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venerdì 28 maggio 2021

73 - "Occhiali Neri" ("The Black Spectacles"/"The Problem of the Green Capsule", 1939) di John Dickson Carr

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Il mese scorso, nel recensire "Il Mostro del Plenilunio", mi sono reso conto di una grave mancanza che affliggeva Three-a-Penny; ovvero, non avevo ancora letto ed analizzato per voi un romanzo giallo scritto da John Dickson Carr con il suo personaggio più conosciuto, quel Gideon Fell che di frequente viene definito "dottore" ma in realtà è più un lessicografo ed esperto di lingue, oltre che investigatore dilettante celebre per le sue indagini su casi di delitti della camera chiusa. Si trattava di una circostanza ben strana, dal momento che Carr non è certo un giallista sconosciuto (io stesso, nonostante preferisca le storie ideate da Dorothy L. Sayers e Agatha Christie, lo ritengo uno tra i Grandi del genere) e in Italia, almeno tra gli appassionati, non passa molto tempo senza che qualcuno citi lui o una sua opera proprio con protagonista Fell. Avrei già dovuto sopperire a questa lacuna tra i post del blog; forse la causa di tale dimenticanza è da riscontrare nel fatto che istintivamente ricollego questo personaggio al libro "Le Tre Bare", da tanti ritenuto il capolavoro dell'autore e una tra le opere più straordinarie e spettacolari di tutta la storia della crime story di stampo tradizionale. Purtroppo, ancora una volta, esso si può trovare soltanto nei mercatini dell'usato oppure (però bisogna essere fortunati) nei siti di remainders; per questo motivo, credo, ho come "messo da parte" Fell in attesa di una ristampa di questo titolo, per introdurvelo al meglio. Eppure, ripensandoci, non è necessario aspettare che "Le Tre Bare" venga pubblicato di nuovo perché possiate fare un lieto incontro col buon, seppur burbero, dottore: ci sono tanti altri libri in cui egli appare che sono considerati come pietre miliari della classica crime novel. Penso, ad esempio, a "Il Terrore che Mormora". Non vorrei dilungarmi troppo su questo libro, nel caso in cui non lo conosciate e rischi quindi di rovinarvi la lettura, ma sappiate che tutto ruota attorno a un omicidio avvenuto in cima a una torre nel bel mezzo di un bosco, dove nessuno tranne la vittima può essere salita. L'assassino è forse un essere soprannaturale, dal momento che tra le altre cose nel libro viene affrontato nientemeno che il tema del vampirismo?

Polillo ha ripubblicato questo titolo alcuni anni fa e Rusconi lo darà in ristampa entro l'anno, per cui magari più avanti potrei approfittarne per rileggerlo e recensirlo. Ma oggi ho preferito puntare a qualcosa di diverso, proprio per presentarvi Gideon Fell in tutta la sua astuzia diabolica e forma smagliante (almeno in senso figurato). Infatti, tra le altre opere di Carr disponibili in libreria si può trovare pure la decima avventura in ordine cronologico del mastodontico dottore: "Occhiali Neri" (Polillo Editore, 2005). Questo romanzo del mistero brilla per numerosi motivi, tra i quali figurano ovviamente l'enigma, come l'autore ci ha ben abituato nel corso della sua prolifica carriera, e l'atmosfera che egli riesce a creare e a mescolare con la tensione, fino a dare vita a un miscuglio che rasenta il filo che separa il terrore dall'inquietudine. Ciò per cui penso sia fondamentale "Occhiali Neri", tuttavia, riguarda qualcosa che ha a che fare col suo contenuto, con una serie di quesiti che la sua storia solleva e diversi temi che vengono affrontati. Infatti, come era solito fare Carr nell'ideazione di trame intricate e di delitti straordinari ed eclatanti, dentro questo romanzo del mistero viene in qualche modo analizzato uno tra i crimini (e criminali) più sinistri e spaventosi: l'avvelenamento. L'autore non si è limitato a ideare una trama liscia e scorrevole, piena di tensione e di mistero, oppure ad escogitare qualche trucco per ingannare anche il lettore più attento; in questo caso, ha tracciato ad uso e consumo di quest'ultimo un ritratto realistico e veritiero di quei criminali che dimostrano di possedere abbastanza sangue freddo da somministrare qualche sostanza letale alle proprie vittime e assistere al loro lento deperimento culminante con la morte. Ancora una volta, quindi, Carr ha dimostrato non solo di essere un inventore prolifico di modi per uccidere senza essere scoperti (o quasi), ma anche di possedere una vasta cultura in fatto di criminologia e di saper applicare quanto imparato e studiato all'occorrenza, nel caso in cui avesse bisogno di mettere in piedi una storia fittizia.

Vesuvius and Pompeii, Robert S. Duncanson, 1870
Tutto ha inizio in un luogo che non ci si aspetterebbe di trovare dentro un romanzo giallo inglese: Pompei. Infatti è proprio nella più viva delle città morte (come l'ha definita il divulgatore scientifico Alberto Angela) che facciamo la conoscenza dei principali personaggi della storia. In un peristilio di una villa romana, ci vengono presentati i Chesney: Marcus, il capofamiglia, un signore piccoletto e di mezza età che osserva il mondo con sguardo disilluso e cinico; suo fratello Joe, un medico con il cattivo vizio di bere e che soffre di un'indolenza che si potrebbe definire cronica, nonostante abbia una buona reputazione e svolga il proprio lavoro con diligenza; la loro nipote Marjorie Wills, una giovane ragazza molto bella ma alquanto taciturna. Assieme a loro tre troviamo alcuni amici: il professor Ingram, il quale è una vecchia conoscenza dei Chesney e si diletta nello studio della psicologia; il giovane Wilbur Emmet, che dirige la filiale principale dell'azienda di Marcus ed è segretamente innamorato di Marjorie; un altro giovanotto di nome George Harding, il quale si è unito alla comitiva quasi per caso e adesso è in procinto di fidanzarsi ufficialmente con la signorina Wills. Tutti loro vengono illustrati al lettore attraverso lo sguardo di un'altra persona ancora, un individuo che si rivelerà essere nientemeno che l'ispettore Andrew Elliot di Scotland Yard, il quale si è imbattuto nel gruppo per caso e li sta osservando dall'ombra delle colonne romane. Il motivo? Ebbene, se dapprima lo ha fatto per mera curiosità, in seguito la sua mente attenta è stata catturata da una parola sinistra e inquietante: avvelenatore. In uno strano impeto di confidenza, infatti, Marcus ha capito come Marjorie e George abbiano intenzione di fare sul serio e ha rivelato al giovanotto il motivo per cui la sua famiglia si trova in Italia; ovvero, per sfuggire alle malelingue che vedrebbero proprio sua nipote come la responsabile di una serie di avvelenamenti avvenuti nel villaggio da cui loro provengono. A Sodbury Cross, infatti, alcuni cioccolatini di un negozietto sono stati alterati con la stricnina e un bambino ci ha rimesso la vita, e del crimine è sospettata l'unica persona ad aver avuto un contatto con la merce: Marjorie.

Se in un primo momento Harding appare sconcertato, Chesney si affretta a rassicurarlo: non deve aver alcun timore che qualsiasi persona possa accusare qualcuno di loro degli avvelenamenti. Lui, che si vanta di vedere cose che le altre persone trascurano per pigrizia e svogliatezza, ha un'idea di come debbano essere andate le cose nella faccenda dei cioccolatini: nessuno della famiglia è colpevole, e intende dimostrare quanto prima la propria teoria. Per questo motivo (e per il fatto che George si comporti in modo molto arrendevole nei suoi confronti), Marcus ha accettato di includere George nella famiglia e lo invita a riaccompagnarli in patria, per assistere a una rappresentazione della tesi che ha elaborato. Eppure, le cose non si risolveranno in modo tanto semplice. Dopo aver lasciato Pompei, i Chesney e l'ispettore Elliot si separano... per poi incontrarsi di nuovo proprio a Sodbury Cross, dove il poliziotto viene inviato per indagare sugli avvelenamenti. Ma non è tutto qui: infatti, la notte stessa in cui quest'ultimo giunge alla stazione di polizia, un allarmato Joe Chesney telefona in centrale per annunciare come il fratello sia stato ucciso davanti agli occhi di numerosi testimoni, proprio nel corso della famosa rappresentazione che doveva svelare il metodo attraverso il quale il misterioso avvelenatore avrebbe messo in pratica il proprio piano. E a coronare il tutto, il delitto è stato accuratamente registrato da una telecamera. Questo dovrebbe semplificare le cose, giusto? E invece le testimonianze degli spettatori della recita non coincidono, si confondono, ingarbugliano un caso che fin dall'inizio si presenta insolitamente caotico. Marcus è stato ucciso perché sapeva troppo? Oppure il movente è un altro? Muovendosi tra i Chesney e i loro amici (ma sono davvero tali?), Elliot dovrà fare del proprio meglio per non perdere la ragione davanti a un'indagine all'apparenza senza alcuna logica. Ma soprattutto starà al dottor Gideon Fell, di soggiorno nella vicina Bath per una cura delle acque, sbrogliare la matassa e trovare un senso logico alle pazzie che si sono verificate a Sodbury Cross e non hanno ancora trovato risposta.

Bolton Abbey, Wharfedale, Stanley Roy Badmin, 20th secolo
John Dickson Carr ha legato per sempre il proprio nome a una serie di caratteristiche stilistiche e formali che si ritrovano spesso all'interno dei suoi gialli. Tra tutte, però, penso che l'importante fulcro attorno a cui ruotano le vicende che egli ha ideato sia l'enigma (pp. 23-34, 44-45, 51-52, 60-65, 69, 88, 90, 93-94, 97, 99-100, 103-108, 121-123, 131-132, 140-147, 157-160, 182-184, 190-192, cap. 20). Forse soltanto Agatha Christie, nel corso della sua carriera e dello scorrere degli anni, si è avvicinata alla grandezza di Carr nella creazione di assassinii originali e strabilianti; eppure, nel suo caso spesso più del mistero "duro e puro" conta un'attenzione ai personaggi e alla psicologia che essi rivelano, la quale influenza l'indagine con ampio margine. L'autore di "Occhiali Neri", invece, ha fatto proprio il caso suscitato dal delitto e lo ha trasformato in una sorta di materia primordiale da plasmare, di volta in volta, per definire la struttura delle sue storie. In parole povere, non sono i personaggi a plasmare il caso investigativo, quanto il caso stesso il punto di partenza da cui poi sviluppare i suoi protagonisti. Gli omicidi di "Occhiali Neri" sono un esempio di questo procedimento: non vediamo mai un processo di scavo profondo nel sentimento e nell'emozione degli attori sulla scena (a parte qualche eccezione), quanto percepiamo questi ultimi come simili a pedine da muovere su di una scacchiera ipotetica in favore di quanto accadrà di lì a poco. I crimini che Carr decide di mettere in scena dentro ai suoi romanzi di mistero sono pianificati con una cura del dettaglio quasi maniacale; ciò che accade davanti agli occhi del lettore non è causale, ma sistematicamente organizzato come i giochi di prestigio di un mago su di un palco. Se un certo individuo farà quella cosa, dietro ci sarà la volontà dell'autore di fargli fare e agire in quel determinato modo, poiché è nella meccanica del delitto che Carr dà il meglio di sé. Meccanica che, tra l'altro, si esprime in "Occhiali Neri" in una duplice forma a dir poco suggestiva: nell'alterazione di alcuni cioccolatini all'interno di un negozio e nella scenografica uccisione di un uomo nientemeno che davanti a un pubblico attento e all'occhio inesorabile di una telecamera. Si tratta di due forme di crimine che giocano su trucchi e spiegazioni logiche, basati su domande e risposte ben precise ma che possono variare e rigirare le carte in tavola più e più volte, e affascinano non solo chi legge saltuariamente un giallo classico, ma pure gli appassionati studiosi e critici del genere, dal momento che pongono quesiti interessanti con risposte tanto inaspettate quanto ragionevoli, simili a cruciverba (non per niente proprio "Occhiali Neri" è stato dedicato a Powys Mathers, ovvero il celebre Torquemada).

