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venerdì 27 dicembre 2019

19 - "Sotto la Neve/Morte nella Neve" ("Mystery in White", 1937) di J. Jefferson Farjeon

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore
La poesia e il romanticismo che permeano la classica crime story hanno saputo affascinarmi fin dal momento in cui, una decina di anni fa, mi sono avvicinato a questo genere per la prima volta. A dire il vero, forse sarebbe meglio specificare che mi sono appassionato al giallo classico proprio a causa della sua capacità di riuscire a evocare incantevoli scene appartenenti a un tempo ormai andato, ma ancora suggestive quando esse, durante la lettura, si dipanano davanti ai miei occhi. È questo il potere della nostalgica "sospensione temporale", che ci permette di calarci in un contesto antiquato (ma non ammuffito) e assistere a vicende di straordinaria quotidianità od ordinaria eccezionalità, come se si trovassimo in una favola. Non penso di essere l'unico a subirne l'attrattiva; anzi, sono convinto che ciò si verifichi per ognuno di noi lettori, grazie alla particolare capacità dell'autore di catturare la nostra attenzione e alla presa che le sue parole fanno nella nostra testa. Al di là di un'ambientazione confortevole, infatti, è soprattutto lo stile sognante, che ci avvolge con calore e ci culla tra le sue braccia, a dare originalità al mystery della prima metà del Novecento. Immaginate, ad esempio, una di quelle pensioni in cui è facile imbattersi quando si viaggia per la campagna inglese. L'edificio in sé magari non trasmette alcuna emozione particolare; eppure, uno scrittore abile con le parole potrebbe riuscire ad infondergli un'atmosfera singolare grazie al suo rodato eloquio. Potrebbe spiegare che sono le dieci di sera e che l'oste si è appena congedato augurando la buona notte. Che, nel salottino, il signor X attizza il fuoco del caminetto e appoggia lentamente, sul tavolino accanto alla sua poltrona preferita, il piatto di biscotti appena sfornati che gli è stato offerto e che ha portato con sé. Che, mentre si versa del tè caldo, ha del tutto dimenticato il freddo che preme contro le finestre; nei suoi pensieri c'è posto solo per il calore del fuoco e per il libro che si appresta a leggere. Che, oltretutto, la neve scende fitta sulla brughiera intorno all'ostello e si sentono le campane di una chiesa battere in lontananza.

Ecco, ora davanti a noi si è dipinta una scena forse un po' melensa, ma senza dubbio di grande suggestione e fascino, non solo per l'ambientazione intima ma soprattutto per ciò che trasmette e ci fa provare; una di quelle che trova nel giallo di Natale una carica ancora più potente, in cui il senso di isolamento che traspare da ogni cosa, il mistero si accentua nei silenzi della casa, il contrasto tra caminetti accesi che illuminano abeti decorati e calze appese e le gelide dita della bufera (fuori dalla finestra) e della gelosia (dentro nella stanza) vengono amplificati come se passassero attraverso un megafono. A questo tipo di ritratti ci ha abituato Agatha Christie, imbattibile nel dipingere qualunque cosa con una semplicità allo stesso tempo disarmante e carica di significato; oppure Joseph Jefferson Farjeon, che Polillo ha riportato in auge con coraggio. Lo stile rarefatto e perversamente gradevole di quest'ultimo, il quale mescola gioiosa ironia con un'ombra di dolorosa cupezza, rappresenta perfettamente il terzo elemento che, oltre all'enigma agitato dalle correnti emotive sotterranee (vedasi "Quando L'Amore Uccide"), ai variegati personaggi costretti a convivere in un luogo isolato, con le loro spiccate personalità (vedasi "Natale con Delitto") e all'ambientazione intrigante, caratterizza il "Christmas Murder Mystery". Quindi, colgo l'occasione per recensire il suo "Sotto la Neve" (Polillo Editore, 2008/Lindau Edizioni, 2018, col titolo "Morte nella Neve"); bistrattato da tanti, assieme al resto della sua opera, per la carenza in fatto di enigma e fair-play, quanto capace di evocare lo spirito del Delitto come se si trattasse di una presenza fisica, all'interno di una vicenda in cui giganteggiano un'ambientazione sognante e pregevole, ritratta con un certo senso di drammaticità, e personaggi originali nel loro essere normali. Io provo un affetto profondo per i libri di Farjeon (non per nulla, ho comprato anche l'edizione Lindau di questo titolo!): spero che, una volta finita questa recensione, anche voi possiate comprendere un po' della bellezza della sua opera

Una tipica casa immersa nel bianco della neve, isolata nella
campagna
È la Vigilia di Natale. Sei persone si trovano bloccate all'interno dello scompartimento di terza classe del treno da St. Pancras, nel bel mezzo della campagna inglese, a causa di una furiosa bufera di neve. Jessie Noyes, ballerina di fila, sta dirigendosi a Manchester per ottenere una disperata scrittura; Robert Thomson, impiegato dall'animo romantico e dalla vita monotona, è in viaggio per recarsi da una vecchia zia malata; David e Lydia Carrington, fratello e sorella, sono intenzionati a raggiungere Londra per festeggiare il Natale con alcuni conoscenti; Mr. Hopkins, uno di quegli scocciatori che spesso si incontrano e non fa altro che vantarsi di aver compiuto grandi imprese, apparentemente intende solo infastidire i suoi compagni di sventura; Edward Maltby, membro della Reale Società di Spiritismo, sta dirigendosi al villaggio di Naseby per mettersi in contatto con l'anima defunta di Carlo I. Ognuno di loro affronta la forzata pausa del convoglio come meglio può, immaginando di essere un eroico salvatore oppure facendo delle avances; oppure chiacchierando di fantasmi e spiriti incorporei, mentre sul paesaggio fuori dal finestrino i fiocchi bianchi continuano a cadere senza sosta. All'improvviso, però, Maltby dà l'impressione di scorgere qualcosa al di là del vetro e si getta nel bel mezzo della bufera, con grande sconcerto dei suoi compagni di viaggio. Di lì a poco, stanchi di aspettare, anche il resto degli occupanti dello scompartimento (al di fuori di Mr. Hopkins) decide di seguire il suo esempio, pur di arrivare in una stazione, e si immerge nel bianco vorticare del tardo pomeriggio. Dopo pochi passi, tuttavia, i quattro avventurosi finiscono per perdersi tra i fiocchi di neve che cadono sempre più fitti. La situazione sembra disperata, finché il gruppo non si imbatte per casualità in una grande casa isolata: la porta d'ingresso è aperta, il fuoco è acceso in ogni stanza e il tè è stato appena preparato. I viaggiatori del convoglio sono grati al Destino e si reputano fortunati di aver scampato il pericolo di dover trascorrere la notte nella tormenta...

Tuttavia nessuno sembra abitare tra quelle quattro mura, e ad accoglierli trovano soltanto il quadro di uno strano vecchio che pare osservarli dalla sua tela. Che fine hanno fatto i proprietari e la servitù? E come mai sul pavimento della cucina si trova un coltello da pane? Ben presto ai rifugiati nella casa deserta si aggiungono Maltby e un individuo dall'aspetto minaccioso e pericoloso, il quale afferma di chiamarsi Smith e sembra nascondere molti segreti. Che si stiano preparando grossi guai? Tutto sembra confermarlo, poiché il vento della tempesta non porta solo nuove aggiunte alla comitiva, ma anche un grido disperato dall'esterno dell'edificio... Inizia in questo modo una vicenda strabiliante, in cui porte chiuse vengono riaperte come d'incanto, spettri e fantasmi sembrano aggirarsi tra gli ospiti, sedie e letti traggono in inganno e turbano alcuni membri del gruppo; mentre il soggetto del quadro appeso sopra al camino tiene d'occhio e segue ossessivamente i movimenti degli ospiti della casa. Nel corso della notte più lunga della propria vita, ognuno farà il possibile per scongiurare la cupa e impalpabile minaccia che (questo è certo) si sta avvicinando sempre più; ma alla fine essa arriverà comunque, assieme a una storia complessa e straordinaria, forse rivelata grazie all'aiuto di uno spirito sarcastico simile agli Spettri della "Ballata di Natale" di Charles Dickens.

Ritratto di gentiluomo, simile a quello del vecchio di
Valley House
Come ho detto sopra, benché l'opera narrativa di Farjeon appartenga al periodo della Golden Age del giallo all'inglese, essa è stata fortemente criticata da numerosi lettori a causa della sua parziale differenza di struttura e contenuto, rispetto a quella della "convenzionale" crime story classica. Più di uno, ad esempio, ha osservato come essa sia carente dal punto di vista dell'enigma, adducendo come scusa il fatto che manchi la canonica applicazione del fair-play al rispettivo caso di ogni suo romanzo. Altri, invece, si sono soffermati sul fatto che le sue trame, a differenza di quelle tradizionali, compiano un percorso inverso: partendo cioè da premesse altissime e concludendosi con insulsi finali involuti, in cui lo svelamento del colpevole ha perso qualunque attrattiva e i presupposti non vengono mantenuti. Forse ciò è dato anche dal fatto che, in alcuni casi (come in "Sotto la Neve"), la presenza di elementi che rimandano a libri ben più famosi e celebrati abbia creato errate aspettative in questo senso (come non pensare, sostengono, ad "Assassinio sull'Orient-Express" di Agatha Christie, trovandoci davanti a un treno bloccato dalla neve?), quando in realtà le rispettive storie viaggiano su binari completamente diversi e non pretendono di assomigliarsi in alcun modo. In ogni caso, il risultato che consegue all'analisi di questi elementi conduce purtroppo a freddi giudizi negativi o perlomeno neutrali: i romanzi di Farjeon, infatti, sono stati spesso definiti come "simpatici" o "carini" oppure letture "decisamente meno impeccabili" di altre, a cui si aggiungono commenti sullo scrittore del tipo "non ho ancora capito se lo amo o lo detesto" o "resta un autore dai buoni propositi difficilmente mantenuti". Eppure, c'è qualcosa che colpisce quando vengono menzionati i libri di questo autore: ovvero, il loro grande successo presso la critica del tempo e il pubblico in generale. Mi spiego meglio.

Per cominciare, fin dagli inizi del Novecento, gran parte di questi volumi riscosse moltissimo successo, tanto da indurlo a produrne una quantità enorme (circa ottanta) toccando generi diversi tra loro. Qualcuno può osservare che egli si impegnò a scriverne così tanti perché gli permettevano di guadagnare denaro; tuttavia, se anche fosse, non gli sarebbe stato possibile farlo se le sue storie non fossero piaciute ai lettori. In secondo luogo, inoltre, va contato il fatto che anche in epoca contemporanea Farjeon ha ottenuto un successo inaspettato: nel 2014, quando la British Library Crime Classics decise di pubblicare proprio "Sotto la Neve" come titolo per le feste di Natale, nessuno (nemmeno Martin Edwards, che venne incaricato di scrivere una prefazione alla nuova edizione) poteva immaginare che "Mystery in White" avrebbe venduto in pochi mesi ben 60.000 copie in totale, diventando uno dei bestsellers di quell'anno. E la stessa cosa valse per altri due titoli ("Thirteen Guests" e "The Z Murders"), i quali confermarono il successo che aveva arriso alla sua opera quasi un secolo dopo la pubblicazione. Pure in Italia, dove il giallo non gode di una particolare fortuna o diffusione, i tre romanzi di questo autore pubblicati da Polillo ("La Casa dei Sette Cadaveri", "Gli Omicidi della Z" e questo "Sotto la Neve") devono aver riscosso un piccolo successo; altrimenti ci si sarebbe fermati al primo e si sarebbe puntato su altro. Tutto ciò è significativo, non trovate? Infine, va menzionato il grande rispetto con cui la critica ha sempre trattato i libri di Farjeon: non solo H.R.F. Keating, ma anche Dorothy L. Sayers, tanto rigida con i suoi colleghi quanto era con se stessa in fatto di giudizi, elogiò apertamente i suoi sforzi letterari per l'attenzione agli ambienti, la leggerezza narrativa, la dolcezza nel saper modellare intrecci e personaggi, confessando di esserne un'appassionata lettrice; in epoca più recente, poi, Curtis Evans ha più volte ribadito la propria ammirazione per i romanzi con protagonista il vagabondo Ben, oltre agli altri titoli già citati. Quindi, tutto ciò non vorrà dire qualcosa? Magari che, chi critica negativamente i libri di Farjeon, forse non ha del tutto ragione? Io penso sia così. Infatti, se è innegabile che le loro trame non presentino perfetti congegni ad orologeria come quelle dei gialli della Christie oppure leali partite tra chi legge e l'autore, al modo di quelle nei mysteries di John Dickson Carr, e non serva a nulla nasconderne i difetti, d'altra parte vorrei sottolineare come, in una classica crime novel, l'enigma occupi a mio sindacabilissimo parere una parte tanto importante quanto quella di altri elementi, come l'atmosfera che in esso si respira oppure la resa dei personaggi e ciò che essi riescono a manifestare. Il bello del giallo, insomma, non sta solo nella perfezione dell'enigma (il quale, nel caso dei libri di Farjeon, presenta evidenti mancanze in fatto di fair-play nei confronti del lettore), ma pure nella sua resa generale in fatto di stile e contenuti affrontati. Per alcuni questo discorso non vale; io invece sono convinto di quanto sostengo e voglio spezzare una lancia a favore. C'è molto di più in un giallo di quanto si pensi a prima vista, e "Sotto la Neve" lo dimostra.

