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venerdì 26 febbraio 2021

63 - "Morte nello Studio del Rettore" ("Death at the President's Lodging"/"Seven Suspects", 1936) di Michael Innes

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Tra i numerosi romanzi gialli che in questi ultimi due anni (quasi) ho recensito qui si Three-a-Penny, ho notato di non averne mai affrontato uno appartenente a un sottogenere che ha trovato larga popolarità durante la Golden Age della classica crime story: quello del delitto all'università (o college, come vengono chiamati tali istituti in Inghilterra e America). Si tratta di una grave mancanza, a cui ho deciso di porre rimedio con l'analisi di oggi; ma prima vorrei farvi una piccola panoramica riguardo questo tipo di mysteries. Esso trae forza dalle peculiari caratteristiche che questi luoghi del sapere presentano: spesso sono microclimi "chiusi", metaforicamente per idee e abitudini oppure materialmente perché circondati da mura invalicabili e portoni che alla notte li trasformano in piccole fortezze inaccessibili, dove si può trovare una fauna umana tanto variegata quanto peculiare. Basti pensare alle scuole che tutti noi abbiamo frequentato o frequentiamo, dove ci sono ragazze e ragazzi spigliati e ambiziosi, timidi e studiosi, curiosi o riservati, gelosi e appassionati, insieme a professori maniacali e stressati, focosi e rabbiosi, gentili e comprensivi. Le correnti sotterranee che uniscono individui che ogni giorno stanno a contatto gli uni con gli altri, inoltre, sono l'ingrediente fondamentale all'interno di qualsiasi istituto... come del resto all'interno di un romanzo del mistero. Per cui, non stupisce il fatto che la scuola sia diventata uno tra i luoghi prediletti da chi ha ideato delitti efferati ed entusiasmanti, dal momento che in essa si mettono in gioco un sacco di cose che riesco a dare vita a trame intriganti. In aggiunta a ciò, poi, non bisogna dimenticare che gli scrittori di tradizionali crime novels avevano come scopo quello di interpretare la società e il mondo che li circondava; per cui, cosa avrebbero potuto sfruttare meglio del posto dove le giovani generazioni venivano istruite? Posti dove, per giunta, molti di loro avevano studiato oppure in cui insegnavano e per questo conoscevano a menadito, così da non dover inventare troppe cose e togliere quella patina di realismo che il classico romanzo giallo inglese ha fatto proprio come marchio di fabbrica.

Si possono fare tantissimi esempi di ciò. Prendiamo Dorothy L. Sayers la quale, allo stesso modo di J.S. Fletcher nel campo del giornalismo e Freeman Wills Crofts in quello delle ferrovie, trasse ispirazione e spunto dal proprio lavoro dai pubblicitari Benson's per costruire e dare colore a "Lord Peter e l'Altro". Grazie all'esperienza, poté non solo ideare un crimine sfruttando tutti gli elementi possibili e la conoscenza del proprio ruolo all'interno di un nucleo specifico di persone, ma anche dare originalità alla canonica trama che prevede un cadavere su di una scena del delitto e un investigatore (dilettante o professionista) convocato a risolvere il mistero. Ecco, qualcosa di simile riuscirono a fare un po' tutti i suoi colleghi, i quali venivano da un ambiente familiare che si identificava con un ceto medio-elevato e pertanto avevano frequentato istituti più prestigiosi di quelli destinati al popolo della periferia. Come racconta Martin Edwards in "The Story of Classic Crime in 100 Books", ad esempio, tra i primi ventotto membri del Detection Club partendo dalla sua fondazione, non meno di quattro di loro (Ronald Knox, Douglas Cole, Lord Gorell ed Edgar Jepson) aveva frequentato il prestigioso Balliol di Oxford! Il loro era un circolo a cui appartenevano soprattutto esponenti di un mondo elitario, composto da membri accomunati da radici comuni che si svilupparono in percorsi di vita differenti, il quale tuttavia riusciva a parlare a chiunque con un linguaggio universale: quello della natura umana. E si sa che l'essere vivente manifesta se stesso in ogni momento della propria vita; soprattutto quando egli viene raffigurato dentro un gruppo. Per questo agenzie pubblicitarie, stazioni, uffici bancari e appunto scuole costituirono un terreno molto fertile che permise ai giallisti della Golden Age di sbizzarrirsi. Tra nomi come Nicholas Blake, Christopher Bush, Gladys Mitchell e R.C. Woodthorpe, oggi ho scelto Michael Innes col suo "Morte nello Studio del Rettore" (Polillo Editore, 2008), dal momento che egli viene considerato il capostipite del filone del "giallo universitario". Non avrei potuto selezionare autore migliore; e questo romanzo ne è la prova, dal momento che tratta un caso complessissimo e avvincente che coinvolge docenti e studenti, tra ironia e terrore.

New College, Oxford, Antique Print, 1920s, raffigurante
un complesso studentesco simile al St. Anthony
Il libro narra dello strano caso di omicidio del rettore Josiah Umpleby, al quale qualcuno ha sparato un colpo di pistola in mezzo alla fronte. Non capite cosa ci sia di insolito in tutto questo? In effetti sarebbe tutto fin troppo anonimo... se non fosse che dopo averlo ammazzato qualcuno gli ha avvolto la testa in una toga accademica, ha sparso attorno al suo corpo senza vita mucchietti di ossa umane e ha disegnato sopra al caminetto due teschi ghignanti. Una scena terrificante, questa che si presenta agli occhi dell'ispettore John Appleby, e alquanto rivelatoria per certi aspetti. L'assassino, infatti, deve per forza essere qualcuno con il cervello fuori posto, per aver ideato una messinscena così melodrammatica. Eppure, come dimostra fin da subito il sergente Dodd, al St. Anthony's nessuno sembra essere uno squilibrato. Certo, tra gli studenti e i docenti si contano innumerevoli individui a dir poco eccentrici, con piccole manie e ossessioni e menti ormai tanto assuefatte allo studio del sapere da essere distaccate dal mero mondo materiale; però questo non significa che uno di loro debba per forza essere internato in un manicomio. Ma qualcuno deve pur aver ammazzato Umpleby, da qui non si scappa; e deve essere stato qualcuno che vive all'interno del college. Fin dai primi rilevamenti, infatti, appare chiaro come il rettore abbia trovato la morte in una fredda serata di novembre, quando i cancelli esterni dell'edificio vengono serrati a doppia mandata, assieme al paio di interni che delimita il frutteto conosciuto come Orchard Ground. Dalla portafinestra che dà su questo prato pare sia entrato l'omicida, che abbia sparato e che si sia dileguato verso una delle stanze di Little Fellows, la residenza in cui vivono i docenti anziani. Oppure, costui potrebbe essere sgusciato fino al muro che confina con Schools Street o aver attraversato i cancelli che collegano il frutteto con il cortile Bishop's, ed essersi allontanato. In questo caso, tuttavia, sorge un nuovo problema che complica ancora di più le cose: per usufruire di entrambe queste vie di fuga, il colpevole avrebbe dovuto essere in possesso di una chiave particolare, della quale esistono soltanto dieci copie.

Esse sono di proprietà dei succitati docenti anziani e di alcuni membri del personale: Tracy Deighton-Clerk, il preside; Empson, docente di psicologia e scienza della mente; John Haveland, professore di antropologia; Pownall, insegnante di storia antica; Samuel Titlow, docente di archeologia classica; Giles Gott, censore addetto alla ronda e giallista sotto pseudonimo; Arthur Lambrick, matematico. Chiudono il cerchio dei sospetti il dottor Barocho; Ian Campbell, insegnante di etnologia e alpinista provetto; Denis Chalmers-Paton; l'anziano professor Curtis che è in procinto di godersi una meritata pensione. Tutti costoro hanno trascorso la notte dentro il St. Anthony's oppure erano in possesso della fatidica chiave che avrebbe aperto i cancelli all'omicida, pertanto sono sia testimoni sia probabili assassini. E il fatto che tutti loro, più o meno, avessero un movente valido per togliere di mezzo Umpleby non semplifica le cose. L'ex rettore si era macchiato di oscuri furti di idee, di velate frecciate ai danni dei colleghi, di essere fonte di insensati battibecchi; chiunque potrebbe essersi offeso al punto di decidere di toglierlo di torno. Ma Appleby non è uno sprovveduto: lui stesso ha frequentato il St. Anthony's qualche tempo prima e sa come funziona la mente di questi docenti svagati soltanto all'apparenza. Può sembrare che loro non abbiano alcun cruccio al mondo, che siano immersi in elucubrazioni astratte e che nulla riesca a toccarli; ma in realtà sono più soggetti agli impulsi provenienti dall'esterno della gente normale. Ciò che non scompone minimamente un idraulico, può scuotere fin dalle fondamenta il fragile castello di carte che ogni professore ha costruito, la loro carriera andare in frantumi a causa di una minima scossa. Pertanto, decide di unire la forza bruta dei poliziotti al comando di Dodd e la conoscenza psicologica e mentale che lo contraddistingue per incastrare il colpevole, inconsapevole che parte del suo lavoro verrà svolto da tre studenti annoiati, i quali si lanceranno a caccia di un sospettato per il puro gusto di un pomeriggio di svago e del rispetto della giustizia.