Al di là dell'enigma, poi, questo romanzo giallo di Carr assume valore aggiunto per la ragione di cui ho parlato nell'introduzione: affrontare l'indagine non solo da un punto di vista "pratico", con l'investigatore fittizio che interpreta gli indizi e li sistema come in un mosaico per ristabilire l'armonia, ma pure da quello puramente teorico, utilizzando esempi tangibili per sostenere le tesi di Elliot e Fell e trasformare un racconto di finzione in un piccolo compendio della letale arte dell'avvelenatore (cap. 18). Carr, da membro del Detection Club e fervente sostenitore del valore del giallo tradizionale, ha quindi sfruttato la propria conoscenza di criminologia per illustrare al meglio a chi legge quanto i contenuti dei libri gialli siano superficiali soltanto fino a un certo punto: le storie possono essere inventate, ma in giro per il mondo reale sono esistiti e continueranno purtroppo ad esistere biechi individui, decisi ad ottenere ciò che desiderano utilizzando qualsiasi mezzo abbiano a disposizione, lecito o meno che esso sia. Pertanto, non ci stupiamo a ritrovare citati nientemeno che il sinistro H.H. Crippen, al quale l'autore curiosamente conferisce il beneficio del dubbio sul fatto che la morte di Belle Elmore sia stata o meno accidentale; i medici Palmer (che era lieto di offrire da bere agli amici intrugli letali), Pritchard (talmente desideroso di libertà da uccidere moglie e suocera che lo soffocavano troppo), Buchanan (omicida della moglie per mezzo di un mix di morfina e belladonna), Cream (antesignano del serial killer che contò vittime in Canada, America e Inghilterra) e Lamson (assassino del giovane nipote storpio con della torta avvelenata); il sacerdote Richeson che avvelenò la consorte per sposare una ragazza più giovane e ricca; l'artista Wainewright, il quale ammazzò innumerevoli persone per incassare il denaro della loro assicurazione; l'avvocato Armstrong, il quale si offendeva quando gli ospiti rifiutavano le tartine letali che offriva loro; il chimico Hoch che simile a Barbablù si liberò di diverse mogli grazie a una penna stilografica avvelenata; il dentista Waite, reo di aver tentato di ammazzare i suoceri con germi di difterite, tubercolosi, polmonite e influenza; l'inventore Vaquier, che voleva letteralmente la botte(ga) piena e la moglie dell'oste; lo studente di medicina Carlyle Harris. Tutti costoro non solo sono vissuti realmente, ma svolgono la funzione di arricchire il caso dei delitti di Sodbury Cross e ampliare il discorso sul delitto che Carr aveva sempre in mente, quando scriveva. In questo modo, "Occhiali Neri" non è soltanto un magistrale esempio di come si costruisca un mistero credibile e stupefacente, ma anche una sorta di studio sul temibile crimine dell'avvelenamento degno di un trattato di medicina. In una parola, straordinario.

John Dickson Carr, nato nel 1906 e morto nel 1977
L'ingegnosità delle trame e il fascino per "l'impossibile che diventa realtà", oltre che per i trucchi di prestigiatori come quello sopra citato, sono sempre state caratteristiche innate di John Dickson Carr (o Carter Dickson, per usare lo pseudonimo con cui firmò i romanzi con Henry Merrivale), alla pari del concetto di voler "giocare una partita" col suo pubblico ad armi pari. La pretesa del rispetto del fair-play e la scommessa che poneva in ognuno dei suoi numerosi libri (come quella costituita dallo speciale sigillo che è stato messo nella prima edizione di "Il Mostro del Plenilunio", col quale sfidava i lettori a batterlo in astuzia) farebbero pensare che egli fosse nato in Inghilterra, la patria del giallo deduttivo; invece, la città che gli diede i natali fu l'americana 
Uniontown, in Pennsylvania. Laggiù, mentre suo padre aveva felicemente intrapreso la carriera di avvocato e pregustava una futura associazione col figlio, Carr iniziò invece il lungo percorso che lo avrebbe portato a diventare uno dei giallisti più famosi di tutti i tempi: dapprima, dimostrando una memoria formidabile con la recitazione di monologhi tratti da "Amleto", pagine di D'Artagnan, Sherlock Holmes e "Il Mago di Oz"; e poi attraverso la scrittura di racconti, pubblicati sul giornale scolastico dello Haverford College, dove esordì la figura del giudice istruttore Henri Bencolin di Parigi. Nel 1928, lo scarso rendimento scolastico spinse i suoi genitori a compiere la scelta estrema di allontanarlo dagli Stati Uniti in favore della Francia, dove avrebbe dovuto studiare alla Sorbonne. Il posto, tuttavia, non si addiceva a un giovane dalle idee conservatorie come lui e la vita da bohémien trovò una ferma opposizione da parte sua; eppure, l'ambiente si mostrò favorevole per dare il tocco finale al romanzo che stava scrivendo. Fu così che nacque "Il Mostro del Plenilunio", la versione ampliata e rivista di un lungo racconto che Carr aveva scritto ai tempi della scuola americana, "Grand Guignol", proprio con Bencolin quale personaggio principale. Il modesto successo che arrise al suo protagonista, rispetto ai successivi Fell e Merrivale, per qualche tempo costrinse Carr a tornare in America dai genitori; finché, nel 1930, durante una crociera, incontrò Clarice Cleaves, una ragazza di Bristol che poco dopo sarebbe diventata sua moglie. È curioso come proprio "Il Mostro del Plenilunio" sia stato il tramite attraverso cui Carr e Clarice iniziarono a scambiarsi le prime confidenze: in "The Golden Age of Murder", infatti, Martin Edwards ha spiegato che, in seguito al loro primo incontro nella sala del parrucchiere di bordo, i due futuri sposi trascorsero una serata a ballare e chiacchierare del più e del meno, finché Carr non accennò al fatto che aveva scritto una detective novel e chiese a Clarice se le avrebbe fatto piacere leggerla. In realtà, la ragazza non nutriva un particolare interesse in indagini e assassini fittizi; eppure, non ebbe cuore di deludere le evidenti aspettative del suo nuovo amico ed accettò di dargli un responso su quel libro. In quel modo, tra i due scoccò la scintilla ed entro un paio d'anni si trasferirono definitivamente in Inghilterra, dove la novella signora Carr intendeva far nascere le sue figlie. Anche suo marito (che nel frattempo aveva deciso di abbandonare Bencolin in favore di altri due personaggi molto simili tra loro, il dottor Gideon Fell e l'avvocato Henry Merrivale) fu entusiasta della scelta: dopotutto, era la patria dei suoi idoli d'infanzia, Chesterton e Doyle (del quale in seguito fu co-autore della biografia ufficiale), e sembrava che laggiù fosse il posto ideale per scrivere gialli sullo stile tradizionale; senza contare il fatto che la Storia dell'Europa cui poteva attingere avrebbe fornito molto materiale per il tipo di libri che intendeva scrivere.

Un'altra caratteristica dell'opera di Carr, infatti, è quella di affondare le proprie radici in miti e leggende molto antiche: ne sono un esempio le numerose citazioni che possiamo trovare all'interno di romanzi come "Il Terrore che Mormora", la cui trama ruota sul vampirismo, oppure dello stesso "Il Mostro del Plenilunio". Qui sono i lupi mannari, le bestie assetate di sangue e capaci di trasformarsi in uomini e donne pur mantenendo la loro anima selvaggia, ad occupare la trama e a fornire la base per i misteri del libro. Si tratta di argomenti che, proprio grazie alla loro aura di velato soprannaturale, si prestano ad essere interpretati e sfruttati in modo da fornire al lettore una base relativamente reale per un delitto immaginario, e che permisero a Carr di dare sfogo a un'insaziabile sete di ricerca storica. Questa passione emerge dalla lettura di alcuni romanzi giallo-storici, come "La Sposa di Newgate", "Il Diavolo Vestito di Velluto" e "La Corte delle Streghe" (uno dei suoi capolavori) e viene spesso incarnata dai personaggi dei suoi gialli. Tuttavia, fu il Delitto l'argomento a cui Carr si sentì più legato; tanto che i suoi detective soffrirono di una vera e propria ossessione nei confronti della Storia del Crimine: Bencolin, Merrivale e Fell, infatti, di volta in volta si fecero portavoce dei pensieri dell'autore, attraverso semplici citazioni (pure di casi reali, come avviene proprio in "Occhiali Neri", pp. 32, 76-77, 113, 152, 195, 197, 201, 262, 263) ma anche con l'utilizzo di piccole "conferenze" sull'omicidio e la sua applicazione nei romanzi del mistero. Oltre agli avvelenatori celebri sopra citati, si possono aggiungere Edith Thompson e Frederick Bywaters che cospirarono per eliminare il marito di lei pur fallendo nel loro piano diabolico, e il celebre caso di Christiana Edmunds il quale vede proprio l'utilizzo di cioccolatini avvelenati come mezzo di eliminazione di massa e fu di ispirazione dieci anni prima per "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" di Anthony Berkeley.

"Occhiali Neri" presenta pure un'altra caratteristica tipica della narrativa di Carr: l'atmosfera. Come era già accaduto in "Carte in Tavola" di Agatha Christie e nelle sue opere precedenti, ci troviamo di fronte a una narrazione molto cupa, quasi come se stessimo camminando dentro un incubo ad occhi aperti, dal quale ci è impossibile svegliarci (pp. 7-9, 20, 22, 38-41, 54-57, 59-60, 74-75, 81-83, 95-96, 162-163, 177-184, 187-190, 210-211, 243-247). Spesso l'ambientazione è notturna (gran parte dell'indagine sul delitto si svolge la notte stessa in cui esso si verifica), ma non mancano giornate uggiose dove la pioggia batte sui vetri delle finestre, e pomeriggi di sole nei quali niente farebbe presagire che qualcosa di terribile si stia per verificare; eppure, come recita l'adagio pronunciato dal sacerdote Stephen Lane in "Corpi al Sole", il male si annida pure sotto i caldi raggi della stella che ci illumina e riscalda. Pertanto, veniamo ingannati da questa finta aria di tranquilla quiete a Pompei, mentre i personaggi discutono di avvelenatori seriali, e nel giardino di Bellegarde dove si spande l'odore delle pesche e delle mandorle amare (pp. 23-24, 37-38, 41, 67-69, 102, 118, 127-128, 153-154, 200, 223, 238). Ma non è finita qui. "Occhiali Neri" è un giallo che riveste una certa importanza non solo sotto gli aspetti formali discussi qui sopra, ma anche nei temi in esso trattati. Soprattutto, è centrale la questione sulla validità dei testimoni (cap. 7). Quante volte ci siamo imbattuti, in un classico mystery della Golden Age, su teste indecisi e su prove e dimostrazioni che potrebbero rivelarsi fallaci? Ecco, nel suo romanzo Carr smaschera quanto ci si possa sbagliare nel valutare una faccenda nonostante siamo convinti della nostra percezione sensoriale. Non solo Marcus Chesney, ma pure Fell è scettico nel ritenere valida una testimonianza non suffragata da indizi concreti: sostengono entrambi che tutti noi portiamo dei metaforici occhiali neri, simili a paraocchi, i quali ci impediscono di renderci pienamente conto di quanto ci accade intorno. Io sono del tutto d'accordo, tra l'altro. Quello che importa, tuttavia, è il modo attraverso cui Carr dimostra la sua tesi: se Anthony Berkeley aveva messo alla berlina la possibilità per l'autore di stravolgere a piacimento una trama solo inserendo nuovi indizi in "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati", in "Occhiali Neri" il Maestro del delitto della camera chiusa evidenzia la nostra innata cecità di fondo, peggiorata da chi ci inganna volutamente.

La storia è incentrata sulla percezione che i personaggi (e il lettore) avvertono, sul punto di vista che decidono di adottare e sulla direzione che inevitabilmente si rivela erronea o comunque viziata da abbagli; proprio come in "Carte in Tavola", ci accorgiamo della verità sottoposta al nostro sguardo quando essa ci viene svelata. E non serve proprio a nulla possedere una prova video, poiché anche quella può essere manipolata: mai il detto "vedere per credere" è parso tanto errato. Ciò che dovrebbe dirimere i dubbi, scacciare le ombre, mettere i fatti nero su bianco (oppure a colori, se si tratta di una ripresa più recente), sottoporre al nostro sguardo inquisitorio ciò che è accaduto, in realtà confonde ancora di più le acque, genera nuovi sospetti (perché Tizio ha mentito? Come mai invece Caio ha detto la verità, dal momento che sarebbe il nostro indiziato numero uno?), ingarbuglia la matassa in un moderno Nodo Gordiano dove i lacci sono i ricordi differenti che i vari sospettati presentano alle forze dell'ordine. A chi credere? In fondo, i protagonisti delle storie di Carr sono individui turbati, non solo dal punto di vista mentale (gli assassini), ma anche da quello emozionale: tralasciando il risvolto sentimentale tra Elliot e Marjorie, il quale è un'aggiunta alla storia (pp. 128-129, 134-135, 164, 168-169, 174, 277), essi non suscitano la nostra fiducia a causa di comportamenti ambigui, di azioni melodrammatiche e teatrali che ci fanno pensare "questi stanno fingendo" pure nel momento in cui agiscono secondo la propria particolare natura. Se Marcus si mostra desideroso di stuzzicare un assassino, non vuol necessariamente dire che sia a sua volta un omicida; se Joe Chesney punta una pistola alla tempia a qualcuno forse non lo fa apposta; se Marjorie vuole comprare del cianuro magari lo impiegherà per sviluppare alcune fotografie; se George Harding lavora in un laboratorio chimico non è detto senta l'impulso irreprimibile di sottrarre qualche dose di veleno per scopi delittuosi; se il professor Ingram è appassionato di psicologia criminale, non è detto sia lui stesso un caso clinico. Eppure, il sospetto sorge spontaneo e chi legge non riesce a concedere fiducia con facilità, acuendo i dubbi di premessa dell'enigma. Si tratta di una faccenda di caratura non indifferente, soprattutto dentro a un romanzo giallo come "Occhiali Neri", il quale non è certo facile da interpretare nel modo corretto vista l'abilità del suo autore nel depistare chi legge. Da parte mia, non posso fare altro che ribadire quanto questo libro sia assolutamente strabiliante; forse per alcuni appare un po' troppo centrato sul mistero, con la conseguenza di tralasciare lo studio della psicologia come accaduto in Blake, ma resta una prova incredibile dell'abilità di Carr nel dare vita a racconti entusiasmanti e che meriterebbero di essere senza dubbio più conosciuti.