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Lindau Edizioni
Prendiamo, ad esempio, l'aura di bizzarra attesa che pervade un po' tutto il romanzo: l'autore si è soffermato su di esso in modo da ricreare un'atmosfera di straordinaria piacevolezza, in cui la suspense del mistero e una grande quantità di interrogativi si mescolano al brio dei personaggi, costretti a vivere situazioni al limite del paradossale ma pur sempre "normali" nella loro ingenuità e disposti a prendere le cose con una certa filosofia. L'ambientazione, con l'immancabile casa isolata dalla neve (in questo caso la coltre bianca arriva addirittura ad ostruire porte e finestre del pianterreno!), è davvero meravigliosa (pp. 7-8, 21-25, 27, 47, 73, 106-107, 171-176, 187-188) e la storia, all'inizio, promette di essere più che scoppiettante, grazie anche a uno stile venato da un sottile humor e da un pizzico di suggestione. Proprio questa concentrazione sugli aspetti del soffuso melodramma del racconto e il volerli mescolare ad elementi della tradizionale crime story all'inglese (come la bufera, la casa isolata, l'investigatore dilettante) rappresenta, secondo me, l'originalità del libro e lo avvicina al "Christmas Murder Mystery": essi danno una marcia in più all'ingegnosità dell'intreccio (forse troppo contorto), inserendosi benissimo in una storia caratterizzata da un ritmo narrativo più lento del solito, ma allo stesso tempo adeguato, il quale permette al chi legge di immergersi in questa favola moderna e di assaporare ogni pagina, senza sentirsi spinto con urgenza ad arrivare alla fine del volume, mentre gli indizi gli vengono rivelati poco a poco nel corso della narrazione e lo accompagnano lungo un percorso tortuoso. Come in "Quando l'Amore Uccide", la psicologia dei personaggi gioca un ruolo di primo piano per comprendere l'enigma nella sua interezza (sebbene lo faccia in modo un po' diverso), e come in "Natale con Delitto" i personaggi covano emozioni contrastanti che di volta in volta minacciano di esplodere ed esercitano un movente nelle loro azioni. A tutto ciò, infine, viene accostato un enigma complesso, che può far provare una certa insoddisfazione a causa delle troppe cose lasciate al caso al momento della soluzione, ma che si pone perfettamente all'interno del filone del thriller di stampo anglosassone di cui fece parte anche l'opera di Ethel Lina White. Un'altra cosa che il lettore manca di notare, infatti, è proprio questa: ovvero che, sebbene l'anno di pubblicazione (1937) e le premesse facciano presagire un racconto in cui la detection tradizionale la fa da padrone, in realtà è la tensione che domina la scena dalla prima all'ultima pagina di questo libro; quella tensione che fece la fortuna delle Regine del Brivido americane e permise pure a White di dare vita a un connubio tra classico e moderno.

In questo modo, dunque, "Sotto la Neve" e gli altri romanzi di Farjeon si pongono meglio tra i mysteries della suspense e del brivido, che nel giallo della più stretta Golden Age; nel primo caso, l'aderenza al gioco pulito e alla perfezione dell'enigma non era stretta come nel secondo, per cui viene a spiegarsi anche per quale motivo questi elementi non siano stati trattati con maggior precisione dall'autore e nelle vicende regni una certa superficialità. Chi si avvicina all'opera di Farjeon, a mio parere non deve aspettarsi né indagini serrate, esami dal punto di vista scientifico oppure interrogatori e rilevazioni specifiche sulla scena del crimine; né romanzi sensazionalistici come quelli buttati già da autori come Sydney Horler o Sapper, in cui vengono esibiti razzismo e xenofobia: qui sono l'intrigante atmosfera pseudo-sovrannaturale, gli aspetti suggestivi ed ingentiliti (tratti dal giallo classico e da quello più psicologico) dei personaggi e la leggerezza della narrazione di fondo, al limite dell'inconsistenza, ad occupare le vicende del gruppo di ospiti improvvisati alla Vigilia di Natale. Questo libro, insomma, non fa per i puristi dell'enigma, ma per chi desidera provare qualcosa di diverso, non disdegna misteri meno curati e ama immergersi in una serie di situazioni in cui la suggestione (pp. 12-15, 34-37, 58-62, 102-106, oltre a cap. 15) riesce ad avvolgerlo; magari ambientate a Natale, quando il fascino e la magia delle feste raggiunge il suo culmine. Poiché io sono assolutamente un romantico, ho amato questa storia dall'inizio alla fine e ho cercato di cogliere il meglio da essa; sfido chiunque a dire che non sia stato un piacere seguire le vicende raccontate capitolo dopo capitolo, in un'atmosfera resa magnificamente e dove la tensione non viene mai a mancare, e tutto sommato credo che esse siano adeguate alle premesse (tralasciando in parte l'enigma, come ho detto sopra) e a loro modo straordinarie nel saper mescolare indagine tradizionale e suggestione, come in pochi altri casi. Su una cosa non ho dubbi: Jefferson Farjeon e la sua opera non lasciano mai indifferenti, nel bene e nel male.

Joseph Jefferson Farjeon, nato nel 1883 e morto
nel 1955
Alla pari dei suoi gialli, Joseph Jefferson Farjeon fu un personaggio insolito per il suo tempo. Nato nel 1883 a Londra, in una famiglia in cui la cultura era di casa (suo padre Benjamin Leopold fu un importante romanziere, sua madre Maggie fu figlia di un noto attore dell'epoca, i fratelli Harry, Eleanor ed Herbert rispettivamente un compositore, un'autrice di libri per bambini e un critico teatrale), studiò in città fino al 1910, quando iniziò a lavorare per la Amalgamated Press, una casa editrice specializzata in riviste umoristiche. Per dieci anni mantenne l'impiego, finché non riuscì a pubblicare il suo primo libro, "The Master Criminal" del 1924. Uomo schivo e mite, "Joe" (come lo conoscevano gli amici) iniziò così la sua carriera di esponente di pregio della Golden Age del giallo anglosassone, benché declinata al thriller piuttosto che al tradizionale mystery deduttivo. Il suo marchio distintivo era l'originalità, tanto che non si fece frenare dalla prolificità (pubblicò circa ottanta volumi, a volte usando lo pseudonimo di Anthony Swift) e, in barba al cliché che vede la produzione forsennata di romanzi come sinonimo di mediocrità, riuscì addirittura a stabilire un ottimo rapporto con la critica (oltre agli autori sopra citati, venne elogiato anche dal drammaturgo americano Paul Wilstach e dallo studioso William Lyon Phelps). Vegetariano e pacifista (il suo "Death of a World" è un'appassionata protesta contro la corsa al riarmo dopo la Seconda Guerra Mondiale), Farjeon si distinse nella moltitudine di scribacchini di mysteries sensazionalistici per la scrittura ingentilita e legata al proprio background familiare. Infatti, oltre ad essere stato un appassionato fotografo e disegnatore di animali buffi (buffi perché li disegnava lui, beninteso), fu sempre molto interessato agli umili; interesse che ereditò da suo padre, al punto di diventare un empatico sostenitore della povera gente, la quale spesso ottiene una rivalsa all'interno dei suoi romanzi. Ad esempio, in alcuni di essi il protagonista è Ben, uno strano vagabondo che risolve casi misteriosi, alla maniera di un prosaico emulo del colto investigatore dilettante della tradizione classica, il quale vide evolvere la propria personalità e diventò uno dei più improbabili detective della sua era. Lo stesso Ben, per giunta, apparve nell'opera più ricordata di Farjeon: l'adattamento a sceneggiatura per Hitchcock della piece teatrale "Numero diciassette". Quest'ultima gli permise di ottenere grande popolarità su entrambe le sponde dell'Atlantico, oltre da aprirgli le porte della collana Collins Crime Club fino al 1955, quando Farjeon morì di cancro a Hove, nel Sussex.

Per allora, l'autore aveva dato alle stampe numerosi e diversi romanzi: tra i più famosi, ricordiamo "The Windmill Mystery" (1934), ambientato presso un sinistro mulino a vento e dedicato alla memoria della madre; "Holiday Express" (1935), che sfrutta il classico delitto in treno per esplorare la figura le giovane ragazzo protagonista; "Thirteen Guests" (1936), in cui avviene un delitto in una casa di campagna durante una tipica festa; "End of an Author" o "Death in the Inkwell" (1938), per il quale Farjeon trasse spunto dalla sua stessa esperienza, in modo da tracciare un complesso caso in cui uno scrittore di thriller e la sua segretaria corrono pericoli di ogni sorta; "The Judge Sums" (1942), in cui l'autore si cimenta nel giallo giudiziario mescolandolo a un caso reale; "La Casa dei Sette Cadaveri", nel quale avviene un inspiegabile delitto di massa, e "Gli Omicidi della Z", dove ci sono sì più omicidi, ma sullo stile della catena da serial killer; oltre ai già citati romanzi su Ben (come "Ben on the Job" del 1952) e "Death of a World". Ognuno di questi libri si distingue per stile, ambientazione e personaggi; e "Sotto la Neve" non fa eccezione. In una vicenda in cui le sensazioni la fanno da padrone, sinistri presagi si accumulano sempre più a formare dubbi e i sospetti aleggiano come spettri tra le pagine, Farjeon dipinge situazioni caratterizzate da un'apparente tranquillità, in cui elementi del quotidiano si trasformano pian piano in inquietanti sintomi di un malessere diffuso e rendono il racconto simile a una favola venata da un pizzico di mistero, sullo stile dei racconti di fantasmi che tanto andavano di moda tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento (pp. 9-10, 58-59, 141, 202, 221). A differenza della narrativa delle Regine del Brivido americane o di sue colleghe britanniche (come Lorna Nicholl Morgan), egli mise insieme tradizione e psicologia senza calcare la mano sulla ricerca di un melodramma spiccato e fine a se stesso, ma piuttosto dando vita a un dualismo in cui il brivido e la tensione vengono soffusi in un racconto più classico, dove la suspense generata ha un impatto meno scioccante sul lettore (pp. 10-11, 29-31, 39-41, 48-49, 74-75, 94-96, 102-103, 115-118, 129-130, oltre ai capp. 17 e 25) e dominano l'idea di destino (p. 189) e una certa galanteria d'altri tempi (p. 122). Al cuore dello stile dell'autore, c'è il confronto della solidità con l'impalpabile e il fantastico, in cui avventure divertenti si affiancano ad oscure minacce che emergono dal passato. Questi è un fattore che gioca un ruolo non indifferente all'interno della storia: esso si affaccia tra le righe ad ogni piè sospinto, inesorabile, impossibile da sradicare, eterno e inscindibile dalla tradizione. Ben poche volte mi sono sentito tanto coinvolto sentimentalmente in un giallo convenzionale ma allo stesso tempo originale, in cui le percezioni non si limitano al campo dell'emozione, ma si estendono alle descrizioni di oggetti e luoghi con tono distinto e intimo e la sospensione temporale ne viene tanto gratificata. Grazie allo stile schietto eppure onirico e piacevole, il quale catapulta il lettore in una vicenda dai tratti irreali, attraversata da una minaccia invisibile (da notare il sogno febbrile di Thomson o la spedizione di David fuori dalla casa) e farcita di digressioni (pp. 42-43, 99-100...) legate ai temi del sentimento e dell'emozione, come solo Farjeon ha saputo fare (non per niente Dorothy L. Sayers ha osservato che lui "è del tutto insuperabile nella [sua] abilità da brivido in [fatto di] avventure misteriose"), l'autore esalta il senso di coscienza (pp. 27-28, 41, 74-75, 79, 98-101, oltre al cap. 9) in modo da gettare una potente luce sui personaggi e ce li dipinge come vivaci, benché segnati da una certa irrealtà e avvolti da una certa nebbia, la quale non permette di avere una visiona chiara del loro insieme pur facendoceli sentire vicini. Lydia e il suo atteggiamento forzatamente allegro per far fronte alle avversità, David e la sua inadeguatezza davanti alla forza interiore della sorella; il povero Thomson, dal ruolo più che marginale e la personalità incolore che non riescono a non strappare un sorriso; la piccola Jessie, con le sue paure e i pensieri frivoli riversati nelle pagine del diario (73, 76-77, 105-112, 132, oltre al cap, 27): ognuno di loro non presenta un carattere spiccato (a parte forse Maltby), ma riesce ad occupare un posto nel nostro cuore proprio grazie al suo essere normale, simpatico e un po' indifeso. È stata questa capacità nel saper esaltare con empatia "piccole persone" come sfortunati impiegati e segretarie pasticcione ad aver distinto Farjeon dalla massa.

