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venerdì 13 marzo 2020

28 - "Morte al Telefono" ("Arrow Pointing Nowhere"/"Murder Listens In", 1944) di Elizabeth Daly

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
La settimana scorsa ci eravamo lasciati con la quarantena decretata soltanto per alcune regioni italiane; ebbene, da questa siamo tutti sulla stessa barca. Il Coronavirus, infatti, si è talmente esteso nel nostro Paese (e non solo, visto che si inizia a parlare di pandemia mondiale) da rendere necessaria l'istituzione di alcune regole categoriche per tutti, nessuno escluso, che prevedono il blocco totale di qualunque attività di gruppo e all'aperto. Si tratta di una situazione a dir poco drammatica, la quale limita le nostre attività quotidiane e ci costringe a un riposo forzato che, per alcuni, è davvero difficile da sopportare. Fortunatamente, esistono svaghi che ognuno di noi può praticare anche in casa; e tra questi c'è anche quello di poter continuare ad aggiornare il blog dal proprio salotto (connessione permettendo). Quindi, farò del mio meglio per proseguire nella lettura e recensione di romanzi gialli ogni settimana e fare la mia parte per svagare chi abbia la bontà e la voglia di darmi retta. E intendo fare ciò concentrando le mie scelte su alcuni libri che ben si adattano alla realtà odierna e al periodo storico che stiamo vivendo: libri nei quali contano molto la psicologia e la condizione della mente umana, portata al limite della pazzia e prigioniera di ossessioni sconvolgenti; oppure altri caratterizzati da un'ambientazione dove il mistero assume una connotazione "fisicamente costretta" e claustrofobica (comprendendo nel numero il "delitto della camera chiusa"), per farci empatizzare al meglio con i personaggi e le situazioni che essi andranno a vivere. Ovviamente continuerò a dare la precedenza al giallo di stampo britannico, che resta il mio preferito, ma intendo comunque fare qualche incursione anche in quello americano, le cui caratteristiche hanno forse incarnato al meglio il sentimento che proviamo noi tutt'oggi.

Il fattore principale delle storie di questo tipo, infatti, era costituito dalla grande atmosfera di suspense e angoscia che minacciava e quasi schiacciava i personaggi, tipica delle epopee delle women in jeopardy, (le “donne in pericolo” di Mary Roberts Rinehart e Mignon G. Eberhart), e dalla paranoia in cui essi venivano gettati; aspetto in seguito sviluppato da altri autori e, soprattutto, autrici quali Helen McCloy, Vera Caspary ed Elizabeth Daly. Questo tipo di narrativa espresse al meglio la realtà del loro tempo, così simile al nostro; ma allo stesso tempo venne influenzata dall'analisi in profondità della psiche dell'individuo, dallo straniamento e dalle sensazioni suscitate negli stessi personaggi e nel lettore, a discapito dell'azione tipica degli esponenti della scuola hard-boiled, più attenti al racconto dei fatti nudi e crudi della realtà di ogni giorno; e temi come quello della guerra, delle aspettative da parte del prossimo e delle sue ripercussioni e quello delle ossessioni nascoste o represse divennero terreno fertile su cui sviluppare trame intriganti e originali. I protagonisti sono spesso esponenti di famiglie aristocratiche ormai decadute oppure poveri diavoli sui quali la sfortuna si è accanita senza pietà; attori che non hanno avuto una parte da imparare e spesso sono costretti ad agire a braccio, sperando di azzeccare la battuta e di poter così vivere un po' più a lungo la propria vita grama e tratteggiata stoicamente, senza fronzoli. Il loro scopo diventa quello di non farsi notare, il loro mantra "vivi e lascia vivere" nell'ombra, in silenzio, mentre sviluppano complessi mentali dannosi che li riducono al silenzio e il loro umore vira verso la depressione.

Queste sono immagini molto pessimiste e sconfortanti, che a qualcuno possono apparire intollerabili nel momento storico in cui stiamo vivendo; eppure, io sono convinto che possano diventare catartiche e lenire almeno un po' la desolazione che a volte proviamo, facendoci capire che la situazione potrebbe andare peggio. Tra le letture di questo tipo che preferisco, ci sono sicuramente i libri di Margaret Millar, emblema di un fatalismo e una desolazione che restano irripetibili all'interno del genere della classica crime story, ma soprattutto quelli che scrisse la sopracitata Elizabeth Daly, tra i quali figura l'oggetto della recensione di oggi: "Morte al Telefono" (Polillo, 2006). Si tratta di un libro molto suggestivo, scritto con uno stile splendido e ambientato in uno scenario che pare sospeso nel tempo, in cui l'atmosfera della casa dei Fenway e la tensione psicologica sono influenzate dal conflitto militare in corso e da un diffuso senso di abbattimento e incertezza. I puristi dell'enigma potrebbero lamentare una maggiore concentrazione di indizi psicologici rispetto a quelli materiali, ma vi assicuro che comunque l'enigma si rivelerà di prim'ordine e caratterizzato da una malvagità rara e da un assassino che, nella sua lucida follia, vi darà i brividi.