A Road in Seine et Marne, Alfred Sisley, 1875, raffigurante un
paesaggio campagnolo simile a quello di Burford
Come dicevo nell'introduzione, "Morte nello Studio del Rettore" è una lettura che non deve essere affrontata a cuore leggero. O meglio, si tratta sì di una storia che contiene momenti spensierati che finiscono per divertire il lettore; ma per la maggior parte della sua lunghezza essa narra un caso intricato che prevede grandissima attenzione per evitare di perdersi qualche passaggio importante. Io stesso mi sono trovato in difficoltà nel cogliere la maggior parte di essi. Tutto sommato, però, voglio rassicurarvi: l'esordio di Innes è una bomba. Bomba nel senso che è capace di stordirti come se ti sommergesse di enciclopedie sulla storia, la filosofia, la psicologia e l'archeologia, ma pure di afferrarti e buttarti al'interno di un mondo in possesso di caratteristiche terrene e più che affascinanti da cui sarà difficile uscire. Il ritratto della vita da college che emerge da "Morte nello Studio del Rettore" è perfettamente delineato (pp. 61-66, 111-112, 126-128, cap. 10, 213-216, 243-245, 253-255): assistiamo a più riprese a scene di vita quotidiana, come una cena nel refettorio con tanto di lettura della Bibbia prima del pasto, e qualche ora in compagnia di studenti pigri ma svegli che si baloccano con teorie investigative, mentre fanno solitari che occupano tutto il pavimento oppure studiano il "Posterior Analytics" preparando una bevanda che mescola latte e madera. Ci viene descritto un pomeriggio di svago nella campagna di questi stessi studenti, i quali da un momento all'altro abbandonano l'intonazione di canti di Pindaro e versi di Shakespeare per gettarsi all'inseguimento di un ciclista sospetto. Soprattutto, entriamo nelle vite private dei docenti del St. Anthony's, nei discorsi che fanno per spiegare come si sia potuto verificare un decesso violento come quello di Umpleby, utilizzando tutto il loro sapere per "aiutare" Appleby. Da un salto nel catastrofico disegno di una società antica che si riflette su quella moderna, da parte di Titlow, passiamo a un discorso fatto di sottintesi in cui Empson suggerisce moventi per l'assassinio grazie allo studio comparato di psicologia e scienza, per tornare a immagini legate all'astrologia e alla religione nei pensieri di Deighton-Clerk; il tutto nell'arco di un centinaio di pagine. Credo stia in questo il punto di forza e di debolezza del romanzo d'esordio di Innes, in questa enorme quantità di informazioni che all'apparenza non hanno alcuna attinenza con il caso su cui l'ispettore di Scotland Yard sta indagando.

Perché dico "all'apparenza"? Semplicemente perché proprio su di essi si basa l'interpretazione della maggior parte delle prove e la raccolta di indizi utili allo svelamento della verità. Con questo non intendo dire che sia esclusivamente così: ci sono molti elementi pratici su cui Dodd e Appleby fanno affidamento, come le impronte sull'arma del delitto, alcuni segni su di un oggetto voluminoso che ha avuto un ruolo centrale nella costruzione della messinscena nello studio, le stesse ossa sparse attorno a Umpleby costituiscono una prova che può o non può indicare con sicurezza un certo individuo. Però, ho avuto come la sensazione che Innes abbia conferito maggiore spessore al lavorio mentale di Appleby, al suo saper cogliere sfumature in ciò che viene o non viene detto, al tono o alla reazione coi quali una determinata persona risponde. Non per nulla, l'autore viene considerato alla pari di due artisti dello scavare nella natura umana come Nicholas Blake e Margery Allingham, capaci di sfruttare una certa erudizione per interpretare il groviglio psicotico che si nasconde dietro le maschere che tutti noi portiamo addosso. Si tratta di un lavorone (se avete letto "Quando l'Amore Uccide" oppure "Morte di un Fantasma", per fare un esempio ciascuno dei giallisti appena citati, ve ne sarete resi conto), che parte da premesse semplici come banali assassini per poi dare vita a trame in cui ci sono svolte vertiginose e inaspettate dietro ogni angolo. La stessa di "Morte nello Studio del Rettore" si inalbera dal presupposto di un omicidio avvenuto dentro un college come tanti altri, ma è il modo attraverso il quale essa viene interpretata a restituire la qualità dell'opera. Modo che, sfortunatamente, non a tutti piacerà. E lo dico a ragion veduta, visto che ad esempio ho letto una brevissima recensione da due stelle su cinque per questo romanzo, in cui veniva criticato il fatto che ogni cosa appariva troppo verbosa e contorta. Già; "Morte nello Studio del Rettore" di Michael Innes è assolutamente pieno di paroloni, di similitudini, di riferimenti ad opere letterarie di genere "elevato", di citazioni a filosofi e ad altri illustri e augusti personaggi della Storia della letteratura. Non si scappa da questo fatto. A qualcuno farà storcere il naso, ne sono certo; però chi come il sottoscritto si diverte ad affrontare letture stuzzicanti dal punto di vista della comprensione non resterà deluso. L'enigma coinvolge talmente tante variabili, tante prove che possono essere interpretate in differenti modi, tante piccole scoperte capaci di capovolgere e ricapovolgere i sospetti, che non lascerà nessuno indifferente. Nel bene o nel male, sta a seconda del gusto del lettore.

John Innes Mackintosh Stewart, alias Michael Innes,
nato nel 1906 e morto nel 1994
Il fatto che John Innes Mackintosh Stewart (vero nome di Michael Innes) sia stato un autore e individuo divisivo e particolare si può cogliere da una frase contenuta nella recensione del "Times Literary Supplement" dedicata alla sua seconda opera, "Hamlet, Revenge!": "Un autore che fa scuola a sé tra gli scrittori di detective novels". Dopo aver letto questo suo esordio, penso che egli si possa davvero considerare come qualcosa di particolare all'interno del genere. Nato nel 1906 ad Edimburgo, scozzese, il giovane Stewart avrebbe fatto molto parlare di sé. Figlio di un avvocato delle Highlands, studiò prima alla Edinburgh Academy e in seguito all'Oriel College di Oxford, prima di intraprendere un viaggio fino a Vienna per studiare psicoanalisi nel 1929. Distintosi in questo campo, l'anno seguente tornò in Gran Bretagna dove insegnò letteratura inglese alla University of Leeds fino al 1934. Nel 1935 sarebbe però avvenuta la piccola svolta nella sua vita: Stewart ottenne una cattedra nientemeno che ad Adelaide, in Australia, per l'insegnamento della letteratura inglese e influenzato dal successo di "Tragedia a Oxford" di J.C. Masterman, mentre si trovava sul piroscafo che lo avrebbe condotto verso la sua meta, decise di trascorrere il tempo dedicandosi alla scrittura di un romanzo del mistero che avrebbe preso il nome di "Morte nello Studio del Rettore". Questo esordio ottenne grande successo di critica e pubblico, al punto da venir pubblicato pure in America col titolo di "Seven Suspects" (per non creare incidenti diplomatici per via del riferimento al Presidente nell'intestazione originale), ma non influenzò particolarmente le ambizioni di Stewart, il quale continuò ad insegnare comunque per gran parte della sua esistenza. Già nel 1946, infatti, terminato il periodo australiano, tornò in patria per recarsi a Belfast e alla Christ Church di Oxford, dove rimase fino al 1973 ed ottenne la qualifica di "professor emeritus". Nel corso della propria carriera di insegnante, Stewart pubblicò innumerevoli opere di vario genere, che spaziarono dalle biografie di autori come Kipling, Conrad e Hardy, a studi critici sulla poetica di Shakespeare, all'ottavo volume della prestigiosa "Oxford History of English Literature", a un'autobiografia dall'ironico titolo "Myself and Michael Innes". Fu però al campo della classica crime story che è soprattutto legato il suo nome, visto che ad essa ha dato un enorme contributo.