Insomma, se ci si fa caso, "Sotto la Neve" a prima vista appare fin troppo convenzionale, date la normalità dei personaggi, l'uso della fin troppo classica casa isolata dalla neve e la banalità della soluzione dell'enigma. Ma, in realtà, lo è davvero? Io credo che, pur nella sua semplicità, esso riesca a toccare le corde giuste nell'animo del lettore e sia una lettura tutt'altro che anonima, ma qualcosa capace di incuriosire pur non prendendosi molto sul serio: come Maltby, il quale sembra godere un mondo nel prendere in giro i suoi compagni di sventura, tra il serio e il faceto, mentre racconta storie di spiriti e suggerendo nefaste conseguenze per ogni singolo fatto curioso avvenuto nella casa. Farjeon, per bocca del suo personaggio, sembra dire: "Smettetela di essere così tristemente prosaici e pratici, mentre indagate su un presunto delitto! Provate ad uscire dai soliti schemi e chiedetevi se ci sia bisogno di concentrarsi per forza solo sul'enigma, con tanto di prove da raccogliere e mostrare agli altri". L'autore si impegna dunque a tracciare un mistero doppio per il solo gusto di intrattenerci; meno riuscito nel finale a causa del troppo affidamento di Maltby sulle supposizioni, ma pur sempre degno di nota, poiché riesce a divertire fino allo svelamento degli ultimi capitoli, con la sua atmosfera ovattata e suggestiva che in qualche modo mi ha ricordato "Trappola per Topi" della Christie. Forse anche per questo motivo "Sotto la Neve" e l'opera di Farjeon riscuotono da sempre un grande successo: mettono in scena una vicenda che, pur senza prendersi troppo sul serio, fa trascorrere alcune ore in spensieratezza. Proprio come ci si aspetterebbe dalle più celebrate crime novels.


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venerdì 20 dicembre 2019

18 - "Natale con Delitto" ("The Santa Klaus Murder", 1936) di Mavis Doriel Hay

Copertina dell'edizione pubblicata dalle
Edizioni Lindau
Tra le collane sulla classica crime story in lingua inglese, la British Library Crime Classics occupa un ruolo di primo piano; non solo perché presenta agli appassionati un nuovo romanzo circa ogni mese, ma anche per il merito di aver dato inizio alla riscoperta di un genere che, da qualche tempo, era stato trascurato in favore di altri. Come in Italia abbiamo avuto Polillo Editore (che mi auguro riprenderà a sfornare nuovi gialli in collaborazione con un nuovo ed entusiasta gruppo editoriale) a dare l'esempio a Lindau e Le Assassine, così la BLCC ha fatto lo stesso con Dean Street Press e altri marchi britannici, tracciando una strada nuova che, per quanto riguarda la pubblicazione di fiction, si diversifica dalle tendenze che oggigiorno vanno per la maggiore e soddisfa l'appetito di lettori affezionati ad autori come Agatha Christie e Dorothy L. Sayers. Fino ad oggi la collana, che si appresta a continuare la sua opera per molto tempo ancora, ha dato alle stampe 76 libri, tra romanzi e raccolte di racconti curate da Martin Edwards; una decina dei quali mi sono già procurato, poiché hanno saputo incuriosirmi e sarà molto difficile vedere una loro traduzione italiana. "Portrait of a Murderer" di Anne Meredith, ad esempio, è una suggestiva inverted story e si sa che questo tipo di romanzo, in cui il colpevole è chiaro sin dai primi capitoli, può risultare meno appetibile al lettore comune e quindi, al di fuori di Polillo, difficilmente essere preso in considerazione per una pubblicazione in Italia; e un discorso simile vale per "It Walks by Night" di John Dickson Carr, intrigante romanzo pubblicato molti anni fa da Mondadori in una versione tagliatissima, intitolata "Il Mostro del Plenilunio", che potremmo non rivedere mai più nel nostro Paese, a causa di problemi di diritti d'autore.

Tra gli altri, ero intenzionato ad aggiungere alla lista anche il delizioso "The Santa Klaus Murder" di Mavis Doriel Hay, quando Lindau mi ha piacevolmente stupito e lo ha tradotto col titolo di "Natale con Delitto" (Lindau, 2017). Proprio questo romanzo sarà l'oggetto della recensione di oggi, poiché non solo racconta una gradevole storia in tema con il periodo natalizio e le feste imminenti, che merita di essere conosciuta, ma si presta benissimo anche a rappresentare uno degli elementi che caratterizzano il "Christmas Murder Mystery", come "Quando l'Amore Uccide" di Nicholas Blake e i due libri che seguiranno questo post. Se il giallo di Blake era focalizzato su di un complesso enigma psicologico e sulle riflessioni etiche che da esso potevano scaturire, stavolta il fulcro della narrazione ruota attorno ai suoi protagonisti e ai comuni conflitti che nascono di volta in volta tra i membri di un nucleo familiare vecchio stampo, con tanto di capofamiglia, figli, cognati e amici vari al seguito. I personaggi, i quali agiscono nel consueto spazio chiuso di una casa di campagna mezza isolata dalla bufera, popolano dunque una vicenda più convenzionale, nella quale avviene un omicidio tipico della classica crime story, ma certo non banale: infatti, sebbene anche qui la psicologia occupi un posto di rilievo nella soluzione del mistero, tuttavia l’apparente semplicità del caso evoca la sensazione di essere immersi in una di quelle deliziose letture in cui i rapporti tra membri della stessa famiglia e amici, costretti a convivere insieme e con una personalità spiccata, sono caratterizzati da piccole e stuzzicanti gelosie interne; letture in cui traspare l'autentica anima della detective novel del periodo tra le due guerre, la quale aveva il principale scopo di far trascorrere al lettore qualche ora di spensieratezza e divertimento.

Cartolina natalizia dalla quale si è preso spunto
per la copertina italiana di "Natale con Delitto"
La storia si svolge quasi tutta a Flaxmere, la dimora avita della famiglia Melbury. Lì, nei giorni che precedono il Natale, il parentado al completo si riunisce all'anziano patriarca Osmond, alla sua segretaria e alla figlia più giovane Jennifer per celebrare in allegria la tradizionale festa con i congiunti: gli altri eredi del vecchio (George con consorte e figli, la vedova Hilda con la figlia Carol, Eleanor con il marito Gordon e prole al seguito, Edith con lo scontroso David), la vecchia zia Mildred col suo carattere pungente, l'attore Philip Cheriton, il posato Oliver Witcombe e servitù assortita, tra cui l'autista Bingham e il maggiordomo Parkins. Dietro la facciata di gioia che tutti quanti ostentano in occasione del Natale in comunione, tuttavia, si celano forti rancori, paure e gelosie che accrescono la tensione che già si respirava a Flaxmere ancor prima che tutti fossero arrivati a destinazione: Jennifer, infatti, desidererebbe lasciare definitivamente la casa del padre per farsi una vita propria e poter sposare il proprio amato, Cheriton; eppure Osmond Melbury si oppone con tutte le sue forze e minaccia di lasciarla senza alcuna dote. A ciò, va aggiunta la fredda accoglienza che Edith, Eleanor, Hilda e George ricevono una volta giunti a Flaxmere. La prima, infatti, viene ancora una volta accusata di essere incapace di mettere al mondo la prole che il vecchio si aspetterebbe da lei; la seconda, pur avendo sposato un uomo di rango adeguato secondo il volere del padre, viene accusata di essere incapace di frenare il temperamento bonario di quest'ultimo, imbarazzante in occasioni mondane; alla terza, invece, poiché ha disobbedito ad Osmond in modo plateale, sposando un artista che poco dopo l'ha lasciata vedova e con una figlia da crescere, viene rinfacciata la propria sconsiderata audacia; per non parlare di George, considerato alla stregua di uno sciocco incapace.

Come se tutto ciò non bastasse, inoltre, la presenza in casa di un'avvenente segretaria, Miss Portisham, non passa certo inosservata e contribuisce ad esasperare gli animi degli eredi, rimescolando le carte su chi sarà il fortunato prescelto a ricevere il grosso dell'enorme eredità che il vecchio si appresta a stabilire, proprio in occasione della riunione di famiglia per le feste. Insomma, non si preannuncia una bella settimana per i Melbury, costretti a fare buon viso a cattivo gioco e ad assecondare il vecchio Osmond per non rischiare di essere esclusi dal testamento; soprattutto quando quest'ultimo decide di voler mettere in scena una recita per i bambini, con tanto di Santa Klaus a distribuire i regali. Una bella seccatura, questa sceneggiata; che si trasformerà in tragedia quando, in seguito all'apparizione di Babbo Natale, lo stesso Osmond verrà trovato morto nel suo studio. La faccenda appare chiara fin da subito: a commettere il delitto può essere stato solo qualcuno che si è introdotto nella stanza per vie traverse, magari travestito per non essere riconosciuto; e chi meglio di Santa Klaus, impegnato a movimentare il teatrino inscenato per intrattenere i piccoli di casa, avrebbe avuto l'occasione per farlo? Eppure il colonnello Halstock, incaricato di condurre le indagini, capisce che qualcosa non va per il verso giusto: i numerosi indizi che iniziano ad essere raccolti sembrano suggerire che la soluzione sia ben diversa da quella ipotizzata, con un finestra aperta sul freddo dell'inverno e una fuga precipitosa che suggerisce la presenza di un estraneo sul luogo della tragedia. Toccherà indagare molto più a fondo, intorno alla strana sparizione di un costume da Babbo Natale e di un testamento ambiguo, prima di riuscire a fare luce sul mistero. Cosa che avverrà anche grazie all'aiuto di Kenneth Stour, attore col pallino per le indagini e con una cotta per la tranquilla Edith Melbury.

Mappa di Flaxmere in inglese
Mi rendo conto che, da come viene descritto nell'introduzione qui sopra, "Natale con Delitto" appaia molto simile a "Quando l'Amore Uccide" di Nicholas Blake. In entrambi i casi, infatti, l'enigma all'interno del racconto si basa sul fattore psicologico del carattere dei personaggi ed evolve in base agli indizi che, più o meno allo stesso modo, emergono dall'analisi di quest'ultimo. In un certo senso, questo è vero, visto che tutti e due i libri danno molta importanza al sentimento e alle emozioni manifestate dai personaggi: Blake si concentra sulle pulsioni nascoste dell'animo umano, sulle esplosioni suscitate e sulle ferite inferte dai violenti contrasti tra gli individui e sulla forza di volontà che anima ognuno di noi, nel bene e nel male; mentre in "Natale con Delitto" la bellezza della storia sta nel riuscire a calarci nei pensieri di tutti quanti, prima uno e poi l'altro, così da riuscire a farci un'idea generale di come evolverà la situazione e del clima di tensione che aleggia durante le fatidiche feste di Natale a Flaxmere, quando Osmond Melbury viene assassinato. Eppure, la trattazione psicanalitica della faccenda mi è sembrata decisamente diversa in ognuno dei romanzi, benché entrambi siano del 1936: infatti, se Blake sfrutta il suo complesso caso di omicidio per trattare in modo enfatico temi etici come quello della vendetta e quello della giustizia, ed indagare come la coscienza degli attori sulla scena si possa intersecare a un enigma, nel suo libro Hay fa invece un discorso molto più leggero e attinente alla tradizione, con un'indagine imperniata sulla trattazione classica dell'enigma sullo stile di Haynes in "Chi ha Ucciso Charmian Karslake?". In parole povere, sebbene gli ospiti di Flaxmere provino senza alcun dubbio le stesse forti emozioni degli abitanti di Dower House, ho avuto l'impressione che il fattore "introspettivo" dell'indagine sia stato sondato soltanto fino a un certo punto, senza sconfinare nel giallo psicologico che negli anni '30 stava iniziando a prendere piede.