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venerdì 23 aprile 2021

69 - "Il Mostro del Plenilunio" ("It Walks by Night", 1930) di John Dickson Carr

Copertina dell'edizione in lingua originale
pubblicata dalla British Library Crime
Classics
Se siete assidui frequentatori ed attenti lettori di Three-a-Penny, ricorderete come circa un paio di anni fa (quanto corre veloce il tempo!) mi ero deciso a recensire "L'Arte di Uccidere" di John Dickson Carr, il secondo romanzo giallo scritto dal Maestro del delitto della camera chiusa, con protagonista l'uomo di punta della polizia parigina Henri Bencolin. In quell'occasione, per introdurre il discorso sull'opera, mi ero soffermato sul fatto che l'editore inglese British Library, all'interno della collana "Crime Classics" curata dal critico Martin Edwards, avesse in programma di ripubblicare in lingua originale l'opera prima di questo scrittore, quel "It Walks by Night" che tanti problemi di cessione dei diritti e copyright aveva dato impedendo così una sua ricomparsa sugli scaffali da libreria per moltissimo tempo. Ebbene, alla fine la faccenda è andata in porto: il titolo è stato reso disponibile e questo piccolo grande miracolo ha permesso a chiunque padroneggi abbastanza l'inglese di gustare di nuovo l'oscuro fascino e l'ambigua bellezza di questo esordio che tanto già rivelava sulla narrativa di Carr. Con l'aggiunta in appendice, tra l'altro, di un racconto in cui indaga sempre Bencolin, dal titolo "The Shadow of the Goat". In Italia, purtroppo, le cose non sono andate altrettanto bene: se da una parte esiste una traduzione risalente agli anni '50 del secolo scorso, essa risulta ormai "fuori moda" in quanto alla terminologia usata e piena di tagli al testo originale, oltre a presentare un errore eclatante e madornale che influisce sulla scoperta del colpevole. E la cosa più grave è che pare non sia in cantiere alcuna ritraduzione o svecchiamento di quella già presente nelle edizioni italiane (soltanto tre, tra l'altro difficili da rintracciare se non nei mercatini dell'usato e nelle piattaforme web di compro-vendo libri). Personalmente, credo sia un fatto serio che un'opera tanto celebrata, famosa e avvincente quale "It Walks by Night" non sia stata ancora resa disponibile per il lettore italiano di classica crime story; eppure, finché non si deciderà di investire su di una nuova traduzione, le cose non cambieranno oppure lo faranno difficilmente: la soluzione più attuabile che mi viene in mente, sarebbe quella di fare un confronto tra il testo originale in lingua inglese e la traduzione anni '50 in italiano, per completare quest'ultima con le parti mancanti.

Siccome da tempo desideravo rimettermi in pratica nella traduzione, dopo gli sforzi perseguiti su "The Golden Age of Murder", io stesso ho deciso di tentare un'operazione del genere. Tempo fa mi sono procurato una copia del volume in lingua inglese; e poiché avevo già in mio possesso il volumetto dei Classici del Giallo Mondadori tradotto, in una settimana mi sono impegnato a fondo per selezionare i paragrafi che sono stati tagliati ed ignorati dalla precedente traduttrice... col risultato che, alla fine, ho rimesso mano all'intera lunghezza del romanzo e lo ho trasposto in italiano da cima a fondo. Infatti, ben presto mi sono accorto di quanto fosse povero il testo dell'edizione riportata al numero 196 dei Classici del Giallo, privo com'era di molte parti narrative che sono a tutti gli effetti spezzoni integranti la narrativa di Carr. Il risultato finale, a mio parere, si è discostato moltissimo da quello della prima trasposizione nella nostra lingua: se l'atmosfera da incubo tanto caratteristica della letteratura del Maestro del delitto della camera chiusa era stata quasi del tutto cancellata e ridotta, adesso essa trasudava dalle pagine in una sorta di abisso profondo, un buco nero che inghiotte quanto incappa nella sua strada. Ribadisco ancora una volta il concetto che gli appassionati di giallo in Italia si meritino una traduzione decente di questo esordio a dir poco impressionante, dove sembra di camminare attraverso una specie di sogno ad occhi aperti, in cui si intrecciano eventi mostruosi come decapitazioni, bagni di sangue, sorprese sgradevoli al chiaro di luna, scene impressionanti alla luce fioca delle candele, assieme a idilliaci incontri in camere arredate secondo lo stile vittoriano e intime discussioni sotto pioppi e altri alberi scossi dal vento e irradiati dal sole primaverile. Nel frattempo, io mi impegno a presentarvi questo romanzo seguendo il testo originale: non sia mai che qualcuno si renda conto della grandiosità dell'enigma che esso racchiude, oppure della maestosa solennità delle descrizioni che l'autore fa nel corso del racconto, e decida di dare il giusto riconoscimento a quello che in italiano viene chiamato "Il Mostro del Plenilunio" (Classici del Giallo Mondadori n. 196, 1975).

Caffè Greco, Renato Guttuso, 1976, simile al locale
Fenelli in cui si svolge parte della trama
Ad accentuare questo carattere gotico e impressionante, la storia inizia con la descrizione di un mostro mitologico; quel lupo mannaro che popola le fiabe dei bambini e le storie del folklore degli adulti soprattutto nel centro Europa. Il giovane Jeff Marle si è visto recapitare un volume con all'interno questo testo da Henri Bencolin, l'uomo di punta della polizia parigina e suo intimo amico, poco prima che loro due si rechino al Club Fenelli per occuparsi di una faccenda che riguarda il proprietario del libro. Infatti, Bencolin ha chiesto al professor Grafenstein, un luminare delle malattie psichiatriche di Zurigo, di raggiungere lui e Marle in un'alcova del salone principale del locale per discutere di Alexandre Laurent, un giovanotto all'apparenza sano di mente ma che qualche tempo prima ha tentato di ammazzare la novella sposa con un rasoio, in una sorta di quieto raptus. Laurent è un appassionato lettore di storie del terrore e di miti raccapriccianti, oltre che di poeti maledetti e altre amenità; e Bencolin è a disagio nel dover constatare che, dopo un periodo di prigionia in un ospedale psichiatrico, Laurent sia riuscito a fuggire. Cosa più grave ancora, l'ex signora Laurent, madame Louise, si è lasciata alle spalle la traumatica esperienza col precedente marito (o almeno ha fatto il possibile per dimenticare) e nel frattempo si è risposata con un aristocratico atletico ma un po' ingenuo, il Duca di Saligny. Quindi, è chiaro come Laurent possa diventare un pericoloso avversario per la coppietta. In realtà, egli ha già inviato un messaggio minatorio a Louise e ha fatto una fugace apparizione nel bagno della casa di alcuni amici dei due, i coniugi Kilard, per poi scomparire nel nulla. Inoltre, poco dopo essere fuggito dal manicomio, Laurent si è recato da un chirurgo plastico della malavita, si è fatto cambiare i connotati del volto e, per concludere al meglio l'opera, ha ammazzato il medico che poteva smascherarlo. Tutta questa storia viene riferita da Bancolin a Grafenstein, e il primo si domanda se non sia il caso di farsi affiancare dal luminare per risolvere lo spinoso problema dell'ossessione di Laurent; magari il dottore potrebbe dargli una parere pure su Saligny e madame Louise, i quali si trovano proprio da Fenelli.

E infatti, poco dopo, la donna si avvicina al loro tavolo. Si tratta di una bellezza un po' oscura, affascinante, magnetica ma, allo stesso tempo, offuscata da un velo di malinconia mista a tristezza e a un sospetto abuso di sostanze stupefacenti. Sedutasi, mostra segni di irrequietezza: teme che Laurent abbia seguito lei e Saligny per far loro pagare l'essersi sposati, e chiede protezione a Bencolin, il quale osserva pigramente il salone in cui si trovano. All'improvviso, proprio all'altro capo della stanza, il gruppetto scorge la schiena di un uomo che attraversa l'uscio che collega il salon alla sala da gioco: "eccolo là, il Duca" osserva annoiata Louise. Poi la porta si richiude alle sue spalle, precludendolo alla vista. Passano pochi minuti, durante i quali Marle si interroga sul destino impietoso che si è accanito sulla signora che siede al suo fianco e sulla pazzia di Laurent; poi un inserviente si avvicina alla porta attraversata da Saligny con un vassoio e, proprio sulla soglia, lo fa cadere a terra. Lo spettacolo che si presenta agli occhi del poveretto, del signor Fenelli e del gruppo nell'alcova (accorso senza dare nell'occhio) è terrificante e orrendo: il Duca di Saligny giace a terra come inginocchiato, in una pozza di sangue fuoriuscita dal moncherino della sua testa decapitata e sistemata con cura ad osservare, con occhi sgranati e vuoti, i tardivi soccorritori. Bencolin prende immediatamente in mano la situazione, convoca i suoi agenti sparsi sul piano nelle varie stanze e si assicura che nessuno possa interferire con le indagini che si appresta a compiere. Il primo ad arrivare è Francois, l'uomo migliore che il prefetto tiene alle sue dipendenze, il quale è stato piazzato all'altro capo della camera, davanti all'unica altra porta che conduce nella sala da gioco. "Ebbene?" domanda Bencolin, "è passato qualcuno da quella parte?". La risposta dell'agente è sconcertante: "No, signore". Come può essersi quindi volatilizzato l'assassino di Saligny? I tempi e gli alibi dei sospettati (tra cui figurano le conoscenze della vittima: Fenelli, madame Salingy, un tizio dall'aria aristocratica di nome Edouard Vautrelle, la coppia dei Kilard che si è allontanata sul presto dal locale, un giovanotto americano chiamato Sid Golton che ha tutta l'aria di essere ubriaco, una misteriosa ragazza che giace in un letto al piano di sopra) coincidono e sembrano completarsi l'uno con l'altro: allora, chi ha ucciso Saligny? Starà a Bencolin dimostrare come un delitto impossibile abbia potuto verificarsi ed incastrare l'assassino... ma non dopo che qualcun altro abbia presenziato al suo appuntamento con la Morte.

Piantina del secondo piano del locale Fenelli
Per essere un esordio, "Il Mostro del Plenilunio" di John Dickson Carr non è affatto male. Al suo interno ci sono alcune ingenuità, quello è sicuro; però mi sento di affermare con una certa sicurezza che se tutti gli autori di romanzi gialli, e non solo, fossero in grado di produrre come opera prima un libro di questo calibro, saremmo tutti molto fortunati. Perché, in sostanza, già da qui si possono riscontrare il talento acerbo e le tante caratteristiche che costituiranno in futuro la straordinaria narrativa del Maestro del delitto della camera chiusa; magari ancora abbozzati, ma comunque presenti e rintracciabili se si aguzzano gli occhi e il cervello. D'altronde, non è questo il primo sforzo letterario di Carr: in precedenza, egli aveva pubblicato qualche racconto sul "The Haverfordian", un giornale universitario, con protagonista proprio Henri Bencolin; per cui è comprensibile come "Il Mostro del Plenilunio" appaia in una forma quasi perfetta, derivando da "Grand Guignol" apparso su questa rivista nella primavera del 1929. Pertanto, ci troviamo di fronte a un mystery capace di stregare il lettore e di trasportarlo come dentro un'incubo, nonostante una certa tendenza al melodramma che un po' spezza il senso di realtà delle vicende narrate. Chiamato in un primo momento "With Blood Defiled", esso getta le proprie fondamenta su quell'aspetto che ha dato e darà sempre a Carr fama imperitura: il suscitare un'atmosfera gotica, tenebrosa, nella quale il lettore si dibatte come catturato e imbrigliato nella ragnatela di un enorme insetto. Quello che circonda i personaggi richiama il macabro in un eccesso di descrizioni fiume, vivide e oscure allo stesso tempo, attraverso l'uso di immagini suggestive come salotti immersi nella penombra, candele che ardono sopra tavole imbandite, chiari di luna contro edifici immersi nella penombra o al chiaro di luna, figure inquietanti che emergono dalle ombre negli angoli delle camere e delle strade, oppure bussano con dita frementi alle finestre per attirare le persone sprovvedute nelle loro grinfie tanto più umane di quanto si possa credere. Ogni cosa si staglia contro lo sfondo, quasi brillando di luce propria e imprimendosi nella mente del lettore che si lascia coinvolgere nel racconto e percepisce i fatti narrati molto più realmente di quanto non siano in realtà. Già, perché se da un lato Carr utilizza questa tecnica per dare risalto alle vicende, agli indizi e a ciò che avviene nel corso dei due giorni di indagine di Bencolin, dall'altro introduce uno spiccato senso di irrealtà in quanto narra. Non siamo ancora ai livelli di "Le Tre Bare" oppure "Il Terrore che Mormora"; in "Il Mostro del Plenilunio" le suggestioni vengono calcate e sottolineate a forza, proprio per inesperienza e timore di non riuscire a imprimere la giusta dose di dramma ai fatti.

