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venerdì 30 agosto 2019

7 - "L'Arte di Uccidere" ("The Lost Gallows", 1931) di John Dickson Carr

Copertina dell'edizione pubblicata
nei Classici del Giallo Mondadori
n. 937
Il 10 settembre l'editore inglese British Library pubblicherà, all'interno della collana "Crime Classics" curata da Martin Edwards, una nuova edizione di "It Walks By Night" (ovvero "Il Mostro del Plenilunio"), la prima crime novel di John Dickson Carr risalente al 1930. Si tratta di un piccolo grande evento, poiché in Inghilterra questo romanzo è scomparso dagli scaffali da almeno vent'anni (per non parlare di quelli italiani, dove esistono solo vecchie traduzioni tagliate e difficili da rintracciare) e la questione riguardante la cessione dei diritti non è delle più facili. Proprio a causa di tali complicazioni, penso che sarà molto difficile mettere in pratica un'iniziativa simile in Italia: quindi, da parte mia, ho già provveduto a ordinare una copia della Crime Classics; un po' perché non può mancare nella biblioteca di un appassionato di giallo classico, ma anche per il fatto che, insieme al romanzo in oggetto, in appendice verrà pubblicato un raro racconto dal titolo "The Shadow of the Goat", con protagonista lo stesso Henri Bencolin che investiga in "Il Mostro del Plenilunio". Quest'ultimo è l'uomo di punta della polizia parigina, viene spesso coinvolto in indagini su crimini insoliti e spettacolari e può essere considerato il prototipo dei personaggi più famosi di Carr, Gideon Fell e Henry Merrivale: è alto, robusto, con un pizzetto a doppia punta e un paio di baffetti, che gli conferiscono un'aria Mefistofelica e un carattere più sadico di quello dei suoi successori, ma anche la stessa intelligenza e astuzia. Bencolin è stato utilizzato per cinque volte come investigatore, tra il 1930 e il 1937, e in attesa della ripubblicazione del suo esordio ho deciso di leggere e recensire la sua seconda avventura, "L'Arte di Uccidere" (Classici del Giallo Mondadori n. 937, 2002). Si tratta di un classico caso impossibile che vede una sfida lanciata da un assassino alla polizia, in cui sono presenti una strada che non esiste, una forca nascosta in piena Londra, inseguimenti di auto che si guidano da sole e antiche leggende egizie; per non parlare della solita ristretta cerchia di sospetti e della presenza costante del brivido e di scenari notturni o nebbiosi, che incombono oppressivi su un vecchio club dalla fama sinistra. Tutti questi elementi vi sembrano esagerati e inconciliabili tra loro? Eppure, vi posso assicurare che anche stavolta Carr è riuscito a colpire nel segno, grazie a un'atmosfera suggestiva e caleidoscopica, che spiazza il lettore e lo avvince senza lasciargli scampo, e una soluzione imprevedibile ma del tutto sensata, in cui tutti i tasselli vanno al loro posto.

Fotografia di una Londra notturna negli
Anni '30, come può essere in "L'Arte
di Uccidere"
La storia si apre al Brimstone Club, un antico edificio di Londra che in passato è stato testimone di alcuni eventi spiacevoli, quali il duplice suicidio di una coppia di amanti e le innumerevoli scorribande licenziose del suo fondatore libertino. Nel freddo salone dell'enorme stabile, Henri Bencolin e il suo amico Jeff Marle (narratore del caso attuale e di quello precedente), assieme all'ex vicecommissario di Scotland Yard Sir John Landervorne, stanno ingannando il tempo prima di andare a teatro e, nel mentre, chiacchierano sul delitto e le forme che esso può assumere in base alla mentalità di chi lo perpetra; dopotutto, la giornata nebbiosa e l'aria deprimente e luttuosa che aleggia per i freddi corridoi e le stanze buie del Club sembrano proprio suggerire simili argomenti. A turno, ognuno di loro fa qualche osservazione su alcuni omicidi commessi sul continente; finché Bencolin non accenna a uno strano caso accaduto alcuni anni prima in Francia, dove un cadavere era stato rinvenuto completamente vestito da antico Faraone e il suo presunto assassino si era impiccato nella propria cella, prima di essersi proclamato innocente davanti alla corte. Marle e Sir John si mostrano molto interessati all'argomento, soprattutto l'ex vicecommissario: infatti, solo qualche sera prima, un suo amico (di nome Dallings) gli ha raccontato di aver visto l'ombra di Jack Ketch assicurare il cappio di un capestro lungo una strada di Londra. Landervorne si è ricordato di tali circostanze poiché il caso francese e ciò che è accaduto in Inghilterra recano alcune curiose somiglianze; tuttavia è propenso a considerare la faccenda del suo amico come il frutto di una mente impressionabile, tanto più che Dallings era ubriaco e l'appuntamento con una giovane signora lo aveva talmente scombussolato, da non riuscire più a capire dove si trovava.

A questo punto, però, è la volta di Bencolin di chiedere altre informazioni sulla strana apparizione: nella Londra del XX secolo non capita tutti i giorni di imbattersi in una forca, e il fatto che l'egiziano Nezam El Moulk, uno dei testimoni del caso francese, alloggi proprio al Brimstone Club solletica la sua curiosità e il suo senso del pericolo. Infatti, l'uomo di punta della polizia francese teme che possa verificarsi qualche evento spiacevole; e quando verrà rinvenuto un patibolo in miniatura proprio al Club, Bencolin capirà che qualcosa di sconvolgente si sta preparando a piombargli tra capo e collo. La successiva scomparsa impossibile di El Moulk, verificatasi nella sua auto in corsa e guidata da un autista cadavere, e il succedersi di altre strane circostanze (tra cui l'annuncio che il poveretto è stato impiccato proprio da Jack Ketch lungo Via della Rovina, una strada che nelle capitale non esiste) lo convincono di trovarsi di fronte a un caso del tutto fuori dal comune; tanto più che i testimoni e gli amici dell'egiziano (un segretario subdolo, una femme fatale sull'orlo di una crisi di nervi, un medico appassionato di delitti storici, un giovanotto coinvolto nel caso francese e un piccolo inserviente del Club) sembrano avere ben più di un movente per aver messo in atto un delitto del genere, ma sono privi delle qualità necessarie a portare a termine un piano tanto elaborato. A questo punto Bencolin decide di buttarsi nell'indagine, affiancato da Marle e Sir John; ma dovrà passare un bel po' di tempo prima che riesca a trovare il bandolo della matassa e a smascherare Jack Ketch, mentre altre persone muoiono sulla strada che porta alla Rovina e la salita verso la meta si fa sempre più pericolosa.

Copertina dell'edizione paperback di
"L'Arte di Uccidere"
"L'Arte di Uccidere" è stato il secondo libro che Carr ha scritto nel corso della sua lunga carriera, per cui mostra ancora un po' di inesperienza rispetto a quelli pubblicati in seguito, con protagonisti Fell e Merrivale. Intendiamoci: questo non vuol assolutamente significare che sia scadente oppure di molto inferiore agli standard cui il Maestro ci ha abituato; solo, gli elementi stilistici e narrativi che avrebbero fatto il successo dell'autore non sono del tutto sviluppati, a partire dalla resa dell'atmosfera, la quale risente ancora delle storie che il giovane Carr aveva assimilato fin da quando era piccolo. In più di un'occasione, infatti, egli ha confessato di essersi appassionato alla lettura grazie alle lunghe ore trascorse nella biblioteca del padre, avvocato penalista e membro del Congresso in America, a divorare i romanzi di cappa e spada scritti da Dumas, insieme alle avventure narrate da Stevenson e (ovviamente) da Poe; per poi passare ad Arthur Conan Doyle e soprattutto a G.K. Chesterton, il quale divenne una vera e propria ossessione per lui. Non c'è da stupirsi, quindi, se leggendo la serie di Bencolin ci sembra di ritrovare lo stesso clima denso e gravoso in cui agirono i Tre Moschettieri, Padre Brown o Sherlock Holmes, mescolato al gusto per il grottesco e l'horror che fu la caratteristica principale delle storie del Maestro del Terrore americano. Si trattò di una semplice, diretta conseguenza dell'influenza che i classici ebbero sulla sua fantasia. Se in seguito Carr riuscirà ad alleggerire i toni usati per la descrizione delle atmosfere, in queste prime prove narrative sfrutta spesso situazioni in cui la presenza della notte oscura e minacciosa viene accostata in modo addirittura eccessivo al soprannaturale, come nei libri di Fantômas, dove si percepisce quasi a livello fisico la pesantezza del pericolo che incombe sui personaggi, schiacciati dal lusso di ambienti decadenti e da quell'aura marcescente e orrorifica che ha caratterizzato le vicende di sangue e a lume di candela del romanzo ottocentesco, insieme ai suoi amori tormentati. La Londra nebbiosa, ad esempio, la fa da padrone in "L'Arte di Uccidere": è insidiosamente misteriosa, da brivido, genera mostri e turba il lettore con la sua parvenza da ossessivo sogno ad occhi aperti; lungo le sue strade, il dottor Pilgrim e il giovane Dallings hanno scorto l'ombra di una forca, i fantasmi bussano alle porte delle case, le persone vengono inghiottite nel nulla e vie invisibili possono apparire e scomparire con immensa naturalezza. Anche il Brimstone Club, paragonabile a un personaggio in carne ed ossa, appare come un relitto del passato, un luogo in cui il Male ha alloggiato e dove è ancora possibile esercitare attività tragiche come l'omicidio; edificio angoscioso e tetro come un castello medievale o le segrete della Bastiglia in cui Filippo Marchiali, gemello di Luigi XIV, è stato rinchiuso in "Il Visconte di Bragelonne" (vedasi p. 19-22). In queste occasioni, Carr accentua molto il carattere drammatico della narrazione, indugiando su stanze gelide come la Morte e tenebre pervase dall'orrore e da una tensione palpabile (elementi che, in seguito, verranno perfezionati nelle descrizioni di "Le Tre Bare" e "L'Automa"); e lo fa grazie al suo modo inconfondibile di dipingere le situazioni come se fossero stati d'animo, che non ci lascia mai indifferenti.