Alla sua copiosa produzione, firmata sempre come Michael Innes, l'autore dedicava due ore ogni mattina, dalle sei alle otto, prima di dedicarsi al lavoro universitario. Dal 1936 al 1986 si contano circa cinquanta opere, tutte con protagonista lo stesso investigatore, l'ispettore John Appleby di Scotland Yard il quale, per la fine della propria carriera, avrebbe raggiunto il grado di commissario della Polizia Metropolitana e ottenuto nientemeno che un cavalierato. Uomo di straordinaria cultura, di metodi raffinati e di grande sensibilità, egli si sposerà con Judith Raven ( in "Applesby's End")e avrà un figlio, Bobby, il quale seguirà le orme del padre nel campo delle investigazioni. Tra i romanzi più famosi di Innes si contano, oltre a quelli già segnalati, "Lament for a Maker", "Stop Press", "The Daffodil Affair", "Delitto a Elvedon Court", "Meglio Erede che Morto" e "Christmas at Candleshoe", dal quale Disney trasse il film "Una Ragazza, un Maggiordomo e una Lady"; oltre alla spy story "The Man from the Sea"inserita dal critico Julian Symons nella sua lista dei cento migliori romanzi gialli di tutti i tempi. Importante fonte di ispirazione per altri giallisti come Edmund Crispin, Innes morì nel 1992, dopo un felice matrimonio e ben cinque figli. Come dicevo, fu molto apprezzato dalla critica, la quale gli riservò sempre tanti elogi: riguardo "Morte nello Studio del Rettore", ad esempio, il Times lo descrisse come "il più importante contributo alla letteratura gialla apparso da molto tempo a questa parte"; il celebre critico e autore di "The Cain's Jawbone", Torquemada, lo rilesse ben due volte prima di poter assicurare come, nonostante la complessità, esso fosse un romanzo "non vulnerabile in nessun momento"; Nicholas Blake lo celebrò sullo Spectator come "il miglio esordio che avesse mai letto". E in effetti le cose stanno proprio così. A prima vista, infatti, "Morte nello Studio del Rettore" può forse dare l'impressione di essere fin troppo pretenzioso, lento e poco equilibrato in fatto di ironia e dramma; ma non è affatto questo ciò che io ho tratto dalla sua lettura. Anzi, penso che quest'opera serva proprio a dimostrare come sia errato quel postulato secondo cui un romanzo del mistero non debba mai essere preso troppo sul serio: in questo caso, se non ti costringi a dare importanza a ciò che esso racconta, non riuscirai ad apprezzarlo fino in fondo.

Copertina dell'edizione più recente
del romanzo in lingua inglese
La sua storia non tratta certo una materia semplice, ma riesce a dipingere un mondo suggestivo e a tratteggiare come in esso si muovano non tanto personaggi in carne ed ossa, quanto menti e intelletti capaci quasi di prendere forma propria. Lo studio del funzionamento e delle reazioni a eventi improvvisi dei cervelli dei Fellows, degli studenti e del personale di St. Anthony è stato preciso ed accurato come poche altre volte si è riscontrato all'interno di un libro il cui scopo dovrebbe essere quello di intrattenere il lettore. Si tratta di qualcosa di straordinario sotto molti punti di vista, dal momento che lo stesso stile non si lascia andare a osservazioni futili e semplicistiche, ma occupa una parte importante per la comprensione di queste correnti sotterranee e ragionamenti (non per nulla l'autore aveva studiato psicanalisi a Vienna, pp. 49-52). Per la prima volta, ho davvero capito cosa voglia dire essere intellettuali: non trattare un argomento come se fosse una poesia da imparare a memoria e recitare a comando, ma applicare le proprie conoscenze in modo da plasmare i fatti e adattarli alla situazione. Esiste una struttura dietro a tutto quanto, che purtroppo non sono riuscito sempre a comprendere; però ciò non toglie che essa esista e sia stata ideata in modo ordinato, mescolando menzogna e verità così da renderle irriconoscibili a meno di non fare un grosso sforzo. Inoltre, vengono messe in discussione tantissime cose sulle quali di solito non ci si interroga all'interno di un romanzo giallo; tra tutte, il fatto che non sempre si possa riuscire a cogliere la verità da semplici fatti concreti. Le "prove" non sono più semplici mozziconi di sigarette e impronte, ma piuttosto cenni, comportamenti, reazioni, sentimenti che emergono da discorsi e interrogatori: come avrebbe agito pure Blake, Innes fa propria questa convinzione e conferisce nuova linfa alla nascente crime story psicologica (senza tralasciare la drammaticità caratteristica del genere). Detto questo, il police procedural non manca, dal momento che seguiamo la routine di Dodd e Appleby e in essa troviamo azioni che si attengono alla realtà dei fatti: l'uso di piantine, i ragionamenti sulle chiavi e sul fatto che il college venga visto come un luogo chiuso da analizzare logicamente puntano su un approccio tradizionale al mystery (pp. 79-85/85-93). In questo sta il bello dell'enigma: nel suo essere innovativo per certi versi (il finale dove emerge come ognuno si sia fatto un'idea differente della soluzione è pazzesco e ricalca "La Vedova del Miliardario" di E.C. Bentley) e classico per altri.

Al di là di questo, comunque, ci sono altri elementi che mi hanno portato a promuovere "Morte nello Studio del Rettore". Dietro alla persistente serietà dei toni, ogni tanto emergono sprazzi ironici che fanno tirare il fiato al lettore: le parti con protagonisti gli studenti a caccia di fantomatici assassini sono tra le migliori del romanzo, ma pure i discorsi tra Appleby e Dodd oppure quelli con il professor Curtis e Gott sono simpatiche. Sono numerosissimi i riferimenti al genere giallo, tra citazioni di Edgar Allan Poe, Thomas De Quincey, titoli di opere e riferimenti a delitti fittizi (pp. 14-15, 18-19, 25-29, 33-34, 46-47, 75-76, 85, 103, 120, 126-128, 187-191, cap. 12, 205-207, 220, 293). L'ambientazione è affascinante quanto l'atmosfera generale della storia (pp. 85-93, 97-99): c'è indubbiamente più "scena mentale" che "scena pragmatica", dal momento che contano più le tabelle orarie di quelle planimetriche e che l'importante sia inserire in una sorta di diagramma ipotetico gli stati d'animo a discapito dei numeri, ma non mi sento di dire che Innes sia stato carente da questo punto di vista. Bene o male, riusciamo a farci un'idea del St. Anthony e di come sia il classico mondo accademico che in esso alberga. E a proposito di mondo accademico, la parte del leone in "Morte nello Studio del Rettore" la fanno i personaggi. Sono loro il fulcro attorno a cui ruotano le vicende in ogni momento, sono sempre al centro dell'attenzione e come posti sotto una lente d'ingrandimento; lente che, tuttavia, ne evidenzia più il carattere rispetto alla fisicità. Ho avuto l'impressione che Innes intendesse mettere in mostra più la loro personalità, rischiando così di tralasciare elementi che ci permettessero di distinguere meglio Empson da Titlow, per fare un esempio. In questo senso, in effetti, è stato un po' carente, ma non bisogna dimenticare che il suo scopo era proprio quello di analizzare in profondità il sentimento. Riconosciamo Deighton-Clerk dall'atteggiamento oltraggiato, Titlow dal pessimismo, Haveland dalla paranoia, Curtis dall'arguzia, Ransome dalla schiettezza... Indubbiamente è un processo meno immediato, ma credo pure interessante. Solo Appleby ci appare come un individuo in carne ed ossa a tutto tondo, dotato tanto di intelligenza quanto di pragmatismo: sviluppato nel corso dei romanzi della serie, nasce, cresce e si sviluppa davanti ai nostri occhi, mettendo in luce caratteristiche nuove e differenze con Dodd. Per il resto, l'unica altra cosa degna di nota è il fatto che non ci sono personaggi femminili in "Morte nello Studio del Rettore". Una stranezza che non passa inosservata. Detto ciò, sono convinto che questo giallo possa fare la felicità di coloro i quali vogliono andare oltre il semplice divertimento e svago, facendo un'immersione in un mondo tanto strano e astruso quanto suggestivo. Non cedete alle apparenze e date una possibilità a Michael Innes: il suo esordio è una bomba che vi irretirà e non vi permetterà di sfuggirgli.


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venerdì 19 febbraio 2021

62 - "La Bambola Assassina" ("Death of a Doll", 1947) di Hilda Lawrence

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Circa un mese fa, come voi lettori di Three-a-Penny ricorderete perfettamente, ho pubblicato la recensione di "Sangue sulla Neve" di Hilda Lawrence, mystery d'esordio di un'autrice americana semi sconosciuta che è stata scoperta dal grande pubblico di appassionati di crime story nel 2016, ma che in realtà aveva già fatto la sua comparsa in traduzione italiana nientemeno che nel 1949. In quell'anno, infatti, la casa editrice Nerbini aveva dato il via a una brevissima collana (composta da quattro volumi) di romanzi gialli, chiamata "Collezione del Gufo" che raccoglieva alcuni tra i capolavori del giallo americano dell'epoca, i quali vertevano su di un miscuglio tra il genere suspense e quello prettamente horror. Essa era composta da "Dov'è il Professor Neubrunn?" di Leonard C.L., "Morte nell'Acqua Verde" di Patrick Quentin (in questo caso l'autore era stato presentato con cognome e nome invertiti), "Chiamatemi Pandora" di Dean Amber e "Il Padiglione sul Mare" di Lawrence. Quest'ultimo romanzo trattava una storia abbastanza insolita per le crime novels dell'epoca, dal momento che essa non era ambientata né in una grande casa aristocratica simile a quelle presenti nei libri delle Regine della Suspense, né in una caotica metropoli infernale e violenta come nel giallo della scuola hard-boiled dei duri; ma raccontava un intreccio gotico sito nel Sud degli Stati Uniti. Conoscendo l'intento della collana di Nerbini, non fatico a comprendere come mai l'editore abbia a suo tempo deciso di puntare su questo romanzo; eppure, mi lascia abbastanza colpito il fatto che non si sia pensato di proporre anche il resto della breve opera letteraria di Lawrence. Voglio dire, andarono a scegliere quello che viene considerato come il meno riuscito dei suoi gialli, e tralasciarono gli altri tre titoli più che validi che compongono la saga del personaggio principale creato dall'autrice. Da una parte, però, forse è stato meglio così, visto che dubito che la traduzione del 1949 di "Il Padiglione sul Mare" sia adatta ai nostri tempi e soprattutto sia integrale; invece, grazie agli sforzi di Polillo, noi lettori contemporanei abbiamo potuto godere del testo integrale di quelli che sono gli intrecci meglio architettati da Lawrence.

