello svilupparsi della loro storia d'amore, mentre vivono le passioni dei giovani innamorati in modo più riservato rispetto ai moderni, proprio a causa del comportamento di cui ho parlato prima, ma comunque in modo vivace, a rapire il cuore del lettore. La loro grande, vera e sentita storia d’amore (a partire dal loro incontro e proseguendo nell'idillio alle pp. 36, 49-50, 54, 95-100, 220-225, 228-230, 234, 263-265, 267, 283, 307), non invadente rispetto all'intreccio, si amalgama a dare un tocco in più al racconto. Non è come in altri romanzi, in cui la love story spesso finisce per ridondare rispetto alla trama o per risultare melensa: in questo caso tutto si combina alla perfezione. Martin Edwards, nel suo "The Golden Age of Murder", ha osservato che lo stesso Freeman fu un accanito dongiovanni: che il buon dottore abbia inserito qualche riferimento alla storia con Alice Bishop, la quale viene indicata come una sua possibile amante? Chissà. Certo è che, per un periodo, i due riuscirono addirittura a vivere insieme, sotto lo stesso tetto, nonostante la presenza di Elizabeth e del marito legittimo di Alice; quindi, si trattò ben più di una scappatella e l'autore avrebbe potuto considerarla una grande storia d'amore come quella di Berkeley e Ruth. Anche in questo Freeman fu un innovatore, in un certo senso. E se "l'interesse amoroso", abbellito dell'affascinante e stupenda figura della mummia di Artemidoro (la quale si può vedere ancora oggi al British Museum) può non essere apprezzato da tutti, come accadde con Sayers, è però innegabile che esso contribuisca a dare una marcia in più, grazie ai toni sognanti e romantici al limite dello stucchevole e alle sue rinunce in nome dell'amore e gli struggimenti, a un giallo che tiene testa ad opere ben più moderne e si può tranquillamente classificare come un capolavoro senza tempo, sospeso nel sogno di un mondo passato che guardava al futuro con speranza e fiducia.

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