Infatti, se in primo luogo sono le ambientazioni a costituire il punto forte (e debole allo stesso tempo) di questi primi gialli, non bisogna dimenticare anche lo stile solenne con cui le tratteggia. Una volta Dorothy L. Sayers disse: "John Dickson Carr ci trasporta dal piccolo, artificiale mondo del comune intreccio poliziesco nell'oscurità minacciosa che sta al di fuoriÈ in grado di creare un'atmosfera con un aggettivo e di rendere un'immagine da una cancellata di ferro, un tavolo impolverato, una lampada a gas che spunta dalla nebbia. Può metterci in apprensione con un'illusione o deliziarci con un'allegra assurdità. Ogni frase ci dà un brivido di convinto piacere"; ebbene, vi sfido ad essere in disaccordo con lei, soprattutto dopo aver letto "L'Arte di Uccidere". Prendendo spunto ancora una volta dai romanzi avventurosi del secolo precedente, infatti, egli unisce una narrazione animata e pittoresca, che colloca la sua opera tra le più vive e leggibili di tutta la crime story, a un tono sarcastico, mellifluo e teatrale, molto fosco ma pur sempre eccellente, che non fallisce nell'ornare i suoi incubi fittizi. Questa unione di tecnica a tinte forti e atmosfera eccessiva restituisce l'idea che Carr, come egli stesso sottolineò, intendesse scrivere crime novels particolari, ispirati alle opere di cappa e spada che aveva letto anni addietro ma in cui non intendeva rinunciare all'elemento della detection, i quali costituiscono il prototipo dei suoi libri successivi, in cui questi aspetti sono pur sempre presenti, anche se meno invasivi, e come tali andrebbero considerati. Si tratta di romanzi imperfetti che, come ho sottolineato, dimostrano senza dubbio l'inesperienza e le influenze letterarie di Carr, pur restando sempre affascinanti. Personalmente, da fan del mistero con la giusta dose di suspense (come avrete capito dalla recensione di "Svanita nel Nulla"), ho apprezzato molto il drammatico risultato finale, anche se mi rendo conto di come esso possa apparire forzato e sovrabbondante: alcuni, infatti, accusano la serie di Bencolin di essere fin troppo teatrale ed esagerata nei toni, e di indugiare tanto in essi da impedire al lettore di godersi la storia e di prendere fiato, insieme al fatto che l'enigma non è stato curato alla perfezione. L'identità di Jack Ketch, sostengono, è facilmente individuabile, e i "problemi impossibili" dell'apparizione misteriosa degli oggetti nell'appartamento di El Moulk e dell'auto che si guida da sola non vengono considerati come tali, col risultato di intaccare l'aura di magia caratteristica delle storie in cui una spiegazione razionale non sembra esistere. Ebbene, non voglio negare che i difetti ci siano; tuttavia, sono convinto che si tratti di piccolezze, le quali si possono perdonare al Carr alle prime armi. Dopotutto, una certa solennità ben si addice alla serie con Bencolin, dove la vendetta risulta spesso il movente dell'assassino e l'onore gioca un ruolo di primo piano; mentre l'enigma, pur di livello inferiore rispetto a quello di altri capolavori, dimostra un'inventiva indiscutibile e buone intenzioni, oltre al fatto che, pur in modo abbozzato, mette già in luce l'intenzione dell'autore di voler creare giochi di prestigio "alla Maskelyne", in cui conta più il metodo della psicologia.

John Dickson Carr, nato nel 1906 e morto nel 1977
L'ingegnosità delle trame e il fascino per "l'impossibile che diventa realtà", oltre che per i trucchi di prestigiatori come quello sopra citato, sono sempre state caratteristiche innate di John Dickson Carr (o Carter Dickson, per usare lo pseudonimo con cui firmò i romanzi con Henry Merrivale), alla pari del concetto di voler "giocare una partita" col suo pubblico ad armi pari. La pretesa del rispetto del fair-play e la scommessa che poneva in ognuno dei suoi numerosi libri (come quella a p. 44 di "L'Arte di Uccidere", tra Bencolin-Carr e Landervorne-lettore) farebbero pensare che egli fosse nato in Inghilterra, la patria del giallo deduttivo; invece, la città che gli diede i natali fu l'americana Uniontown, in Pennsylvania. Laggiù, mentre suo padre aveva felicemente intrapreso la carriera di avvocato e pregustava una futura associazione col figlio, Carr iniziò invece il lungo percorso che lo avrebbe portato a diventare uno dei giallisti più famosi di tutti i tempi: dapprima, dimostrando una memoria formidabile con la recitazione di monologhi tratti da "Amleto", pagine di D'Artagnan, Sherlock Holmes e "Il Mago di Oz"; e poi attraverso la scrittura di racconti, pubblicati sul giornale scolastico dello Haverford College, dove esordì la figura del giudice istruttore Henri Bencolin di Parigi. Nel 1928, lo scarso rendimento scolastico spinse i suoi genitori a compiere la scelta estrema di allontanarlo dagli Stati Uniti in favore della Francia, dove avrebbe dovuto studiare alla Sorbonne. Il posto, tuttavia, non si addiceva a un giovane dalle idee conservatorie come lui e la vita da bohémien trovò una ferma opposizione da parte sua; eppure, l'ambiente si mostrò favorevole per dare il tocco finale al romanzo che stava scrivendo. Fu così che nacque "Il Mostro del Plenilunio", la versione ampliata e rivista di un lungo racconto che Carr aveva scritto ai tempi della scuola americana, "Grand Guignol", proprio con Bencolin quale personaggio principale. Il modesto successo che arrise al suo protagonista, rispetto ai successivi Fell e Merrivale, per qualche tempo costrinse Carr a tornare in America dai genitori; finché, nel 1930, durante una crociera, incontrò Clarice Cleaves, una ragazza di Bristol che poco dopo sarebbe diventata sua moglie. È curioso come proprio "Il Mostro del Plenilunio" sia stato il tramite attraverso cui Carr e Clarice iniziarono a scambiarsi le prime confidenze: in "The Golden Age of Murder", infatti, Martin Edwards ha spiegato che, in seguito al loro primo incontro nella sala del parrucchiere di bordo, i due futuri sposi trascorsero una serata a ballare e chiacchierare del più e del meno, finché Carr non accennò al fatto che aveva scritto una detective novel e chiese a Clarice se le avrebbe fatto piacere leggerla. In realtà, la ragazza non nutriva un particolare interesse in indagini e assassini fittizi; eppure, non ebbe cuore di deludere le evidenti aspettative del suo nuovo amico ed accettò di dargli un responso su quel libro. In quel modo, tra i due scoccò la scintilla ed entro un paio d'anni si trasferirono definitivamente in Inghilterra, dove la novella signora Carr intendeva far nascere le sue figlie. Anche suo marito (che nel frattempo aveva deciso di abbandonare Bencolin in favore di altri due personaggi molto simili tra loro, il dottor Gideon Fell e l'avvocato Henry Merrivale) fu entusiasta della scelta: dopotutto, era la patria dei suoi idoli d'infanzia, Chesterton e Doyle (del quale in seguito fu co-autore della biografia ufficiale), e sembrava che laggiù fosse il posto ideale per scrivere gialli sullo stile tradizionale; senza contare il fatto che la Storia dell'Europa cui poteva attingere avrebbe fornito molto materiale per il tipo di libri che intendeva scrivere.