Infatti nel 2016, come dicevo sopra, abbiamo potuto tenere tra le mani "Sangue sulla Neve", quel romanzo straordinario in cui fanno il proprio ingresso sulla scena letteraria del mistero le zitelle Beulah Pond e Bessy Petty e l'investigatore privato Mark East, ambientato in un villaggio del Nord America in cui il tempo sembra essersi fermato e dove accadono alcuni misteriosi omicidi, legati agli abitanti della grande casa che dalla collina sovrasta il villaggio. Appena due anni dopo, invece, noi lettori siamo stati in grado di leggere "La Bambola Assassina" (Polillo Editore, 2018), il terzo romanzo della saga di East e oggetto della recensione di oggi. All'appello manca ancora "A Time to Die", incentrato sulla scomparsa misteriosa di un'attraente signora, ma forse Polillo sarà così gentile da colmare la lacuna in futuro; almeno, io lo spero. Infatti, voglio subito precisare che semplicemente adoro lo stile allo stesso tempo nebuloso e chiaro di Hilda Lawrence, il modo in cui dipinge i personaggi dando risalto ai loro pensieri e a ciò che provano, le ambientazioni e scenari spesso notturni e suggestivi in cui li cala e li fa agire. Trovo che Lawrence sia l'autrice che più è riuscita a trasmettermi un senso di conforto e di brivido assieme (forse alla pari soltanto di Elizabeth Daly), per cui ho pensato che avrei potuto fare uno strappo alla regola e recensire entrambi i suoi libri tradotti in italiano a breve distanza l'uno dall'altro. In questo modo, inoltre, avrei potuto permettere a voi lettori di fare un confronto tra i due, dal momento che avrete a disposizione entrambe le mie analisi in un breve arco temporale. Così, dopo qualche altra lettura, mi sono immerso in questa nuova storia, che sposta l'attenzione dal classico villaggio di montagna del Nord America alla metropoli di New York, dove si trova una di quelle pensioni per giovani ragazze nubili che più di una volta ci è capitato di sentir nominare; una sorta di ostello come quello per studenti in "Poirot si Annoia". Gli eventi terribili che si verificano all'interno dell'edificio assicurano più di un brivido di piacevole terrore, e vedono coinvolte ancora una volta le zitelle Beulah e Bessy (nonostante abbiano un ruolo più marginale rispetto al loro esordio), oltre al canonico East; per cui andiamo a vedere nel dettaglio quali sono i fatti e cosa si può ricavare da essi a fine lettura.

Chatham Square, New York, 1946, raffigurante una scena
urbana che potrebbe essere tratta da "La Bambola Assassina"
Il racconto si snoda a partire da una fredda serata di novembre, quando la signorina (Angel)ine Small rincasa nel pensionato per giovani donne che amministra, come braccio destro, assieme alla direttrice Monica (Monny) Brady. Al centralino l'accoglie Kitty Brice, la quale sta sbrigando un po' di corrispondenza e altre faccende per conto della pensione, mentre in salotto sonnecchia Lillian Harris, una delle ospiti che si appresta ad andare a lavorare nell'ufficio della Western Union mentre le sue amiche rincasano. Tutto appare quanto meno tranquillo e sotto controllo, nonostante la Brady abbia dovuto correre a una riunione improvvisa con uno dei potenti membri del Comitato dell'ostello: i fuochi sono accesi nei caminetti, i rumori della carta e delle penne sono smorzati, le luci soffuse. Eppure, la serata che si appresta a prendere il via è piena di fermento; non solo le ragazze stanno per rincasare e di lì a breve i suoni e gli odori della cucina si spanderanno per l'atrio e la sala da pranzo, ma Small prevede pure una serata a tu per tu con Brady nella sua stanza (cosa che la rende particolarmente euforica) e una nuova ragazza è in procinto di aggiungersi al numero delle ospiti. Certo, si tratta di una commessa dei magazzini Blackman's e non bisognerebbe rischiare di accogliere troppe persone che lavorano in uno stesso posto (già due dipendenti, chiamate amichevolmente Moke e Poke, sono impiegate nel grande magazzino), ma a quanto pare Brady ha pensato fosse una buona idea. A questo punto, la scena si sposta proprio in centro città, al bancone dove Ruth Miller sta servendo la facoltosa ma affabile Mrs Sutton. Miller è un tipino timido, un po' insignificante, che trova nella sua interlocutrice periodica una sorta di amica a cui confidare le piccole gioie della vita; anche quella sera le fa una rivelazione: andrà finalmente a vivere in un posto come Dio comanda! Più precisamente a Hope House, una di quelle pensioni dove le ragazze non devono scappare dagli affittuari se ritardano di qualche giorno nel pagare le spese, e dove l'acqua è sempre calda. A Ruth Miller non sembra vero di riuscire a lasciarsi alle spalle la sua vecchia vita per intraprendere un nuovo percorso pieno di gioie, e Mrs Sutton è altrettanto felice per la giovane impiegata.

Appena arrivata a Hope House, Ruth è soddisfatta. Certamente, il suo carattere introverso le crea qualche difficoltà in un primo momento: nell'atrio ci sono quella scontrosa di Lillian Harris, la cattolica Dot Mainwaring, l'efficiente Kitty Brice, l'addetta all'ascensore Jewel, la governante Mrs Fister e miss Angel Small, con la quale lei stessa sta discutendo per accordarsi con le faccende burocratiche da sbrigare. Tante, troppe donne per sentirsi a proprio agio. Però ha speranza che le cose andranno bene, in fondo. Poi, all'improvviso, riconosce una voce fin troppo familiare; una voce che non avrebbe mai più voluto sentire in vita sua. Le riporta alla mente un momento orribile della propria esistenza, qualcosa che si è sforzata di cancellare ed estirpare ma spesso e volentieri torna a tormentarla. Ruth è spaventata a morte, deve pensare, deve capire come comportarsi. Dopo aver liquidato miss Small ed essere uscita all'aria aperta, la ragazza si incammina nella sera calante su New York: cosa deve fare? Abbandonare il suo sogno di abitare un un posto pieno di comfort come Hope House, oppure tenere duro? Magari si sta sbagliando e la voce che ha sentito non appartiene a quella donna... E poi c'è il telefono. Ruth lascia un biglietto al suo oculista (l'unica persona di cui si fida) perché la chiami, per calmarsi decide di comprare un tailleur blu e poi fa ritorno alla pensione, dove conosce la sostituta di miss Small, l'anziana e gentile Ethel Plummer. Quest'ultima nota subito che c'è qualcosa che non va nella giovane; ma non ci fa molto caso. Poi, nei giorni seguenti, anche le ragazze e altre dipendenti si accorgono dello strano comportamento di Ruth: salta i pasti, si intrattiene il meno possibile in luoghi scoperti... Però sanno che lei sarà costretta a partecipare alla festa in maschera che il Comitato ha organizzato. La metteranno a suo agio, tutte vestite uguali; la faranno sentire una di loro. Peccato che, nella confusione dei balli e della frenesia, quella sera nessuno veda Ruth e un'altra bambola salire le scale verso le camere dei piani superiori... Poco dopo il cadavere di Miller viene rinvenuto ai piedi della finestra della sua stanza, sita al settimo piano. Suicidio? All'apparenza è così, ma Mrs Sutton non crede affatto a questa ipotesi. Ruth voleva vivere, non morire. Così decide di chiedere al suo amico Mark East di indagare, coadiuvato dalle sue ospiti Beulah e Bessy. Ciò che tutti insieme scopriranno aprirà scenari impensabili a prima vista, e dimostrerà come un piano diabolico sia stato messo in atto per celare un oscuro segreto.