L'enigma in sé, ad esempio, tratta di uno di quei convenzionali casi che si ritrovano spesso all'interno della crime story della Golden Age, dove il patriarca di una famiglia numerosa oppure un individuo che esercita un forte potere su alcuni subordinati viene ammazzato (cap. 1 e pp. 55-64): la scoperta del colpevole viene perseguita attraverso una ricerca di tipo "attivo", grazie all'utilizzo di molti indizi materiali come guanti, peli, foglietti, sopracciglia, impronte su macchine da scrivere e davanzali; alla quale tuttavia si combina un'attenta analisi dei rapporti tra membri della stessa famiglia Melbury oppure con i loro congiunti, dove Halstock si ingegna per capire quali siano le fonti di odio, invidia ed egoismo che lambiscono quelle terre inesplorate che sono per lui i caratteri più profondi dei protagonisti (cap. 1, pp. 10, 31, 37, 40-41, 44, 51-52, 57, 60, 70, 81-82, 88-94, 146, 239). Sebbene lui conosca da molto tempo i Melbury come amico di lunga data, di punto in bianco si ritrova a dover trattare ognuno di loro da un punto di vista professionale e ciò gli permette di notare come alcuni covino emozioni sotterranee che fino a quel momento non aveva compreso appieno. Si tratta pure in questo caso di importanti indizi, alla pari di quelli che è riuscito a ricavare dai sopralluoghi in giro per Flaxmere; e lui ne è consapevole, tanto da impegnarsi ad interrogare più volte la stessa persona per riuscire a scoprire cosa si celi sotto la maschera superficiale che ogni personaggio indossa (pp. 14-21, 44-45, 63, 131-138); ma in questo caso l'interesse per lo svelamento degli impulsi nascosti non serba alcun sottinteso melodrammatico o troppo calcato, poiché le sensazioni (pp. 265-266) conservano un'interesse limitato al caso in sé, senza la pretesa di voler sfruttare l'enigma e il rapporto tra i personaggi per fare discorsi seriosi sulla morale o indagare implicazioni elevate su tematiche importanti, come invece era stato il fine di Blake nel suo giallo.

A differenza di quanto accade in "Quando l'Amore Uccide", Hay mette in scena una vicenda più ridimensionata, dove il mistero viene considerato come un corollario dei personaggi (non il contrario) ed esso risulta privo di lirismo o ambizione a trattare argomenti complessi come la vendetta o l'elargizione di un qualche tipo di giustizia; semplicemente, nel suo romanzo giallo la psicologia viene sfruttata per giustificare il comportamento dei personaggi e dare loro moventi per cui agire, senza essere impiegata per esplorare a fondo la coscienza dell'individuo, con il fine di narrare una consueta storia di delitto famigliare, senza strafare e facendo il giusto per intrattenere il lettore (ne è un sintomo anche il fatto di aver raccolto, nelle pagine finali, una sorta di cluefinder, tabella che indica quali sono i passaggi indispensabili per comprendere chi sia l'assassino, usata anche da J.J Connington e Charles Daly King). Insomma, "Natale con Delitto" si potrebbe collocare in uno stadio intermedio tra il giallo tradizionale e quello psicologico; poiché nelle intenzioni assomiglia a "Chi ha Ucciso Charmian Karslake?" di Annie Haynes, sebbene Hay faccia un passo avanti nel tratteggio dei protagonisti della sua storia: rispetto ad allora, infatti, il suo stile a più voci, orientato comunque al passato e al giallo della Golden Age e mescolato a un certo gusto per il pettegolezzo (pp. 58-59, 215), che aiuta a seminare cattiveria (pp. 247-248, 270-272, 284) e ad esaltare istinti nascosti, affianca il tipo di indagine più "attiva" dell'ispettore Rousdon e risulta utile per delineare meglio ogni individuo dal punto di vista della psicologia (interesse che non era presente nel romanzo di Haynes), pur tenendo allo stesso tempo le distanze dal giallo psicanalitico di Blake.

Copertina dell'edizione inglese di "Natale
con Delitto", pubblicata dalla BLCC
La narrativa del mistero di Mavis Doriel Hay ha riottenuto una certa fama dopo che la British Library Crime Classics ha ripubblicato i suoi gialli. Fino ad pochi anni fa, infatti, poche persone si ricordavano dei libri di narrativa scritti da questa autrice, tanto che anche la sua biografia in terza di copertina dell'edizione italiana si limita a cinque righe stringate. In realtà, si conosce qualcosa di più su di essa (anche se non sono riuscito a trovare una sua fotografia). Mavis Doriel Hay nacque a Potters Bar, una cittadina del Middlesex, nel 1894. Dopo aver vissuto nei primi anni della sua vita a nord di Londra e aver frequentato il St. Hilda’s College di Oxford, nello stesso periodo in cui Dorothy L. Sayers si trovava a studiare al vicino Somerville College, divenne un’esperta di artigianato rurale: prima di assumere, una volta rinunciato alla narrativa, il ruolo di ricercatrice presso il Rural Industries Bureau ed incoraggiare le industrie artigianali in aree svantaggiate (si diceva che avesse tanti agganci vantaggiosi da poter organizzare conferenze addirittura nelle case dell'aristocrazia), condusse infatti numerose ricerche in questo ambito e pubblicò diversi libri per esporre le sue conclusioni, tra cui "Rural Industries of England and Wales", per il quale collaborò con Helen Elizabeth Fitzrandolph. Nel 1929 sposò proprio il fratello di Helen, Archibald Menzies, membro della RAF che morì in un incidente aereo nel 1943, durante la seconda guerra mondiale. Fu questa una delle tragedie che segnarono tristemente l'esistenza di Mavis: il più giovane dei suoi fratelli fu ucciso quando il suo aeroplano Tiger Moth si schiantò nella giungla Malese nel 1939, un altro affondò con la sua nave durante la Battaglia dello Jutland nel 1916, all'età di 19 anni, mentre nel 1940 un terzo fratello perse la vita lavorando nella famigerata linea ferroviaria Thailandia-Burma, dopo essere stato catturato dai giapponesi. Nel 1979, l’autrice si spense nel villaggio di Box, nel Gloucestershire, dove aveva risieduto per gran parte della sua vita da adulta; prima di allora, tuttavia, fra il 1934 ed il 1936 scrisse tre romanzi gialli che furono enormemente apprezzati sia dal pubblico che dalla critica: "Murder Underground" (1934), "Death on the Cherwell" (1935) e “Natale con Delitto". Ognuno di essi rientra nel canone del giallo tradizionale della Golden Age, con un'interesse particolare per la psicologia: sono convito che lei preferisse il classico schema della crime novel del dopoguerra in cui lo stile e l'enigma, con tanto di deliziosi e astuti depistaggi e l'eleganza caratteristica dei romanzi di un tempo, sono i punti forti (pp. 95-98, 100-102, 109-110, 182-186, cap. 20).

Molti sono gli elementi che si rifanno a questo tipo di fiction: l'abituale famiglia riunita per le feste di Natale in un'ambientazione sufficientemente d'atmosfera (p. 267), la casa isolata, un anziano scorbutico che ha deciso di cambiare il proprio testamento (pp. 152-153), la mappa dettagliata della scena del crimine, il sovrintendente determinato ma garbato che viene affiancato al detective dilettante, la presenza di indizi materiali da incastrare nel mosaico dell'indagine (come un frammento di carta con alcuni calcoli sull'eredità), un certo classismo che emerge dai discorsi dei personaggi (pp. 20, 41, 50-51, 66-67, 118-119, 254) e il rispetto della tradizione (pp. 73-73). Il racconto della storia nei primi e ultimi capitoli, descritti secondo il punto di vista di alcuni dei protagonisti come era avvenuto in "La Pietra di Luna" di Wilkie Collins, assieme alla presenza di numerosi tipi di testo diversi, riesce a dare una visione del delitto diversa dal solito, e al tempo stesso consente agli attori sulla scena di rivelare meglio, attraverso la funzione della scrittura come mezzo di indagine (pp. 137-139, 145-146), la propria personalità, nel caso in cui omettano di volta in volta alcuni aspetti della vicenda. Qualcosa di simile ha fatto anche Agatha Christie nel suo "Il Natale di Poirot". Ogni membro del gruppo ha un movente per il delitto e, sebbene all'inizio si faccia fatica a star dietro alla grande quantità di sorelle e declinazioni dei loro nomi (Edith-Ditte-Lady Evershot, ad esempio), riesce a conservare una propria personalità che nel corso della storia si fa sempre più marcata. A spiccare tra gli opportunisti e i sospettati, sono soprattutto le figure di Ashmore, l'autista (pp. 27, 243-245, 266-267); di Jennifer (pp. 47-48, 59, 65, 241-242, 227-239), Hilda (pp. 30-34, 285), Edith (capp. 1, 3-5, 7, 15), le figlie di Osmond; di Carol (capp. 1-3, 12-13, 17, 19-20), la figlia di Hilda; e di David Evershot (13, 59-64, 110-114, 196-197, 199, 201-202 285), il marito di Edith. Ognuno di loro dipinge un complesso ritratto che rimanda a uomini e donne vissuti molti anni fa, ma in qualche modo attuali: le difficoltà di Hilda e Ashmore di tirare avanti e prendersi cura della propria famiglia; la prigionia di Jennifer e Carol in una società in cui le donne non riescono ancora a provvedere a se stesse; le pressioni di Edith nel sostenere David e l'invalidità psicologica di quest'ultimo; tutto ciò mi ha profondamente commosso. È nei piccoli personaggi che emerge l'abilità di Hay nel tessere le sue trame, piene di colpi di scena, stratagemmi e bugie ben nascoste. Il tutto, inoltre, viene descritto con grazia e chiarezza, che rendono questo romanzo molto gradevole e ironico. Non bisogna dimenticare che Hay era ancora alle prime armi, quando decise di dedicarsi al romanzo giallo; quindi, se anche potremmo notare qualche imperfezione (come il copioso numero di sospettati oppure una certa ingenuità nella soluzione del caso), penso che esse siano perdonabili al netto del risultato. Tutto l'insieme riesce a dare vita a un libro originale, che soddisfa le aspettative del lettore e lo accompagna durante il periodo del Natale, dimostrando ancora una volta che, anche in occasioni del genere, il delitto e la gelosia non sono mai bandite del tutto.

P.S. Questo è l'ultimo post prima di Natale, quindi approfitto per farvi tantissimi auguri. Spero che possiate passare delle buone feste felici e dedicarvi a molte nuove letture!

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venerdì 13 dicembre 2019

17 - "Quando l’Amore Uccide" ("Thou Shell of Death", 1936) di Nicholas Blake

Copertina dell'edizione pubblicata
nei Classici del Giallo Mondadori
n. 449
Nella recensione di "Un Delitto Inglese" di Cyril Hare della settimana scorsa, abbiamo visto come il "Christmas Murder Mystery" sia legato a doppio filo tanto con il passato quanto con il futuro; ancor più di quanto accada con la "normale" crime novel della Golden Age. Nel "Giallo di Natale", infatti, benché si respiri una forte atmosfera rarefatta, in cui elementi suggestivi della tradizione riescono a rivivere insieme ai propri pregi e difetti, si nota pure una spiccata consapevolezza del fatto che non ci si possa adagiare sul tempo ormai trascorso e sia necessario affrontare e accogliere senza riserve ciò che inevitabilmente verrà. Da ottimo strumento per indagare la complessità dell'animo umano, a partire dagli anni '30 il mystery classico si è fatto portavoce di importanti cambiamenti sociali e politici, adottando di volta in volta forme nuove per rappresentare al meglio questi ultimi e accontentare il suo pubblico; eppure, contemporaneamente non ha dimenticato ciò che ha costituito il tempo andato e ha saputo mettere in luce l'atteggiamento di orgoglio e sfida dello scontro ideologico tra generazioni e come, a volte, il passato possa tramutarsi in uno spettro che infesta il presente, mettendo in dubbio il futuro; soprattutto all'interno del sottogenere a tema natalizio. Da parte mia, sono sempre stato affascinato da questo tipo di contrasto presente nel "Christmas Murder Mystery"; nutro un debole per qualunque romanzo del mistero ambientato in scenari datati ma suggestivi, con una bella nevicata che confini i protagonisti fuori dalla rassicurante civiltà e li costringa, tra un festeggiamento e l'altro, a far fronte ai propri demoni interiori e a mettere a confronto idee e concetti personali; e sono convinto che la grande fortuna del "Giallo di Natale" vada ricercata proprio nella sua capacità di mescolare al meglio antico e moderno e di declinare i caratteri fondamentali della crime novel, secondo uno schema tanto preciso quanto affascinante che si è sviluppato di pari passo con l'ascesa del sottogenere "psicologico".