Un'altra caratteristica dell'opera di Carr, infatti, è quella di affondare le proprie radici in miti e leggende molto antiche: ne sono un esempio le numerose citazioni che possiamo trovare all'interno di romanzi come "Il Terrore che Mormora", la cui trama ruota sul vampirismo, oppure dello stesso "L'Arte di Uccidere". Qui sono i culti segreti, le maledizioni e la religione degli antichi Egizi, assieme ai più recenti racconti sul boia di Londra, Jack Ketch, ad occupare la trama e a fornire la base per i misteri del libro, insieme ai riferimenti generali a streghe e folletti (da notare la citazione alla "Canzone di Tom O'Bedlam", dove viene menzionato un hungry goblin che tornerà nel titolo originale di "Il Mistero di Muriel", l'ultimo suo romanzo pubblicato nel 1972, pochi anni prima della morte). Si tratta di argomenti che, proprio grazie alla loro aura di velato soprannaturale, si prestano ad essere interpretati e sfruttati in modo da fornire al lettore una base relativamente reale per un delitto immaginario, e che permisero a Carr di dare sfogo a un'insaziabile sete di ricerca storica. Questa passione emerge dalla lettura di alcuni romanzi giallo-storici, come "La Sposa di Newgate", "Il Diavolo Vestito di Velluto" e "La Corte delle Streghe" (uno dei suoi capolavori) e viene spesso incarnata dai personaggi dei suoi gialli, come ad esempio il dottor Pilgrim in "L'Arte di Uccidere" (vedasi p. 139 e p. 145). Tuttavia, fu il Delitto l'argomento a cui Carr si sentì più legato; tanto che i suoi detectives soffrirono di una vera e propria ossessione nei confronti della Storia del Crimine: Bencolin, Merrivale e Fell, infatti, di volta in volta si fecero portavoce dei pensieri dell'autore, attraverso semplici citazioni (pure di casi reali, come avviene in "Occhiali Neri") ma anche con l'utilizzo di piccole "conferenze" sull'omicidio e la sua applicazione nei romanzi del mistero. Senza contare il breve scambio di battute sulla mentalità dell'assassino alle pagine 10-12, in "L'Arte di Uccidere" se ne può leggere una prova nel dialogo che Marle e Bencolin mettono in scena alle pagine 91-95: in questa occasione, i due discutono sui meriti della crime story e sui metodi utilizzati dagli autori nel trattare l'enigma; e se Marle, da buon Watson di turno, sembra propenso a considerare la realtà delle cose più eccitante della finzione, il suo compagno si dichiara fermamente contrario. È la fantasia a dare forma al mondo reale, sostiene Bencolin, per cui lo scrittore non deve sforzarsi di tradurre con troppo rigore la realtà che lo circonda in materiale per i suoi libri, ma limitarsi a narrare una storia che, per quanto possa apparire a volte improbabile e con personaggi simili ai burattini del teatro citati a p. 143, procuri divertimento al lettore.

Un assunto che dimostra al meglio quale fosse la concezione di Carr riguardo il romanzo giallo: costruire vicende credibili in cui, tuttavia, non mancasse quel pizzico di irrealtà che li contraddistingue da mere cronache. Non per caso egli fu il primo americano ad essere ammesso nel Detection Club, grazie al sostegno di Dorothy L. Sayers e Anthony Berkeley; dopotutto, sono evidenti la comunione di interessi per il true crime e intenti a cui egli stesso e gli autori della Golden Age miravano. Nei suoi gialli, infatti, si possono ritrovare diversi elementi che rimandano alla crime story di quel periodo: a parte l'ambientazione, i personaggi vedono un evolvere della propria situazione, di libro in libro, e possiedono caratteristiche particolari che li contraddistinguono dalla massa (gli investigatori sono bruschi e imponenti, onniscienti e sanguigni; gli antagonisti subdoli e intelligentissimi; i comprimari come El Moulk sono interessati ad argomenti insoliti o provengono da luoghi esotici, da cui traggono la loro mentalità particolare; spesso sono presenti eroine femminili in pericolo) e gli enigmi sono costruiti con una tecnica che li rende spettacolari, fuori dal comune; un po' alla maniera di quelli di Ellery Queen, come ha sottolineato Howard Haycraft. Si tratta di favole soprannaturali dalle soluzioni apparentemente incredibili, a volte tanto complesse da non permettere al lettore di riuscire a risolvere il mistero prima che l'autore ce lo sveli, in cui il finale lascia spiazzati e sorpresi; come in questo "L'Arte di Uccidere", dove il lato satanico di Bencolin emerge in tutta la sua forza e il pubblico viene lasciato col fiato sospeso fino allo scioglimento del tutto logico del caso. Un'opera divertente e tutto sommato convincente, a mio parere, da leggere in una di quelle sere dove il buio avanza fuori dalle finestre e immaginiamo la brughiera immersa in un limbo temporale, e la nebbia preme contro i muri a nascondere le ombre.

Link all'edizione italiana su Amazon

venerdì 23 agosto 2019

6 - "Svanita nel Nulla" ("She Faded into Air", 1941) di Ethel Lina White

Copertina dell'edizione pubblicata nei
Classici del Giallo Mondadori n. 1422
Il notevole successo di vendite che, fin dalla loro comparsa tra le fila della crime story classica, hanno riscosso i romanzi delle women in jeopardy (o "donne in pericolo") è cosa ormai assodata. Come la loro forza magnetica nei confronti del pubblico: caratterizzati da scenari notturni e figure di infaticabili infermiere-segugi, e da ambigui individui a caccia di fanciulle indifese che si credevano protette da pericoli del genere, essi sono riusciti a costruirsi, a partire dai primi anni del Novecento, una fedele cerchia di affezionati lettori e lettrici; soprattutto nel luogo in cui sono nati, in America, grazie all'operato di scrittrici come Mary Roberts Rinehart e Mignon G. Eberhart, le quali hanno intrattenuto per molto tempo gli appassionati di suspense e dato vita a una vera e propria Scuola, la cosiddetta "HIBK School" che ruota attorno all'assioma "Se solo avessi saputo...". Invece, il fatto che questa tendenza a narrare le peripezie di intraprendenti e giovani signorine, pur sviluppatasi maggiormente dall'altra parte dell'Atlantico, si sia imposta in qualche modo anche in Inghilterra viene spesso trascurata; eppure, è un fatto che qualcosa di simile ai libri delle Regine del Brivido americane sia comparso anche qui, nella Vecchia Europa, e abbia sortito una certa popolarità non molto tempo dopo l'apparizione sul mercato di opere quali "La Stanza n. 18" o "Il Pipistrello"Grazie alla celebrità di cui aveva goduto il romanzo vittoriano nel corso dell'Ottocento, infatti, nei primi anni del secolo successivo si vide una sorta di riscoperta di quel tipo di letteratura in chiave "criminosa" da parte di alcune scrittrici di sesso femminile; e se certi tratti peculiari di romanzi come quelli di Jane Austen (quali lo spiccato gusto per il gotico e la presenza di figure femminili spesso centrali nelle vicende raccontate, in comune con i mysteries di Rinehart ed Eberhart) vennero riproposti tali e quali a come erano stati impiegati nel passato, è pur vero che ad essi fu affiancata una spiccata componente delittuosa, legata soprattutto agli stilemi del thriller.

Per le autrici in questione fu un modo di ripercorrere la strada che le loro colleghe d'oltreoceano avevano già tracciato, pur dando maggiore risalto a "signorine omicidi" come zitelle e giovani impiegate, che riscontrò una modesta popolarità e permise loro di affermarsi. Tra queste vanno sicuramente ricordate Gladys Mitchell e Patricia Wentworth; ma la prima a raggiungere il successo in questo campo fu la gallese Ethel Lina White la quale, oltre ad inserire nei suoi libri la marcata componente di suspense delle trame americane, si impegnò a mescolarla agli enigmi delle detective novels, dando così vita a gialli diversi da quelli della sua epoca, seppur aderenti alla tradizione. Tra le altre, "Svanita nel Nulla" (Classici del Giallo Mondadori n. 1422, 2019) è forse l'opera più rappresentativa di questa sua concezione della crime story (ancor più del riconosciuto capolavoro dell'autrice, "Qualcuno ti Osserva"), poiché vede la sparizione impossibile di una ragazza all'interno di un palazzo vittoriano, corredata di personaggi sospetti e ambigui e la costante presenza di un pericolo dietro l'angolo per la coppia di protagonisti; insomma, un sapiente mix tra il giallo della Golden Age e la corrente innovativa delle women in jeopardy.

La trama si snoda proprio dal momento in cui Evelyn, la figlia del magnate americano Raphael Cross, scende dalla limousine del padre di fronte a Pomerania House, un imponente caseggiato costituito da enormi saloni e imponenti scalinate in piena Londra. Si è recata laggiù in un nebbioso pomeriggio d'ottobre per ordinare un paio di guanti presso la famosa Madame Goya, un donnone bardato di scialli e con la fama di possedere doti di chiaroveggenza, e non immagina assolutamente che, entro qualche minuto, sarà destinata a scomparire nel nulla. Con tutta tranquillità saluta Pearce, il portiere, gli chiede un fiammifero per accendere una sigaretta e poi si allontana verso l'ingresso in direzione del padre e del proprietario dello stabile, il maggiore Pomeroy. Quando l'usciere torna al suo posto, scorge la ragazza e i due uomini salire le scale che portano al piano di sopra, dove ella farà il suo ingresso nelle stanze di Madame Goya. E se, secondo le testimonianze, Evelyn varcherà di sicuro la soglia del numero 16 per entrare, altrettanto non si potrà dire per uscire; poiché né suo padre né il maggiore, appostati proprio sul pianerottolo, né la chiaroveggente avranno la minima idea di dove ella possa essersi cacciata o essere stata imprigionata, dopo aver ordinato i guanti ed essersi diretta verso l'uscita dell'appartamento. Sembrerebbe proprio che la ragazza sia svanita dalla faccia della terra, che si sia dissolta nell'aria o si sia mescolata alla nebbia che preme contro le finestre di Pomerania House, e a nulla servirà l'intervento dell'investigatore privato Alan Foam o il letterale smantellamento dell'appartamento di Madame Goya.