December, Ronald Lampitt, 1958, raffigurante un giardino
simile a quello che si potrebbe vedere da Hope House
Alla fine della lettura di "La Bambola Assassina", mi sono seriamente chiesto come mai Hilda Lawrence non venga tenuta più in considerazione dal bacino di lettori appassionati di classica crime story. Perché è limpido come l'aria di settembre che lei può candidarsi ad essere un'autrice simbolica del giallo americano del dopoguerra. Nella sua opera sono racchiusi tantissimi elementi importanti del romanzo del mistero che si venne a sviluppare in questo paese, tanto che sono disposto a considerarla alla pari di Elizabeth Daly, l'altra mia giallista preferita di suspense psicologica vissuta dall'altra parte dell'Atlantico. Forse una parte di questo oblio immeritato in cui ella è caduta è dovuto a un fatto di mera sfortuna: ebbe infatti una carriera breve, anche se non si sa bene per quale motivo. Inoltre, come capita spesso, le innovazioni e l'introduzione di nuovi elementi alle trame non sono sempre visti con gioia, per cui potrebbe anche aver intrapreso una strada che al tempo avrebbe fatto storcere il naso a più di una persona. Penso a parte dell'opera di Milward Kennedy, ad esempio, il cui valore non viene colto del tutto nemmeno oggi. In ogni caso, trovo che Lawrence sia ingiustamente poco celebrata, e per questo ho deciso di leggere i suoi libri e presentarveli: perché voglio in qualche modo contribuire a diffondere ciò che ci ha lasciato. E si tratta di qualcosa di molto, molto buono. I suoi sono romanzi "ibridi", in cui si mescolano caratteri del giallo tradizionale e altri appartenenti a quello delle woman in jeopardy solo all'apparenza distanti tra loro. Penso allo stile accurato e solido con cui vengono dipinti scenari e personaggi in una società tipicamente USA, dove serpeggia il pesante spettro della Depressione e della guerra che ha portato povertà e sfiducia; oppure a quel coesistere di brivido e pragmaticità che fece pure la fortuna di Ethel Lina White. Se ricordate, nella recensione di "Sangue sulla Neve" avevo già fatto questa osservazione, ribadendo come Lawrence avesse raccolto un immaginario testimone proprio dalla sua collega gallese, nell'anno in cui essa diede alle stampe il suo ultimo giallo, e non si fosse limitata a fare un "copia-e-incolla" ma avesse tratto ispirazioni da fonti comuni (come lo scrittore Wilkie Collins) per poi dare vita a un tipo di mystery specificatamente proprio.

Ecco, Lawrence ha intrapreso la stessa strada di White, tenendo in considerazione il fatto di dover dipingere un contesto storico-sociale con approfondimento e struttura ossea per dargli credibilità, ma non ha tralasciato l'eredità che si era lasciata dietro la Grande Crisi del '29, con tanto di tensione e clima emozionale per trasmettere al lettore la vividezza di ciò che provano i personaggi. Nell'opera dell'autrice, e quindi pure in "La Bambola Assassina", troviamo un'atmosfera tratteggiata con toni poetici e lirici, ma spesso claustrofobica e venata da un pericolo non ben identificato che pare ossessionare e perseguitare gli attori sulla scena (pp. 65-67, 109, 159-161, 168, 194-195, 197-198, 229-230); uno stile in cui non viene a mancare l'azione di tanto in tanto, ma viene data la precedenza al fatto che conti di più il lato riflessivo del racconto (ci sono lunghe pagine di pensieri dei protagonisti riportati parola per parola, simili a flussi di coscienza da cui si possono trarre indizi velati e impressioni utili ad indirizzare i sospetti); uno spiccato senso di confortevolezza apparente in cui tutti sembrano coccolati e a loro agio, ma in realtà le dolci braccia che avvolgono i personaggi diventano strette come funi che imprigionano e irretiscono le sprovvedute vittime. Inoltre, queste stesse persone ingannate e ingannevoli non mancano di mostrare agli occhi di chi legge quanto siano scosse e intimorite, agitate da una passione irrefrenabile oppure soggiogate da forze che non si comprendono mai appieno, le quali contribuiscono a movimentare il senso di mistero e ad accrescere la tensione dal punto di vista psicologico. Fin qui sembrerebbe proprio un tipico romanzo sullo stile delle women in jeopardy, vero? Eppure, Lawrence ha fatto molto di più di questo. Come accaduto nel romanzo d'esordio, anche in "La Bambola Assassina" ha sfruttato in modo particolare alcuni caratteri essenziali della crime story americana. Ad esempio, ha cambiato genere al modello che vedeva protagonista una fanciulla in pericolo, mettendo a capo delle indagini un uomo: certamente abbiamo la spaventata e inerme Ruth Miller, inseguita da un avversario che le impedisce di cambiare il proprio funesto destino, a dominare la prima parte del racconto; però dal momento della sua morte è Mark East, coadiuvato in minor parte rispetto a "Sangue sulla Neve" dalle zitelle Beulah Pond e Bessy Petty, a condurre il gioco.

Abbiamo quindi un uomo ad essere importante in un mystery incentrato sul domestic suspense (Hope House è a tutti gli effetti una casa privata, con tanto di servitù e di dipendenti che vivono in essa). Ma non solo, Bessy e Beulah danno l'impressione di essere due povere sciocche rimbambite ma non lo sono in fin dei conti, a differenza del ruolo che spesso e volentieri veniva affidato alle zitelle nel thriller dell'epoca: loro si comportano sì in modo goffo e divertente per il lettore, ma non mancano di fare scoperte che saranno utili ad East per incriminare il colpevole. È presente un forte senso gotico (soprattutto nella prima parte della storia, quando Ruth assomiglia paurosamente a Helen Capel, la protagonista di "Qualcuno ti Osserva" di White, dal momento che sentiamo la sua essenza in prima persona, pp. 49-53, 58-65), ma pian piano viene stemperato in qualcosa di terrorizzante dal punto di vista psicologico. Insomma, quello che mi importa sottolineare è che Lawrence non si è limitata ad affrontare un mondo già ampiamente esplorato, come quello delle women in jeopardy, da un punto di vista poco originale e seguendo regole già scritte da altri; ma si è dimostrata in grado di fondere questo tipo di crime novel con quella del Regno Unito, la quale ha saputo imporsi nel tempo per innovazioni non solo dal punto di vista stilistico e formale, ma pure da quello delle tematiche. E in "La Bambola Assassina" si possono riscontare entrambe queste modifiche al modello classico; modifiche che, a mio modesto parere, costituiscono la meta principale per un autore di classica crime story, dal momento che riuscire ad equilibrare suspense dell'atmosfera del racconto, e una struttura solida e chiara delle vicende, conferisce la forma ideale a un mystery che si rispetti.

Hildegarde Kronmiller, alias Hilda
Lawrence, nata nel 1906 e morta nel 1976
Come avevo avuto modo di scrivere nella recensione di "Sangue sulla Neve", l'unica cosa che mi lascia contrariato dopo aver letto i suoi gialli, è sapere che Hildegarde Kronmiller (vero nome di Hilda Lawrence) ha scritto soltanto cinque romanzi del mistero nel corso della sua carriera. Pochissimi, se si pensa alla qualità della sua opera narrativa. Nata nel 1906 a Baltimora, nel Maryland, era figlia nientemeno che di un membro del Congresso degli Stati Uniti d'America. Il fatto di appartenere a una famiglia tanto importante le aprì tutte le porte per poter intraprendere una carriera scolastica impeccabile: studiò infatti alla Columbia School di Rochester, prima di diventare lettrice per i non vedenti e, in seguito, trasferirsi a New York per entrare nella redazione della casa editrice MacMillan. Qualche tempo dopo, tuttavia, passò a quella del Publishers Weekly, per approdare saltuariamente come sceneggiatrice radiofonica per "The Rudy Vallee Show". Nel 1924 decise di sposarsi col commediografo Reginald Lawrence; tuttavia, ben presto i due divorziarono, nonostante lei decise di tenere il cognome del marito per firmare i suoi romanzi del mistero. Da sempre, infatti, era stata un'accanita lettrice di questo genere letterario: divorava qualunque titolo su cui riuscisse a mettere le mani, finché a un certo punto si ritrovò nella situazione di non riuscire più a soddisfare il proprio appetito in modo adeguato. Non c'erano più titoli abbastanza intriganti e piacevoli da leggere, per cui come fare? Semplice: decise di mettersi a scrivere lei stessa qualche mystery che fosse di suo gusto. In questo modo, nel 1944, diede alle stampe "Sangue sulla Neve", dove introdusse come protagonista l'investigatore privato Mark East, newyorchese che in questo specifico titolo viene aiutato nell'inchiesta dalle zitelle Beulah Pond e Bessy Petty. Garbato, ironico, vero gentiluomo che si discosta dalla massa di detective violenti tipici di quel periodo in America, ma nonostante questo pronto a correre qualunque pericolo e a gettarsi nella mischia, East fu uno dei motivi per cui "Sangue sulla Neve" venne accolto con gioia dal pubblico e dalla critica, tanto da avere ben quattro ristampe in edizione rilegata. In seguito, Lawrence riprese il personaggio in altri due gialli: "Time to Die", incentrato sulla scomparsa di un'attraente signora, e "La Bambola Assassina", dove il fulcro delle vicende è ambientato in una rispettabile pensione per giovani donne a New York. East non compare, invece, in "Il Padiglione sul Mare", un thriller gotico ambientato nel sud degli Stati Uniti.