Sono quattro gli elementi a cui mi riferisco: per dare vita a una trama vivida e capace di cristallizzare scene di grande effetto, agli autori occorrono un'ambientazione intrigante (relegata all'immancabile casa di campagna, meglio se claustrofobica e isolata da una bufera), il tratteggio di personaggi variegati (magari legati da rapporti famigliari o di amicizia e costretti a convivere insieme in un luogo limitato, ognuno con un punto di vista e una personalità spiccata), uno stile perversamente gradevole che mescola ironia nera e un tocco di gioiosa allegria e, ovviamente, un enigma in cui esiste una complessa corrente sotterranea di sentimenti contrastanti (in cui l'esplosivo contrasto tra amore e odio sfocia nell'omicidio attentamente pianificato). Mettere insieme tutti questi caratteri, aggiungendo innovative strategie di indagine psicologica e rancori sopiti, significa dare vita a complessi ritratti sulla natura e sul comportamento umani, in cui a una certa nostalgia per il passato viene accostato un moderno approccio all'indagine, e per quanto mi riguarda assicura una lettura perlomeno piacevole. Il più delle volte, però, ho notato che uno di essi viene valorizzato di più rispetto agli altri; per cui, nel corso di questo mese, ho deciso di prendere in considerazione una classica crime novel specifica per ognuno di questi elementi del "Giallo di Natale", partendo proprio da quello più significativo. L'enigma, infatti, costituisce il fulcro di ogni romanzo giallo che si rispetti, sia esso ben costruito o meno, e in "Quando l'Amore Uccide" di Nicholas Blake (Classici del Giallo Mondadori n.449, 1984) esso è stato caricato di un significato particolare. Al fascino di una trama giocata su caratteri tradizionali come una tetra casa di campagna e personaggi dalla personalità esplosiva, tratteggiati con uno stile che tende a rafforzare le emozioni che essi esprimono, si aggiunge un mistero contraddistinto da tumultuose correnti sotterranee e da una moderna desolazione nel tratteggio dell'indagine, che anticipa già in qualche modo il giallo psicologico che avrebbe riscosso grande successo anni dopo e si scontra con il periodo natalizio in cui essa si svolge, dando vita a un delitto impossibile di altissimo livello e al "più strano, più complicato, più melodrammatico caso" nel quale Nigel Strangeways, il protagonista del libro, si sia mai imbattuto nel corso della sua carriera di investigatore dilettante.

Villa georgiana nel Somerset, simile alla Dower House di
Fergus O'Brien
La vicenda si apre pochi giorni prima di Natale, quando Nigel, il quale si trova a Londra come ospite di alcuni parenti, lord e lady Marlinworth, riceve la visita dello zio John, nientemeno che l'Assistente all'Alto Commissario di Scotland Yard. Quest'ultimo, memore dell'acume dimostrato dal nipote nel corso della sua prima indagine ufficiale (raccontata in "Questione di Prove") e deciso ad aiutarlo a farsi una reputazione di tutto rispetto, intende sottoporre alla sua attenzione un caso molto particolare. Il leggendario eroe dell'aria Fergus O'Brien, ormai ritiratosi da qualche tempo dalla vita pubblica in favore di un isolamento volontario presso una villa lontana dal caos cittadino, si trova infatti in una situazione a dir poco spiacevole, per la quale si è rivolto alla polizia: da qualche mese sta ricevendo una serie di lettere minatorie molto particolari, venate di un umorismo melodrammatico, che gli preannunciano la sua prossima dipartita il giorno di Santo Stefano e il cui mittente non è stato possibile rintracciare. Sebbene O'Brien non appaia molto intimorito da questa faccenda, sir John teme che ci possa essere qualcosa di fondato nelle minacce rivolte al famoso aviatore; oltretutto, egli stesso ha lasciato velatamente intendere che gradirebbe una protezione ufficiosa fino alla fine delle feste, per scongiurare del tutto il pericolo, forse perché convinto di essersi fatto troppi nemici, disposti a vendicarsi di lui ad ogni costo, nel corso della sua vita movimentata. Tuttavia, la sua guardia del corpo non dovrebbe essere un vistoso poliziotto: dopotutto, la storia delle lettere potrebbe rivelarsi uno scherzo di pessimo gusto e la presenza di un agente nella sua casa gli impedirebbe di muoversi liberamente e mal si accorderebbe al suo capriccioso umore e instabile temperamento. Pertanto, sir John ha deciso di chiedere a Nigel di assumersi l'incarico di proteggere l'aviatore senza dare nell'occhio, qualora fosse interessato. Il giovane è incuriosito dal caso e dall'illustre celebrità coinvolta; così decide di accettare, fosse solo per conoscere il mitico pilota. In questo modo, approfittando di un passaggio da parte degli anziani parenti diretti in una casa vicina a quella dell'aviatore, si presenta a Dower House pochi giorni prima di Natale.

Fergus O'Brien si rivela un personaggio estremamente difficile da decifrare: da una parte sfoggia un atteggiamento fin troppo sicuro di sé, e dall'altro sembra essere turbato dalla minaccia dello sconosciuto assassino presunto. Passeggia irrequieto per la casa e il giardino, indeciso se mostrarsi coraggioso oppure nascondersi finché il pericolo non è passato; fa strani commenti alle parole di Nigel e trascorre le sue giornate in una solitudine quasi completa, studiando misteriosi progetti per un nuovo aeroplano. Inoltre, come se non fosse già abbastanza difficile tenere d'occhio quanto accade ad O'Brien, quest'ultimo complica il compito di Nigel decidendo improvvisamente di dare una festa per Natale, durante la quale saranno invitati alcuni suoi conoscenti (tra cui alcuni individui vendicativi che, a detta dello stesso aviatore, avrebbero motivi più che legittimi per eliminarlo). Nigel Strangeways inizia a dubitare di poter assolvere al suo compito e lo fa notare al suo protetto; eppure O'Brien ha predisposto un piano per sfuggire alla sua prematura fine, e la sera di Natale si rinchiude in una baracca vicino a Dower House, mentre la neve inizia a cadere dal cielo. Peccato che il mattino seguente, di buon'ora, proprio laggiù venga rinvenuto il suo cadavere; e cosa più strana, le uniche orme sul prato innevato che collegano la casa alla sua piccola appendice vanno verso quest'ultima, come se nessuno ne fosse uscito fino alla scoperta del corpo.

Si tratta di suicidio? Nigel è sicuro che non sia così e, indispettito dall'essere stato messo nel sacco dall'assassino, decide di prende parte alle indagini della polizia (impersonata dal sovrintendente Bleakley) iniziando a raccogliere indizi e a sondare quella che lui definisce "la dimensione emotiva" del caso. Infatti, sebbene le prove materiali puntino verso gli ospiti della casa (Knott-Sloman, il proprietario di un club di dubbia fama; Lucilla Thrale, l'amante di O'Brien; i fratelli Georgia ed Edward Cavendish, esploratrice e finanziere, e Philip Starling, professore di greco a Oxford), i caratteri dei sospettati non si accordano con il quadro del delitto che pian piano la polizia riesce a costruire con l'aiuto dell'investigatore dilettante. Ognuno di loro avrebbe potuto decidere di sopprimere l'aviatore; eppure il profilo dell'assassino racchiude troppe caratteristiche incongruenti e Nigel si convince che la chiave del mistero debba risalire molto indietro nel tempo; forse addirittura alla giovinezza dell'Eroe dell'Aria, tanto più che essa è avvolta nel più stretto riserbo e sembra che nessuno vi possa far luce. Dovrà fare un lungo viaggio e assistere ad altri atti criminosi, prima di poter sbrogliare la matassa in un finale sbalorditivo, in cui risulteranno fondamentali l'intervento di un insigne grecista e la conoscenza dell'oscuro teatro elisabettiano.

Disegno raffigurante una veduta dei teatri elisabettiani a
Londra, con The Globe e The Bear Gardne
Pubblicato per la prima volta nel 1936, "Quando l'Amore Uccide" mette in mostra al meglio quel profondo interesse per la psicologia che ha caratterizzato gran parte della crime story degli anni '30. Se tra l'inizio del Novecento e la fine della Prima Guerra Mondiale, infatti, l'attenzione degli scrittori di gialli si era concentrata sull'ideazione di delitti in cui era la componente "meccanica" a farla da padrone, con l'utilizzo di stratagemmi legati a trappole nascoste, numerosi indizi materiali disseminati tra le pagine e un investigatore che interroga il proprio cervello secondo criteri e deduzioni prettamente scientifici (come, ad esempio, in "L'Occhio di Osiride" di Richard Austin Freeman"), poco tempo dopo la fine della Grande Guerra le teorie innovative sulla psicanalisi di Sigmund Freud spinsero alcuni autori di crime novels ad introdurre nei loro libri enigmi dalla forte componente psicologica, i quali ruotavano più sulle emozioni e gli impulsi dei personaggi che sul metodo di uccisione in sé. Con questo non voglio dire che l'interesse per la pura detection scemò: il sottogenere della camera chiusa, basato su trucchi illusionistici e astute trovate e caratterizzato dalla canonica "sfida al lettore", riscosse un grande successo ancora a lungo, come testimoniano i libri di John Dickson Carr; eppure, non tutti decisero di seguire la stessa strada "tradizionalista" intrapresa dal Maestro del Brivido. Pur senza rinunciare a un'indagine in cui le prove servono ad inchiodare il colpevole e a portarlo sulla forca, scrittori come Nicholas Blake (tra i britannici con Edmund Crispin e Michael Innes, ma non solo) oppure Helen McCloy, per citare anche una tra le autrici americane più meritevoli in questo senso, svilupparono un tipo di romanzo in cui l'approccio all'indagine assumeva una connotazione più moderna, basata sul profilo dei sospettati e sui moventi che li spingono ad agire nel corso della storia, e che mescola la formula classica del giallo con una trattazione innovativa dell'enigma.

Nel libro della recensione di oggi, il fulcro della vicenda ruota proprio attorno all'indagine e all'applicazione di una profonda analisi della psiche dei personaggi per la risoluzione di un mistero diviso tra passato e presente. Certo, il quesito è equilibrato tra meccanica e risvolti psicologici (non per niente, venne ispirato proprio da Carr nella sua declinazione di delitto impossibile; vedasi cap. 14, ma anche cap. 5); però il trucco pratico viene svelato ben presto ed è nella sua "dimensione emotiva" (p. 62), generata dal sentimento e dalle percezioni, che l'indagine esalta la propria identità: il comportamento e la reazione di ogni singolo individuo davanti a questioni morali, infatti, diventa più di tutto il resto un tassello da mettere al proprio posto per comprendere la totalità del problema, all'interno di un quadro più grande in cui dominano temi etici come quello della giustizia e della vendetta. Tra le prime volte all'interno della letteratura del mistero, in "Quando l'Amore Uccide" i personaggi, tratteggiati a tutto tondo, diventano prove da catalogare e da decifrare allo stesso modo delle orme sulla neve e degli oggetti incriminati, con tantissime sfaccettature e segreti (pp. 35, 37, 57, 62, 76, 85...), e l'insieme delle loro reazioni al momento di contatto gli uni con gli altri genera interessanti esiti in favore dell'indagine (pp. 85-87, cap. 11); soprattutto l'investigatore e l'assassino che, pur rappresentando le due facce della natura umana e l'ineluttabile successo del primo a riflettere la speranza dell'uomo nel trionfo del bene, vengono messi sullo stesso piano e condividono pietà e compassione da parte dell'autore, come se l'omicida non debba per forza essere considerato un mostro e il delitto appaia in qualche modo giustificabile. Inoltre, ancora una volta, la contrapposizione tra ciò che è stato e il presente è molto forte e, come era avvenuto in “Un Delitto Inglese” e in “La Figlia del Tempo”, gioca un ruolo importante nel plasmare i caratteri degli attori sulla scena e nella scoperta della verità (probabilmente si tratta di un eco della fede marxista che Blake aveva abbracciato nel corso degli anni '30, assieme a W. H. Auden e ai suoi compagni poeti, la quale prevede che il passato si conservi nel presente, benché "risolto" in una forma superiore). Tuttavia, se dalle storie di Hare e Tey emerge un certo ottimismo, in "Quando l'Amore Uccide" invece si percepisce una forte desolazione mista a cinismo, fatalismo e senso di rivalsa, che si riflette sulla gente di Dower House e permette di andare molto più a fondo che nei romanzi che ho citato sopra. La crisi del primo trentennio del Novecento, seguita alle guerre mondiali, ha gettato più di un'ombra sull'umore della gente e ciò emerge dal tono usato per tratteggiare la storia dell'omicidio di Fergus O'Brien: se ci fate caso, benché ambientata a Natale, essa risulta priva di ghirlande e abeti decorati, festoni e calze appese alle pareti e ai caminetti e regali da scartare, e il suo autore sembra giocare "per sottrazione", senza esaltare in modo particolare le festività ma sottolineando il disagio provato dalle persone coinvolte nell'indagine (es. pp. 99, 118-119).