Carr infila qualsiasi cosa gli passi per la mente, quando pensa al romanzo giallo dei primi anni del Novecento che ha furoreggiato in America (il suo paese natio) e a quello vittoriano proveniente dalle letture di gioventù nella biblioteca del padre (non solo Poe, Chesterton e Leroux, ma pure Dumas e i classici francesi del secolo precedete): un esempio è l'uso della spada come arma del delitto, quale ricordo dei duelli dei Tre Moschettieri e dei romanzi di cappa e spada; oppure le tormentate storie d'amore che vedono intrecciarsi i protagonisti. Inoltre, è presente una sorta di mistico Fato che agisce sopra ad ogni cosa, in una chiara citazione ai racconti in cui Padre Brown agisce ed egli si ritrova a riflettere su cosa siano il Bene e il Male. Ma oltre a questo, troviamo pure un gusto per la suspense davvero esasperato, che quasi non permette a chi legge di tirare il fiato e pare trascinare e strattonare il lettore a forza lungo le pagine che si sfogliano. Non avranno mai pace, sembra sogghignare Carr: poiché incarniamo il personaggio di Marle, spesso attonito di fronte agli eventi che si susseguono in rapida successione, prima si troviamo di fronte a un dialogo dai significati oscuri, poi veniamo presentati a una donna affascinante che ci racconta una storia incredibile su un fantasma che lascia cadere una cazzuola in un bagno, poi ancora rinveniamo un cadavere dalla testa mozzata che nessuno può aver decapitato. Dipingere e spiegare l'impossibile e l'assurdo è lo scopo dell'autore; spiazzare chi legge facendo leva sulle armi migliori su cui un giallista può contare, senza curarsi di apparire ridondante ed eccessivo. Per quanto mi riguarda, si è trattato di una mossa a doppio taglio: il mio gusto per il melodrammatico è stato ampiamente ripagato da questo modo di agire "sopra le righe", ma bisogna mettere in conto che il proverbio dice "il troppo stroppia". Pertanto, "Il Mostro del Plenilunio" si presenta sì come un esordio fantastico (inteso in più declinazioni) e che fa una sicura presa sul lettore, ma allo stesso tempo rischia di eccedere nel trattare le vicende con la misura giusta a cui ci si dovrebbe attenere. Un capolavoro imperfetto, ecco come si potrebbe considerare questo giallo di Carr.

John Dickson Carr, nato nel 1906 e morto
nel 1977
L'ingegnosità delle trame e il fascino per "l'impossibile che diventa realtà", oltre che per i trucchi di prestigiatori come quello sopra citato, sono sempre state caratteristiche innate di John Dickson Carr (o Carter Dickson, per usare lo pseudonimo con cui firmò i romanzi con Henry Merrivale), alla pari del concetto di voler "giocare una partita" col suo pubblico ad armi pari. La pretesa del rispetto del fair-play e la scommessa che poneva in ognuno dei suoi numerosi libri (come quella costituita dallo speciale sigillo che è stato messo nella prima edizione di "Il Mostro del Plenilunio", col quale sfidava i lettori a batterlo in astuzia) farebbero pensare che egli fosse nato in Inghilterra, la patria del giallo deduttivo; invece, la città che gli diede i natali fu l'americana 
Uniontown, in Pennsylvania. Laggiù, mentre suo padre aveva felicemente intrapreso la carriera di avvocato e pregustava una futura associazione col figlio, Carr iniziò invece il lungo percorso che lo avrebbe portato a diventare uno dei giallisti più famosi di tutti i tempi: dapprima, dimostrando una memoria formidabile con la recitazione di monologhi tratti da "Amleto", pagine di D'Artagnan, Sherlock Holmes e "Il Mago di Oz"; e poi attraverso la scrittura di racconti, pubblicati sul giornale scolastico dello Haverford College, dove esordì la figura del giudice istruttore Henri Bencolin di Parigi. Nel 1928, lo scarso rendimento scolastico spinse i suoi genitori a compiere la scelta estrema di allontanarlo dagli Stati Uniti in favore della Francia, dove avrebbe dovuto studiare alla Sorbonne. Il posto, tuttavia, non si addiceva a un giovane dalle idee conservatorie come lui e la vita da bohémien trovò una ferma opposizione da parte sua; eppure, l'ambiente si mostrò favorevole per dare il tocco finale al romanzo che stava scrivendo. Fu così che nacque "Il Mostro del Plenilunio", la versione ampliata e rivista di un lungo racconto che Carr aveva scritto ai tempi della scuola americana, "Grand Guignol", proprio con Bencolin quale personaggio principale. Il modesto successo che arrise al suo protagonista, rispetto ai successivi Fell e Merrivale, per qualche tempo costrinse Carr a tornare in America dai genitori; finché, nel 1930, durante una crociera, incontrò Clarice Cleaves, una ragazza di Bristol che poco dopo sarebbe diventata sua moglie. È curioso come proprio "Il Mostro del Plenilunio" sia stato il tramite attraverso cui Carr e Clarice iniziarono a scambiarsi le prime confidenze: in "The Golden Age of Murder", infatti, Martin Edwards ha spiegato che, in seguito al loro primo incontro nella sala del parrucchiere di bordo, i due futuri sposi trascorsero una serata a ballare e chiacchierare del più e del meno, finché Carr non accennò al fatto che aveva scritto una detective novel e chiese a Clarice se le avrebbe fatto piacere leggerla. In realtà, la ragazza non nutriva un particolare interesse in indagini e assassini fittizi; eppure, non ebbe cuore di deludere le evidenti aspettative del suo nuovo amico ed accettò di dargli un responso su quel libro. In quel modo, tra i due scoccò la scintilla ed entro un paio d'anni si trasferirono definitivamente in Inghilterra, dove la novella signora Carr intendeva far nascere le sue figlie. Anche suo marito (che nel frattempo aveva deciso di abbandonare Bencolin in favore di altri due personaggi molto simili tra loro, il dottor Gideon Fell e l'avvocato Henry Merrivale) fu entusiasta della scelta: dopotutto, era la patria dei suoi idoli d'infanzia, Chesterton e Doyle (del quale in seguito fu co-autore della biografia ufficiale), e sembrava che laggiù fosse il posto ideale per scrivere gialli sullo stile tradizionale; senza contare il fatto che la Storia dell'Europa cui poteva attingere avrebbe fornito molto materiale per il tipo di libri che intendeva scrivere.

Un'altra caratteristica dell'opera di Carr, infatti, è quella di affondare le proprie radici in miti e leggende molto antiche: ne sono un esempio le numerose citazioni che possiamo trovare all'interno di romanzi come "Il Terrore che Mormora", la cui trama ruota sul vampirismo, oppure dello stesso "Il Mostro del Plenilunio". Qui sono i lupi mannari, le bestie assetate di sangue e capaci di trasformarsi in uomini e donne pur mantenendo la loro anima selvaggia, ad occupare la trama e a fornire la base per i misteri del libro. Si tratta di argomenti che, proprio grazie alla loro aura di velato soprannaturale, si prestano ad essere interpretati e sfruttati in modo da fornire al lettore una base relativamente reale per un delitto immaginario, e che permisero a Carr di dare sfogo a un'insaziabile sete di ricerca storica. Questa passione emerge dalla lettura di alcuni romanzi giallo-storici, come "La Sposa di Newgate", "Il Diavolo Vestito di Velluto" e "La Corte delle Streghe" (uno dei suoi capolavori) e viene spesso incarnata dai personaggi dei suoi gialli. Tuttavia, fu il Delitto l'argomento a cui Carr si sentì più legato; tanto che i suoi detective soffrirono di una vera e propria ossessione nei confronti della Storia del Crimine: Bencolin, Merrivale e Fell, infatti, di volta in volta si fecero portavoce dei pensieri dell'autore, attraverso semplici citazioni (pure di casi reali, come avviene in "Occhiali Neri") ma anche con l'utilizzo di piccole "conferenze" sull'omicidio e la sua applicazione nei romanzi del mistero. Senza contare il breve scambio di battute sulla mentalità dell'assassino alle prime pagine di "Il Mostro del Plenilunio" se ne può leggere una prova nel dialogo che Marle, Bencolin e Grafenstein mettono in scena alle pagine 138-139: in questa occasione, i tre discutono su quanto sia importante per un investigatore la conoscenza del proprio mestiere basata sulla scienza, e se i poliziotti in America non utilizzino metodi poco intelligenti per scoprire la verità nelle loro indagini. Inoltre Marle, da buon Watson di turno, sembra propenso a considerare la realtà delle cose più eccitante della finzione, il suo compagno però si dichiara fermamente contrario. È la fantasia a dare forma al mondo reale, sostiene Bencolin, per cui lo scrittore non deve sforzarsi di tradurre con troppo rigore la realtà che lo circonda in materiale per i suoi libri, ma limitarsi a narrare una storia che, per quanto possa apparire a volte improbabile e con personaggi simili ai burattini del teatro, procuri divertimento al lettore.

Seconda edizione italiana di "Il
Mostro del Plenilunio" purtroppo
tagliata e fallata
Un assunto che dimostra al meglio quale fosse la concezione di Carr riguardo il romanzo giallo: costruire vicende credibili in cui, tuttavia, non mancasse quel pizzico di irrealtà che li contraddistingue da mere cronache. Non per caso egli fu il primo americano ad essere ammesso nel Detection Club, grazie al sostegno di Dorothy L. Sayers e Anthony Berkeley; dopotutto, sono evidenti la comunione di interessi per il true crime e intenti a cui egli stesso e gli autori della Golden Age miravano. Nei suoi gialli, infatti, si possono ritrovare diversi elementi che rimandano alla crime story di quel periodo, contrassegnati da un palese uso del contrasto. Sopra abbiamo visto come l'atmosfera sia macabra e inquietante; ebbene, ciò viene dato dall'accostamento di momenti ironici (come durante i battibecchi tra Marle e Sharon Grey) con altri dove invece dominano il terrore. Luce e buio occupano un ruolo importantissimo in questa sorta di gioco: traducendo, mi sono reso conto che Carr ha dato risalto al brillio, alla lucentezza, allo splendore, al luccichio di tantissimi oggetti e parti del corpo dei suoi personaggi, come le spalle delle signore, le fiammelle tremolanti delle candele, le lampadine elettriche che scacciano le ombre, gli occhi che secondo la tradizione rivelano l'anima di una persona. Di volta in volta, tutto ciò cambia a seconda di un movimento, di un soffio di vento, di un balzo improvviso; simbolicamente, l'autore ci suggerisce come non ci dobbiamo fidare di nessuno dei sospettati, poiché nascondono lati del loro carattere che non sempre è piacevole scoprire. Pure i colori, tra i quali domina il rosso in contrasto all'oro, vengono sottolineati da Carr per dare risalto alle vicende e assumono carattere allegorico: il primo è ovviamente quello del sangue, ma pure della passione e dell'odio cieco; il secondo quello che si associa tanto all'avidità quanto alla nobiltà (vera o falsa che sia); c'è poi il verde scuro con l'argento delle pareti del terzo piano di Fenelli, dove si verificano le nefandezze più scellerate, il quale assume qualità paludose. In terzo luogo, contrastano tra loro l'apparente impossibilità dei delitti commessi in "Il Mostro del Plenilunio": all'inizio i fatti ci vengono dipinti come se fossero favole, miti e leggende da considerare in astratto, ma poi i delitti diventano qualcosa di fin troppo tangibile, da indagare attraverso l'uso della scienza e della logica. Non per niente, a mo' di indizio viene inserita nella trama una copia del libro dell'assurdo per eccellenza, "Alice nel Paese delle Meraviglie".

Quindi pure l'enigma gioca su tutta una serie di scontri metaforici, poiché mette insieme logica e pazzia, scienza e suspense, freddezza e passione, calcolo e audace improvvisazione, attingendo sotto alcuni aspetti a una nota tragedia di William Shakespeare. Proprio per questo, però, questo romanzo non dovrebbe essere considerare troppo riuscito: infatti, se da una parte riesce a portare a casa un mistero con una spiegazione plausibile e possibile ai fini delle leggi della fisica, in quanto a probabilità di riuscita suscita più di una perplessità (perché quando quel personaggio ha fatto quella cosa, l'altro non si è insospettito? Come ha fatto quello a non vedere quella cosa accadere? Ecc...). Inoltre, l'enigma deve una certa parte della sua costruzione all'attingere da parte di Carr all'opera di alcuni suoi colleghi: la parte scientifica da Richard Austin Freeman, la tabella oraria da Freeman Wills Crofts, l'ambientazione suggestiva e orrorifica da Edgar Allan Poe e alcuni aspetti della caratterizzazione dei personaggi da Gaston Leroux. Proprio su questi ultimi ritroviamo per l'ennesima volta un contrasto che sottintende significativamente il tema del doppio: ognuno dei protagonisti, compresi Marle e Bencolin, presentano una natura che non si riesce mai a focalizzare del tutto. L'investigatore ci viene dipinto come una sorta di individuo satanico, con i capelli che assomigliano alle corna di un satiro e un inquietante ghigno che spesso compare sulle sue labbra, eppure è un personaggio capace di dimostrare una certa empatia verso chi se la merita; Marle divide la propria natura tra l'irruenza e la quiete, tra la stupidità del tipico Watson e l'essere in grado di ragionare con lucidità; Saligny e Laurent rappresentano le facce diametralmente opposte di una stessa medaglia agli occhi di Louise, la quale divide la propria anima tra disperazione e determinazione; Edouard Vautrelle si atteggia a gran signore, ma forse nasconde un passato da misero soldato; Sharon Grey desidera disperatamente emanciparsi dalla condizione di prostituta ma continua a prestarsi a relazioni equivoche; Sid Golton adotta un comportamento ambiguo con madame Saligny, pur presentando un volto all'apparenza gioviale.