Insomma, Hilda Lawrence sembrava destinata a risalire l'Olimpo degli scrittori di gialli americani della metà del Novecento. Pubblico e critica (in particolare Howard Haycraft la definì "di gran lunga il più entusiasmante talento nel campo dell'odierna letteratura gialla") erano dalla sua parte, pronti a sostenerla, e si aprivano davanti a lei grandi prospettive. Eppure, di punto in bianco, nel 1946 interruppe la serie con protagonista East e iniziò a pubblicare sempre meno. Nel 1949 uscì "Duet of Death", una coppia di romanzi brevi dal titolo "A Quattro Mani" e "The House/The Bleeding House"; però si tratta di storie di suspense ben diverse dal resto della sua produzione precedente (tanto che "A Quattro Mani" divenne un episodio di "The Alfred Hitchcock Hour" intitolato "The Long Silence"). Poi Lawrence pubblicò una puntata della serie "Nobody Dies but Strangers", sula rivista Ladies Home Journal nel 1951, e il racconto "A Roof in Manhattan", inserito nell'antologia "For Love of Money" curata dal Mystery Writers of America nel 1957. Da qui più nulla, fino alla morte avvenuta nel 1976. Cosa successe per arrestare la sua ascesa? Non si sa. Resta il fatto che Hilda Lawrence ha dato prova di sé con i pochi romanzi che ha scritto; romanzi che, da qualcuno, sono stati criticati aspramente per essere in un certo senso "né carne né pesce". Mi spiego meglio: la decisione dell'autrice di mettere insieme elementi del giallo britannico con quelli tipici delle women in jeopardy ha scatenato una serie di commenti e giudizi secondo cui ella ha voluto inserire nelle sue trame cose fin troppo diverse tra loro, così da non riuscire a dare un'identità precisa alla sua narrativa. L'atmosfera di Carr, come dicevo sopra, ma pure un protagonista spiritoso sulla falsariga di Archie Goodwin, aiutante di Nero Wolfe, zitelle simili a Miss Jane Marple... Avrebbe aperto a troppe cose, fallendo nel non riuscire a concentrarsi bene su una di esse. Francamente, io trovo che questo discorso sia del tutto esagerato. Certo; un problema per il lettore affezionato al giallo più tradizionale nel senso stretto del temine l'ho rilevato, leggendo "Sangue sulla Neve" e "La Bambola Assassina": gli indizi non si attengono del tutto al fair play, ovvero si può indovinare chi sia il personaggio colpevole ma non arrivare a scoprire come abbia agito in base alle prove presentate. Questo può essere una pecca, per alcuni.

Conversation at the Cafe, Giovanni Boldini, 1896, raffigurante
due figure femminili fuori da un locale
Ma io, come ho già avuto modo di spiegare, preferisco concentrarmi sul risultato complessivo del romanzo, senza pretendere un gioco pulitissimo dall'autore; e quello che ho ricavato dalla lettura di questo "La Bambola Assassina" mi ha soddisfatto tanto quanto era successo con "Sangue sulla Neve". Tra i due titoli ci sono numerose affinità ed altrettante differenze. Riguardo alle prime, penso che esse costituiscano i punti di forza del libro: sono lo stile e l'ambientazione che, come era accaduto nel romanzo l'esordio dell'autrice, vengono sfruttati in modo da dare vita a un sogno ad occhi aperti, a volte benevolo (le accurate descrizioni degli interni soprattutto notturni delle stanze di Hope House, con tanto di mobili d'epoca e lampade discrete, oppure di saloni con caminetti accesi e caratterizzati da una quieta atmosfera, pp. 124, 177-178, 190) ed altre volte maligno, simile a un incubo ad occhi aperti (i corridoi minacciosi e fin troppo silenziosi che percorrono ogni piano dell'edificio, e le porte che vengono aperte da mani invisibili e fanno pensare subito a qualche minaccia in agguato). Il lettore ha l'impressione di camminare in una regione fantastica, in cui spazio e tempo non hanno poi questa grande importanza, e ogni cosa pare circondata da un'aura nebulosa che ne offusca i confini definiti, come se le fattezze reali non venissero mai tratteggiate sul serio. Lo sfruttamento del passato come chiave per interpretare il caso (altro espediente già usato in "Sangue sulla Neve") possiede uguale importanza: sappiamo che Ruth Miller è perseguitata da un terribile segreto che non è mai riuscita ad affrontare; si tratta di un'indistinta paura nei confronti di una situazione oppure una persona in particolare, la quale ha giurato di non lasciarle alcuno scampo. Ci facciamo un'idea imprecisa grazie ai suoi pensieri in tumulto, percepiamo le sue paure semi-sepolte e improvvisamente tornate a galla, conosciamo l'angoscia che monta come un fiume in piena nella sua mente. Quest'abilità dell'autrice nel saper dire e non dire le cose, tra l'altro, è molto affascinante: già in "Sangue sulla Neve" si era notata questa sua qualità, ma nel romanzo oggetto della recensione di oggi le cose si sono spinte più in là. Infatti, oltre al saper accennare indizi e poi sottrarli alla vista subito dopo, con rapidità e silenziosa maestria, Lawrence non ha soltanto nascosto allusioni nel tipico modo delle sue colleghe americane, ma ci ha dipinto un racconto in cui chi legge non possiede alcuna certezza. In ogni caso, il passato viene raffigurato come un'entità "fatale", nel senso che non permette scampo a chi tenta di aggirarlo e dimenticarlo. Eppure, non sappiamo di preciso cosa sia accaduto e ogni cosa è ambigua.

Proprio quest'ultima, ancor più che nel romanzo d'esordio di Lawrence, è la cifra distintiva di "La Bambola Assassina"; non solo per i motivi qui sopra elencati, ma pure per tutta una serie di elementi aggiuntivi: l'uso continuo del termine "lei", comprensibile all'interno di un pensionato per ragazze e popolato da sole dipendenti di sesso femminile, ma volutamente sfruttato per indicare le persone e mettere in difficoltà chi legge ("a chi si riferirà?" è la domanda che ci poniamo di continuo nella lettura); il fatto stesso che l'identità dal colpevole sia nota alla protagonista ma non venga mai rivelata chiaramente; il contrasto tra tono ironico e melodramma, tra momenti allegri ed altri di tensione palpabile; lo stesso carattere dei personaggi che, in modo similare a quanto accaduto in "Sangue sulla Neve", non permette al lettore di farsi alcuna idea su chi sia "buono" e chi sia "cattivo". La struttura narrativa è costruita in modo da accennare soltanto ciò che è fondamentale per la ricostruzione del mistero, e sta al lettore cogliere gli indizi nascosti non solo tra le righe ma pure in ciò che non viene detto chiaramente. In "La Bambola Assassina" assistiamo inoltre a una radicale variazione di una regola del giallo classico. Se ci farete caso, vi accorgerete che per la prima volta (almeno io non mi sono mai reso conto che ciò sia avvenuto) il lettore conosce cose che sono ignote all'investigatore: il segreto di Ruth e tutta la parte che precede la sua morte, per quanto frammentati nell'esposizione, ci vengono consegnati come "in esclusiva". Sappiamo quali sforzi fa la ragazza per sottrarsi al Fato, come si ingegni per scongiurare il pericolo pur senza riuscirci, quanto sia difficile per lei mettere in chiaro i suoi obiettivi e come non abbia alcuna intenzione di suicidarsi. Tutto ciò resta ignoto alla polizia e a Mark East, che si interrogano se la ragazza abbia o meno compiuto qualche gesto insano; noi lettori, invece, abbiamo già la risposta. Accade quindi il contrario del caso che molto spesso si verifica; ovvero, la mancanza di fair play: qui è il detective a trovarsi in svantaggio, così che chi legge diventa in qualche modo burattinaio perché vorrebbe suggerire una pista ad East, mentre l'autore si sforza per far quadrare i conti. Assolutamente straordinario. In questo modo, pertanto, Lawrence infonde un fortissimo senso di ambiguità alla sua storia, confondendo le identità dei personaggi, attraverso le parole ("avevano nomi come Betty, Peggy e Janie. Non significavano niente, sembravano esattamente tutte uguali") e le immagini (le ragazze sono vestite tutte uguali al ballo), e di quelli che hanno a che fare con il romanzo. Oltre ad ambientare la trama in un luogo dove le apparenze ingannano, trasmettendo la falsa sensazione che esso sia confortevole quando in realtà appare più simile a una prigione. Credo che Lawrence sia stata in grado di evocare l'oscurità che si manifesta un po' dappertutto tanto bene quanto era accaduto in "Sangue sulla Neve", nonostante gli scenari siano diversi tra loro.