Dipinto di John Aldridge, dal titolo "Winter Table", 1939, che
raffigura una scena che potrebbe essere vista dalle finestre del
Numero 24, la casa dei Fenway
Tutto ha inizio quando Henry Gamadge, l'investigatore dilettante e bibliofilo protagonista della storia, riceve la visita del signor Schenck, agente del Federal Bureau of Investigation e suo vecchio amico. Costui si è recato all'appartamento intorno alla Sessantesima Strada Est per recapitargli una curiosa missiva, una busta appallottolata trovata per caso dal postino di turno nei dintorni della proprietà della famiglia Fenway, la quale reca l'indirizzo di Gamadge e ha tutta l'aria di essere un'originale richiesta di aiuto. Al suo interno, infatti, si trova una piccola striscia di carta anonima, la quale invita il giovanotto a recarsi al Numero 24 per valutare alcune "interessanti curiosità librarie" non meglio specificate, raccomandando assoluta discrezione. Perché mai qualcuno dovrebbe contattarlo con un metodo tanto contorto, si chiede Gamadge, rischiando di non riuscirci affatto? Dal racconto di Schenck, infatti, traspare il fatto che quella non è stata la prima busta appallottolata, con tanto di indirizzo scritto in stampatello, a venir trovata. Inoltre, il postino avrebbe potuto ignorare quei pezzi di carta tutti stropicciati e non confidare mai ad anima viva i suoi dubbi sull'autenticità del messaggio. Intrigato dal fortunoso ritrovamento, dal fatto che le missive siano state gettate sul prato della casa dei Fenway, come se il mittente ci avesse ripensato, e dalla stranezza di tutta la faccenda, Gamadge decide di scoprire qualcosa di più su quella strana famiglia che pare non farsi mai vedere in giro. Una buona parola da parte dell'aristocratica zia della moglie Clara e l'aggancio fornito da un comune amico libraio permettono ben presto a Gamadge di essere invitato al Numero 24, dove in pochi riescono ad accedere, e di essere introdotto ai suoi curiosi abitanti e ai piccoli problemi che li affliggono; come la scomparsa di una veduta della vecchia Fenbrook (la casa in cui è nato il capofamiglia), sottratta da un libro appena una settimana prima. Ma cosa ha a che fare questa sparizione con i timori del suo misterioso cliente?

Poco dopo, Gamadge viene "contattato" di nuovo da quest'ultimo e inviato nella nuova Fenbrook, la casa di campagna dei Fenway, per compiere una sorta di sopralluogo, durante il quale la faccenda si ingarbuglia ancora di più. Ci sono troppe incognite: non solo chi sia il colpevole, ma anche quale mistero si nasconda al Numero 24 e chi sia la vittima del sopruso. L'uno o l'altra potrebbe essere il padrone di casa, Blake Fenway, riservato e sensibile al punto da voler ignorare le tensioni all'interno della famiglia; oppure sua figlia Caroline, dal temperamento bollente e il carattere cinico e disilluso. Oppure Belle, l'invalida cognata del proprietario della casa, o il figlio menomato mentale di lei, Alden. Chiudono il cerchio un anziano cugino di famiglia, Mott Fenway, e un terzetto di estranei che si è insediato in casa assieme a Mrs. Fenway, quando quest'ultima ha rovinosamente fatto ritorno in America dalla Vecchia Europa, mentre laggiù la guerra iniziava ad infuriare: il giovane Craddock, affetto da febbri intermittenti; l'anziana signorina Grove, dama di compagnia di Belle e sua vecchia amica d'infanzia, e sua nipote Hilda, per il momento isolata in campagna per riordinare l'immensa biblioteca della famiglia. Tornato in tutta fretta a New York, un preoccupato Gamadge si reca nuovamente al Numero 24 per ispezionare l'edificio con l'aiuto ufficioso di Mott Fenway e Caroline, ma si ritrova davanti a un delitto improvviso che infittisce il mistero ancora di più. Capirà allora di doversi sbrigare a risolvere la faccenda, prima che qualcun altro ci rimetta la vita, trovando la veduta scomparsa e smascherando un complotto diabolico.