Infine, voglio sottolineare come "Il Mostro del Plenilunio" sia un romanzo giallo più crudo di quanto ci si potrebbe aspettare. Non solo ci sono grandi spargimenti di sangue, decapitazioni, mani insanguinate oppure gelide che toccano con le loro dita molli e corpi decomposti, ma pure personaggi ritratti semi-svestiti, psicopatici e folli contro i quali bisogna combattere. La moralità esiste e non esiste al tempo stesso, poiché crimini di tutti i tipi commessi dai personaggi meno sospettabili vengono a galla nel corso della narrazione. Non è un giallo edulcorato, dove anziane signorine prendono il tè e discutono del delitto; qui Carr ci fa piombare in un terrificante incubo dove lo stesso concetto di giustizia non incarna un ideale condiviso pienamente. Bencolin persegue nel proprio compito di investigatore più nel ruolo di giudice che in quello di poliziotto, alla ricerca di un riscatto dal fallimento nel proteggere Saligny; non è la cattura della preda a spronarlo. L'ambiguità morale di colpevoli e vittime, con la distinzione tra Bene e Male, corona un romanzo giallo che, pur non essendo un libro che tocca la perfezione, di sicuro si piazza tra i capolavori del genere e merita di essere conosciuto da tutti gli appassionati. Magari pure quelli italiani, con una traduzione adeguata.

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venerdì 16 aprile 2021

68 - "Delitti al College" ("The Dartmouth Murders", 1929) di Clifford Orr

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Ricollegandomi al discorso di introduzione alla recensione della scorsa settimana, per "La Scatola Mortale", oggi vorrei dilungarmi un po' di più su quegli autori che hanno sì pubblicato poco, nel corso della loro carriera, ma non per cause di forza maggiore come decessi improvvisi (come Christopher St. John Sprigg) o impedimenti di carattere medico (Annie Haynes) oppure legale (Milward Kennedy); quanto per cause dipendenti da una scelta consapevole o comunque legata a un percorso personale. Mi spiego meglio. Fatto curioso: all'interno della classica crime story più di un/una giallista, a un certo punto della propria vita, ha deciso di darci un taglio con le storie del mistero e di delitti fittizi per dedicarsi a tutt'altra materia. Così, in modo un po' improvviso per chi seguiva le loro carriere con entusiasmo e si augurava che esse proseguissero ancora per anni e anni. Si tratta di un discorso che non purtroppo non potrà mai avere una spiegazione del tutto soddisfacente, dal momento che bisognerebbe aver chiesto ai diretti interessati il motivo di questo repentino cambio di rotta ed essere soprattutto sicuri che le loro risposte siano state sincere (cosa di cui personalmente averi dubitato, conoscendo la fama di autori abituati ad ingannare i lettori con storie credibili ma fittizie); eppure, vorrei provare ad avanzare qualche ipotesi sui motivi che li hanno spinti a compiere questo gesto. Ad esempio, abbiamo Anthony Weymouth (ricordate, l'autore di "Congelato"?) il quale ha scritto alcuni romanzi gialli sfruttando la conoscenza derivata dalla pratica della professione di dottore, nel corso di sette anni... per poi decidere di proseguire soltanto la carriera medica, senza pubblicare altro di genere crime. Per quale motivo ha deciso di fare ciò? Per quanto mi riguarda, credo sia dovuto al fatto che i suoi non fossero gialli capaci di spiccare nella totalità di opere di genere. Forse ebbe il sentore che proseguire sarebbe stato poco gratificante. In ogni caso, mollò il colpo. Qualcosa di simile fecero Edmund Crispin, forse la più fulgida stella delle "leve della seconda generazione" del giallo della Golden Age britannica, e l'americano Anthony Boucher. Crispin concentrò la pubblicazione di opere straordinarie come "Il Negozio Fantasma", "La Morte nel Villaggio" e "Il Manoscritto Perduto" nell'arco di dieci anni, tra il 1944 e il 1953, per poi arrestarsi e tornare per un ultimo sprint soltanto nel 1970, con meno forza e determinazione. Come mai? Ebbene, lo fece soprattutto per problemi di alcolismo che minarono il suo talento e la sua salute, ma bisogna sottolineare come abbia speso il suo tempo nel recensire romanzi gialli di alcuni colleghi, per il "Sunday Times". Quindi, ancora una volta per una scelta dettata in parte da una dipendenza e in parte da un'intenzione che proveniva dall'urgenza di cambiare le carte in tavola.

Boucher, da parte sua, compì gli stessi passi di Crispin concentrando la pubblicazione della propria opera tra il 1937 e il 1942 (quindi soltanto cinque anni!) e proseguendo prima a recensire una quantità industriale di romanzi, racconti e saggi di genere fino al 1948, per poi occuparsi di science fiction o letteratura fantascientifica fino alla fine dei suoi giorni. Il motivo della sua decisione probabilmente fu legato al fatto che quest'ultimo tipo di narrativa lo attirava di più, visto come anche nei suoi mysteries fosse solito inserire aspetti legati a quel mondo nuovo e particolare. Tornando all'Inghilterra, pure la celebre Dorothy L. Sayers a un certo punto abbandonò la scrittura di romanzi del mistero; e lo stesso fece il suo storico "rivale", Anthony Berkeley. In questo caso, tuttavia, i moventi nascosti dietro a questo loro gesto sembrano differenti: Sayers perse gradualmente interesse nella crime story perché desiderava dedicarsi alla letteratura di stampo religioso, forse in un tentativo di redenzione per "l'amaro peccato" che aveva colpito la sua esistenza quando era ancora giovane; Berkeley, invece, ricevette un duro colpo alla propria autostima a causa di una delusione amorosa che significava tutto per lui... con la conseguenza che, dal 1940, tralasciò la scrittura di nuove storie per dedicarsi all'analisi di quelle di altri scrittori di genere e nell'attività di socio della Crime Writer's Association americana. Come vedete, quindi, in molti (e per motivi differenti) a un certo punto smisero di scrivere romanzi del mistero per dedicarsi ad altre attività. Pure l'autore del libro che recensirò oggi, Clifford Orr, compì un'operazione del genere: dapprima fu musicista, poi giornalista, poi libraio e infine approdò al giallo classico... finché non decise di tornare a fare l'editorialista. Nel suo caso, cosa andò storto? Un'ipotesi potrebbe essere dovuta al fatto che non riuscì più a superare la qualità straordinaria di "La Casa sulla Scogliera", il suo secondo libro di genere, dal momento che il terzo (chiamato "The Cornell Murders" e ambientato nell'omonimo college) non fu mai dato alle stampe. A breve spero di potervi presentare questo titolo; intanto, oggi resto nell'ambientazione universitaria e analizzerò "Delitti al College" (Polillo Editore, 2021), il suo esordio sul solco della tradizione più classica.

North Mass, Dartmouth, sede dalla prima morte in "Delitti al
College"
La storia si apre con il ritrovamento del cadavere del giovane Byron Coates, studente della Dartmouth University di Hanover, nella contea di Grafton. Il suo corpo viene rinvenuto impiccato alla scala antincendio del dormitorio da Kenneth Harris, il suo compagno di stanza, in un gelido mattino nebbioso; quindi, l'ipotesi più probabile che gli inquirenti si trovano ad avanzare è quella che si tratti di suicidio. Tanto più che Coates, proprio il giorno precedente alla tragedia, aveva manifestato uno strano stato d'animo irrequieto e malinconico, per cui i segnali sarebbero in linea con questa ipotesi. Tuttavia, ben presto la curiosità e l'interesse di Harris e di un altro suo compagno, Charlie Penlon, sulla faccenda dimostrano come la corda a cui è stato trovato appeso Byron non sia affatto adatta allo scopo per cui è stata usata: è troppo spessa per poter fungere da cappio e stringere il collo del poveretto fino ad asfissiarlo. Questa conclusione, dunque, apre la strada a teorie ben più inquietanti come l'omicidio premeditato, le quali si fanno ancora più terrorizzanti quando si scopre che ad uccidere Coates è stato un ago sparato direttamente nel suo cranio, con una fredda precisione e un'abilità diabolica. L'atmosfera a Dartmouth cambia immediatamente e le persone più vicine alla giovane vittima vengono sospettate del crimine: oltre a Harris e Penlon, i quali abitano nello stesso dormitorio ma su piani differenti, pure altri due studenti (Sam Anderson e Jerry Smart) vengono inclusi nella lista dei possibili assassini, assieme alla sorella di Byron, Jean; alla sua dama di compagnia, miss Case; al padre di Kenneth, il quale si è trovato a Dartmouth per un'apparente casualità; al professor Bostwick, che da anni ha preso sotto la sua ala Coates e Harris e ha instaurato con loro un rapporto quasi familiare. I problemi per la soluzione del delitto, però, si moltiplicano perché nessuno riesce a dimostrare con certezza di avere un alibi per l'ora della morte di Coates. Poi, durante la celebrazione di una funzione religiosa nella cappella del campus, Sam Anderson viene ucciso da un ago simile a quello sfruttato per procurare la morte a Byron, mentre si trova nel coro a cantare.

Il terrore si impossessa degli studenti e dei professori di Dartmouth, i quali decidono di far intervenire la polizia al fianco dell'uomo ufficiosamente incaricato di fare luce sul decesso di Coates. Peccato che quest'ultimo sia nientemeno che Joe Harris, uno dei sospettati del crimine. Lo stesso Kenneth teme che il padre possa essere in qualche modo coinvolto nel delitto dal momento che, in occasione di una missione a Boston per interrogare la madre di Byron, scopre come egli non sia estraneo alla vita dei congiunti dell'amico deceduto. Cosa ci fa una sua foto nell'album di famiglia che Mrs Coates gli ha mostrato? I quesiti si moltiplicano man mano che le indagini proseguono e il giovane si domanda se non sia il caso di fare delle indagini per conto proprio, senza affidarsi al genitore. Eppure, farlo non è per nulla facile: Kenneth è un tipo più istintivo ed emotivo, che razionale e freddo come invece è il padre, e non sa dove sbattere la testa per raccogliere gli indizi necessari per rendersi utile. Fortunatamente, gli eventi sembrano coinvolgerlo e andargli incontro senza che lui lo voglia: prima appare un fantomatico spettro proprio dall'oscurità della cappella dove Anderson è stato ucciso, poi alcune lettere che ha esaminato vengono frettolosamente consultate in seguito allo scassinamento di alcuni cassetti... Tutto ciò indica una direzione ben precisa per le indagini che padre e figlio si ritrovano a condurre: la verità e la soluzione del caso si trovano immerse nel passato nebuloso dei Coates, tra scheletri nell'armadio in senso figurato e personaggi che ritornano gettando lunghe ombre sul presente. Servirà però un'altra morte prima di riuscire a capire fino in fondo quanto l'avidità e la spietata determinazione abbiano contribuito a suscitare il terrore che serpeggia per Dartmouth.

Rollins Chapel, Dartmouth, sede del secondo delitto in
"Delitti al College"
"Delitti al College" è stato un romanzo giallo soddisfacente, tutto sommato. Certo, non si può dire che si tratti di un capolavoro sotto ogni fronte, ma nel complesso è riuscito ad intrattenermi e si è rivelato una lettura adeguatamente buona. Ciò che mi ha colpito fin da subito è stata la capacità dell'autore di sollevare una sorta di atmosfera macabra e misteriosa attorno agli eventi che doveva raccontare (pp. 11-12, 14, 20-21, 50-53, 70-76, 94-95, 139-140, 141-143, 184, 205-210): il racconto stesso di Kenneth, fatto in prima persona, è riuscito a calarmi dentro le vicende e a farmi toccare con mano l'aura notturna e rarefatta in cui si trovano ad indagare i due Harris, padre e figlio. Ci sono state molte scene "ad effetto", le quali ovviamente hanno dato ancora più forza alla narrazione un po' tetra di Orr: ad esempio, mi è piaciuto come egli si sia soffermato su molte apparizioni improvvise (tra presunti fantasmi e fuggitivi piuttosto concreti) e su situazioni dove l'azione non è certo mancata ma senza risultare estranea all'enigma che si andava ad indagare. Inoltre, pure lo sfruttamento di scenari spesso notturni oppure nebbiosi è stato funzionale al mantenimento di quest'atmosfera un po' inquietante; per non parlare del fatto che, in quelli più "soleggiati", non sono comunque mancati riferimenti a venti gelidi e a caminetti accesi. Anche la rappresentazione degli ambienti della casa di famiglia dei Coates a Boston sono stati tratteggiati seguendo le stesse direttive: luci basse e poco numerose, mobili che davano il senso della solennità e di austerità, pochissime fonti di rumore oppure suoni a disturbare il silenzio carico di mistero. Insomma, credo che sia stato fatto un lavoro molto buono in quanto alla creazione del contesto in cui i personaggi si muovono e nel sottolineare la tensione e il senso di mistero in cui le vicende sono immerse. Non a caso, la narrativa di Orr è stata accostata a quella di John Dickson Carr, il Maestro non solo del delitto della camera chiusa ma pure dell'uso del gotico e del sovrannaturale per esacerbare il senso di angoscia che le sue trame già suscitavano nel lettore. Eppure, mi sento di fare un piccolo appunto riguardo questa considerazione accettata da più di un appassionato: tenderei ad andarci piano nel fare accostamenti di questo genere, dal momento che Carr è riuscito a dare vita a uno stile unico ed irripetibile. Si può al massimo dire che Orr sia stato influenzato, allo stesso modo del suo collega, da un qualche tipo di sentore dell'epoca, una tensione diffusa nella società del tempo che ha saputo trasmettersi in certe persone le quali sono riuscite a coglierla; in "Delitti al College" manca quella sorta di spessore che Dorothy L. Sayers è riuscita a descrivere in una frase che disse proprio sullo stile del suo illustre collega.

