Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore
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La stessa P.D. James, scrittrice di crime novels classiche, ha osservato che si può "apprendere molto di più sui costumi sociali dell'epoca in cui un giallo è stato scritto, di quanto si possa fare dalla letteratura più pretenziosa". E anche se, in questo caso specifico, lei si riferisce al periodo della Golden Age, in cui il genere ha raggiunto l'apice in quanto ad inventiva e tratteggio dell'atmosfera sociale, secondo me la stessa cosa vale per gli anni immediatamente precedenti, quelli che vanno dalla fine dell'Ottocento agli inizi del Novecento: pure allora, infatti, vennero prodotte opere del mistero degne di essere ricordate per il loro piacevole racconto della quotidianità; certo, magari alcune non hanno resistito alla prova del tempo, a causa di uno stile che nel frattempo si è evoluto, ma altre conservano tutt'oggi un certo fascino che mescola enigmi in anticipo sui tempi e una narrazione perlomeno suggestiva, dando prova della solidità di un genere che resiste con successo da oltre 150 anni e in cui si sono cimentati, oltre ad alcuni storici, anche poeti, economisti e scienziati. In particolare, l'oggetto della recensione di quest'oggi, "L'Occhio di Osiride" di Richard Austin Freeman (Polillo Editore, 2014), è un esempio dell'opera complessiva di uno stimato e controverso dottore, vissuto a cavallo di XIX e XX secolo, la quale si può ascrivere tra tali libri datati ma ancora godibili: si tratta infatti di un romanzo stupefacente, datato 1911 ma che si legge perfettamente anche ai nostri giorni e presenta alcuni aspetti tanto innovativi da apparire molto più recente, in cui il primo investigatore scientifico della Storia (dopo l'eccezione Sherlock Holmes) indaga su un delitto misterioso, che mescola Antico Egitto, sentimento autentico e l'applicazione di un metodo che non sfigurerebbe nelle moderne sezioni della "scientifica", e persegue la propria meta senza tregua, confidando nel potere della chimica, della biologia, della legge e della Giustizia.
Dipinto raffigurante Nevill's Court, quartiere di Londra distrutto in seguito ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale |
Il problema ha suscitato l'interesse accademico di Thorndyke e ha acceso l'immaginazione di Berkeley il quale, appena due anni dopo la scomparsa e la fine dei suoi studi, incappa per puro caso proprio in Godfrey Bellingham, caduto in disgrazia in seguito alla sospensione del reddito concessogli dal fratello, e in sua figlia Ruth. Dalla sua posizione di medico condotto, ora Berkeley può accedere a confidenze personali e a documenti che tempo prima erano stati preclusi ai giornali; e un interesse decisamente sentimentale, legato all'impressione che un grave pericolo gravi sui suoi nuovi amici, gli suggerisce di interpellare proprio John Thorndyke, affinché lo possa aiutare a risolvere il caso. Tuttavia, alcuni presagi fanno intendere che possa essere accaduto qualcosa di grave all'egittologo e non è facile intraprendere un'indagine adeguata: le complicazioni, infatti, sembrano moltiplicarsi man mano che passano i giorni. Innanzitutto, niente conferma il momento esatto in cui Bellingham è scomparso: ha fatto visita prima al fratello oppure al cugino, visto che in realtà nessuno può confermare di averlo visto di persona dopo il suo ritorno in Inghilterra? In secondo luogo, la spinosa questione del testamento del (presunto) defunto, la cui stesura presenta condizioni alle quali pare impossibile adempiere, suscita ben più di un dilemma, coinvolgendo Jellicoe e Hurst tra i sospettati di una congiura cui forse hanno avuto una parte anche i Bellingham; senza contare il misterioso affare del rinvenimento di alcuni resti umani, sparpagliati in diversi laghetti e stagni nei
dintorni della vecchia casa di Godfrey e Ruth. La vicenda si protrarrà tra un idillio al British Museum, gite in vecchi cimiteri e vicoli della Londra Edoardiana, processi e inchieste del coroner, mentre Thorndyke si interroga sulla soluzione del caso, tra un esperimento e l'altro; finché egli sarà ricompensato per l'attesa e, grazie a un passo falso del suo misterioso avversario, il quale si delinea sempre più sullo sfondo della scomparsa di Bellingham, riuscirà a far luce sulla misteriosa scomparsa dell'egittologo.