Anche se vuol dare l'idea di considerare l'accaduto come una scappatella della figlia, Raphael Cross teme si tratti di un rapimento di stampo ricattatorio, simile a quello cui sono fortunatamente scampati alcuni suoi amici, i signori Stirling e la loro figlia Beatrice, residenti a Londra proprio nei giorni in cui Evelyn è scomparsa; quindi esclude il coinvolgimento della polizia e attende, nervoso e trepidante, notizie dai rapitori o da Evelyn, tra una chiacchierata confortante con gli Stirling, un velato flirt con la giovane Viola Green, affittuaria di Pomerania House, e un pranzo elegante. Tuttavia, quando Nell Gaynor, vecchia amica di Raphael, viene investita e uccisa pochi giorni dopo averlo incontrato nella capitale inglese, Foam inizia a sospettare che le cose non potranno far altro che peggiorare e decide di mettere in guardia Viola, la quale nel frattempo è diventata la dama di compagnia di Beatrice; e quando arriverà finalmente la richiesta di riscatto per Evelyn, i consigli frettolosi che saranno rivolti a Cross porteranno in modo inevitabile a che si verifichi la tragedia che tutti quanti hanno temuto fin dall'inizio. Ma non sarà finita lì, poiché dovrà passare ancora molto tempo prima di scoprire come un essere umano in carne ed ossa sia riuscito ad essere sottratto da un luogo chiuso e a ricomparire da tutt'altra parte.

Dipinto raffigurante "Londra nella Pioggia", come poteva
essere la città in "Svanita nel Nulla"
Come di consueto, con "Svanita nel Nulla" Ethel Lina White si impegna a costruire un thriller in cui non manchi, tuttavia, qualche elemento da giallo tradizionale. Infatti, come aveva già fatto in "È Scomparso un Caro Ometto" (dove un uomo finge la propria morte per truffare l'assicurazione) o in "The Elephant Never Forgets" (una sorta di spy story ambientata in Unione Sovietica), anche in questo romanzo unisce la suspense caratteristica dei libri delle women in jeopardy a un'indagine di tipo prettamente classico, con una scomparsa impossibile alla maniera di John Dickson Carr. Questa unione un po' forzata, legata al fatto che lei non seppe creare un investigatore fisso per i suoi gialli come Agatha Christie o lo stesso Carr, ha probabilmente portato al graduale oblio di cui l'opera della White è stata purtroppo protagonista; eppure al tempo stesso le ha permesso di variare e sperimentare, pur rimanendo ancorata ad alcuni aspetti comuni nelle sue trame. Così, mentre il brivido resta la sua cifra distintiva, di volta in volta si è cimentata nel "mistero-da-villaggio-di-campagna" (con "Fear Stalks the Village"), in quello universitario (con "The Third Eye") oppure in una variante del giallo con serial killer (con "Qualcuno ti Osserva"), senza rinunciare ad elementi gotici quali infermiere, scene notturne e luoghi solitari, i quali ne hanno fatto un'insolita discepola della scuola della Rinehart. È riuscita a creare una sorta di narrazione duplice, dove non solo i contenuti ma anche gli elementi strutturali di questi sottogeneri del giallo si equilibrano (quasi) alla perfezione gli uni con gli altri, come se il suo modo di raccontare (e a maggior ragione nel caso di "Svanita nel Nulla") si potesse paragonare a un castello di carte, in cui ogni aspetto possiede la caratteristica di essere complementare all'altro.

Per quanto riguarda le atmosfere e le ambientazioni, ad esempio, l'autrice accosta l'aura nebbiosa e tormentata che pervade la lettura dall'inizio alla fine all'indagine di Alan Foam, dove la logica e il rigore giocano un ruolo non secondario; oppure ci descrive gli enormi saloni di Pomerania House, gli appartamenti drappeggiati e illuminati da lampade e fa rimandi al mobilio vittoriano in modo da dare un grande senso di solennità alle vicende e conferire loro pure una certa aria di irrealtà, per poi inserire la demolizione delle stanze di Madame Goya, come se intendesse scacciare i fantasmi dai luoghi che ha descritto e mostrarceli per quello che sono davvero, secondo l'ottica razionale che l'investigatore rappresenta. Lo stile è molto simile a quello impiegato dalle Regine del Brivido, con numerosi momenti a effetto e finali di capitoli in cui il lettore si trova a trattenere il fiato; eppure esso risente della tradizione solida e caratteristica del romanzo vittoriano, dove il dettaglio e l'aderenza alla realtà erano molto spiccati. Anche l'enigma, pur ispirato da chiare influenze legate al thriller, viene delineato in modo da rappresentare come meglio si può la tradizione del giallo classico all'inglese, con tanto di indizi forniti al lettore. L'apparenza e la sostanza sono i concetti base su cui si fonda la crime story in generale; ciò che sembra e ciò che è, i tentativi di nascondere la propria natura e le maschere che le persone indossano appaiono familiari ai lettori di gialli. In "Svanita nel Nulla", questa duplicità non si applica solo ai temi e alle azioni dei personaggi, ma anche all'impianto formale e pare propendere leggermente verso ciò che è reale, con un'indagine orientata più del solito verso il mystery tradizionale: ci sono trucchi da prestigiatore, oggetti rinvenuti nei pressi della scena del crimine, allusioni e tracce nascosti nelle parole dei sospettati. Tuttavia, ancora una volta, entra in gioco l'influenza esercitata dal romanzo di suspense e questi elementi vengono talmente complicati dalla necessità di creare mistero sulla sparizione di Evelyn Cross, da ritrovarli come immersi nella nebbia, con i contorni sfocati e inutilmente esagerati per il lettore deciso a seguire un ragionamento del tutto logico per giungere alla soluzione. Ecco, forse è questa la critica più grande che si può fare a questo romanzo, e il motivo per cui esso può venire solo accostato a quelli di Carr. Anche quest'ultimo, infatti, fece la propria fortuna grazie all'unione tra pragmaticità e "fenomeni soprannaturali"; ma a differenza di Ethel Lina White, egli riuscì ad essere sempre credibile, chiaro e a infondere qualcosa in più nel suo modo di narrare e porre enigmatici quesiti.

Ethel Lina White, nata nel 1876 e
morta nel 1944
Pur avendo goduto di un certo successo mentre era in vita, al giorno d'oggi non sappiamo granché sul conto di Ethel Lina White. Come ha osservato Mauro Boncompagni in un'introduzione a uno Speciale del Giallo Mondadori, su di lei esistono solo alcune menzioni sparse qua e là, citazioni stringate e un saggio molto breve in "20th Century Crime and Mystery Writers" (poi tolto dalle edizioni successive a quella del 1980). Per qualche tempo, addirittura, si è stati indecisi sulla sua vera data di nascita, la quale venne poi stabilita dal critico Jack Adrian all'anno 1876. Non stupisce, quindi, che tanti particolari sulla sua esistenza siano rimasti avvolti dal mistero. Di certo, White nacque ad Abergavenny, una cittadina antichissima del Galles meridionale, figlia di un inventore e della sua seconda moglie; visse prima in una casa a Frogmore Street (dove in seguito venne posta un targa commemorativa) e in seguito a Londra, e lavorò in città per qualche tempo al Ministero delle Pensioni; impiego che lasciò solo negli anni Venti, per dedicarsi completamente alla scrittura fino alla morte, avvenuta nel 1944. L'unico altro particolare sicuro sulla vita di Ethel Lina White, oltre ai romanzi di genere giallo e non che scrisse, è dato dal suo testamento: redatto in modo da lasciare alla sorella nubile (unica parente di cui si abbia conoscenza) tutto quanto possedeva, esso specificava una condizione davvero insolita affinché ella potesse acquisire i suoi averi; ovvero, che chiamasse un medico e gli ordinasse di trafiggere con un punteruolo il cuore della sua salma, per accertarsi che non ci fossero più tracce di vitalità. Una circostanza un po' macabra e agghiacciante, simile a quelle descritte nei suoi libri i quali, come abbiamo visto, pur forniti di elementi da detective novel si possono iscrivere al genere suspense e delle women in jeopardy. Da essi possiamo ricavare altre informazioni sulla sua personalità; soprattutto se analizziamo i personaggi femminili, che risultano essere sempre molto ben sviluppati. Anche se in "Svanita nel Nulla" non c'è una vera e propria protagonista come, ad esempio, avviene in "Qualcuno ti Osserva" (prima la vicenda è concentrata su Evelyn, poi si sposta su Viola e l'impatto positivo che ha il suo rapporto con Beatrice), le ragazze e le donne sono spesso raffigurate come energiche, pur in costante pericolo (ancora la duplicità cui accennavo sopra); sono persone che si impegnano per guadagnarsi da vivere, che si oppongono agli ostacoli che incontrano e agli individui che tentano di metterle in difficoltà facendo affidamento sulle proprie risorse, quali la maestra di "The Third Eye", la ragazza alla pari di "Qualcuno ti Osserva", la giornalista di "Delitto al Museo delle Cere", la governante di "La Signora Scompare". La stessa White probabilmente dovette far fronte alla necessità di sopravvivere con le sue sole forze: il censimento inglese del 1921 mostrava come le donne fossero un milione e tre quarti più degli uomini dopo la Grande Guerra, e questo fatto impediva loro di pensare a un futuro fatto di sicurezza finanziaria e matrimonio; quindi esse erano costrette a diventare infermiere o segretarie pur di sopravvivere. Ecco, anche Viola Green (come la stessa Ethel Lina) si trovò in una situazione simile, costretta a svolgere un'occupazione tediosa o precaria (vedasi a proposito pp. 41-42 e 51-53, ma anche p. 70 e 104), a cui andavano aggiunti gli effetti nefasti della Depressione e, a volte, il dovere di sostenere congiunti di ogni tipo.