Per passare a un altro elemento di "Delitti al College" che mi ha convinto, mi soffermerei sulla mescolanza data dall'ambientazione universitaria tratteggiata con abilità e l'integrazione per nulla forzata di essa con l'enigma. Penso sia chiaro come l'autore si sia ispirato alla propria esperienza all'università di Dartmouth per dare spessore alla faccenda: ad esempio, il dormitorio descritto nel romanzo nel quale alloggiano Coates e Harris altro non è che la vera North Mass, l'edificio dove Orr ha risieduto mentre era studente al college; oppure la cappella dove avviene il secondo delitto (quello di Sam Anderson) è ispirata alla Rollins Chapel di Dartmouth. Certo, la conoscenza della struttura del campus ha permesso a Orr di costruire una sorta di copia fittizia dei luoghi che era solito percorrere di persona e di sfruttare questi ultimi per testare ciò che aveva in mente, così da "mettere in atto" le azioni che intendeva far compiere ai suoi personaggi; però bisogna pur ammettere che siamo molto lontani dalla rappresentazione profonda e dettagliata del mondo accademico che ne ha fatto Michael Innes in "Morte nello Studio del Rettore". Ciò che conta per l'autore è soprattutto il mistero, non la descrizione della vita universitaria; per cui, ciò che fanno i protagonisti di "Delitti al College" risulterà solo plausibile se non addirittura naturale, ma senza andare troppo ad indagare temi particolari, e di conseguenza il fulcro della narrazione non sarà il fattore psicologico, ma l'enigma attinente alla realtà dei fatti (pp. 23-24, 29-30, 33-36, 39-41, 59-62, 79-81, 160-162, 170-174). L'importanza sta tutta nella praticità del crimine: se qualcosa non era materialmente possibile nella vita reale, allora non lo sarebbe stato nemmeno nella finzione del romanzo; viceversa, se ciò che era necessario mettere in pratica si poteva fare, allora sarebbe potuto essere inserito nella trama con tranquillità. A questo proposito, va poi aggiunta la sinergia tra Harris padre e Harris figlio, la quale mi è sembrata adeguata e con un giusto grado di trasparenza. Pure essa ha dato spessore al mistero, assieme all'atmosfera di cui ho già parlato: proprio come nei gialli di Ellery Queen (che tra l'altro hanno debuttato proprio nello stesso anno della pubblicazione di "Delitti al College"), questa coppia investigativa in veste semi-ufficiale riesce ad essere credibile agli occhi del lettore. Peccato solo non potersi fermare qui, nel prendere in considerazione gli elementi di questo romanzo giallo, dal momento che è proprio dai personaggi presi singolarmente che iniziano i piccoli problemi che stanno alla base della mia critica.

Clifford Orr, nato nel 1899 e morto nel 1951
Prima di passare a questo discorso, tuttavia, mi voglio soffermare sulla figura dell'autore, per poter contestualizzare meglio le obiezioni che farò qui sotto. Nato nel 1899 a Portland, nel Maine, Clifford Orr era figlio di un agente pubblicitario e nipote di un capitano marittimo. Fin dalle scuole superiori aveva manifestato una certa passione per la scrittura; passione che aveva coltivato pure all'università di Dartmouth, dove si era occupato di scrivere i libretti di alcune opere musicali messe in scena dagli studenti del corso di teatro. Orr lasciò il college nel 1922 senza prendere alcuna laurea, nonostante avesse seguito un corso regolare di studi, e continuò a scrivere testi per canzoni (tra cui quella di "I May Be Wrong" portata al successo da Doris Day), mentre occupava un posto di giornalista al "Boston Evening Transcript". Qualche anno dopo assunse l'incarico di dirigere la libreria di Wall Street della casa editrice Doubleday, Doran; fu durante quest'esperienza che si rese conto di quanto fosse popolare il romanzo giallo. Stuzzicato dalla sfida che comportava la stesura di un mystery, entro il 1929 Orr diede alle stampe un opera di questo genere, "Delitti al College", ambientato nell'università che aveva frequentato e ispirato alla sua esperienza come studente. Dapprima pubblicato a puntate, questo libro incarna alla perfezione il classico giallo degli anni '20 (forse fin troppo, dirà qualcuno) ma ottenne grande notorietà per l'inconsueta ambientazione universitaria del mistero; al punto che nel 1935 ne venne tratta una modesta riduzione cinematografica dal titolo "A Shot in the Dark". Incoraggiato dal successo, Orr si mise a ideare un nuovo romanzo del mistero, stavolta più originale e suggestivo nelle atmosfere, e alla fine produsse "La Casa sulla Scogliera", un vero e proprio tour de force del quale il critico Charles Williams disse: "Un libro troppo buono è, per l'autore, una maledizione al pari di un libro pessimo. Non riesco a immaginare cosa mai mr. Orr potrà mai escogitare per il prossimo". Inconsapevolmente, Williams portò sfortuna a Orr, il quale interruppe la scrittura di gialli proprio dopo la pubblicazione di tale romanzo per diventare editorialista per il "The New Yorker", incarico che mantenne per vent'anni. Eppure la sua vita non era felice: omosessuale, alcolista, ne passò di tutti i colori entrando e uscendo dalle cliniche che disintossicarsi, pur mantenendo il suo sguardo dagli occhi verdi puntato a sondare ciò che lo circondava e senza rinunciare al proprio spirito caustico. Morì nel 1951, poco prima di compiere 52 anni, nella cittadina di Hanover dove (ironia della sorte) aveva ambientato il suo romanzo d'esordio.

Come avete visto, quella di Orr non fu un'esistenza tranquilla. Passò da un lavoro all'altro senza darsi tregua, si occupò di attività disparate e lo fece nella frenesia che solo uno spirito come il suo poteva a malapena sopportare. E questa fretta e incostanza si riflette proprio su "Delitti al College", il quale presenta una costruzione che nel suo insieme riesce a convincere, ma non fa altrettanto se i suoi elementi vengono presi in considerazione uno alla volta. Meglio ancora, quello che voglio dire è che ci sono tanti piccoli difetti in questo libro, pecche che potevano essere aggiustate se soltanto l'autore si fosse soffermato meglio su di esse nel momento in cui le ha prese in considerazione e poi inserite nella trama. Sono soprattutto ingenuità causate dall'inesperienza: se avesse avuto trascorsi più consistenti e un metodo più strutturato, probabilmente Orr avrebbe portato a termine un lavoro fatto meglio. Ad esempio, risultano abbastanza strane alcune azioni compiute dai personaggi, come lasciare le porte sempre aperte (intese come non chiuse a chiave), pure alla notte, oppure nel fatto che la gente si sposti per le camere delle persone con una spaventosa tranquillità, senza curarsi del fatto di star magari invadendo la loro privacy (su questo punto, tuttavia, mi riservo un dubbio dal momento che forse, tra studenti di uno stesso dormitorio, si tratta di una pratica comune). In ogni caso, tuttavia, certe azioni risultano molto strane. In secondo luogo, se l'accoppiata degli Harris funziona quando presa come unica entità (da sottolineare i battibecchi tra padre e figlio, molto simili a quelli reali), i due mi sono sembrati molto irritanti quando presi da soli. Voglio dire, Kenneth mi ha dato l'impressione di essere uno sciocco petulante, capace solo di mettersi a gridare affermazioni con stupore e ad interrogarsi con superficialità sulle faccende importanti per il caso (nonostante abbia comunque apprezzato il lato più emozionale del suo carattere, pp. 19-21, 25-27, 35-37, 44-45, 50, 58, 67-68, 77-78, 89-90, 100-102, 106-109, 115-116, 125, 135, 177, 179, 217-218)); suo padre, invece, mi è sembrato un individuo pomposo ed ermetico, quasi peggio di quella sfinge di Sherlock Holmes: il suo atteggiamento supponente, quasi irrisorio verso il prossimo è stato molto irritante. Cosa ancora più grave, tuttavia, è il fatto che Orr abbia impostato l'indagine sui delitti di Dartmouth facendo fare sì alcune scoperte a Kenneth ed altre a suo padre... ma senza che uno dei due riuscisse a spiccare. In tal modo, non abbiamo mai un "vero" investigatore che agisce da deus ex machina, ma qualche piccolo indizio raccolto da uno e qualche altro dall'altro. Il finale stesso del racconto mette in mostra i difetti di questo tipo di indagine: l'assassino si smaschera praticamente da solo, senza che il merito vada a uno oppure a un altro. Mi è sembrato come se tutti facessero osservazioni intelligenti (pure personaggi secondari come Penlon e Jerry Smart), tranne chi avrebbe dovuto applicarsi sul serio: cioè Kenneth!. La stessa rappresentazione di una forza di polizia "arrendevole", che delega il caso ai dilettanti, lascia qualche perplessità. Infine, la soluzione del mistero non mi è sembrata all'altezza delle premesse. Se il caso presenta risvolti e colpi di scena a ogni piè sospinto, affonda la propria essenza nel passato che allunga la propria ombra a incombere sul presente (pp. 145-147, capp. 8, 17), e viene condotto con maestria dall'insieme di investigatori che di esso si occupa, non si può certo dire che il risultato sia del tutto soddisfacente perché troppo veloce e scarno, oltre che carente nello spiegare gli indizi che hanno portato alla cattura della persona colpevole. Pertanto, non me la sento di dire che "Delitti al College" sia un capolavoro del genere giallo. Piacevole sì, ma non qualcosa di imprescindibile. Va dato atto, comunque, all'autore di essere riuscito a dare vita a una vicenda che si colloca in un'ipotetica valutazione di quattro stelle su cinque, sopra a quella di romanzi meno riusciti come "La Scatola Mortale". Sono curiosi di scoprire come sarà "La Casa sulla Scogliera": presto lo leggerò e vi dirò se riuscirà a compensare i difetti riscontrati in quest'altro libro.

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venerdì 12 marzo 2021

64 - "I Delitti della Vedova Rossa" ("The Red Widow Murders", 1935) di Carter Dickson

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore
Dopo mesi e mesi di temperature rigide e giornate uggiose o invernali, alla fine siamo giunti a marzo e a quella che si preannuncia essere un'altra primavera molto particolare per tutti noi. Già quella dello scorso anno, infatti, è stata unica nel suo genere, dal momento che ci ha visto nientemeno che rinchiusi in casa, per proteggerci dal contagio della pandemia da Coronavirus. Dopo tanto tempo, la situazione si è perlomeno raddrizzata un po', visto che sono iniziate le somministrazioni di alcuni vaccini fortunatamente sviluppati con infaticabile determinazione dagli scienziati di tutto il mondo; però la luce in fondo al tunnel appare ancora lontana e temo che la situazione resterà atipica per un bel po'. Pertanto, ci dobbiamo accontentare di quel poco che abbiamo a disposizione: giornate che pian piano si allungano e una primavera che, come dicevo, appare strana ma allo stesso tempo come una fonte di fiducia. In cuor mio, mi auguro che essa ci permetta almeno di riprendere quei contatti sociali che sono mancati negli ultimi dodici mesi; io stesso, durante la pandemia, ho rivalutato i rapporti con persone che prima conoscevo e ne ho creati altri che spero con forza possano diventare più solidi una volta allentate le misure di contenimento del virus. Quindi, nonostante la persistenza di questo periodaccio, spero che le cose possano migliorare. Da parte mia, continuerò a recensire romanzi gialli per voi e per me stesso; però mettendo da parte quelle letture che sono confinate all'autunno e all'inverno. Con un graduale passaggio, inizierò da romanzi popolati dalle scroscianti piogge di marzo per arrivare a quelli più assolati e vacanzieri dei mesi estivi (anche se non so quanto potremmo goderci le ferie anche quest'anno). Se non potremmo farlo "dal vivo", mettetela così: almeno vi farò viaggiare con la mente e sognare un po' con me. E per iniziare questa nuova fase del viaggio nelle recensioni di Three-a-Penny, ho deciso di tornare a una vecchia conoscenza di voi lettori; a quel John Dickson Carr che vi avevo già presentato molto tempo fa, quando analizzai il suo terzo romanzo con protagonista il giudice istruttore Henri Bencolin, "L'Arte di Uccidere".

Se ben ricordate, lo avevo recensito in occasione della riedizione in lingua inglese del primo giallo in assoluto che Carr pubblicò nella sua lunga carriera, quel "Il Mostro del Plenilunio" che in Italia è stato pubblicato in forma ridotta soltanto nel Giallo Mondadori da edicola e andrebbe riproposto quanto prima per noi lettori. In quell'occasione, avevo fatto un lungo excursus sul travaglio editoriale che era servito perché esso potesse tornare a vedere la luce in libreria; ebbene arrivati a questo punto, grazie agli aggiornamenti mensili che preparo ogni mese, saprete che la British Library ha rimesso a disposizione del suo bacino di lettori tutte le quattro opere prime del Maestro del Delitto della Camera Chiusa. Si è trattato di un'operazione splendida, che come dico sarebbe da mettere in atto pure nel nostro Paese; non solo per l'ammirazione che moltissimi di noi appassionati nutre per John Dickson Carr e la sua opera complessiva, ma anche per il semplice fatto che romanzi del mistero di tale caratura dovrebbero essere a disposizione di chiunque ne sia attratto oppure incuriosito. Ma non sono io a decidere queste cose (anche se mi piacerebbe moltissimo ritradurre l'esordio del Maestro per una collana prestigiosa come Polillo), per cui intanto ci dobbiamo accontentare di ciò che ci è stato dato. Proprio Polillo/Rusconi, tuttavia, ha in programma di ripubblicare un titolo di Carr che già in passato era apparso nei suoi Bassotti ed è ormai esaurito, se non nei siti di remainders o su piattaforme di commercio online: "I Delitti della Vedova Rossa" (2011), firmato sotto le pseudonimo di Carter Dickson. Ambientato in una Londra tetra e marzolina, avvolta dalla nebbia nonché sottoposta a oscuri presagi e leggende legate al Terrore francese del post-Rivoluzione, mi è sembrato la lettura ideale per aprire il nuovo corso di Three-a-Penny; per cui, ecco qui i miei pensieri su questo giallo strano e terrorizzante, nel quale l'autore ci mette davanti a una domanda tanto lapidaria quanto inquietante: "può una stanza uccidere?".