Fotografia raffigurante il sarcofago della mummia di Artemidoro |
Nel caso specifico del romanzo di Freeman, quattro sono gli elementi che risaltano al suo interno e gli hanno permesso di sopravvivere alla prova del tempo: una scrittura ironica seppur specialistica, magari un po' nostalgica ma mai banale, attenta e a suo modo coinvolgente; un enigma capace di soddisfare anche i lettori più esigenti, imperniato su un metodo d'indagine scientifico ma non per questo poco appassionante; un sapiente uso delle descrizioni degli ambienti che fanno da sfondo alle vicende raccontate, capaci di proiettare chi legge direttamente dentro le pagine; una grande attenzione al rapporto tra i personaggi, costruito di interazioni che si inseriscono molto bene tra i momenti più "seri" dell'indagine e che permette di spezzare un racconto altrimenti troppo schematico e serioso. La critica che il più delle volte viene rivolta a Freeman (e al suo Thorndyke), infatti, è quella di adottare un atteggiamento a dir poco gelido e molto tecnico; certamente comprensibile, se si presta attenzione alla semplice esposizione del mistero, ma bisognerebbe sottolineare anche il fatto che un simile giudizio è alquanto riduttivo e arbitrario, se si tiene conto pure del contenuto effettivo e di quanto fa da contorno ai casi di cui uno è inventore e l'altro protagonista. Il buon professore sarà anche il più scientifico degli investigatori e il primo medico legale mai apparso sulla scena della narrativa del mistero, ma che dire dell'empatia di cui dà prova in alcune occasioni? E tornando a Freeman, cosa dire delle città che ha ritratto come dipinti in movimento, dei dialoghi brillanti, dei temi toccati e dei complessi rapporti tra innamorati che letteralmente pullulano nelle sue crime novels?
Sono soprattutto questi i motivi che spingono ancora adesso alla lettura di questi straordinari romanzi. Lo stesso Raymond Chandler, durissimo nei confronti del giallo classico, elogiò apertamente il loro autore, definendolo “un magnifico artista” che “non ha eguali”. Al fine di convincervi della bontà del mio pensiero, ora prenderò in esame ognuno di questi elementi caratteristici di "L'Occhio di Osiride", partendo dai contenuti che mescolano scienza forense, pratica legale, romanticismo ed egittologia. Spesso, nei mysteries contemporanei, mi sono reso conto di come la "sostanza" sia debole e fiacca, poiché mancante di una base stabile e salda per quanto riguarda il fattore stilistico e contenutistico; nel caso di questo libro, invece, mi è sembrato che l'autore sapesse molto bene di che cosa stava parlando e avesse tutte le intenzioni di renderlo noto ai suoi lettori: lo dimostrano non solo i continui riferimenti alla pratica legale (pp. 161-198, ovvero i capitoli sull'inchiesta e sul processo di morte presunta, ma anche pp. 80-91, 122-123 e cap. 9, quest'ultimo sul modo di ragionare di un avvocato fin troppo zelante) e alla medicina (pp. 59-60, 128-131, 134, 138, 150-160, 165-169, 284-288), i quali possono essere ascritti alle critiche di cui sopra pur presentando per la prima volta una grande autorità in merito allo sviluppo di nuove tecniche da applicare alle indagini, tanto da influenzare autori come Dorothy L. Sayers, J.J Connington e John Rhode, ma anche le digressioni sul rapporto tra i personaggi principali, ironiche in modo da alleggerire la pesantezza di uno stile dalle descrizioni troppo dettagliate (come alle pp. 29, 32 2 55), oppure quelle sull'Egittologia, questa scienza strana che si occupa di imbalsamazioni e conservazione di cadaveri (cap 8, p. 221, 228-229) la quale non viene qui sfruttata solo per creare suggestioni più o meno a buon mercato, ma impiegata in modo intelligente attraverso intere pagine dedicate all'antico Egitto, alla sua religiosità, a nozioni interessanti; tanto che, alla fine della lettura, possiamo dire di sapere qualcosa di più sull'argomento.