Ognuna di loro sembra lottare contro gli altri e contro se stesso, mente il passato ritorna in continuazione, nelle vesti della guerra (da notare i continui riferimenti dello stesso O'Brien alle pp. 11-16, 21, 26, 80; del vagabondo Alfred Blenkinsop alle pp. 97-100; e del veterano Hope, dal nome significativo, alle pp. 145-147, 195; ognuno in qualche modo sconfitto dal conflitto) e della nostalgia (oltre ai Marlinworth, aggrappati alle fotografie delle pp. 151-153 e agli aneddoti sul tempo andato del cap. 1, anche Georgia Cavendish rivela un forte abbattimento interiore nel cap. 11 e il ritratto di un'Irlanda anteguerra commuove grazie alle sue descrizioni di gioia perduta alle pp. 155-165); esso incarna la vera figura dell'antagonista, che influenza l'assassino nella sua opera di morte come uno spettro invisibile ma pur sempre presente (p. 20); è qualcosa che emerge nel tono cupo delle parole dei personaggi (pp. 99, 101, 118-119, 17-180) e ne ostacola l'evoluzione, poiché imbrigliati in stretti lacci che impediscono i movimenti (anche i Marlinworth, che ormai vivono nel ricordo, appaiono ingessati nel loro essere antiquati), ed è impossibile da sconfiggere del tutto. Ma soprattutto, è motore che alimenta la sotterranea forza dei sentimenti e ingigantisce, ancor più dei semplici fatti, le loro conseguenze che muovono i fili all'interno di questo meraviglioso libro; basta leggere il finale per comprenderlo. Perciò, come all'interno di un dramma elisabettiano, gli impulsi, i desideri e la smania degli attori sulla scena vengono centuplicati e così li percepisce anche il lettore, mentre il senso dell'onore e della vendetta sovrasta qualunque cosa, simile a un mare in piena. La similitudine sul teatro non arriva a caso, poiché una parte importante della soluzione la gioca proprio l'ostica materia riguardante i drammaturghi del 1600 e l'immagine della vendetta che in essa viene dipinta. È proprio quest'ultima che, grazie alla forte componente psicologica dell'enigma, in cui importano soprattutto le azioni e le parole di ogni individuo, si staglia su tutto il resto e conferisce originalità a "Quando l'Amore Uccide". Probabilmente Blake aveva già studiato il soggetto del teatro elisabettiano mentre si trovava ad Oxford, e deve essersi accorto che esso si adattava molto bene ai toni desolati delle indagini di omicidio da parte della polizia. Basta pensare all'opera di Shakespeare, senza andare a scomodare altri suoi colleghi contemporanei: Macbeth ed Amleto sono due esempi di come la componente delittuosa fosse una costante in tragedie di quel periodo. Esse mettevano in scena i conflitti della vita reale, attraverso rappresentazioni fittizie (proprio come le crime novels degli autori della Golden Age), e andavano ad indagare pulsioni come il senso dell'onore e della rivalsa e la sete di potere, oltre al modo in cui esse influissero sull'animo umano; e proprio a questi due aspetti Blake si è ispirato per la scrittura dei propri libri.

In "Quando l'Amore Uccide", egli mette l'accento sulla personalità degli individui e, soprattutto, della vittima: chi era Fergus O'Brien? Come mai ha fatto di tutto per nascondere la sua vita prima del servizio militare? Forse si è reso colpevole di un atto orribile e qualcuno vuole fargliela pagare? E se è così, è opportuno per quella persona lasciarsi andare agli impulsi negativi oppure bisogna fare di tutto per contrastarli? Nei suoi libri, Blake indaga sul dilemma che sta alla base della scelta di agire dell'individuo colpevole e che ne segna il destino: esso è indice di un sentimento molto forte, che prima o poi può prendere ognuno di noi, e l'autore (per bocca di Nigel Strangeways) si domanda se sia legittimo provare quel risentimento quando qualcuno ci priva di ciò che per noi ha molta importanza. Forse la linea tra il bene e il male è più labile di quanto ognuno possa pensare, esiste un prezzo oltre il quale non siamo disposti a passare sopra e i nostri istinti ci spingono inesorabilmente a cercare un risarcimento, quasi come se la vendetta fosse auspicabile rispetto a qualunque altra cosa? In ogni caso, tutto dipende dall'importanza che noi scegliamo di dare a ciò che abbiamo perduto, ed è essa a stabilire quanto valga il nostro sacrificio. Le lettere anonime di "Quando l'Amore Uccide" suggeriscono proprio una situazione del genere, quali veicolo di un senso vendicativo radicato in profondità e al quale non si riesce più a dare sollievo; e se da una parte agli occhi dei lettori esse sono giustificate, dall'altra, man mano che la storia prosegue, ci rendiamo conto sempre più che cosa debba provare una persona vittima di questo sentimento per lungo tempo, che logora il destinatario e scava dentro al mittente, finché non resta altro che un guscio vuoto e si è condannati a un'esistenza vacua, vivi ma allo stesso tempo morti. Anche questa concezione "amorale" del colpevole è indice di una visione decisamente più moderna di quella degli scrittori di gialli di inizio Novecento: l'assassino e la sua preda non sono più considerati in modo automatico come mostro e vittima, ma a volte possono scambiarsi di ruolo. In questa voglia di innovazione e capacità di restare attuale, l'opera di Nicholas Blake si avvicina molto a quella delle Crime Queens (Dorothy L. Sayers, Agatha Christie, Margery Allingham e Ngaio Marsh) e costituisce uno dei migliori esempi di commistione tra giallo deduttivo e psicologico insieme.

Cecil Day-Lewis (alias Nicholas Blake), nato
nel 1904 e morto nel 1972
Infatti, anche se per definizione la classica crime story viene spesso associata a scrittrici di sesso femminile, non bisogna far l'errore di considerare gli scrittori maschili come scadenti o meno importanti. In tanti hanno preso le distanze da banali thriller, sul genere di quelli buttati già da John Buchan o di Sydney Horler, e si sono applicati alla costruzione di libri raffinati; come John Dickson Carr, ad esempio, che con le sue trovate straordinarie resta uno dei più grandi narratori di tutti i tempi, oppure autori meno conosciuti ma che hanno comunque dato un contributo importante al genere. Tra questi, vi sono alcuni esponenti del giallo deduttivo che godettero dell'elevata formazione accademica che Oxford assicurava ai suoi studenti: Edmund Crispin, Michael Innes e lo stesso Nicholas Blake, i quali ammirarono la prima generazione di giallisti e si adoperarono per ideare romanzi che riuscissero a fondere elementi di alta cultura con gli aspetti generali della detective novel. Una precisazione, però: quello di Blake fu uno pseudonimo. Dietro di esso si nascondeva Cecil Day-Lewis, Poeta Laureato, amico di W.H. Auden, esperto critico, elogiato da Churchill e da Lawrence d'Arabia, nonché padre dell'attore Daniel Day-Lewis. Nato nel 1904 a Ballintubbert, in Irlanda, egli si trasferì ben presto in Inghilterra, dove venne educato in alcune delle più prestigiose scuole del Regno Unito. Dopo la pubblicazione di una prima raccolta di poesie e la laurea a Oxford nel 1925, Day-Lewis si sposò con Constance Mary King e iniziò ad insegnare in alcune scuole, trovando tuttavia una certa ostilità a causa della sua adesione al comunismo. Nel 1935, volendo integrare i magri guadagni che gli procacciava la sua produzione poetica, decise di intraprendere la carriera di scrittore e pubblicò il suo primo mystery, "Questione di Prove", adottano lo pseudonimo di Nicholas Blake.

Il romanzo, che ottenne l'elogio della critica ma gli costò anche il posto di lavoro come insegnante (il caso è incentrato su una relazione adulterina tra la moglie del preside e un insegnante), introdusse il personaggio di Nigel Strangeways, l'immagine fittizia di Auden a cui vennero affiancati i tratti peculiari dell'investigatore dilettante: la passione per la citazione (innumerevoli all'interno dei suoi romanzi) e per la declamazione di poesie ad alta voce, l'intelligenza, la cultura, un certo fascino e buone maniere. Prima della morte, avvenuta nel 1972 mentre si trovava ospite dell'amico Kingsley Amis, Day-Lewis usò il suo nom de plume per produrre altri diciannove gialli (tra cui vanno ricordati "La Belva Deve Morire", da cui è stato tratto un film diretto da Claude Chabrol, "Le Pentole del Diavolo", "La Testa di Creta" e "Una Lama nel Cuore"), quasi tutti con protagonista Strangeways (il quale compie nel corso della sua esistenza un'evoluzione complicata quanto quella del suo stesso creatore), sostenendo spesso che essi servissero per sovvenzionare le spese della sua famiglia che, nel frattempo, era cambiata molte volte: a partire dagli anni '40, infatti, Day-Lewis divorziò dalla moglie e intraprese una lunga serie di relazioni con altre donne più giovani. Anche Dorothy L. Sayers ed Anthony Berkeley insistettero ad affermare come le loro crime novels fossero un semplice riempitivo per guadagnare soldi facili; il mio modesto parere è che, se davvero fosse stato così, non ci avrebbero mai messo tanto cuore ed anima nel crearli. Tutti e tre, infatti, non studiarono trame insipide e semplicistiche, ma si impegnarono ad innovare il genere, e Blake lo fece soprattutto con lo sviluppo della psicologia emotiva e l'introduzione di quesiti complessi ed intriganti.

Non solo "La Belva Deve Morire", il quale viene considerato il suo capolavoro, ma anche gli altri suoi romanzi sono caratterizzati da una grande attenzione in fatto di sentimento e psicologia, che sta alla base della ricerca della verità e si nasconde dietro al movente delle azioni umane. Il senso di perdita e di ineluttabilità di "Quando l'Amore Uccide", ad esempio, dà un tocco in più a tutta quanta la faccenda, e riesce ad infondere nel lettore uno struggimento che va ad aggiungersi all'amarezza del finale e alla delusione dei suoi personaggi. A fare da contorno, poi, ci sono un'ambientazione suggestiva adatta al tono malinconico della storia e caratterizzata da un grande senso della scena, con descrizioni degli ambienti che rendono il tutto un po' rarefatto, come se fossimo sospesi nel tempo (pp. 5, 19-20, 40, 64, 87-88, 96, 129, 150, 155-157, ma un plauso particolare va al toccante resoconto del salvataggio di Georgia Cavendish da parte di O'Brien nel deserto africano al cap. 11). I personaggi, dotati di forti personalità, si imprimono nella mente del lettore e sembrano muoversi davanti ai suoi occhi, tra le righe del libro. L'avventuriera che si smarrisce tra le dune sabbiose e rischia di morire (pp. 35, 71, 81-83), l'aviatore che la salva con un atterraggio di fortuna (pp. 11-16, 21-28), l'amante con l'animo melodrammatico da attrice che fa cadere gli uomini ai suoi piedi (pp. 69, 77, 85-86), il docente bisbetico dall'atteggiamento cinico e svogliato (pp. 32-33, 68-73, 130), l'egoista proprietario di night-club con il pallino per le noci da sgranocchiare (pp. 70, 79), il finanziere dotato di sangue freddo e mente razionale per far fronte agli imprevisti (pp. 84-85); tutti costoro agiscono come in un palcoscenico, dando al lettore indizi e false piste su cui arrovellarsi. Persino la cuoca, che solitamente è un personaggio un po' invisibile al'interno della trama, riesce a spiccare insieme agli altri per il suo fanatismo religioso e una certa dose di sadismo insito nella propria personalità (pp. 49-50).

La grande capacità di dipingere gli eventi con stile evocativo, immergendo il lettore in affascinanti e suggestive descrizioni molto diverse tra loro (la spedizione nel deserto al cap. 11, il ritrovamento del cadavere nella baracca al cap. 4, il volo fatale per uno dei personaggi sospetti sul finale) in modo sempre egregio, le continue citazioni al dramma del XVII secolo, che con le sue tinte fosche è perfetto a descrivere una vicenda desolata come quella raccontata (pp. 19, 21, 39, 98-99, 196-198), e la continua aggiunta di eventi criminosi ed indizi che fa cambiare prospettiva al lettore e lo guida in un territorio ancora inesplorato, in un'eterna girandola caleidoscopica che muta i sospetti in vicoli ciechi fino alla spiegazione perfettamente logica e in sintonia con i piccoli dettagli sparsi per tutto il romanzo (indispensabili per arrivare a capire che "quando l'amore uccide", non contano i semplici ragionamenti logici, ma bisogna prendere in considerazione anche come l'odio e il senso di vendetta si possano trasformare in sentimenti capaci di spingerci a compiere le imprese più straordinarie e, a volte, a sacrificare ciò che abbiamo di più caro in nome di qualcosa che abbiamo provato un tempo ma che, alla fine, ci è stato portato via, lasciandoci orfani e come "gusci di morte", decisi a darci quella giustizia che non sempre ci viene accordata) fanno di "Quando l'Amore Uccide" un romanzo complesso, in cui l'autore sembra metterci in guardia dal fatto che la vendetta abbia un costo non indifferente e mai conseguenze positive, soprattutto se associata con quel pericoloso sentimento che è l'amore; poiché essa è capace di pazientare per anni e anni nel cuore degli uomini e di infondere una forza incredibile in chiunque la nutra, come un fuoco inestinguibile che divora ciò che lo circonda, fonte di grandiose soddisfazioni le quali altro non sono che effimeri miraggi di un passato che mai ritornerà, ma anche di rovinare l'esistenza delle sue sfortunate vittime. Sta all'individuo decidere se vale la pena giocare la partita fino in fondo, oppure rinunciare ad essa in favore della consapevolezza di convivere col ricordo di quanto è accaduto.