Una foto di Londra durante la Great Smog, nel dicembre 1952
raffigurante un paesaggio che ricorda la nebbia che avvolge
la città nel romanzo
La camera in questione è la "Vedova Rossa" del titolo, chiusa da moltissimi anni e avvolta da un'aura malsana causata da una leggenda che vedrebbe spacciato chiunque osasse restare al suo interno da solo per troppo tempo. Tra l'inizio e la fine del 1800, infatti, essa ha già causato la morte violenta di almeno quattro persone, tutte imparentate tra loro oppure legate da rapporti di amicizia, ritrovate con il volto annerito e orribili ghigni stampati in volto, e rattrappite sul pavimento dagli spasmi causati da un veleno che non è stato trovato da nessuna parte. Già una volta, la Vedova Rossa è stata smontata pezzo per pezzo, assieme ai mobili che contiene, soffitto e pavimento compresi, ma nessuno è stato capace di scoprire quale diabolico marchingegno abbia causato la morte di Charles Brixham padre, di sua figlia Marie (deceduta il giorno prima delle nozze), del vecchio amico di famiglia Martin Longueval e del nonno dell'attuale Lord Mantling, Alan. Così, la camera è stata sigillata per impedirle di portare ancora morte e tragedia. Tuttavia, adesso Casa Mantling sta per essere abbattuta per fare posto a un nuovo centro residenziale a Mayfair e l'attuale Lord vuole scoprire quale sia il segreto della Vedova Rossa a tutti i costi. Pertanto, ha ideato un macchinoso e terrificante metodo per sincerarsi della verità: accompagnato dai familiari (suo fratello Guy, studioso della famigerata storia di famiglia; sua zia Isabel, la matrona della casa; la sorella Judith) e di alcuni amici e conoscenti (l'avventuriero Robert Carstairs, l'arredatore francese Martin Longueval Ravelle, l'artista Ralph Bender, lo psichiatra Eugene Arnold, il professore di letteratura Michael Tairlane, il direttore del British Museum Sir George Anstruther e il celebre Henry Merrivale, il Vecchio del Ministero della Guerra), aprirà nuovamente la stanza. Poi, ognuno degli ospiti convitati alla sua tavola dovrà estrarre a sorte una carta da gioco da un mazzo nuovo, e chi avrà il dubbio onore di pescare quella col valore più elevato dovrà trascorrere almeno due ore dentro la Vedova Rossa. Si tratta di una sfida da non prendere con cuore leggero: infatti, nonostante tutti quanti siano consapevoli che, se mai c'è stato una terribile trappola mortale dentro la stanza, dopo tanto tempo esse debba aver perso la propria letalità, è pur vero che la suggestione gioca brutti scherzi a chi non ha i nervi abbastanza saldi per resistere alla prova.

Inoltre, non bisogna trascurare un altro fatto molto importante ai fini del gioco a cui tutti quanti stanno per approcciarsi. I Mantling sono conosciuti in città per la loro fama di famiglia antichissima, ma ben pochi sanno che il primo individuo della casata è stato un reduce della Rivoluzione Francese e del Regime del Terrore che ne è seguito. Costui a un certo punto era come impazzito, forse influenzato dall'esperienza sul continente e dalla famiglia della moglie (quella dei boia della neonata Repubblica in terra francese), e da allora si era tramandata la diceria che tra i Mantling si aggirasse lo spettro della follia; intesa non tanto come tara mentale, ma quanto come eccentricità volta ad isolare dalla società gli individui da essa affetti. Ma adesso un cane e un pappagallo sono stati trucidati dentro la casa, e il sospetto che un maniaco omicida si aggiri per i suoi corridoi si è fatto pressante. Per cui, chi osi sfidare la Vedova Rossa corre il rischio di ritrovarsi pure in balìa di un degenerato. Lord Mantling tenta di minimizzare il pericolo, come suo fratello Guy il quale deride qualunque tipo di sospetto e crede che gli unici rischi possano derivare dalla credenza degli antichi rituali esoterici di cui è appassionato; eppure la vecchia Isabel non si sente per nulla tranquilla. Anche alcuni tra gli ospiti, come Anstruther, Tairlane e il perspicace H.M., temono possibili ripercussioni sui membri della famiglia; però quando il prescelto per la prova viene sorteggiato, le cose sembrano risolversi. Toccherà al giovane Bender sfidare la Vedova, e chi può mai voler fargli del male? Così, egli entra nella camera della morte mentre altri fanno la guardia all'unica porta dalla quale si può passare per uscire (la finestra della stanza, infatti, è sprangata con sbarre di ferro molto solide). Trascorrono le ore, e ad intervalli regolari la voce dell'artista risuona dietro il battente serrato... fino ad arrivare alla mezzanotte, quando la prova ha termine. Sembra che tutto sia andato per il verso giusto? All'apparenza... Infatti, non appena l'uscio viene riaperto, il cadavere di Bender fa la sua comparsa accanto al letto a baldacchino all'interno della Vedova Rossa: la camera ha avuto ancora una volta la meglio sul suo occupante. Ciò che lascia stupefatti tutti quanti, però, è ciò che il corpo rivela durante l'autopsia: il giovane è morto da almeno un'ora. Allora, chi rispondeva al suo posto alle chiamate periodiche? Questo è solo uno degli interrogativi a cui il Vecchio dovrà trovare risposta, nel corso di un'indagine allucinante e spaventosa... prima che qualcun altro venga eliminato dalla rosa dei sospetti con brutalità.

Un ventriloquo assieme al suo pupazzo, 1920
circa
Se ricordate un po' quello che avevo scritto nella recensione di "L'Arte di Uccidere", probabilmente ritroverete pure in "I Delitti della Vedova Rossa" certi aspetti che avevo trattato allora. Infatti, penso che la narrativa di Dickson/Carr si possa riassumere in alcuni punti specifici, i quali prenderò in esame man mano che mi imbatterò in essi. Però, come prima cosa, voglio dire di non essere stato del tutto convinto da questo romanzo. Certo, questo non significa che esso sia scadente; anzi, alcuni elementi sono molto suggestivi e riescono ad impressionare favorevolmente il lettore. Però, qualcosa non ha funzionato del tutto, forse per il fatto che "I Delitti della Vedova Rossa" è comunque uno tra i primi gialli della serie di Merrivale e, quindi, le capacità di Carr non erano ancora nel pieno delle loro forze. In ogni caso, ci sono notevoli miglioramenti rispetto all'altro giallo dell'autore che ho recensito. Ad esempio, l'atmosfera che si respira leggendo è gotica ma non grottesca ed esagerata, quindi meno pesante al punto di diventare opprimente che in "L'Arte di Uccidere"; nonostante permanga comunque l'eredità che l'autore raccolse dai racconti di G.K. Chesterton con protagonista Padre Brown (nei quali era presente una sorta di incombente irrequietezza o timore) e dai romanzi di cappa e spada "alla Dumas", dove una parte importante è occupata da fatti pittoreschi. Carr mise insieme questo tipo di letteratura con la narrativa del mistero, dando vita a storie tratteggiata con uno stile unico ed inimitabile, adornato di scenari inquietanti i quali spesso vengono collegati ad eventi funesti (in questo caso, la Camera della Vedova Rossa si rifà al Regno del Terrore francese) e di descrizioni che trasudano presagi densi e gravosi i quali sembrano schiacciare i personaggi coinvolti negli omicidi terrificanti che egli ha ideato, nel quale inoltre si mescolano tantissimi temi. In seguito, Carr sarebbe riuscito ad alleggerire ancora di più i toni di quanto fatto in questo libro, fino a trovare l'equilibrio giusto senza dover ricorrere a inseguimenti nella notte o a minacce fin troppo spaventose; nel caso di "I Delitti della Vedova Rossa", però, ricorre ancora a scenari notturni e a scene in cui il melodramma e il soprannaturale sono un po' eccessivi per poter affermare che sia stato al suo meglio.

Qui dominano di nuovo scenari lussuosi e decadenti di case di famiglie aristocratiche sull'orlo del baratro, nei quali si percepisce con chiarezza un'aura marcescente che non lascia presagire nulla di buono; anzi, accentua una sorta di deviazione dalla normalità che pare riflettere la situazione psicologica del gruppo di esseri umani che li popolano (pp. 8, 11-15, 52-53, 66-67, 149, 175, 203-205, 210-211, 253, 268, 272-275, 281-282, 286, 288-289, 296-298, 301). Non siamo ai livelli di quelle della saga di Bencolin, ma comunque pure in "I Delitti della Vedova Rossa" non ci appare strano che succedano vicende di sangue, al debole chiarore della luce delle candele e dei caminetti quasi spenti, dal momento che è come se l'autore ci avesse proiettato indietro nel passato e immerso in una storia ambientata tra la fine del Settecento e Ottocento: ciò che accade esprime un modo di vivere che mescola la raffinatezza snobistica dell'epoca dei proprietari terrieri e, allo stesso tempo, getta una luce potente su quanto in quel momento storico quegli stessi agissero da semi barbari, assetati di odii e vendette per amori tormentati. La stessa Londra di "I Delitti della Vedova Rossa", come quella di "L'Arte di Uccidere", è talmente nebbiosa e misteriosa e in qualche modo impersonale che potrebbe nascondere fantasmi che emergono dal vittorianesimo come automobili dei primi del Novecento; turba il lettore il quale non riesce a farsi un'idea chiara del luogo in cui si sta svolgendo il racconto, simile a un incubo ad occhi aperti in cui avvengono fatti inspiegabili. L'invito rivolto a Tairlane, passante semi disinteressato, di unirsi al circolo di giocatori intenzionati a sfatare il mito della Vedova, con il suo carico di incertezza e di mistero sottolineato dall'aspetto deserto e solitario di Curzon Street; i continui riferimenti al pericolo che la Camera può scatenare sui suoi occupanti, nonostante l'aria dimessa e quieta; i numerosi momenti in cui Casa Mantling ci viene presentata come mezza disabitata e popolata dagli spettri del passato: tutto viene caricato di una forte emozione che si divide tra il brivido di eccitazione e quello dello sgomento che paralizza. È in questo senso che Carr ha mantenuto un'espressione dei fatti un po' sopra le righe; per il resto, come dicevo, la tensione e la cappa pesante di dramma che avevamo trovato in "L'Arte di Uccidere" viene almeno un po' alleggerita. In quale modo? Ebbene, in "I Delitti della Vedova Rossa" l'autore riesce a trovare una valvola di sfogo a questa sua tendenza ad esagerare nell'essere pittoresco grazie all'uso della Storia, intesa con l'iniziale maiuscola e uno tra i suoi interessi principali (come dimostreranno i gialli storici che produrrà più in là con gli anni).

Attraverso di essa, infatti, Carr sfrutta la capacità di descrivere scene raccapriccianti calandole in un passato che pare ossessionare i personaggi, ma senza renderle il centro della vicenda. Mi spiego meglio. Il capitolo 9 è un chiaro esempio di ciò che intendo, dal momento che narra una sorta di lunghissimo flashback nel quale ci viene raccontato con doverosi dettagli veritieri quanto dovesse essere terribile vivere nella Francia post Rivoluzione, nel Regno del Terrore. In esso, l'autore si diverte a scendere in particolari spaventosi, ad evocare immagini di gente decapitata in nome della Libertà e di un ideale che non era riuscito a manifestarsi con i dovuti contenimenti, a spiegare quanto Charles Brixham abbia patito e sia rimasto profondamente segnato da quanto ha visto coi propri occhi. Carr narra del suo incontro con la bella Marie-Hortense Sanson, del suo sbigottimento nello scoprire che i membri della famiglia di lei erano incaricati da secoli del triste ruolo di boia, della situazione insopportabile che la vecchia Marthe si era impegnata a creare per farlo impazzire; e fa tutto questo senza lesinare nel raccontare quanto di più orribile dovrebbe essere accaduto nella realtà dei fatti. Per il resto della storia, egli non si sofferma più di tanto su scenari paurosi e inquietanti, pur senza dimenticare di dare qualche tocco horror ad essa. Però nell'ideare la leggenda della Camera della Vedova ha lasciato libera la propria fantasia; in questo modo, ha trovato un adeguato compromesso alla propria inclinazione come narratore tra il "gotico" e il puro enigma tradizionale all'inglese. In sostanza, ha creato una sorta di miasma che parte dal passato e si propaga nel presente, influenzandolo ma non pregiudicandolo... O forse è così, in un certo senso? In molti, infatti, hanno lamentato come questa soluzione sia di poca efficacia e contribuisca soltanto a mostrare come egli fosse interessato a descrivere invece di intrattenere. In realtà, io non lo penso. Certo, Carr si diletta nel dilungarsi su fatti che magari sono inutili al fine della scoperta della verità sugli omicidi di Casa Mantling; ma sono convinto che senza di essi il mistero di "I Delitti della Vedova Rossa" non avrebbe avuto quella speciale aura tra il minaccioso e l'ipnotico. Essi sono parte integrante e necessaria di questo interessante romanzo, perché contribuiscono ad evocare l'atmosfera gelida degli ambienti in cui è calato il racconto e le tenebre pervase dall'orrore e dalla tensione in cui si muovono i personaggi. Sembra come di camminare in stati d'animo che non ci lasciano mai indifferenti. Ciò che convince meno e piazza "I Delitti della Vedova Rossa" sotto ad altri titoli dell'autore come "Le Tre Bare" e "Il Terrore che Mormora", a mio parere, riguarda l'enigma stesso.