Questa simpatia che White nutrì verso i suoi personaggi femminili la rese una scrittrice apprezzata e avanti sui tempi, tanto più che così si dimostrava molto tollerante verso i costumi dell'epoca, i quali vedevano la figura della donna ancora come marginale all'interno della società e la figura dell'investigatore come un essere umano privo di particolari emozioni. Lo stesso Alan Foam, infatti, è un prodotto originale all'interno della narrativa di genere: vuole apparire come un duro, uno di quei detective da hard-boiled che hanno visto le brutture del mondo e sono ormai disincantati nei confronti di un futuro roseo; eppure, sotto sotto, è un essere umano capace ancora di provare dei sentimenti, di guardare alla vita con un barlume di speranza e, soprattutto, di amare. Lui e Viola sono la vera coppia protagonista di "Svanita nel Nulla"; giovani, innamorati, decisi a trovare il proprio posto nel mondo e a raggiungere la felicità, assomigliano un po' a Tommy e Tuppence di Agatha Christie (come ha sottolineato Mike Grost in The Rinehart School), e lo sviluppo della loro relazione risulta tra gli elementi più importanti di tutto il romanzo, insieme al taglio cinematografico che Ethel Lina White seppe dare ad ognuno dei suoi libri. Non a caso, da "La Signora Scompare" e "Qualcuno ti Osserva" sono stati realizzati due film di successo, diretti rispettivamente che da Alfred Hitchcock (con titolo omonimo) e da Robert Siodmak (col titolo "La Scala a Chiocciola"); mentre dal suo "La Casa dell'Oscurità" fu scritta una co-sceneggiatura da Raymond Chandler e dal racconto "An Unlocked Window" furono tratte le basi per uno dei più memorabili episodi della serie "L'Ora di Hitchcock". Proprio quest'ultimo, grazie alla presenza di due infermiere, una finestra che non viene chiusa per la notte e una gran dose di brivido, può essere considerato come un tipico esempio della concezione di crime story che aveva questa insolita scrittrice, per la quale personalmente nutro una grande ammirazione. Christine Poulson ha osservato che "se c'è qualcosa che Ethel Lina White conosceva, quello è la suspense"; io non posso essere che d'accordo con le sue parole, e sono convinto che la sua decisione di mettere insieme il tradizionale giallo all'inglese con la corrente delle women in jeopardy le abbia assicurato un posto di tutto rispetto all'interno della narrativa di genere.

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venerdì 16 agosto 2019

5 - "Chi ha Ucciso Charmian Karslake?" ("Who Killed Charmian Karslake?", 1929) di Annie Haynes

Copertina dell'edizione pubblicata dalle
Edizioni Le Assassine
Come sa qualunque appassionato, la crime story della Golden Age è un genere letterario che ha saputo affrontare argomenti o temi scomodi per la propria epoca, mettendo in dubbio l'identità della società e delle persone che la costituivano. È riuscita a rivoluzionare se stessa ispirandosi al mondo circostante, plasmandosi man mano che avvenivano cambiamenti di carattere storico e politico, e ci ha consegnato una serie di romanzi innovativi, dove la visione dell'individuo e la concezione che uno ha su di esso può venire capovolta all'improvviso. Tuttavia, bisogna pure ammettere che una fetta dell'enorme gruppo a cui appartengono i libri di questo tipo reca ancora un'impronta molto classica, dove prevalgono gli stereotipi e le convenzioni di un'epoca ormai passata, l'aristocrazia gioca un ruolo dominante sul popolo borghese e proletario, e la "scalata in società" viene vista come un'azione spregiudicata e che intraprendono solo gli/le arrivisti/eÈ il caso di "Chi ha Ucciso Charmian Karslake?" di Annie Haynes (Edizioni Le Assassine, 2018), pubblicato per la prima volta nel 1929, dove l'indagine ruota attorno a una ricca famiglia che può essere definita "snob" e la figura della vittima è impersonata da un'attrice americana, esempio tipico di ragazza "che si è fatta da sé" e che ha intrapreso un complesso percorso professionale al fine di raggiungere, in quanto ad importanza e fama, uomini e donne che hanno avuto la fortuna di nascere in famiglie antiche. Storie di questo genere sono decisamente tradizionali, non brillano per una spiccata originalità di trama e, spesso, non sono riuscite a resistere alla prova del tempo come è avvenuto per altri gialli della stessa epoca. Attenzione, però: una tale descrizione non vuole sottintendere che le vicende raccontate in questi casi siano insipide, prevedibili e sciocche. Classico non è sinonimo di scandente, e per capirlo basta leggere questo libro; anche se non ci troviamo di fronte a un capolavoro, infatti, trovo che questo sia uno di quelli che si leggono sempre volentieri, dove traspare la vera anima della detective novel del periodo tra le due guerre, con vicende che intrigano senza calcare troppo la mano sull'efferatezza del delitto e che avevano il fine di far trascorrere al lettore qualche ora di spensieratezza e divertimento.

Immagine della casa in cui Caroline Luard
venne assassinata, simile a Hepton Abbey
Fin da subito entriamo nel vivo del caso: è la mattina seguente alla grande festa che la famiglia Penn-Moreton, domiciliata a Hepton Abbey nel villaggio omonimo, ha dato in onore del ritorno dalla luna di miele del giovane fratello del padrone di casa, Dicky, e della sua fresca sposa, Sadie. Nella serata appena trascorsa gli invitati hanno ballato e si sono divertiti; complice la presenza straordinaria della famosa Charmian Karslake, una delle attrici più in voga dall'altra parte dell'Oceano e in continua ascesa nella Vecchia Europa, la quale ha destato grande scalpore partecipando per la prima volta a un evento pubblico durante il suo soggiorno in Inghilterra. Tutti sono rimasti affascinati della sua gaiezza, nonché dal suo bell'aspetto, e adesso sono in attesa che lei faccia il suo ingresso trionfale nella sala della colazione. Peccato che ciò non si verificherà mai. Infatti, mentre gli ospiti e i residenti di Hepton Abbey sono riuniti, il maggiordomo Brook annuncia che mademoiselle Celeste è allarmata dal fatto che la sua padrona non risponda ai suoi richiami e abbia chiuso a chiave la porta della camera che occupa; in fretta Penn-Moreton, il fratello Dicky e l'amico Larpent si precipitano al piano di sopra e, con grande rammarico, una volta sfondato l'uscio trovano la povera Charmian che giace priva di vita sul letto disfatto, con una ferita da arma da fuoco nel petto. Tutto farebbe pensare a un suicidio, nonostante l'aria allegra che la ragazza aveva esibito agli occhi degli invitati alla festa, se non fosse che dalla scena del delitto manca lo zaffiro di inestimabile valore della defunta, il quale pare porti sfortuna a chiunque lo possieda.

Dov'è finito, e come mai nessuno ha visto o sentito alcunché durante tutta la notte? L'indagine sulla morte dell'attrice viene affidata all'ispettore Stoddart il quale, affiancato dall'assistente Harbord, inizia a sondare il terreno a Hepton e all'Abbazia. Le reticenti testimonianze dei Penn-Moreton, dei domestici, di Larpent e della sua fidanzata, la ricca Paula Galbraith, oltre a celare torbidi segreti, lasciano intuire ai poliziotti che Charmian Karslake conoscesse i dintorni e, quindi, che in passato avesse vissuto a Hepton; tuttavia è molto difficile trovare qualcuno che si ricordi dell'attrice, tanto più che sembra siano passati molti anni dall'ultima volta in cui lei ha messo piede in Inghilterra. Il movente si nasconde nel passato, come in tanti esempi di crime novel classica? Toccherà viaggiare in lungo e in largo, dentro e fuori Londra, tra ambienti lussuosi e vicoli sporchi, in teatri e studi medici, prima che Stoddart e Harbord riescano a trovare il bandolo della matassa e a risolvere il caso; senza contare che l'assassino sta correndo pericoli sempre più rischiosi, tanto da indurlo ad aggredire con brutalità un altro dei sospettati pur di impossessarsi di un indizio di vitale importanza.

Articolo di giornale sull'omicidio della
moglie del dottor Crippen
Come dicevo, quella raccontata in questo libro è una vicenda classica in tutto e per tutto; un esempio talmente tradizionale del "delitto-nella-casa-di-campagna" che potrebbe sembrare fin troppo standard. Tra le altre cose, infatti, ciò che risalta leggendo "Chi ha Ucciso Charmian Karslake?", è la netta presenza di una stratificazione nella società, con tanto di nobili contrapposti al popolo del villaggio di Hepton. Laggiù, i Penn-Moreton vengono ripetutamente considerati alla stregua della famiglia reale ("Il re e la regina erano ovviamente un gradino sopra di loro, ma non li si incontrava tra gli abitanti di Hepton, per cui Sir Arthur e Lady Penn-Moreton potevano bastare"), in atteggiamento riservato e quasi schizzinoso nei confronti del resto delle persone dei dintorni, tanto da lanciare monetine ai poveri, mentre passano con la barca sul fiume. Non mancano, inoltre, altri riferimenti a stereotipi in voga, come la presenza di una maledizione legata a una pietra preziosa (simile a quella contenuta nel meraviglioso "La Pietra di Luna" di Wilkie Collins) o le descrizioni dei personaggi: Lady Penn-Moreton, ad esempio, risulta una figura algida e candida, la quale viene coinvolta nel caso quasi per sbaglio, nel momento in cui serve la sua testimonianza, a cui viene risparmiato il momento dell'arresto del colpevole e che viene rappresentata come una donna timida e molto lontana da eventi prosaici quali l'indagine dei poliziotti e l'assassinio. Sadie Juggs, la moglie di Dicky, viene descritta come "una tipica americana"; per non parlare di suo padre, un vero squalo della finanza con un caratteraccio esplosivo. Lo stesso Dicky, secondogenito e "cadetto" della casata, appare come uno scavezzacollo che deve mettere la testa a posto, quasi insolente con la polizia. Ma non solo i nobili vengono ritratti in questo modo convenzionale: oltre al classico tipo di investigatore rappresentato da Stoddart, la signora Sparrow è il tipico esempio di zitella, devota alle associazioni per signore e alla conservazione della chiesa del vicinato, mentre Mary Gwender appare come una novella "Strega di Hansel e Gretel", con tanto di volto rugoso e dedita alla vendita di caramelle, e il maggiordomo Brook incarna l'ideale "alla Jeeves" del domestico perfettamente adatto ai salotti signorili. Tutte queste cose, in sintesi, possono sembrare un po' superate al lettore moderno; e se aggiungiamo anche il fatto che l'enigma, pur ben fornito di indizi, risulta molto nebuloso nella sua esposizione (complice il metodo incostante di Stoddart) e con un finale che suggerisce una determinata fretta nel voler concludere la storia, non possiamo che constatare una certa superficialità nella costruzione di questo romanzo, rispetto ad altre opere dello stesso periodo (per capirci, "Dalle Nove alle Dieci" di Agatha Christie è stato pubblicato tre anni prima e, in quanto a narrazione ed enigma ci sono delle notevoli differenze).