Papiro egizio |
Oltre alle semplici descrizioni, inoltre, questi luoghi sono spesso dotati della loro fauna caratteristica, fatta di cittadini diversissimi, contadini e locandieri che danno un tocco in più alle descrizioni, gente semplice ritratta mentre compie il proprio rituale quotidiano, il quale ci restituisce usi e costumi dei cittadini del tempo e ci permette di immedesimarci in loro. La suggestione che si ricava dall'insieme di questi due aspetti (contenuti e ambientazione) si somma poi alla scrittura, la quale possiede quella solida costruzione che gli autori nati in pieno Ottocento possono vantare come una propria caratteristica: solenne, quasi pesante in quanto a dettagli, eppure proprio con una marcia in più grazie a questi ultimi, che contribuiscono a renderla piena di sfaccettature e a darle profondità. Le digressioni, che sembrerebbero appesantire il tutto, in realtà sono affascinanti, arricchiscono la trama e ci accompagnano nelle varie situazioni; in modo simile a quelle usate da Sayers e Michael Gilbert in "Il Segreto delle Campane" e "C'è un Cadavere dall'Avvocato", l'autore inserisce una serie di osservazioni che esulano dalla risoluzione dell'enigma (una su tutte, gli splendidi paragrafi sulla mummia di Artemidoro alle pp. 95-100, e la descrizione del metodo di imbalsamazione alle pp. 298-201), pur tuttavia senza far perdere il filo della narrazione al lettore. Certamente, non a tutti può interessare lo svolgimento di un processo o una lezione sugli Egizi o sul distoma epatico; chi presta più attenzione all'enigma e meno ad ambientazione troverà tutto quanto pesante e inutile; da parte mia però trovo che ciò restituisca un pezzetto del momento in cui il romanzo fu scritto, permettendo una maggior identificazione nei personaggi e nei luoghi descritti, senza contare che si ricava la sensazione di leggere qualcosa per cui valga la pena e che non sia superficiale. Oltre ai romanzi già citati, "L'Occhio di Osiride" mi ha ricordato un po' anche "La Pietra di Luna" di Wilkie Collins, con le sue divagazioni che per alcuni distraggono ma per altri sono un motivo in più per continuare la lettura: non si sa mai cosa può essere introdotto nella pagina seguente, magari sarai sorpreso dal racconto di cose che oggi non esistono più, e io lo considero un valore aggiunto. Uno stile tanto articolato, insomma, mette in luce il grande talento degli autori della scuola vittoriana (tra cui inserisco anche Freeman) nel saper creare un piccolo universo a parte; d’altro canto, però, l'appartenere alla generazione più anziana di scrittori di crime novels non fu solo fonte di vantaggi.
Per concludere con una riflessione sull'enigma, infatti, Freeman si ritrovò ad usare in gran parte dei suoi gialli (compreso questo) lo schema ripetitivo del "giovane dottore innamorato di una paziente povera o bisognosa di comprensione, in un caso legato alla sua professione", riconoscendolo lui stesso a p. 126, magari focalizzando i sospetti su un gruppo talmente ristretto da rendere ingenua la scoperta del colpevole e peccando quindi di poca originalità in questo senso; bisogna comunque non essere troppo duri con lui e dargli atto che il mistero del romanzo risale all'alba della crime story e presenta notevoli innovazioni scientifiche che, al tempo della sua scrittura, dovettero sembrare degne di orizzonti fantastici (pp. 134, 138, ma soprattutto pp. 250-260 sugli esperimenti al British Museum e pp. 298-301 sulle tecniche di imbalsamazione). Sotto certi aspetti, mi spingerei addirittura ad affermare che questo romanzo si può considerare una sorta di prototipo anticipatore dei gialli che vennero in seguito, nel quale passato e futuro convivono in armonia. Come i suoi successori, infatti, Freeman si diede da fare per creare trame con una forte identità, sviluppò nuovi metodi delittuosi e spesso ideò i suoi delitti fittizi ispirandosi a delitti reali (nel caso di "L'Occhio di Osiride" cita apertamente il caso di George Parkman e John Webster, avvenuto a Boston, che ha portato all'impiccagione di un individuo colpevole grazie alle identificazioni effettuate sulle ceneri di un cadavere); ma era ancora deciso a dare più importanza alle modalità di uccisione, il punto forte dei casi di Thorndyke, sempre perfettamente logico e ispirato a criteri scientifici, a discapito delle sottigliezze psicologiche della Golden Age. Anche per questo motivo alcuni non apprezzano appieno l'opera di Freeman; in ogni caso, nonostante ciò, da parte mia mi sento più che disposto a perdonargli qualche piccola imperfezione.