John Dickson Carr, nato
nel 1906 e morto nel 1977
Questo è un peccato, dal momento che l'ingegnosità delle trame e il fascino per "l'impossibile che diventa realtà" sono sempre state caratteristiche innate di John Dickson Carr (o Carter Dickson, per usare lo pseudonimo con cui firmò i romanzi con Henry Merrivale), alla pari del concetto di voler "giocare una partita" col suo pubblico ad armi pari. La pretesa del rispetto del fair-play e la scommessa che poneva in ognuno dei suoi numerosi libri farebbero pensare che egli fosse nato in Inghilterra, la patria del giallo deduttivo; invece, la città che gli diede i natali fu l'americana 
Uniontown, in Pennsylvania. Laggiù, mentre suo padre aveva felicemente intrapreso la carriera di avvocato e pregustava una futura associazione col figlio, Carr iniziò invece il lungo percorso che lo avrebbe portato a diventare uno dei giallisti più famosi di tutti i tempi: dapprima, dimostrando una memoria formidabile con la recitazione di monologhi tratti da "Amleto", pagine di D'Artagnan, Sherlock Holmes e "Il Mago di Oz"; e poi attraverso la scrittura di racconti, pubblicati sul giornale scolastico dello Haverford College, dove esordì la figura del giudice istruttore Henri Bencolin di Parigi. Nel 1928, lo scarso rendimento scolastico spinse i suoi genitori a compiere la scelta estrema di allontanarlo dagli Stati Uniti in favore della Francia, dove avrebbe dovuto studiare alla Sorbonne. Il posto, tuttavia, non si addiceva a un giovane dalle idee conservatorie come lui e la vita da bohémien trovò una ferma opposizione da parte sua; eppure, l'ambiente si mostrò favorevole per dare il tocco finale al romanzo che stava scrivendo. Fu così che nacque "Il Mostro del Plenilunio", la versione ampliata e rivista di un lungo racconto che Carr aveva scritto ai tempi della scuola americana, "Grand Guignol", proprio con Bencolin quale personaggio principale. In esso, si possono notare le influenze che subì fin da bambino, quando si appassionò 
alla lettura grazie alle lunghe ore trascorse nella biblioteca del padre, a divorare i romanzi di cappa e spada scritti da Dumas, insieme alle avventure narrate da Stevenson e Poe, per poi passare ad Arthur Conan Doyle e soprattutto a G.K. Chesterton, il quale divenne una vera e propria ossessione per lui. Il modesto successo che arrise al protagonista di "Il Mostro del Plenilunio", rispetto ai successivi Fell e Merrivale, per qualche tempo costrinse Carr a tornare in America dai genitori; finché, nel 1930, durante una crociera, incontrò Clarice Cleaves, una ragazza di Bristol che poco dopo sarebbe diventata sua moglie.

È curioso come proprio "Il Mostro del Plenilunio" sia stato il tramite attraverso cui Carr e Clarice iniziarono a scambiarsi le prime confidenze: in "The Golden Age of Murder", infatti, Martin Edwards ha spiegato che, in seguito al loro primo incontro nella sala del parrucchiere di bordo, i due futuri sposi trascorsero una serata a ballare e chiacchierare del più e del meno, finché Carr non accennò al fatto che aveva scritto una detective novel e chiese a Clarice se le avrebbe fatto piacere leggerla. In realtà, la ragazza non nutriva un particolare interesse in indagini e assassini fittizi; eppure, non ebbe cuore di deludere le evidenti aspettative del suo nuovo amico ed accettò di dargli un responso su quel libro. In quel modo, tra i due scoccò la scintilla ed entro un paio d'anni si trasferirono definitivamente in Inghilterra, dove la novella signora Carr intendeva far nascere le sue figlie. Anche suo marito (che nel frattempo aveva deciso di abbandonare Bencolin in favore di altri due personaggi molto simili tra loro, il dottor Gideon Fell e l'avvocato Henry Merrivale) fu entusiasta della scelta: dopotutto, era la patria dei suoi idoli d'infanzia, Chesterton e Doyle (del quale in seguito fu co-autore della biografia ufficiale), e sembrava che laggiù fosse il posto ideale per scrivere gialli sullo stile tradizionale; senza contare il fatto che la Storia dell'Europa cui poteva attingere avrebbe fornito molto materiale per il tipo di libri che intendeva scrivere. Un'altra caratteristica dell'opera di Carr, infatti, è quella di affondare le proprie radici in miti e leggende molto antiche: ne sono un esempio le numerose citazioni che possiamo trovare all'interno di romanzi come "Il Terrore che Mormora", la cui trama ruota sul vampirismo, oppure i culti segreti, le maledizioni e la religione degli antichi Egizi, assieme ai più recenti racconti sul boia di Londra, Jack Ketch, citati in "L'Arte di Uccidere". Si tratta di argomenti che, proprio grazie alla loro aura di velato soprannaturale, si prestano ad essere interpretati e sfruttati in modo da fornire al lettore una base relativamente reale per un delitto immaginario, e che permisero a Carr di dare sfogo a un'insaziabile sete di ricerca storica. Questa passione emerge dalla lettura di alcuni romanzi giallo-storici, come "La Sposa di Newgate", "Il Diavolo Vestito di Velluto", "La Corte delle Streghe" (uno dei suoi capolavori) e l'ultimo suo giallo pubblicato nel 1972, qualche anno prima della morte: "Il Mistero di Muriel".

Copertina di una vecchia edizione di
"I Delitti della Vedova Rossa"
Tut
tavia, 
fu il Delitto l'argomento a cui Carr si sentì più legato (pp. 24, 59, 66, 98, 101-102, 106-108, 114, 135, 184-187, 191-196, 217-218, 223-226, 245-246, 256-257, 259-260, 265-268, 293-295); tanto che i suoi detectives soffrirono di una vera e propria ossessione nei confronti della Storia del Crimine: Bencolin, Merrivale e Fell, infatti, di volta in volta si fecero portavoce dei pensieri dell'autore, attraverso semplici citazioni (pure di casi reali, come avviene in "Occhiali Neri") ma anche con l'utilizzo di piccole "conferenze" sull'omicidio e la sua applicazione nei romanzi del mistero. In qualche modo, gli omicidi di Carr si ispirano sempre alla realtà per prendere forma nella finzione, e lo scrittore non deve sforzarsi di tradurre con troppo rigore i fatti concreti che lo circondano in materiale per i suoi libri, ma limitarsi a narrare una storia che, per quanto possa apparire a volte improbabile e con personaggi simili ai burattini del teatri, procuri divertimento al lettore. Un assunto che dimostra al meglio quale fosse la concezione di Carr riguardo il romanzo giallo: costruire vicende credibili in cui, tuttavia, non mancasse quel pizzico di irrealtà che li contraddistingue da mere cronache. Non per caso egli fu il primo americano ad essere ammesso nel Detection Club, grazie al sostegno di Dorothy L. Sayers e Anthony Berkeley; dopotutto, sono evidenti la comunione di interessi per il true crime e intenti a cui egli stesso e gli autori della Golden Age miravano. Nei suoi gialli, infatti, si possono ritrovare diversi elementi che rimandano alla crime story di quel periodo: a parte l'ambientazione di cui ho discusso sopra, i personaggi vedono un evolvere della propria situazione, di libro in libro, e possiedono caratteristiche particolari che li contraddistinguono dalla massa (gli investigatori sono bruschi e imponenti, onniscienti e sanguigni; gli antagonisti subdoli e intelligentissimi; i comprimari come Guy Mantling sono interessati ad argomenti insoliti o provengono da luoghi esotici, da cui traggono la loro mentalità particolare): sono eccentrici, quasi picareschi (pp. 232-233), con caratteristiche, manie e ossessioni oppure semplici interessi che comunque li imprimono nella memoria del lettore. Ad esempio la vecchia Isabel, con gli occhi tanto azzurri da sembrare bianchi e il racconto della sua infanzia segnata dalla morte violenta del padre, lascia il segno; allo stesso modo, Alan Mantling è un omone che fa curiose allusioni, pratica il ventriloquismo, è abituato alla vita violenta perché cacciatore e sembra come perseguitato dallo spettro della Vedova Rossa.

Guy è forse quello più inquietante nella famiglia Mantling: con una testa dalla forma strana, un paio di occhiali scuri che non toglie mai (nemmeno in casa) e un carattere stizzito, nervoso e decisamente asociale, è il candidato perfetto per il ruolo dell'assassino. Robert Carstairs e Martin Ravelle sono un po' meno caratterizzati e questo è un peccato, perché avrebbero meritato un po' più di spazio, come pure il personaggio del dottor Arnold e quella degli aiutanti dell'investigatore. La parte del leone, tuttavia, spetta proprio al Vecchio, a quell'H.M. che spesso viene raffigurato come goffo oppure ironico ma qui è adeguatamente astuto e riflessivo (nonostante gli sfugga un importante indizio che non dovrebbe passare inosservato). Proprio a questo proposito, arriviamo al punto dolente di "I Delitti della Vedova Rossa": il mistero vero e proprio. Solitamente, nella narrativa di Carr gli enigmi sono costruiti con una tecnica che li rende spettacolari, fuori dal comune; un po' alla maniera di quelli di Ellery Queen, come ha sottolineato Howard Haycraft. Si tratta di favole soprannaturali dalle soluzioni apparentemente incredibili, a volte tanto complesse da non permettere al lettore di riuscire a risolvere il mistero prima che l'autore ce lo sveli, in cui il finale lascia spiazzati e sorpresi. Pure in questo caso ciò avviene... ma in una forma meno potente di quanto ci si sarebbe aspettati. Insomma, non è del tutto all'altezza. Va benissimo lo stile con cui è tratteggiato (una volta Dorothy L. Sayers disse: "John Dickson Carr ci trasporta dal piccolo, artificiale mondo del comune intreccio poliziesco nell'oscurità minacciosa che sta al di fuoriÈ in grado di creare un'atmosfera con un aggettivo e di rendere un'immagine da una cancellata di ferro, un tavolo impolverato, una lampada a gas che spunta dalla nebbia. Può metterci in apprensione con un'illusione o deliziarci con un'allegra assurdità. Ogni frase ci dà un brivido di convinto piacere"), ma ciò che critico è il fatto che alla fin fine esso sia basato su una serie di coincidenze un po' campate per aria. Non entro nei dettagli per non spoilerare, ma diciamo che se non si fossero verificate certe circostanze (circostanze che tra l'altro hanno bisogno di una spiegazione molto complessa per essere capite fino in fondo) non esisterebbero i delitti della Vedova Rossa.

Ho avuto la sensazione che l'idea di fondo fosse più interessante di quanto poi si è espresso su carta. Di solito, i delitti migliori e più stupefacenti sono quelli che si basano su trucchi semplici che producono conseguenze impensabili; nel caso di quelli di "I Delitti della Vedova Rossa" accade in contrario: abbiamo premesse che ci fanno immaginare che la storia avrà uno svolgimento pazzesco (e così è in effetti, sia chiaro), le quali però si risolvono con una spiegazione della verità che lascia un po' con l'amaro in bocca. Si prova un po' di delusione nel pensare come sia stato più eccitante il percorso che ha poi portato alla soluzione, rispetto a quest'ultima. Quello che è mancato forse è stato il ritmo giusto nell'esposizione dei fatti, oltre al fatto che le prove non sono del tutto chiare da interpretare per il lettore e il movente si ricava da un'oscura legge inglese del tempo di Enrico VIII. Voglio dire, quando spiegate da Merrivale appaiono più che sufficienti, ma se ci si arrangia non è proprio la stessa cosa perché si rischia di confondersi e infilarsi in vicoli ciechi a ogni piè sospinto. Detto ciò, in ogni caso, i metodi attraverso cui i delitti vengono perpetrati sono strabilianti e molto buoni, perché sorprendono chi legge; e poi l'idea della stanza che uccide viene sviluppata con abilità. Per tirare le somme, quindi: quale è il mio verdetto su "I Delitti della Vedova Rossa"? Se lo si considera come un romanzo giallo da leggere per passatempo, senza avere chissà quali pretese di perfezione e aspirando a trovare un mistero che sappia coinvolgere il lettore, allora questa è la lettura che fa per voi. Se invece siete alla ricerca di qualcosa che sappia darvi soddisfazioni nel campo della costruzione di un enigma plausibile, dettato dalla logica, allora forse potreste restare un po' delusi dal risultato finale. In ogni caso, rispetto ad altri gialli che ho letto negli anni, questo si piazza in una posizione molto elevata della classifica. Non è una stupidaggine e per essere compreso al meglio necessita di una certa concentrazione Semplicemente, nell'opera dell'autore, non è all'altezza di altri titoli nonostante tutto.


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