Copertina di "Death of a Doll"
nell'edizione più recente
Tra le altre differenze rispetto all'esordio, voglio segnalare come in "La Bambola Assassina" l'unione di sottogeneri differenti del giallo si manifesti con più forza. Rispetto a "Sangue sulla Neve", qui l'unione tra police procedural, investigazione privata professionale e dilettantismo del tipo "zitelle che indagano alla bell'e meglio" è più marcata, e quella di East sovrasta le altre. Questo significa che Bessy e Beulah avranno di conseguenza un ruolo minore nella risoluzione del mistero; ma non che siano inutili, visto che il loro approccio mette in luce il contesto sociale meglio di qualunque altra cosa. Ci divertiamo a osservarle atteggiarsi, battibeccare nelle loro interazioni, spronarsi l'una con l'altra e agire con più senno di quanto ci si aspetterebbe (pp. 83-89, 132-135, 141-143, 247-249). Rilevamenti pratici e riflessioni si mescolano e danno vita a un racconto dove i dettagli non sono mai irrilevanti: se Lawrence ha evidenziato qualcosa, possiamo stare certi che non si sia trattato di un caso. In secondo luogo, poi, nel romanzo in oggetto quest'oggi la componente autobiografica si fa più sentita. L'autrice attinse dalla propria esperienza personale per dipingere il mondo di una giovane ragazza che decide di buttarsi nel mondo frenetico e pieno di pericoli della New York degli anni '40, costretta a vivere in un pensionato per contenere le ingenti spese rispetto agli esigui guadagni; lei stessa dovette guadagnarsi da vivere come meglio poté, quindi sapeva di cosa parlava. Sfruttò il proprio talento per mostrare quanto fosse complicato fare la commessa in un grande magazzino (Ruth, Moke e Poke), la centralinista per una sorta di albergo (Kitty Brice), l'addetta all'ascensore bistrattata e tiranneggiata (Jewel), l'assistente sociale (Angel Small) e la direttrice di un istituto (Monny Brady); ma allo stesso tempo dipinse la forza di volontà di queste donne volenterose e desiderose di indipendenza, attratte dalla vita mondana e dalla comunità, gentili e vendicative, affabili e gelose, determinate e fragili nei rapporti di conflitto e rivalità. Dipinse quindi i personaggi con cura, mettendone in luce pregi e difetti, senza dimenticare il tema della sessualità, e abitudini come passatempi quotidiani o piccole infrazioni delle regole, tratteggiando una fauna diversa che passa da individui aristocratici come Mrs Marshall-Gill a zitelle di mezza età quali Mrs Plummer e Mrs Fister, fino a insignificanti esserini come la cieca e inquietante April Hooper. Lawrence esplora tutti i personaggi descrivendo le correnti sotterranee che, scorrendo impetuose, li legano e separano tra loro, in modo da mettere in luce le ossessioni e gli spettri che li perseguitano (ritorna un po' Wilkie Collins, vero?, pp. 91-92, 140, 147-148, 153-155, 172-173, 220-229, 298-299, 305-307). Nessuno è escluso, nemmeno East che si ritrova invischiato in un'indagine da cui sarebbe stato volentieri lontano considerata la sua natura. Tutti portano maschere (metaforiche) attaccate in modo precario sui loro volti, che ne alterano le caratteristiche. Forse fin troppo? Alcuni hanno riscontrato una certa confusione nell'esposizione dei fatti, con ripetizioni che forse potevano essere tagliate assieme ad alcuni segugi "di troppo". Da parte mia, non cambierei proprio nulla in "La Bambola Assassina". Abbiamo un miscuglio di ironia e tragicità, un racconto della società che restituisce al meglio la visione del tempo, personaggi ambigui e inquietanti che si confondono in un incubo ad occhi aperti e ci fanno domandare: "sono pazzi oppure seni di mente?". Al lettore il compito di interpretare in base a ciò che viene detto e ciò che non viene detto. E nonostante l'enigma non rispetti il tanto desiderato fair play, trovo che questa sia una lettura stupenda per immergersi in un mondo "altro". Essa funziona, è irta di tensione e segreti nascosti e dimostra come le amicizie (femminili ma pure maschili) abbiano lati pericolosi da cui guardarsi. Basta un momento perché le gelosie meschine si trasformino in odi e vendette, se non addirittura rabbie omicide. A questo punto, mi auguro venga presto tradotto "A Time to Die".

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venerdì 12 febbraio 2021

61 - "Delitto al Concerto" ("When the Wind Blows", 1949) di Cyril Hare

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Penso che la musica, intesa in senso generale, sia una delle cose più straordinarie che ci siano al mondo. Essa ci permette di svagarci e divertirci, se un brano è particolarmente movimentato; di scatenarci, nel momento in cui abbiamo bisogno di qualcosa di forte che si faccia scaricare la tensione; di commuoverci, quando ci sentiamo di dover sfogare un'emozione che non trova via d'uscita dalla nostra testa; di consolarci, se abbiamo bisogno di sentirci dire che "va tutto bene" e che non siamo soli. Nel mio caso specifico, inoltre, la musica è stata uno dei mezzi attraverso cui ho fatto nuove amicizie. Penso soprattutto al Festival della Canzone Italiana di Sanremo, che ha unito e unisce gran parte del popolo social di Twitter: ecco, quest'ultimo è stato (ed è tutt'ora) uno degli argomenti-chiave nelle discussioni che intrattengo con i miei amici: ci dà di ché divertirci e sfogarci e lamentarci per mesi e mesi (soprattutto quest'anno che, con la pandemia ancora in corso, ancora non si sa bene come si svolgerà). E se Sanremo è sempre più un contenitore delle materie più disparate, dalla promozione di fiction alla presentazione di progetti culturali, dalle ospitate in occasione di imminenti spettacoli teatrali in uscita, al semplice momento di distensione nei confronti del ritmo serrato della gara, la vera protagonista dello show resta pur sempre la musica, che lo si voglia oppure no. Quella che piace a tutti, nel bene e nel male; che genera dibattito pacifico e litigate furiose, facendoci accapigliare e intrattenere. Penso ad esempio alla pagina Instagram "SanremoHistory" del mio amico Antonio (qui trovate il link), dove lui si diverte a giocare con le canzoni vincitrici del Festival, ma ogni tanto si ritrova a confrontarsi con persone decisamente poco pacate; ecco, come illustra questo esempio, la musica riesce a unire e a dividere. Ma essa non fa soltanto questo, dato che dà da mangiare a molte più persone di quante possiamo lontanamente immaginare. Come ci ricordano spesso i lavoratori del mondo dello spettacolo che organizzano concerti, allestiscono palchi, noleggino strumenti musicali, fanno parte di orchestre, si occupano di studiare e spiegare la materia (come fa Selene attraverso il suo canale YouTube a questo link, mentre studia per poter lavorare nel settore in futuro), ognuna di questa figura professionali riesce a sbancare il lunario proprio grazie alla musica. Essa è qualcosa di meraviglioso, che unisce l’arte pura al mercato economico, capace di esprimersi in toni ufficiali e altisonanti, ma anche attraverso forme meno pretenziose, come dimostrano i thread di Federico sul suo "Sanremo 70e1" appena conclusosi e il profilo Instagram di Levis, che mi auguro possa presto ospitare tante canzoni.

Sì, penso proprio che la musica sia qualcosa di straordinario; e non solo perché io stesso suono il pianoforte. Essa riempie le nostre vite ogni giorno, senza che magari ce ne accorgiamo; eppure è lì di fianco a noi, pronta ad essere d'aiuto quando ne abbiamo bisogno, e molto spesso diventa materia di discussione in innumerevoli declinazioni. Scrivendo su Three-a-Penny, in questa occasione vorrei sottolineare come essa occupi un ruolo di rilievo all'interno della classica crime story. Già in passato abbiamo visto come il suono abbia giocato in primo piano all'interno di un romanzo del mistero: penso, ad esempio, all'importanza delle nove campane della chiesa di Fenchurch St. Paul, in "Il Segreto delle Campane" di Dorothy L. Sayers, le quali sono state importantissime nel farsi mezzo attraverso cui una certa entità si è manifestata davanti agli uomini e alle donne inermi del villaggio. Anche in un libro che purtroppo non è stato tradotto in italiano (e spero si rimedierà presto), "The Organ Speaks" di E.C.R. Lorac, la musica è al centro dell'attenzione, dal momento che un cadavere viene rinvenuto mentre siede allo strumento del titolo, e nella trama si fanno tanti riferimenti sul tema, al punto che la stessa Sayers lo giudicò "molto originale, molto ingegnoso e notevole per la scrittura atmosferica e lo sviluppo dei personaggi". Dal lato americano del giallo, la musica fa da sfondo alle vicende narrate in "Undici Calze di Seta" di Craig Rice, il quale vede il rinvenimento di un cadavere prima strangolato e poi nascosto all'interno di una custodia per contrabbasso; mentre in "Un Cadavere Senza Importanza" di Charles Daly King la questione si fa ancora più complessa, dal momento che la storia stessa viene divisa come se fosse una rapsodia, e nell'enigma sono inclusi uno strano pianoforte che potrebbe uccidere attraverso il suo stesso suono. Insomma, come potete vedere, la musica è una materia molto gettonata nel giallo classico e ha fornito numerosi spunti ai suoi autori. Anche nel romanzo che recensisco oggi (come probabilmente vi sarete aspettati, dopo questa introduzione), essa gioca un ruolo importante nella trama e nel suo enigma: "Delitto al Concerto" di Cyril Hare (Polillo Editore, 2005), infatti, presenta uno di quei complessi misteri, tipici della prima metà del Novecento, in cui l'appassionato giallista e musicista potrà cimentarsi con successo. Chi non mastica molto la musica classica potrebbe incontrare delle difficoltà nello scioglimento in autonomia del delitto, ma questo non significa che non riuscirà comunque a divertirsi e a godere delle vicende narrate e orchestrate (bisogna proprio dirlo) in maniera eccelsa dall'autore: provate a dargli una possibilità per rendervene conto.