Eppure, se preso come racconto fine a se stesso, come un gradevole intermezzo o "un buon esercizio mentale per il lettore che ha appena ricevuto una cartella dal Fisco" (London Mercury), "Chi ha Ucciso Charmian Karslake?" non è affatto così male come si può pensare; e il motivo di ciò si può riscontrare proprio nel suo essere "classico" in maniera tanto spiccata. La crime story classica incarnata dai membri del Detection Club si era assunta lo scopo di rappresentare la vita reale, con tutte le sue sfaccettature positive e negative; ebbene, in questo caso l'intento di Annie Haynes appare più quello di voler raccontare una storia dichiaratamente fittizia per il semplice gusto di farlo. E non vedo il motivo per cui bisognerebbe colpevolizzarla. Ci mette dentro descrizioni di ambienti e di luoghi ben curate, spesso campagnole o di scene urbane appartenenti al proletariato; tratteggia un'enigma giocato su una storia legata al passato, uno dei grandi classici del giallo anglosassone, con grazia e sufficiente metodo da poter essere apprezzato; usa uno stile che, pur non sempre chiaro ai fini di una complessa descrizione dei personaggi e della risoluzione dell'indagine, si adatta alla vicenda e permette di tratteggiare il colore locale a Londra e a Hepton, così che noi possiamo immaginare a grandi linee le persone sulla scena come se fossero quelle che incontriamo per strada ogni giorno. Tutti questi elementi, insomma, rendono bene l'idea iniziale che la detective novel aveva assunto in Inghilterra: quella, cioè, di distrarre le persone dai tristi pensieri legati alla guerra, alla disoccupazione, alla fame e alla crisi generale che si era abbattuta sul Paese in quel momento. Certo; ogni tanto viene fatto cenno a qualche evento reale legato al crimine, come ai casi del dottor Crippen (p. 86) o quello di Edith Thompson (p. 110), ma sono convinto si tratti più di argomenti cui l'autrice era interessata e che lei abbia voluto inserire per dare un ulteriore sostegno all'indagine sulla morte di Charmian Karslake.

Copertina dell'edizione inglese del
romanzo, pubblicata dalla Dean Street
Press
Questo interessamento al crimine reale è una delle poche cose che si conoscono su Annie Haynes, nata nel 1865 ad Ashby-de-la-Zouch, nel Leicestershire, e divenuta scrittrice nel 1923, dopo il trasferimento nella capitale nel 1908. La psicologia degli assassini e delle loro vittime, infatti, la spronarono ad occuparsi di crime stories non solo attraverso i suoi libri (dodici in tutto) ma anche in modo più attivo, tanto da spingerla ad avventurarsi con la sua bicicletta in scene del delitto lontane dalla sua Londra, quali la casa nel Kent in cui venne assassinata Caroline Luard o la cantina in cui Crippen seppellì i resti della moglie. Tra le altre particolarità che avvolgono la figura indistinta di quest'autrice spicca il fatto che a tutt'oggi non esista una fotografia che la ritrae, e che ella fu tre le prime signorine ad aderire ai circoli femministi che all'inizio del Novecento stavano nascendo in tutta Inghilterra. Figlia di un negoziante di ferramenta, Annie Haynes morì prematuramente nel 1929; ma non prima di essere stata paragonata da The Illustrated London News, proprio nell'anno in cui esordì nella narrativa gialla, ad altre illustri colleghe quali Isabel Ostrander, Carolyn Wells e Agatha Christie per spirito e ingegnosità. Già nel corso degli anni Trenta, quando "Chi ha Ucciso Charmian Karslake?" e "The Crystal Beads Murder" (quest'ultimo completato da un collega scrittore rimasto sconosciuto) vennero pubblicati postumi, i suoi libri non erano più ristampati, e ben presto si perse il loro ricordo. Fortunatamente Dean Street Press (in Inghilterra) e Le Assassine (in Italia) ci hanno permesso di riscoprirla ancora una volta; mi auguro che anche gli altri suoi titoli verranno tradotti in futuro, poiché se si tratta di letture godibili come è stata questa, allora si può proprio dire che ne vale la pena.

P.S. Un piccolo appunto all'edizione italiana: questo romanzo è stato presentato nella trama come "un tipico enigma della stanza chiusa". In realtà, credo si tratti più di un semplice "delitto-della-casa-di-campagna". Il mistero della camera chiusa a chiave di Charmian Karslake occupa uno spazio decisamente più ridotto rispetto all'omicidio vero e proprio, come dimostra la sua soluzione.

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venerdì 9 agosto 2019

4 - "Com'è Morto il Baronetto?" ("The Crowning Murder", 1938) di H.H. Stanners

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore
Se è ampiamente accertato che esistono numerosi capolavori conosciuti e celebrati dagli appassionati di crime story, quali ad esempio "Il Segreto delle Campane" di Dorothy L. Sayers e "Dalle Nove alle Dieci" di Agatha Christie, è altrettanto vero che molti meritevoli romanzi gialli della Golden Age sono stati invece dimenticati e trascurati. Una circostanza che, per quanto spiacevole, dopotutto si può considerare naturale: i libri di questo genere sono talmente numerosi che, se qualcuno sfugge alla nostra attenzione, non c'è poi da stupirsene. "Com'è Morto il Baronetto?" di H.H. Stanners (Polillo Editore, 2019), appartiene a pieno titolo a questa categoria: infatti, dopo essere stato pubblicato per la prima volta nel 1938, esso è sparito dalle scene editoriali di tutto il mondo (Inghilterra compresa) fino alla sua recente ristampa avvenuta in Italia. Chissà qual è stato il motivo di questo passato oblio. Forse è stato dato alle stampe nel momento sbagliato o impiegando cliché inflazionati per il suo tempo, oppure il suo autore non è riuscito a raggiungere la fama che desiderava e, complice la delusione, ha smesso di scrivere e farsi pubblicità; ipotesi, queste ultime, suffragate dalla biografia quasi inesistente di Stanners e dal fatto che questo libro tratti di un tipico caso di "delitto-della-casa-di-campagna", con un certo numero di sospetti, che varia dai parenti della vittima ai vicini di casa ad alcuni conoscenti del villaggio sito poco distante, la familiare figura dell'investigatore dilettante e indizi nascosti tra le righe. Tuttavia, se questi elementi di trama suggeriscono a prima vista una storia abbastanza ordinaria e simile a tante altre, in realtà ci troviamo davanti a un'indagine che, in quanto a contenuti, temi affrontati o appena toccati e stile scorrevole, possiede una marcia in più. Infatti, se da una parte l'enigma riesce ad intrattenere il lettore e a spingerlo a voler scoprire la sua soluzione il più in fretta possibile, dall'altro lo accompagna lungo le sue vicende attraverso digressioni interessanti e citazioni mai banali, descrizioni dettagliate dei luoghi e simpatici siparietti tra i personaggi coinvolti, producendo un risultato gradevole e leggero.

La trama prende avvio da un fatto realmente accaduto, ovvero l'incoronazione di Giorgio VI a Re d'Inghilterra nel 1937. In tutto il Paese sono in atto grandi festeggiamenti, in città e in campagna, nelle modeste case dei borghesi e nelle ville aristocratiche, poiché la gente desidera rendersi partecipe a un evento epocale come questo; eppure, c'è anche qualcuno che mostra una certa indifferenza nei confronti di tale celebrazione. Lo scrittore Derek Furniss e il suo amico Charles Harding, un professore americano di diritto internazionale in trasferta nella Vecchia Europa, infatti, non appaiono minimamente toccati dall'eccitazione che pervade i loro vicini e gli abitanti del villaggio di Bradford, e decidono di restare al White Cottage di Furniss per trascorrere la serata giocando a scacchi. Nel villino e nelle abitazioni nelle vicinanze non si trova più nessuno, neppure i domestici a fare la guardia contro i ladri; solo l'eccentrico finanziere Sir Jabez Bellamy ha disdetto in tutta fretta la propria partecipazione all'allegra baldoria adducendo la scusa di star aspettando un'importante telefonata. Quindi, per Furniss e Harding si prospetta una notte di tranquillo divertimento; se non fosse che, mentre i due amici si stanno preparando a giocare una nuova partita, vengono disturbati da una chiamata proveniente proprio da Bellamy, il quale sollecita lo scrittore per avere un incontro a quattr'occhi. Il tono usato dal finanziere lascia supporre che abbia bevuto un goccetto di troppo, quindi Furniss rifiuta gentilmente la richiesta di Sir Jabez e lo dissuade dal suo proposito; tanto più che pare strano che egli intenda abbandonare l'apparecchio della sua casa, se davvero deve ricevere rilevanti notizie per telefono. Poco dopo l'interruzione viene dimenticata e, passata la mezzanotte, Harding viene riaccompagnato  presso i signori Derwent-Smith, i quali lo ospitano insieme a un nipote acquisito, Hugh Bryant. Il giovanotto rincasa da solo qualche minuto dopo il professore, con aria tetra, rifiutandosi di dare spiegazioni sulla serata trascorsa e lamentandosi del frivolo comportamento di sua cugina Brenda.