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venerdì 6 dicembre 2019

16 - “Un Delitto Inglese” (“An English Murder", 1951) di Cyril Hare

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Sellerio Editore
Se c'è qualcosa di cui la Gran Bretagna va fiera, questa è la sua Tradizione più o meno antica nel tempo. Non solo dal punto di vista sociale e politico, considerando il fatto di possedere la democrazia più longeva del mondo (anche se negli ultimi anni sta affrontando non poche difficoltà a causa della Brexit), affiancata alla monarchia più famosa della Storia; ma pure in ambiti artistici come quello cinematografico: non per niente, uno dei suoi celebri esponenti fu nientemeno che Alfred Hitchcock, conosciuto soprattutto per le sue opere americane ma pure regista di film realizzati nella Vecchia Europa, imitato e assurto al riverente titolo di Maestro del Brivido. A ragione, si potrebbe dire che l'Inghilterra abbia costruito la propria fortuna sulla capacità di esaltare e sfruttare il suo eterno passato come se fosse ancora parte del presente (cosa che, purtroppo, non si riesce a fare adeguatamente in Italia, dove la materia prima è tanto più copiosa che in qualunque altro Paese quanto bistrattata): ha conferito ai modi di fare e intendere un dato argomento e agli usi e costumi del suo popolo un'immutabilità perenne e un'importanza caratteristica, tale da renderli inconfondibili da quelli del resto dell'Europa e da tramutarli in una "merce" da esportare all'estero, così da instaurare un prototipo (forse anacronistico?) che contribuisce ad accrescere e celebrare la grandezza del Paese, inducendo noi "stranieri" a guardare sempre più spesso al modello inglese come a un punto di riferimento, a farcì influenzare da esso e a tentare di imitarlo, addirittura facendo nostre alcune usanze meramente "folkloristiche" della sua storia, pur di sentirci più vicini alla Gran Bretagna. In tal senso, un esempio che sorge immediato alla mente è quello riguardante il Natale. Le abitudini anglosassoni, risalenti a secoli fa, prevedono una preparazione e una conseguente celebrazione di tale festa così da fondere gli antichi riti druidici con quelli cristiani, in una maniera che nel tempo è stata più o meno adottata anche altrove: ci sono le carole beneauguranti da cantare insieme agli amici di porta in porta, scambiandosi ramoscelli sempreverdi; la scrittura delle letterine per Babbo Natale e delle cartoline di auguri per i parenti; la decorazione dei negozi con addobbi natalizi a partire dal mese di novembre; per non parlare, poi, del complesso procedimento che porterà all'apertura del Calendario dell'Avvento, alla decorazione dell'albero in casa (suddiviso in fasi temporali) e all'apertura dei regali, in seguito alla Messa della Vigilia e di quella del giorno di Natale.

In realtà, ci sarebbero molti altri gesti legati alle feste natalizie (alcuni prettamente british, altri che pian piano abbiamo adottato anche noi), ma elencandoli tutti rischierei di dilungarmi troppo e di annoiare; quello che mi interessa sottolineare, è come il popolo inglese tenga in grandissima importanza tutto ciò che è legato al suo passato, sia tanto fiero di esso da desiderare e riuscire ad esportarlo, come se fosse qualcosa di scontato, e sia difficilmente disposto a cambiarlo in favore di usanze moderne (anche nel momento in cui sarebbe meglio farlo). Questo concetto, tra altre cose, è illustrato al meglio in uno dei più classici romanzi gialli della tradizione natalizia britannica: "Un Delitto Inglese" di Cyril Hare (Sellerio Editore, 2017), pubblicato anche nei Classici del Giallo Mondadori col titolo "Delitto di Natale". La Tradizione, insieme alla sua celebrazione, è infatti il tema principale attorno a cui ruota questo delizioso esempio di crime story legata al "Christmas Murder Mystery", in cui coesistono tutti i più tipici elementi caratterizzanti il sottogenere: una bufera di neve, il maggiordomo austero che non si scompone per nessuna ragione, la casa isolata in cui avviene un omicidio tra familiari e amici, sospetti in abbondanza e un assassino che si aggira tra i saloni silenziosi. Eppure, non è tutto qui: la sola presenza di questi caratteri rischierebbe di dare vita a una storia uguale a tante altre, senza identità definita, come accade sempre più spesso negli ultimi anni. Serve qualcosa in più per conferire originalità alle vicende raccontate, che le distingua dalla massa; e Hare, da buon avvocato, ha sfruttato la propria conoscenza della legge inglese per trattare anche temi politici e sociali, in modo da dare più enfasi alla Tradizione e, allo stesso tempo, gettare uno sguardo su come essa possa influenzare il futuro, aggiungendo originalità alle situazioni che ha tratteggiato.

Immagine del tipico Natale inglese
La storia inizia presentandoci il dottor Wenceslaus Bottwink, mentre quest'ultimo si trova nell'archivio di Warbeck Hall, una grande casa signorile immersa nella campagna inglese di proprietà della famiglia omonima, intento a svolgere alcune ricerche riguardo la storia politica dell'Inghilterra del XVIII secolo. Come apprendiamo ben presto, il professore è un appassionato studioso delle leggi britanniche, oltre che un rifugiato politico, abituato dalla Storia a mettersi in disparte e a farsi notare il meno possibile, il quale sta approfittando con estremo tatto della gentilezza di Lord Warbeck per completare le trascrizioni di alcuni documenti di proprietà della famiglia che gli potranno essere utili in futuro, incurante del freddo che lo attanaglia e dell'avvicinarsi del Natale. Solo il maggiordomo Briggs, altera figura silenziosa, lo avvicina quotidianamente per offrirgli una tazza di tè: gli altri domestici sono stati assunti per lavorare in giornata e passano tutto il tempo a mantenere in vita il poco che resta ancora in piedi dell'antica casa, mentre Lord Warbeck disputa una battaglia con la morte che gli impedisce di muoversi in libertà e si appresta a tramutarsi in una triste sconfitta. Pur essendo uno straniero poco abituato alle tradizioni dell'Inghilterra, Bottwink è consapevole del fatto che un ospite non è desiderabile per le imminenti feste, visti i numerosi problemi che affliggono il vecchio Lord; eppure, nonostante ciò, il padrone di casa sembra intenzionato a far finta che tutto stia andando bene e ad organizzare un ultimo Natale a Warbeck Hall: ha invitato i parenti e gli amici che gli restano per concludere il bellezza l'anno, e non ha alcuna intenzione di allontanare nemmeno l'esule professore.

Al party saranno presenti nientemeno che il Cancelliere dello Scacchiere dell'attuale Governo, Sir Julius Warbeck; il figlio di Lord Warbeck, un esaltato fascistoide senza il becco di un quattrino di nome Robert; lady Camilla Prendergast, nipote del vecchio; infine, la signora Carstairs, legata alla famiglia da una lunga amicizia e moglie del braccio destro del Cancelliere. Si prospetta un soggiorno perlomeno allegro per gli abitanti di Warbeck Hall; se non fosse che tutti, chi più e chi meno, nascondono un segreto nel proprio cuore e sono in rapporti tesi con almeno un altro componente della comitiva. Lady Camilla, ad esempio, vuole interrogare Robert sul loro burrascoso rapporto, decisa più che mai ad estorcergli la verità; la signora Carstairs nutre un profondo disappunto verso sir Julius, poiché è convinta che suo marito potrebbe fare un lavoro migliore se ricoprisse la sua carica; il Cancelliere, dal canto suo, sopporta malvolentieri la presenza di una guardia del corpo e teme che la sua figura istituzionale possa essere messa in ombra dalle ambiziose mire della Carstairs. Quello più scontento di tutti, però, è Robert: costretto a convivere con due avversari politici, un vecchio amore, un padre malato e un ebreo, non vede l'ora di andarsene. Senza contare quell'altro problema... E Briggs, che sotto l'apparente pacatezza deve fronteggiare una sfida importantissima, non solo per il suo avvenire ma soprattutto per quello di sua figlia? Fin da subito, perciò, i rapporti tra gli ospiti si guastano e si accendono liti per un nonnulla, facendo presagire sviluppi funesti in vista del 25 dicembre; sarà però la notte della Vigilia a veder entrare in scena il primo cadavere, mentre la neve cade fuori dalla finestra e le comunicazioni con l'esterno si interrompono. Bloccati dalla tempesta e prede di un misterioso assassino, gli abitanti superstiti di Warbeck Hall dovranno fare affidamento sull'acume della guardia del corpo di sir Julius, l'agente Rogers, e sul più insospettabile degli investigatori dilettanti per scoprire la soluzione di un omicidio prettamente "inglese", più che originale e legato a doppio filo con il glorioso passato della Gran Bretagna.

William Pitt il Giovane, figura centrale nella politica inglese
della fine del Settecento e delle vicende raccontate in "Un
Delitto Inglese"
Oltre a quanto abbiamo visto poco sopra, anche la classica crime story rappresenta un tipo di "prodotto locale" che costituisce un vanto per l’Inghilterra ed è stato possibile esportare al di fuori del Paese. Alcune sue caratteristiche (la zitella-detective, l'omicidio nel villaggio di campagna, il cadavere in biblioteca...), assieme alla figura dell'investigatore dilettante, acuto e originale, divenuto una figura familiare da associare allo svelamento del colpevole nel proverbiale salotto, e all'assassinio privo di violenza gratuita, sono entrate a far parte dell'immaginario collettivo e sono ormai conosciute in tutto il mondo proprio per il loro essere "tipicamente anglosassoni". In passato, il popolo inglese si è impegnato a consacrare questo modello letterario, nato per necessità in periodo di guerra ed evolutosi in strumento per sondare l'animo umano, al grado di tradizione perpetua a tutti gli effetti. Da semplice pretesto di svago, i suoi autori hanno compreso il desiderio dei lettori e, al fine di scolpirlo nel tempo, hanno reso il mystery portavoce di un passato glorioso, il quale è stato man mano modificato da importanti cambiamenti sociali e politici ma mai dimenticato, adottando di volta in volta forme nuove per rappresentare al meglio questi ultimi; nonché per stabilire una certa superiorità della Gran Bretagna rispetto al resto d'Europa, quando il romanzo giallo classico ha iniziato a diffondersi all'estero. Tra gli altri, il periodo natalizio, occasione di confronto tra generazioni differenti e miscuglio di usanze allegre e più cupe emozioni sotterranee, spesso legate ad innovative strategie di indagine psicologica, si è prestato magnificamente allo scopo e, di conseguenza, ha fornito agli scrittori di gialli il pretesto per creare l'usanza del "Christmas Murder Mystery" tutt'oggi in voga; intrecciato sì alla Tradizione dal punto di vista della forma, ma anche espressione del cambiamento dei tempi da quello dei contenuti. Infatti, sono stati soprattutto questi ultimi, i temi toccati nel corso delle indagini in queste straordinarie opere letterarie, a mettere in luce il contrasto esistente tra usanze passate e moderne, in cui le une dominano sulle altre in modo alternato, e a decretare il grandissimo successo di questo sottogenere.

Prendiamo "Un Delitto Inglese": il suo autore non si dilunga sulle specifiche abitudini del Natale, questo è vero; però, pur essendo stato scritto nel 1951, questo romanzo riesce a immergere il lettore nel mondo incantato della campagna inglese immersa nella neve, mettendo in mostra un tipo di società che sembra scaturito da un libro di storia sociale, nella quale contano i fasti e il rispetto del passato. Come un prototipo del "Giallo di Natale", il romanzo esalta ed eterna la Tradizione, presentando uno sfondo costituito dall'immancabile casa di campagna, claustrofobica e isolata da una bufera (pp. 11, 21-23, 34-35, 37, 39, 42-43 ecc.); un gruppo di personaggi variegati, parenti-serpenti legati da qualche tipo di rapporto e costretti a convivere tutti assieme in un luogo chiuso (ognuno con un proprio punto di vista e una personalità spiccata, come si evince dai quadretti del cap. 2); una narrazione caratterizzata da uno stile perversamente gradevole che mescola ironia nera e un tocco di gioia innocente (per esempio alle pp. 64-66); un enigma caratterizzato da una complessa corrente sotterranea di sentimenti contrastanti, in cui l'esplosivo contrasto tra amore e odio sfocia nell'omicidio pianificato con attenzione e senza inutili spargimenti di sangue (pp. 48-54, 53-55); un auto-nominato investigatore il più delle volte dilettante, il quale fa domande discrete e allenta la tensione con una buona dose di humor. Tutto ciò viene costruito con attenzione nel corso della narrazione, proprio secondo l'usanza della Golden Age secondo cui non esiste violenza gratuita e il movente è molto complesso da individuare, e ci catapulta nell'Inghilterra del passato. I personaggi, nel loro tratteggio, assomigliano alle figure che potremmo trovare nelle storie più classiche della tradizione, quelle conosciute dappertutto: il maggiordomo flemmatico (pp. 10-17, 32-35), il Lord attaccato al passato in cui egli contava ancora qualcosa (pp. 31-35), il ministro egocentrico che mette se stesso davanti al resto (pp. 18-23), la giovane ragazza innamorata dello scapestrato giovanotto in cerca di guai (pp. 23-26, 28-30, 63-66, 92, 127, 145-147), l'esimio professore straniero dall'aria sospetta (pp. 9-17), la tipica matrona "suffragetta" che si dà da fare per sostenere il marito (ma sotto sotto anche i propri interessi, pp. 26-28); tutti costoro appaiono familiari al lettore proprio perché prelevati dalla tradizionale società inglese, assieme ai loro nomi (avete notato che gli aristocratici hanno nomi insoliti, la servitù nomi comuni e il professore uno difficilmente pronunciabile?).