Dipinto di Richard Savoie, dal titolo "Snowy Painting of
Quebec", che raffigura una tipica strada innevata del continente
americano nel corso del Novecento
Confrontandomi con alcuni amici e conoscenti, ho constatato che "Morte al Telefono" non è stato molto apprezzato. È un responso che mi stupisce solo in parte: da un lato, infatti, capisco le ragioni di quelli che si aspettavano un caso in qualche modo più "tradizionale", in cui fossero presenti indizi materiali e meno congetture e la vicenda venisse raccontata in modo più chiaro, senza intorbidire troppo l'aura attorno ai sospetti. D'altra parte però, come ho già spiegato ormai tante volte, sono convinto che un romanzo giallo non debba essere giudicato soltanto in base all'enigma che presenta al lettore e alla sua limpida complessità; e "Morte al Telefono" è un esempio lampante di ciò, poiché riesce a mettere in luce quanto, a volte, ciò che circonda il mistero sia importante tanto quanto quest'ultimo. Per quanto mi riguarda, una crime novel che si rispetti riesce ad andare oltre le apparenze, ci consegna un'immagine chiara della società del tempo in cui venne ideata e scritta, tratta spesso temi inconsueti per la cosiddetta "letteratura popolare", indaga l'animo umano e la psicologia dell'individuo. Si tratta dello stesso discorso che ho fatto recensendo "Il Segreto delle Campane" di Dorothy L. Sayers, oppure "Sotto la Neve" di J. Jefferson Farjeon: anche in quei libri (soprattutto nel secondo) l'enigma non ha una consistenza adeguata a reggere le aspettative finali di chi legge. Eppure, i loro scenari ci restituiscono un'immagine veritiera di cosa significasse vivere negli anni in cui le vicende sono ambientate. Ci vengono descritti personaggi che possono essere andati persi con l'avanzamento tecnologico e l'evolversi delle classi sociali, ma restano imbrigliati nelle pagine e risparmiati dalle sabbie del tempo in modo simile ai reperti archeologici, simbolo di una realtà che è esistita davvero; ma soprattutto, ci viene mostrato quanto, in realtà, gli impulsi e i sentimenti dell'essere umano non siano affatto cambiati a distanza di anni ed anni.

È ciò a cui ho fatto riferimento nel primo post che ho pubblicato su Three-a-Penny: la capacità della crime story di essere sempre attuale e simile a una lente d'ingrandimento utile per analizzare ciò che ci circonda e noi stessi; soprattutto dal punto di vista psicologico. Forse leggere tanti gialli mi ha reso cinico, ma mi capita spesso di vedere nella realtà di tutti i giorni scene che potrebbero appartenere a un mystery di mezzo secolo fa: gente arrivista e senza scrupoli che approfitta di persone arrendevoli che preferiscono subire in silenzio, invece di ribellarsi; individui ossessionati da manie represse che emergono in superficie di tanto in tanto; ragazzi e ragazze disperati, che non riescono a trovare un proprio posto nel mondo e trascorrono il tempo cercando di dare un senso alla propria esistenza. Per fortuna, tutto questo è inframmezzato da tante altre cose positive, che lasciano spazio a più di una speranza, come la buona volontà, l'istinto e l'intenzione a non arrendersi mai; però, è innegabile che le "paturnie" (per usare un'espressione di Holly Golightly) e un certo senso di malinconia e fatalismo permangano nel nostro animo adesso come mezzo secolo fa. Ecco, è questo ciò che, dal mio punto di vista, rende apprezzabili tanto quanto le opere più "tradizionali" i gialli psicologici delle autrici americane della prima metà del Novecento, come Margaret Millar ed Elizabeth Daly: riuscire a scavare nel profondo per portare in superficie i demoni e le paure degli individui, che sono un po' anche le nostre, e trasformarle in uno strumento di catarsi proprio come è accaduto quando sono state pubblicate. E a ben guardare, ci sono metodi differenti per farlo. Millar, infatti, ha ideato storie dove le vicende si fanno sempre più nere e disperate, calate in atmosfere notturne e un po’ rarefatte, in cui la salvezza dei personaggi non è contemplata e il Destino, influenzato dal loro carattere e dalla perdita della ragione, diventa una figura imbattibile, un incubo ad occhi aperti che si abbatte condannandoli a un'eterna infelicità (incidendo così nella narrativa di Helen McCloy); Daly, al contrario, compie un'azione diversa. Prendendo ad esempio proprio "Morte al Telefono", possiamo vedere che tutto sommato, pur regnando un diffuso senso di sconforto misto a desolazione ed arrendevolezza, agli attori sulla scena non viene negata una seconda possibilità, un'occasione per risvegliarsi dal torpore in cui erano caduti e per tornare alla vita.