Una cosa, tuttavia, accenna con qualche riserva, e cioè di aver investito qualcosa lungo la strada che corre tra Reddington e l'incrocio di Englemere, ma di non essersi fermato a controllare cos'ha colpito. Harding, a questo punto, lo esorta a denunciare il fatto e a costituirsi alla polizia per affrontare le conseguenze del suo gesto sconsiderato, poiché è inevitabile che a breve tutta la faccenda diventerà di dominio pubblico; e la scoperta, al mattino dopo, che Sir Jabez non è rientrato dalla passeggiata serale cui aveva accennato nella telefonata a Furniss suscita l'apprensione della gente dei dintorni. È forse lui la vittima dell'incidente avvenuto a notte fonda? La successiva scoperta del cadavere del baronetto, nella cava dietro la sua villa, con un foro di proiettile alla tempia, suggerirebbe che si tratti di due casi del tutto separati, eppure non si può escludere alcuna possibilità: magari Hugh può aver solo tramortito il baronetto con la macchina e poi, credendolo morente, avergli sparato per porre fine alla sua agonia e averlo scaricato lontano dal luogo dell'incidente. In ogni caso, la morte di Bellamy solleva un putiferio e getta nel panico tutti i suoi conoscenti, i quali tentano di minimizzare il fattaccio, dapprima sostenendo che l'umore di Sir Jabez si era fatto tale da non poter escludere un suicidio e in seguito, quando si affaccerà l'ipotesi di un omicidio, affrettandosi a presentare un alibi per la sera dell'Incoronazione. Ognuno di loro, infatti, sembra aver avuto un buon motivo per togliere di mezzo lo scomodo baronetto, impiccione e sgradevole come pochi; eppure Harding, che si diverte ad investigare per conto proprio, non riesce ad inquadrare bene il caso. Innanzitutto, ci sono troppi indizi che non quadrano con le ipotesi avanzate dai poliziotti, sfumature dell'indagine che non si accordano del tutto con le spiegazioni fornite dagli esperti; ma sono soprattutto i legami stretti tra i principali sospettati a lasciare il professore sorpreso e confuso. Con l'aiuto di Furniss e delle proprie conoscenze, Harding si impegna a districare la complessa matassa di sospetti e bugie per arrivare alla verità, inaspettata ma logica come nelle migliori detective novels classiche.

"Incoronazione di Sua Maestà Giorgio VI e della Regina
Elisabetta", Frank O. Salisbury (1937)
"Com'è Morto il Baronetto?" è un tipico esempio di come un giallista riesca a mettere in mostra solo ciò che desidera e a nascondere, tra le righe, gli indizi necessari a scovare il colpevole del delitto. Infatti, come si scoprirà nella spiegazione finale, in quanto a fair-play questo romanzo si accorda in tutto e per tutto alle regole fondamentali del genere, rispettando il principio secondo cui niente viene lasciato al caso e ogni cosa è necessaria al fine di trovare la soluzione. Ciò dovrebbe aver assicurato a Stanners un posto tra le fila dei migliori romanzieri del crimine della Golden Age; eppure, come ho sottolineato sopra, insieme ai suoi libri esso è stato presto dimenticato. Un peccato e una stranezza, per un autore che è stato capace di confezionare una storia tanto gradevole. Pur affidandosi in parte ai soliti cliché del giallo classico, infatti, in questo caso egli tratta numerosi aspetti scientifici delle indagini come potrebbe fare Richard Austin Freeman col suo dottor Evelyn Thorndyke: la chimica e le altre scienze pure sono spesso citate nel corso della storia, con l'aggiunta supplementare di un eccentrico analista che si preoccupa soltanto dei propri studi e tralascia la vita sociale a favore di un isolamento volontario. L'analisi delle erbe e delle polveri, rinvenute sul luogo del delitto e in altri posti interessati dall'attenzione della polizia e rilevate da Harding (come un novello Sherlock Holmes, per citare un altro personaggio famoso) con la cura dell'appassionato, saranno determinanti per stabilire i tempi di azione dell'assassino e lo svolgersi degli eventi durante la sera dell'Incoronazione; per non parlare della parte importante che la balistica occuperà nello svolgimento dell'indagine.

Oltre agli elementi "matematici" del caso, inoltre, Stanners esamina in breve anche altri argomenti quali l'amministrazione degli affari e esercizio della giustizia (i discorsi tra Harding e l'avvocato Newth assomigliano a quelli che si potrebbero ascoltare nello studio legale descritto da Michael Gilbert in "C'è un Cadavere dall'Avvocato", mentre il discorso sulla corte a rotazione e la faziosità dei magistrati gettano una nuova luce sul comportamento di questi ultimi) e i metodi della polizia, ortodossi o meno che siano (la "routine" degli agenti illustrata perfettamente dal Roderick Alleyn di Ngaio Marsh, con tanto di riunioni tra sovrintendenti e sottoposti, e la raccolta di pettegolezzi dell'ispettore Marriott presso Branting, che ricorda un po' l'operato di Sir Henry Clithering al fianco dell'arguta Miss Marple di Agatha Christie). Oltre a ciò, poi, bisogna contare alcune brevi digressioni che, pur non avendo grande rilevanza nei confronti dell'omicidio di Sir Jabez, dimostrano l'ingegnosità dell'autore e una certa inclinazione all'umorismo: lo scherzo ai danni del coroner Pritchard e, soprattutto, il caso del furto avvenuto in casa di mrs. Polsom; vera e propria "indagine dentro l'indagine". Insomma, non si può dire che Stanners sia restato con le mani in mano e abbia confezionato un enigma banale; anzi, sembra essersi impegnato a riempire le pagine del suo romanzo con quante più informazioni possibili, utili o meno alla scoperta del colpevole, allo stesso modo della Sayers. Perché, allora, "Com'è Morto il Baronetto?" non è sopravvissuto fino ai nostri giorni, allo stesso modo di "Lord Peter e l'Altro" o "Il Segreto delle Campane"? Da parte mia penso che, pur assomigliando alle opere di quest'ultima, esso risulti più dispersivo e possa per questo aver pagato caro l'aver tentato di imitare i capolavori della grande Dorothy.

Edizione originale di "Com'è Morto il
Baronetto?" (1938)
La fitta nebbia che circonda e oscura lo stesso H. H. Stanners (pseudonimo di Harold H. Stanners) ha forse contribuito a pregiudicare la fama dei suoi romanzi: i membri del Detection Club, ad esempio, pur riservati e poco inclini all'incontro coi lettori, avevano messo in atto una serie di progetti che li portasse ad essere conosciuti dai lettori e, quindi, a sponsorizzare il proprio operato. Stanners, invece, pare non aver fatto nulla di tutto ciò; tanto che della sua vita non si conosce praticamente nulla. I tratti ufficiali che lo riguardano si possono riassumere così: era un signore inglese di nascita, nato nel 1894 e morto nel 1958, e autore di tre mysteries: "Murder at Markendon Court" (1936), "At the Tenth Clue" (1937) e questo "Com'è Morto il Baronetto?" (1938). Tutto qui. Non si sa altro su di lui, né se abbia partecipato a qualche guerra (anche se nella lista del personale della RAF, nel 2° squadrone tra il novembre 1917 e l'aprile 1918, figura un certo H. Stanners), né se si sia sposato, né se abbia vissuto all'estero o se si sia stabilito a Londra. Tuttavia, come ha insegnato Martin Edwards con "The Golden Age of Murder", qualcosa si può sempre rilevare da ciò che gli autori hanno scritto; perciò voglio arrischiarmi a fare qualche congettura su Stanners. Da quanto ho potuto capire dalla lettura di "Com'è Morto il Baronetto?", egli doveva essere un grande appassionato ed esperto di scacchi e un fervente lettore di libri, soprattutto delle opere di Shakespeare, proprio come il suo segugio dilettante (vedasi le numerose citazioni sparse tra le pagine, dai dialoghi tra Harding e Taysleigh alle attente riflessioni del professore sulla Ponziani); doveva avere delle conoscenze specifiche o comunque approfondite per quanto riguarda le scienze pure e la matematica, oltre che di legge, altrimenti non avrebbe mai scelto come protagonista un esperto di diritto internazionale; doveva aver studiato per molti anni e aver imparato a sfruttare forme espressive diverse tra loro, come dimostrano i resoconti tra i poliziotti (capp. 3 e 10), il dialogo informale tra Marriott e Branting (cap. 9), lo stile epistolare sfruttato da Mr. Newth (cap. 14) e i piacevoli battibecchi "alla Sherlock-Watson" tra Harding e Furniss; doveva nutrire un certo senso dell'umorismo, simile a quello di Anthony Berkeley, per escogitare un finale del genere; doveva ammirare gli scrittori di detective novels per decidere di produrne tre in proprio e seguire le loro rigide regole. Una certa cultura viene suggerita anche dalla grande attenzione che mise nel tratteggiare le ambientazioni dei luoghi raccontati e dalla padronanza con cui delineò le personalità dei suoi personaggi (soprattutto Harding, Furniss, Newth e Brenda). Senza dimenticare l'alta qualità dell'enigma che ci viene sottoposto, fornito di indizi e logico. Tutti questi sono piccoli dettagli, minuscoli segni rivelatori di un ingegno sopraffino che, pur non consegnandoci un capolavoro, in ogni caso ci offre un libro ben riuscito, gradevole, capace di stupire e di irretire, scritto con uno stile pulito ed elegante e sicuramente meritevole di lodi, tanto da essere stato giudicato dai critici Barzun & Taylor come "di prima classe". Mi auguro che Polillo riesca a tradurre anche gli altri due titoli ancora inediti di Stanners; se le premesse costituite da questo romanzo saranno mantenute, non vedo come si possa permettere che un autore di questo calibro resti ancora a lungo dimenticato.