L'ambientazione non potrebbe essere più classica, con tanto di solido contesto storico-sociale a sostenere i momenti descrittivi della trama (in alcuni momenti assomiglia a quello dei romanzi tardo-vittoriani, come "L'Occhio di Osiride"). Lo stile stesso, in cui si alternano descrizioni che all'apparenza esulano dalla trama e dialoghi ironici tra gli attori in scena, sembra risalire ad anni precedenti a quello che vide la scrittura di "Un Delitto Inglese" (come nella digressione sulla pesca e l'amore alle pp. 82-83). Insomma; pur essendo della metà degli Anni '50 del Novecento, questo libro intelligente mette in mostra un mondo che possiamo definire suggestivo benché antico, superato, in cui la politica è ferma agli albori della politica fascista e nazista, in cui lo straniero viene visto come il Male e la società è basata su un sistema feudale alla fine della propria esistenza, minacciato dalle tasse sempre più gravi e da un sistema di classe al termine dei propri giorni e dominato dalle tradizioni familiari. L'atmosfera che si respira è quella di una belle epoque agonizzante: gli individui sono concentrati a soddisfare i propri desideri egoistici (vedasi Sir Julius), ad illudersi che tutto stia ancora andando bene e che non si stia profilando all'orizzonte l'alba di una nuova era, in cui per forza di cose verranno catapultati (Lord Warbeck e, in un certo senso, anche Robert); in questo Hare si è dimostrato ineccepibile ed abilissimo nell'inserire numerosi dettagli che conferiscono a tutto ciò un'immagine complessiva vivida, in cui sospetto e ambizione si mescolano al clima da brivido di Warbeck Hall. Tuttavia, se questa "forma" ci restituisce una sorta di esaltazione della Tradizione e un romanzo in cui il passato occupa ancora un posto di primo piano all'interno della storia, d'altra parte non si può fare a meno di notare che anche un preoccupato sguardo al futuro e all'implacabile cambiamento si affaccia ogni tanto tra le righe, grazie alla trattazione di alcuni temi fondamentali; come se esistesse la consapevolezza del fatto che il passato sia superato e bisogni guardare al futuro. Ad esempio, dietro il tono ironico dei dialoghi, si cela il decadimento dell'aristocrazia contrapposto dell'ascesa dei borghesi, indicato sia dal confronto tra il vecchio Lord Warbeck e suo figlio Robert (il dialogo tra i due alle pp. 37-43 ne costituisce un ridicolo esempio), sia dalla situazione di isolamento della casa durante la bufera di neve. I personaggi appaiono più spaventati di ogni altra cosa dal dover tornare tra il resto del mondo e affrontare il Nuovo Ordine che li aspetta là fuori (pp. 156-159); si sentono inadeguati, fuori posto, come Lord Warbeck mentre osserva i propri terreni, all'inizio del cap. 3. "Svegliandosi dal suo sonno leggero di ammalato, [...] vide dalla finestra il prato, il giardino, il parco [...]. Ogni traccia di abbandono e di trascuratezza dei tempi recenti era scomparsa. Il viale correva liscio [...], la siepe presentava una superficie piatta e uniforme [...]. Un'illusione, naturalmente. Due giorni di disgelo avrebbero mostrato nuovamente i dossi, i vuoti e e erbacce - avrebbero mostrato [...] le grondaie rotte in almeno mezza dozzina di punti di quella vecchia casa" pensa costui, riflettendo sulla propria precaria situazione economica e sui tempi che corrono veloci verso un futuro in cui lui non ha posto; senza dimenticare i continui riferimenti alla nostalgia di un po' tutti i personaggi, i quali desidererebbero tornare indietro a un momento in cui tutto era sinonimo di felicità e serenità (ad esempio, alle pp. 21-23, 78, 93-95).

Da questa profonda riflessione ne scaturisce un'altra sul cambiamento storico e politico, la quale si snoda per tutto il romanzo e delinea il complesso rapporto tra le classi, ognuna ritratta da un diverso punto di vista. L'indebolimento del vecchio ordine, legato a un arrugginito sistema costituzionale, e una certa ridicola ansia nel voler mantenere tutto come un tempo (compreso il complesso e arrugginito sistema giuridico inglese), all'alba di una nuova era, mettono in mostra come ormai gli abitanti di Warbeck Hall vivano in un disperato anacronismo, inadeguati nei confronti dei rapporti tra gli individui (spesso ci sono riferimenti al rango sociale), incapaci di guardare avanti e costretti a una non-vita volta all'indietro, in cui le lamentele si fanno sempre più numerose ma suonano ormai vuote ("un traditore della sua classe, un traditore del suo paese" viene definito Julius da Robert a p. 40). Più di una volta il professor Bottwink, dalla sua posizione privilegiata di straniero, percepisce questo conflitto interiore (ai suoi occhi, tutti sembrano "ancora sotto il potere della mano morta del passato"), ma allo stesso tempo egli appare incapace di uscire dal ruolo di "sinistro figuro" che gli è stato affibbiato; il quale mette in mostra quanto il conservatorismo inglese di quel tempo potesse essere nocivo, se non addirittura razzista (vedasi il pensiero di Sir Julius, quando Bottwink paragona la pesca e l'amore: "lo guardò con evidente sorpresa. Quel buffo e piccolo straniero poteva essere quasi umano, allora"). In ogni caso, per fortuna, c'è una nota lieta in tutto ciò: alla fine Bottwink riesce ad affrancarsi quasi del tutto dal suo status e a diventare l'investigatore dilettante del romanzo, una delle figure più inglesi di sempre. Non solo: se si presta attenzione, ci si rende conto che, una volta superata la morte del secondo personaggio, viene come tracciata una linea divisoria tra antico e moderno, oltre la quale le tradizioni iniziano a non venire più rispettate del tutto, le apparenze futili cadono assieme alle maschere dei personaggi, e ognuno affronta i propri demoni (pp. 162, 163, 166, 185-190, 192-198, 209, 217, 219, 232) come a voler dire: "Lasciamoci alle spalle ciò che è stato e che non tornerà; ricordiamoci di quanto è accaduto, ma affrontiamo il presente guardando avanti". A mio parere, il cardine della narrazione resta proprio questo insolito miscuglio di elogio e, allo stesso tempo, critica del passato: dall'antiquato e ritratto con un certo trasporto sistema giuridico che Hare mette in mostra gradualmente nel corso della trama, alla condizione precaria dell'antica aristocrazia illustre, alla Storia classista però gloriosa del popolo inglese; tutto quanto viene da un lato dimesso per poi essere in qualche modo elogiato dall'altro, senza celebrazione gratuita, in quanto parte di un'eredità che appartiene ad ogni individuo in Inghilterra e non può essere rinnegata. Anche questo fa parte della Tradizione cui accennavo sopra, della quale gli inglesi vanno tanto fieri: non è pensabile smettere di perpetuarla, anche se ormai arretrata.

Alfred Gordon Clarke (alias Cyril
Hare), nato nel 1900 e morto nel 1958
Lo stesso Cyril Hare (pseudonimo di Alfred Gordon Clarke) fu una figura tanto controversa quanto i temi trattati in "Un Delitto Inglese". Nato nel 1900 a Mickleham, studiò Storia al New College di Oxford prima di intraprendere la professione forense a Londra. In concomitanza con il matrimonio, tuttavia, decise di intraprendere l'ulteriore pratica letteraria per incrementare le magre entrate che gli procurava il suo lavoro ed assunse uno pseudonimo che univa il nome della sua abitazione (Cyril Mansions) con il proprio luogo di lavoro (sito a Hare Court). Come Cyril Hare iniziò a scrivere racconti per il "Punch", finché nel 1937 riuscì a pubblicare con discreto successo il suo primo giallo, "Tenant for Death", in cui le indagini vengono affidate a un ispettore di Scotland Yard piuttosto convenzionale, Mallet. Quest'ultimo ricompare nel titolo seguente, "Death is no Sportsman", ma fu dal 1939 che l'attività letteraria di Hare si fece più originale: con "Suicide Excepted", infatti, egli cominciò a sfruttare la propria esperienza nel mondo giudiziario e della legge inglese per rinforzare intreccio e ambientazione dei suoi libri, dando sempre meno risalto alla figura di Mallet. Nel frattempo, ricoprì per qualche tempo il ruolo di judge's marshal e accompagnò un giudice itinerante con mansioni segretariali nei primi anni della Seconda Guerra Mondiale; esperienza che gli sarebbe servita per dare vita al suo capolavoro, "Tragedy at Law", in cui fece la sua comparsa il suo investigatore per eccellenza: l'avvocato Francis Pettigrew, il quale avrebbe anticipato i "personaggi di carne e sangue" (come l'ha definito Martin Edwards) degli scrittori futuri. Pettigrew, infatti, risulta un individuo molto meno impostato e formale del tipico detective della Golden Age, interessato il giusto al denaro e disilluso, moderno e giusto, per il quale il delitto non è un gioco.

Grande appassionato di storia, di musica classica, di legge (come Michael Gilbert, ad esempio) e provetto oratore, nonché affetto da una "congenita e incurabile indolenza" che limitò la sua attività letteraria, Hare scrisse cinque romanzi con Pettigrew protagonista, che sommati a una trentina di racconti e agli altri rimanenti contano dieci esemplari della miglior crime story di stampo giudiziario, prima di morire nel 1958. Tra questi ultimi, l'unico a non presentare un investigatore di serie fu proprio "Un Delitto Inglese", il quale vide invece come deus ex machina l'insolita figura di uno storico ungherese, il professor Bottwink, e si può considerare il più "classico" dei gialli di Hare. Esso venne basato su "The Murder at Warbeck Hall", un radiodramma composto per la serie "Mystery Playhouse presents The Detection Club", scritto in un tentativo di raccogliere fondi per il Club e trasmesso dalla BBC assieme a:
  • The Murder in the Mews by Agatha Christie;
  • A Nice Cup of Tea by Anthony Gilbert;
  • Sweet Death by Christianna Brand;
  • Bubble, Bubble, Toil and Trouble by E. C. R. Lorac,
  • Where Do We Go From Here? by Dorothy L. Sayers.
Sempre Martin Edwards ha rivelato che, al momento della sua morte, Hare aveva iniziato a scrivere un nuovo romanzo con protagonista il dottor Bottwink; purtroppo però non riuscì a finirlo e non se ne farà mai nulla, poiché l'esiguo manoscritto rimasto incompiuto è talmente breve da rendere impossibile capire come si sarebbe sviluppata la trama. Ciò è un vero peccato, visto il calibro del primo libro di quella che si prospettava come una serie di qualità.

Certamente, la trama di "Un Delitto Inglese" ruota attorno a un complesso cavillo legale, oscuro ai più in Inghilterra e del tutto sconosciuto a chi come me vive in in altro Paese, che rende impossibile sciogliere l'enigma del movente prima dello svelamento finale; per non parlare dell'uso ingegnoso di insolite figure politiche come quella del Cancelliere dello Scacchiere e di passaggi storici difficili da comprendere. Eppure, la resa dell'ambientazione e dell'atmosfera nel suo insieme, grazie allo stile e a personaggi vividi, conferiscono a questo libro una marcia in più, che compensa in parte l'impossibilità di scoprire il motivo del gesto dell'assassino (il colpevole, in realtà, non è così imprevisto). Ben più di una semplice storia si cela tra le righe di "Un Delitto Inglese": c'è interesse nel tratteggiare i processi di indagine; c'è una certa pietà nei confronti di tutti gli attori sulla scena (compreso il colpevole); c'è voglia di dare originalità alla trama (l'uso stesso del professor Bottwink come investigatore è indice di ciò), di spiegare qualcosa che va oltre il racconto, in modo simile a quello adottato da Dorothy L. Sayers in "Il Segreto delle Campane", e di dimostrare che spesso serve qualcuno che viene da fuori per rendersi conto di come sta la situazione; c'è una forte denuncia verso il classismo becero e il nazismo. Ma soprattutto, in questo romanzo viene sottolineata l'importanza della Tradizione; anche se superata, quest'ultima resta uno strumento irrinunciabile che conserva un ruolo di primo piano per comprendere il futuro. È indispensabile guardare avanti, sembra suggerire l'autore, ma tralasciare del tutto ciò che abbiamo abbandonato dietro di noi può portare a risultati spiacevoli (anche a lasciare insoluti diversi omicidi, a quanto pare).

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