Il racconto di questo sentimento, insito nel romanzo fin dall'inizio e simile a una convalescenza dopo un periodo di malattia, mi ha molto colpito e secondo me assomiglia a quello proprio di alcuni libri di Agatha Christie, dove l'esito delle indagini non esclude un finale lieto per i protagonisti (che sia questo il motivo dell'ammirazione di Agatha nei confronti della nostra Elizabeth?). Qui c'è ancora una speranza di guarigione, a differenza di quanto accade nell'atmosfera moribonda di Millar, e cure amorevoli possono compiere un miracolo per i bisognosi, affetti da fatalismo dovuto alla situazione critica della società. Noi lettori, assieme ai protagonisti, ci sentiamo cullati e sentiamo come alleviate le nostre paure; benché non ci venga risparmiata la visione del Male e della Pazzia mentre essi agiscono. Il conflitto, ad esempio, gioca un ruolo importante nella vicenda, scatenando gli eventi e descrivendo, nella finzione, le conseguenze che i soldati americani soffrirono sul serio a partire dagli anni '40: il senso di inadeguatezza, la frustrazione di non essere all'altezza, l'afflizione da PPT (Psicosi Post-Traumatica) si mescolano all'incapacità dei cittadini di far fronte alle conseguenze della guerra in corso (pp. 17, 24-27, 40, 42, 48, 80, 141, 185-186, 196-197) e alle ripercussioni della crisi del 1929, che aveva sferrato un duro colpo alla società statunitense, influenzando e mettendone in dubbio il futuro. Questo clima di tensione e nervosismo, inoltre, dà luogo alla nascita di un senso di timore che pervade ogni cosa, influenzando il rapporto tra le persone: in molti si aggrappano a piccoli gesti quotidiani per sfuggire all'angoscia, sviluppando una repulsione per lo scandalo che li spinge a fare di tutto per passare inosservati; anche additare il prossimo per futili motivi, pur di non trovarsi sotto le luci della ribalta. In questo frangente, dunque, è naturale che l'angoscia diventi sempre più insopportabile e si diffonda come un virus nell'aria, come un gas che si respira ogni giorno. Essa logora costantemente i rapporti sociali, attraverso sintomi fisici e psichici, ed avvelena gli equilibri tra le classi sociali, finché i timori di ognuno crescono a tal punto da trasformarsi in ossessioni vere e proprie. Tutti si rivolgono disperatamente a un passato che non può più tornare, pensano per sé, sempre alla ricerca di pace e solidità, incuranti del danno che possono arrecare agli altri ed attenti affinché nessuno sconvolga i fragili piani che hanno costruito; e ben presto questo atteggiamento spinge le menti spaventate delle persone ad iniziare una  sorta di “caccia alle streghe” e a partorire terribili ed inquietanti spettri, che infestano le conversazioni e spesso prendono forma di scandali o velate minacce, le quali molto spesso vengono ingigantite fino a premere sulle coscienze e ad alimentare pericolosi impulsi, paranoie e sconforto. Nemmeno i membri di una stessa famiglia furono risparmiati: allo stesso modo dei Fenway, tutti iniziano ad assumere posizioni contrastanti gli uni con gli altri, a immaginare le cose più orribili e a compiere azioni scellerate, al solo scopo di ottenere benefici personali, ma senza accorgersi di starsi costruendo da soli una prigione fatalistica dalla quale è difficile fuggire. In "Morte al Telefono" non ci viene risparmiato niente di tutto ciò, immerso in una fitta nube di sospetto che ingigantisce i fantasmi della mente; ad esso, però, Daly risponde con una storia opposta a quelle di Millar, nella quale i personaggi riescono ad affrontare le loro paure (e quelle dei lettori) mostrando la deriva della società e confortando la stabilità emotiva e psicologica di chi ne ha bisogno, con una preziosa speranza.