Link a Com'è morto il baronetto? su Libraccio


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venerdì 2 agosto 2019

# - Il Ritorno dell'Approvvigionatore Letterario

Eccoci a un nuovo appuntamento con "L'Angolo dell'Approvvigionatore Letterario". Devo confessare che non pensavo di pubblicare un altro post di questo tipo prima dell'autunno; in estate, di solito, gli editori producono meno volumi di quanto facciano durante il resto dell'anno. Stavolta, invece, qualcuno di loro ci ha riservato qualche gradita sorpresa, oltre a confermare alcune delle anticipazioni che già vi avevo annunciato precedentemente. Meglio così; più libri ci sono, più noi lettori siamo contenti (anche se il portafogli lo è un po' meno).

Copertina di "Il Mistero della
Mano Mozzata" pubblicato da Lindau
Per prima cosa, la settimana scorsa (più precisamente, il 25 luglio) è stato dato alle stampe "Il Mistero della Candela Ritorta" di Edgar Wallace, da parte di Polillo. D'accordo; non si tratta di un inedito, come è stato per gli ultimi titoli che ci sono stati proposti, e Wallace non è un autore per cui impazzire in quanto ad enigma, visto che spesso le sue trame vertono verso l'avventuroso. Però, se serve anche questo tipo di romanzi per continuare ad averne, in futuro, altri più ricercati e prestigiosi, allora ben vengano. Inoltre, magari non tutti hanno già provato le sue storie, e poi non è detto che non si possa conciliare la passione per il delitto cerebrale con quello meno complesso. In ogni caso, per chi non avesse presente la vicenda trattata, si tratta della tipica situazione in cui un innocente, accusato di un delitto, deve essere scagionato da tutte le accuse dall'ispettore di turno (in questo caso T.X. Meredith di Scotland Yard).

Copertina di "La Ragazza del Kyushu"
pubblicato da Adelphi
In secondo luogo, Adelphi ha pubblicato proprio nei giorni scorsi un nuovo romanzo di Seicho Matsumoto, dal titolo "La Ragazza del Kyushu". Già tra la fine del 2017 e i primi mesi del 2018 questo editore aveva dato alle stampe il grande capolavoro di Matsumoto, "Tokyo Express", un noir che si svolgeva tutto sulle rotaie delle ferrovie giapponesi e che era comparso tempo addietro nel Giallo Mondadori, con il titolo "La Morte Viaggia in Treno"; e la stessa Mondadori, sulla sua scia, ha riproposto in tempi recenti pure "Come Sabbia tra le Dita", in cui l'ispettore di turno ripercorre la vita di uno sconosciuto per trovare il suo assassino. Stavolta, invece, si tratta di una storia di vendetta, che vede una giovane ragazza, chiedere l'aiuto di un famoso avvocato per la difesa di suo fratello, ingiustamente accusato di un crimine commesso, a suo dire, da altri. Il penalista, troppo occupato per prestare attenzione a un caso che probabilmente finirebbe per non poter nemmeno essere retribuito in modo adeguato, la allontana dallo studio. Mai l'avesse fatto; poco dopo il prigioniero muore, e da quel momento si mette in moto un meccanismo diabolico che non avrà più alcun arresto, nel tentativo di ripercorrere il caso, finché la giovane Kiriko non otterrà ciò che le spetta di diritto. Come avrete capito, si tratta di gialli "anomali", diversi da quelli a cui possono essere abituati gli amanti dell'enigma della "Golden Age" ma che affrontano tematiche sociali come i loro colleghi oltreoceano; eppure io ho letto entrambi i titoli che ho citato poco sopra, e vi posso assicurare che meritano la nostra attenzione; non fosse solo per l'atmosfera e le descrizioni al limite del sogno che vengono dipinte tra le pagine.

Per restare in tema di "scrittori giapponesi", l'ultima volta ho dimenticato di segnalare la serie (in corso di pubblicazione, visto che per il momento è apparso solo il primo) dei romanzi del detective Kindaichi di Yokomizo Seishi, per i tipi di Sellerio. La trama parla di "un doppio omicidio, un enigma della camera chiusa, un detective privato scostante, uno dei romanzi di fondazione del mystery nipponico, un classico di livello internazionale": non penso serva aggiungere altro per illustrare questo libro e invogliare il lettore a dargli una possibilità.

Copertina di "Il Detective Kindaichi"
pubblicato da Sellerio
Infine, ultimo ma non per importanza, il giorno 18 Lindau ha inaspettatamente pubblicato un altro libro di John Gordon Brandon, dopo "Un Urlo a Soho"; ovvero "Il Mistero della Mano Mozzata". Ora, questo autore è famoso per aver scritto una quantità esorbitante di romanzi gialli (più di cento, secondo la biografia riportata nel sito dell'editore), e spesso prolificità è sinonimo di resa di bassa qualità. In effetti, sia "Un Urlo a Soho" sia "Il Mistero della Mano Mozzata", sembrano avere a che fare con malavita organizzata, boss mafiosi, cinesi subdoli e altri cliché; eppure, in questo caso, ci troviamo di fronte a un crimine perpetrato in un ambiente che ha a che fare con l'egittologia (la casa, davanti a cui l'agente della squadra narcotici viene assassinato e viene ritrovata la mano mozzata del titolo, è quella del professor Farman e l'arma è un antico pugnale rituale). Io ho letto solo un altro giallo in cui questa scienza è stata protagonista, ovvero "L'Occhio di Osiride" di Richard Austin Freeman; e l'ho amato molto, sia per la trama sia per il coinvolgimento cui viene sottoposto il lettore nelle faccende riguardanti l'imbalsamazione dei corpi e simili faccende. Dopotutto, la Storia antica mi ha sempre interessato, e per questo motivo proverò a dare una possibilità anche a "Il Mistero della Mano Mozzata". Viste le premesse, se i cinesi non abbonderanno troppo, potrebbe rivelarsi un acquisto avveduto.

Queste sono le novità fresche di annuncio; per il resto, vi rimando al post precedente (qui il link) per le anticipazioni che vi ho già dato, con l'aggiunta di due aggiornamenti: ho saputo da fonti attendibili che "Il Mistero della Vetreria" di Margaret Armstrong (Le Assassine) uscirà verso la fine di settembre; mentre in ottobre Mulatero pubblicherà un altro giallo della serie alpinistica con Abercrombie Lewker. Insomma, direi che ci aspettano mesi pieni di buone letture; e se dovesse spuntare ancora qualcosa di nuovo, vi farò sapere. Buone letture!

Link ai titoli consigliati su Libraccio:
"Il mistero della candela ritorta" di Edgar Wallace;
"La ragazza del Kyushu" di Seicho Matsumoto;
"Tokyo express" di Seicho Matsumoto;
"Come sabbia tra le dita" di Seicho Matsumoto;
"Un urlo a Soho" di John Gordon Brandon;
"Il mistero della mano mozzata" di John Gordon Brandon;
"L'occhio di Osiride" di Richard Austin Freeman;
"Il detective Kindaichi" di Yokomizo Seishi.

Link ai titoli consigliati su IBS:
"Il mistero della candela ritorta" di Edgar Wallace;
"La ragazza del Kyushu" di Seicho Matsumoto;
"Tokyo express" di Seicho Matsumoto;
"Come sabbia tra le dita" di Seicho Matsumoto;
"Un urlo a Soho" di John Gordon Brandon;
"Il mistero della mano mozzata" di John Gordon Brandon;
"L'occhio di Osiride" di Richard Austin Freeman;
"Il detective Kindaichi" di Yokomizo Seishi.

Link ai titoli su Amazon:
"Il mistero della candela ritorta" di Edgar Wallace;
"La ragazza del Kyushu" di Seicho Matsumoto;
"Tokyo Express" di Seicho Matsumoto;
"Come sabbia tra le dita" di Seicho Matsumoto;
"Un urlo a Soho" di John Gordon Brandon;
"Il mistero della mano mozzata" di John Gordon Brandon;
"L'occhio di Osiride" di Richard Austin Freeman;
"Il detective Kindaichi" di Yokomizo Seishi.