Considerando la mole di romanzi e racconti che Richard Austin Freeman pubblicò nella sua lunga vita, sorprende sempre molto venire a sapere che la sua passione per la scrittura ebbe inizio non dalla semplice vocazione, quanto piuttosto da un forte senso di disperazione. L'autore, infatti, nato a Londra nel 1862 e con un passato di medico otorinolaringoiatra, dopo un'esperienza nel servizio coloniale e il matrimonio con Annie Elizabeth Edwards si ritrovò di punto in bianco a dover affrontare una lunga malattia contratta nel continente nero, con la conseguenza di dover rimpatriare al più presto e trovare una nuova occupazione, che si adattasse ai suoi disturbi frequenti e gli permettesse di sopravvivere. La svolta arrivò con un impiego presso la prigione di Holloway, dalla quale trasse cognizioni di procedura penale e psicologia criminale, ma soprattutto con la decisione in extremis (in seguito all'abbandono definitivo della professione) di darsi alla scrittura. Dopo aver raccontato la sua esperienza africana in un volume di genere diverso, nel 1902 esordì nella narrativa gialla con una serie di avventure con protagonista una sorta di furfante gentiluomo, artista della truffa e maestro del travestimento di nome Romney Pringle, scritte in collaborazione con un amico medico. Il genere dovette riuscirgli a genio, poiché appena cinque anni dopo iniziò a sfornare gialli su gialli con protagonista John Evelyn Thorndyke, il primo investigatore scientifico della storia dopo Sherlock Holmes, entrando prepotentemente nella storia della crime novel. Con il suo esordio dal titolo "L'Impronta Scarlatta", infatti, fondò il cosiddetto "giallo scientifico", in cui contano soprattutto le prove ricavate dalle analisi di laboratorio e da ricerche sulle prove materiali, senza affidarsi allo studio della psicologia. Thorndyke, uomo di grande avvenenza (al contrario dei "mostri di bruttezza" partoriti dalla mente dei colleghi del suo inventore), istruito in una quantità incredibile di materie e sempre padrone di sé permetterà a Freeman di dominare per quasi venticinque anni la scena del giallo classico, apparendo in ben 21 romanzi e 42 racconti, tra i quali vanno citati "Arsenico", "Il Testimone Muto", "L'Affare D'Arblay" insieme ai brevi "Il Caso Oscar Brodski" e "The Singing Bone"; quest'ultimo per un motivo ben preciso. Con questa storia breve, infatti, il medico prestato alla letteratura diede il proprio secondo contributo alla storia del mystery classico creando l'inverted story; ovvero, quella tecnica secondo cui il colpevole del crimine-omicidio è già noto al lettore e il gusto del racconto non sta tanto nella scoperta di "chi-l'ha-fatto", quanto del "come-è-stato-fatto" (un po' alla maniera del Tenente Colombo). Già questo mette in luce quanto fosse importante per Freeman lo studio del metodo utilizzato dal colpevole per perpetrare il suo delitto: addirittura, egli si impegnò a sviluppare e testare numerose tecniche criminali.