Elizabeth Daly, nata nel 1879 e morta nel 1967
L'attenzione alla psicologia è da sempre uno degli aspetti che caratterizzano il romanzo giallo, sia di stampo britannico sia di stampo americano; e soprattutto in quest'ultima declinazione esso ha trovato terreno fertile per svilupparsi e fiorire. Basta pensare alla narrativa delle women in jeopardy, oppure a quella delle "nuove leve" della metà del Novecento, incarnata da Charlotte Armstrong, Helen Reilly e le loro colleghe. Anche Elizabeth Daly intraprese la strada del giallo psicologico, benché declinato in una forma più tradizionale, quando decise di iniziare a scrivere romanzi gialli; e non c'è da stupirsene, visti gli altri suoi interessi. Nata nel 1879 a New York, in una famiglia tra le più in vista della società del tempo, fin dalla giovinezza respirò aria di cultura, poiché il padre e lo zio erano rispettivamente un giudice dell'Alta Corte e un commediografo di successo. Educata nelle scuole più prestigiose, dopo la laurea Elizabeth, a partire dal 1904, insegnò al Bryn Mawr College per tre anni, per poi dedicarsi alla sua passione più grande: il teatro. In questo ambito, dove la Vita viene messa in scena ogni giorno dell'anno, Daly si impegnò nella scrittura di testi, nella produzione e nella direzione, come regista, di moltissime opere scenografiche in veste amatoriale, imparando sempre più a comprendere le azioni degli individui e ciò che li muove per riuscire a trasportarli nei suoi copioni (tutto questo sarà poi inserito in "The Street Has Changed", un romanzo di costume nel quale un'attrice ritiratasi dalle scene rivive quarant'anni di teatro). Nei momenti di pausa, tuttavia, coltivò anche l'interesse per il mystery, che considerò sempre con rispetto e sul quale sosteneva: "Al suo meglio il romanzo poliziesco è un'alta forma di letteratura". Un po' come Dorothy L. Sayers, dall'altra parte dell'Oceano. Il suo autore preferito fu Wilkie Collins, il famosissimo ideatore del primo romanzo giallo classico come lo intendiamo oggi, "La Pietra di Luna", e ad esso si ispirò per provare a scrivere lei stessa alcune crime novels, in cui vengono tratteggiati spesso personaggi colti e complessi usando uno stile elegante e raffinato.

Solo nel 1940, dopo aver superato la cinquantina, riuscì però a coronare questo sogno e a pubblicare "Notte d'Angoscia", la prima avventura del suo segugio dilettante Henry Gamadge. Costui è un bibliofilo, un appassionato collezionista di libri rari e antichi e un'autentica autorità in materia, giovane, alto e con un viso dai tratti marcati ma gradevole, il quale vive con un gatto (Martin) e un assistente di nome Harold Bantz, il cui aiuto si rivela sempre prezioso. Gentile, educato e provvisto di un discreto patrimonio, Gamadge venne ripreso in tutti i sedici romanzi successivi di Daly, appartenenti al tradizionale giallo a enigma, dei quali una delle più appassionate ammiratrici fu nientemeno che Agatha Christie (forse perché le vicende che le due scrittrici narravano si assomigliavano un po', tra famiglie di parenti-serpenti, ambienti eleganti e una certa tendenza al mettere in luce l'ipocrisia della società in cui vivevano?). I più famosi sono "Murders in Volume 2", "Evidence of Things Seen", "Any Shape or Form", "Death and Letters" e "The Book of the Crime", l'ultimo ad apparire prima della sua morte (avvenuta nel 1967, dopo essere stata insignita di uno speciale premio Edgar), e ovviamente "Morte al Telefono". Quest'ultimo può forse essere considerato il suo capolavoro, poiché delinea un mistero che mescola al meglio furto, ricatto e omicidio fino a creare una fitta nube di sospetto, la quale grava ininterrottamente sopra i protagonisti. Proprio questa capacità di suscitare la curiosità del lettore e tratteggiare in profondità la psicologia degli attori sulla scena (pp. 9-11, 12-14, 43-44, 58-60, 78-79, 87-88, 92-96, 127-134, 147-154, 178-183, 187-193, 234-240), pur descrivendo le vicende in scenari di tutti i giorni, è uno dei caratteri fondamentali dello stile di Daly, assieme al fatto che nella sua opera si parli spesso di cultura (pp. 25, 36-39, 41-42, 46-49, 51-60, 64-70, 192, 198) e affini con uno stile elegante e raffinato. In ogni pagina del libro, aleggia una sorta di patina simile a neve, che ricopre tutto e restituisce una dimensione simile a un sogno, in cui il tempo pare essersi fermato sia per i personaggi, sia per l'ambientazione (pp. 35-36, 45-46, 61-62, 96-97, 134-139, 169-170, 175, 177-178, 181). Percorriamo strade deserte in tempo di guerra, dove in pochi si avventurano e le auto sono quasi scomparse a causa del razionamento del petrolio; entriamo in una libreria deserta, sui cui scaffali riposano tantissimi tomi in attesa di tempi migliori, i caminetti lavorano a tutto spiano e commessi sonnacchiosi leggono seduti in eleganti poltrone, illuminati da lampade dalla luce soffusa; osserviamo silenziose camere, salotti e biblioteche sontuose e ricoperte di pannelli di legno chiaro e finestre a ghigliottina. Ogni tanto, ci caliamo in contesti quotidiani (pp. 17-20, 21-22, 29-30, 42-44, 51-52, 54-57, 98-99, 155-157, 160-163, 168-169, 171-174, 186-187), mangiamo qualche pasticcino e sorseggiamo una tazza di tè in compagnia di giovani eleganti e taciturni, oppure di signore che sferruzzano tenendo i ferri sulle ginocchia, serene soltanto all'apparenza, mentre i gomitoli rotolano ai loro piedi senza sosta.

Se qualcuno deve parlare, lo fa sottovoce; come se nelle vicinanze ci fosse un infermo che riposa ed egli dovesse usare tutte le sue forze per rimettersi in sesto, e non a causa di correnti sotterranee che ruggiscono tumultuose contro fragili argini. Ognuno degli abitanti del Numero 24, infatti, chi attraverso il cinismo e chi attraverso la negazione della realtà, ha sollevato una difesa psicologica contro qualunque colpo debba ricevere e lo scalpore che ne deriva, così da non attirare l'attenzione dell'opinione pubblica assetata di scandali (pp. 14-16, 21, 23, 28-29, 40, 87, 94, 125, 143, 189, 209, 238-239). Il malcontento ritorna in superficie nei discorsi tra Gamadge e i Fenway: i membri della famiglia (al contrario di Clara, Harold e gli altri loro amici e conoscenti) sono insoddisfatti, nascondono ferite segrete, delusioni interiori che faticano a rimarginarsi e traumi pregressi (pp. 23, 26-27, 32-36, 42-43, 62-64, cap. 5, pp. 75-84, 93-94, 100-101, 105-108, 118-120, 126, 136, 143-145, 191-195), allo stesso modo di quei quei poveretti a cui è stato tolto tutto, gli sconfitti di cui erano piene le città statunitensi, nel periodo in cui questo romanzo è stato pubblicato, sul punto di cedere se non aiutati. Ancorati al passato, essi non riescono ad affrontare il presente e si rifugiano nel conforto di un tempo morto da anni ma che non si decidono a seppellire; e in questo modo interrompono le loro esistenze, gettandosi addosso lo sconforto e il fatalismo (p. 145) che sfociano nella paranoia e costruendo prigioni invisibili ed inespugnabili. Sono vivi, questi individui, ma complessati nella loro complessità psichica (pp. 25, 27, 31-33, 58-60, 81-83, 128, 143-144, 194-196, 203-205): desiderano essere rassicurati e ricevere attenzione, stanchi di andare avanti per inerzia, come Blake; vogliono disperatamente cambiare la situazione in cui si trovano, come Caroline e Mott. Sono consapevoli che serva uno scossone, uno spintone per svegliarli, ma non osano fare il primo passo per il rischio di una catastrofe, come Belle e la sua cerchia; finché diventa troppo tardi e gli equilibri cambiano, dando il via a una serie di eventi che porteranno più di una persona a compiere imprese terribili. Credo fermamente che la confessione finale (pp. 243-256) debba essere letta con attenzione, per comprendere appieno l'agghiacciante freddezza dell'assassino e la sua lucida follia. Si tratta del coronamento di un enigma strano, insolito, nel quale gli indizi assumono maggiore carattere psicologico rispetto a quello materiale, ma che non risulta inferiore a quello di altri grandi gialli classici. "Morte al Telefono", infatti, è un vero romanzo da brivido, poiché ci mostra come andare a fondo nella psiche dell'individuo e dipinge una società che assomiglia paurosamente alla nostra, bisognosa di conforto e fatta di persone ferite che, tuttavia, hanno la possibilità di riuscire a riscattarsi, se solo riescono a convincersene.

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