Richard (Austin) Freeman, nato nel 1862 e morto nel 1943 |
Grande esperto di procedure legali e di true crime (oltre ad inserire casi reali nei suoi gialli, analizzò a fondo il mistero di Croydon), innovativo finché mori nel 1943, promotore dell'autorità della chimica e della biologia applicate alle indagini, oltre che sostenitore dell'eugenetica (al contrario di moltissimi colleghi giallisti), Richard Austin Freeman è stato un grande giallista, resta uno dei pochi autori di polizieschi dell’epoca Edoardiana ad essere letto ai giorni nostri, assieme a G.K. Chesterton ed E. C. Bentley e, cosa ancor più rara, un'esponente del giallo degli albori come di quello della Golden Age. Oltre a quelli di Chandler, inoltre, riuscì ad ottenere anche gli elogi di George Orwell, il quale considerava la crime story della Golden Age come troppo moderna, al contrario di quella più formale e "antiquata" da lui rappresentata: "Ricordi la nostra passione per R. Austin Freeman? Io non l'ho mai davvero dimenticata, e penso che dovrei leggere tutti i suoi libri eccetto alcuni dei suoi ultimi" osservò quest'ultimo in una lettera a un'amica nel 1949, senza contare le numerose citazioni alle opere del suo idolo che fece in altri saggi. Per quanto mi riguarda, Golden Age e giallo degli inizi non fa differenza, se si tratta di opere di valore come questo "L'Occhio di Osiride": un eccezionale romanzo, da recuperare solo nell'edizione dei “Grandi del mistero”, nel "Classico del giallo n. 759" e nell'edizione Polillo, e una pietra miliare del poliziesco, importante e bellissimo per i numerosi motivi di cui vi ho parlato sopra. Certo, forse un po' datato nel comportamento dei suoi personaggi, i quali si inchinano ai nemici e agli amici con una frequenza a dir poco allarmante (pp. 23, 283) e evitano di ostentare pubblicamente i propri sentimenti da buoni vittoriani; eppure tutto ciò ha anche un'aria vagamente retrò, come di qualcosa di garbatamente educato che ricorda come si comportavano le vecchie zie quando erano giovani e i tempi erano diversi e bisognava mantenere un certo contegno altrimenti si faceva brutta figura e si arrossiva per l'imbarazzo. Il rapporto tra i personaggi (unico punto su quale dovevo ancora soffermarmi) presenta l'ultimo gioiello della corona costituito da "L'Occhio di Osiride": pur essendo un po' come dei manichini fatti muovere secondo uno schema ingessato, essi posseggono un'anima ben più viva di quella delle mere marionette. Hanno una personalità solida, sono ben caratterizzati, e ciò indica come Freeman non fosse l'individuo gelido che il lettore medio pensa di conoscere. "Saremmo dei cattivi biologi, e dei medici ancora peggiori se sottovalutassimo l'importanza di quella che è la funzione principale della natura [...] l'importanza vitale del sesso" e del sentimentalismo, spiegò per bocca di Thorndyke a p. 234 per poi mettere in pratica le sue parole.
L'ironia tra l'investigatore e Jervis umanizza personaggi che altrimenti apparirebbero freddi (pp. 29, 32, 55), le dispute tra Berkeley e miss Oman ci restituiscono allegri ritratti della quotidianità (pp. 63-64, 105-108), nel cap. 9 ci viene descritto Jellicoe in tutta la sua riservatezza; ma sono Berkeley e Ruth Bellingham su tutti, nello svilupparsi della loro storia d'amore, mentre vivono le passioni dei giovani innamorati in modo più riservato rispetto ai moderni, proprio a causa del comportamento di cui ho parlato prima, ma comunque in modo vivace, a rapire il cuore del lettore. La loro grande, vera e sentita storia d’amore (a partire dal loro incontro e proseguendo nell'idillio alle pp. 36, 49-50, 54, 95-100, 220-225, 228-230, 234, 263-265, 267, 283, 307), non invadente rispetto all'intreccio, si amalgama a dare un tocco in più al racconto. Non è come in altri romanzi, in cui la love story spesso finisce per ridondare rispetto alla trama o per risultare melensa: in questo caso tutto si combina alla perfezione. Martin Edwards, nel suo "The Golden Age of Murder", ha osservato che lo stesso Freeman fu un accanito dongiovanni: che il buon dottore abbia inserito qualche riferimento alla storia con Alice Bishop, la quale viene indicata come una sua possibile amante? Chissà. Certo è che, per un periodo, i due riuscirono addirittura a vivere insieme, sotto lo stesso tetto, nonostante la presenza di Elizabeth e del marito legittimo di Alice; quindi, si trattò ben più di una scappatella e l'autore avrebbe potuto considerarla una grande storia d'amore come quella di Berkeley e Ruth. Anche in questo Freeman fu un innovatore, in un certo senso. E se "l'interesse amoroso", abbellito dell'affascinante e stupenda figura della mummia di Artemidoro (la quale si può vedere ancora oggi al British Museum) può non essere apprezzato da tutti, come accadde con Sayers, è però innegabile che esso contribuisca a dare una marcia in più, grazie ai toni sognanti e romantici al limite dello stucchevole e alle sue rinunce in nome dell'amore e gli struggimenti, a un giallo che tiene testa ad opere ben più moderne e si può tranquillamente classificare come un capolavoro senza tempo, sospeso nel sogno di un mondo passato che guardava al futuro con speranza e fiducia.
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