Travel to the Theatre, Herbert Ashwin Budd,
1930, raffigurante una scena fuori da un teatro
La storia è ambientata prevalentemente nel mese di novembre, quando la Markshire Orchestral Society si ritrova ad organizzare i consueti quattro concerti che l'orchestra cittadina dovrà eseguire nel salone del municipio. Il comitato, composto dalle signore Charlotte Basset (violoncellista), Susan Porteous (violinista) e Jane Roberts, e dai signori Robert Dixon (segretario), Clayton Evans (direttore d'orchestra), Billy Ventry (organista) e Francis Pettigrew (tesoriere), ha preparato un piano ben preciso sotto la guida ferrea di Evans e si appresta a dare inizio alle prove della prima esibizione della stagione. In questa occasione, saranno suonati l'Alleluia Op. 7 n 3 di Händel, un brano che prevede alcuni momenti da solista per Ventry; il concerto per violino di Mendelssohn, con un importante assolo, e la sinfonia di Praga di Mozart; tutti brani che rientrano nelle capacità dell'orchestra mista di dilettanti e professionisti di cui essa è composta. L'unico inconveniente, che rischia di mandare all'aria ogni cosa, è l'inclusione della celebre Lucy Carless, la violinista che dovrà esibirsi in solitaria proprio nel pezzo di Mendelsshon, nel numero dei partecipanti: infatti, non solo la donna è conosciuta per il suo temperamento nervoso e capriccioso, ma è pure l'ex moglie di Dixon. Tuttavia, in un primo momento tutto pare andare liscio: Robert acconsente a tornare in contatto con Carless quanto basta per portare a termine il concerto, e il primo avvicinamento tra i due non suscita alcun problema. Addirittura, alla festa che il mondano Ventry organizza a casa sua la sera delle vigilia dell'esibizione, Dixon e Carless presentano senza rancore all'altro i rispettivi nuovi compagni di vita. Insomma, tutto va a gonfie vele, nonostante la famosa violinista conservi un certo snobismo verso i suoi temporanei compagni di lavoro. Poi all'improvviso, il pomeriggio prima della grande esibizione, Carless litiga furiosamente con uno dei clarinettisti ingaggiati da Dixon ed Evans per il concerto, e minaccia di abbandonare lo spettacolo se l'uomo non verrà allontanato. Un bel guaio, vista la carenza di elementi adatti a rimpiazzarlo e il poco tempo che separa l'orchestra dal debutto. Eppure, ancora una volta, i membri del comitato riescono a sventare il problema: Zbartorovski, il clarinettista polacco con cui Carless ha avuto l'alterco, viene rimpiazzato da tale Jenkinson e tutti sono soddisfatti.

Ogni cosa è andata a posto, quindi? Purtroppo no. In tutto questo, infatti, il tesoriere della Markshire Orchestral Society, Francis Pettigrew, non riesce a scuotersi di dosso la strana sensazione che qualcosa di terribile stia per accadere. Probabilmente è un'impressione influenzata dai numerosi intoppi a cui ha dovuto far fronte in prima persona, per conto del comitato: risolvere le beghe economiche, dare disponibilità per assistere a noiose prove, telefonare e contattare artisti presuntuosi e lunatici non lo ha certo messo in uno stato d'animo positivo. Forse anche il fatto di essere stato coinvolto in alcuni delitti, tempo addietro, lo ha segnato: magari vedere due esseri umani urlarsi addosso epiteti e volgarità in una lingua straniera potrebbe aver ridestato i suoi timori nell'imbattersi un un nuovo cadavere. Pettigrew si costringe ad accantonare i timori e, la sera della prima, si accomoda in galleria per assistere allo spettacolo, incrociando le dita. Tuttavia, sorgono ancora intoppi. Lucy Carless ha preteso di essere lasciata da sola nella sala degli artisti finché non arriverà il suo momento; si tratta di una questione di nervi, sembra. Inoltre, proprio mentre l'orchestra intona l'inno nazionale, lo sguardo di alcuni spettatori indugia sul posto inspiegabilmente vuoto dell'organista. Dov'è Ventry? Cosa gli è accaduto? Come mai non si sta preparando per il pezzo d'apertura col suo assolo? Evans, spazientito, si vede costretto a cambiare l'ordine dei brani e attacca con la sinfonia di Praga di Mozart, per poi fare una breve pausa e  andare incontro a Carless nei camerini. Peccato che la donna non arriverà mai in scena, dal momento che è stato strangolata nella poltrona in cui sedeva. Immediatamente il concerto viene interrotto e la polizia convocata sulla scena del delitto. L'ispettore Trimble, aiutato dal sergente Tate, si getta in caccia dell'assassino e pian piano si rende conto che quest'ultimo deve trovarsi per forza nel numero di partecipanti attivi al concerto, tra i membri del comitato oppure tra gli orchestrali. Però nessuno ha avuto movente e occasione per compiere il crimine, a parte un misterioso clarinettista che pare essersi volatilizzato nel nulla. Forse è costui il criminale responsabile? Toccherà a Francis Pettigrew dare un importante contributo alle indagini di Trimble e Tate, affinché l'assassino non resti impunito e vanga arrestato.

Orchestra Pit, Jim Rodgers, raffigurante un direttore intento a
guidare la sua orchestra in un pezzo sinfonico
Dopo la delusione provata nel leggere "Congelato" di Anthony Weymouth, desideravo tornare a concentrarmi su qualcosa di intrigante che potesse ridarmi la gioia di gustare un giallo ben sviluppato, e l'idea di cimentarmi con un libro dove il nucleo principale del racconto fosse costituito dalla musica da concerto mi allettava molto; soprattutto come musicista di brani classici, ho pensato che avrei potuto apprezzare ancora di più l'intreccio. Così, ho deciso di prendere in mano "Delitto al Concerto" e vi posso assicurare che la scelta è stata azzeccata, visto che si è trattato di un romanzo stupendo. Infatti, come era accaduto per "Il Segreto delle Campane", anche in questo libro tutto quanto ruota attorno alla Quarta Arte, intesa per essere di facile accesso a qualunque lettore e pur senza tralasciare la trattazione di altri temi comunque importanti nella narrativa di Hare. Un mondo intero viene descritto in tanti piccoli dettagli che si possono leggere tra le righe: abbiamo il comportamento nevrotico e maniacale dei musicisti e di chi viene in contatto con loro ogni giorno, con liti frequenti e scontri che si verificano nelle occasioni grandi e piccole; la descrizione approfondita di numerose occasioni in cui un'orchestra oppure un comitato ad essa legato si riuniscono e, inevitabilmente, scatenano una serie di botta e risposta che spesso si rivelano essere fonte di frustrazioni ed ansie (cap. 6, pp. 89, 118-121, 213-216, 231-232). Nonostante non siano sempre direttamente funzionali alla trama e allo svolgimento del percorso che porterà alla cattura del colpevole, in più di un'occasione vengono tirati in ballo strumenti musicali di vario genere, brani con le loro peculiari caratteristiche, nomi di celebri compositori e concertisti come Håndel, Mendelssohn, Mozart, Beethoven. Molte volte, inoltre, viene messo in luce il lato artistico della musica, inteso come approccio ad essa da parte dei musicisti: abbiamo Evans che la intende come qualcosa che sta al di sopra di tutto il resto, persino delle indagini della polizia che "rischiano" di contaminare un mondo perfetto ed etereo impossibile da piegare ai dettami della pragmaticità; oppure la visione della signora Basset, la quale vede nella Quarta Arte un mezzo che sta tra l'aulico (dal momento che le permette di esprimere le proprie emozioni) e il pragmatico (sfrutta il suo talento per fare semplicemente colpo sul direttore d'orchestra).

Al di là di ciò, tuttavia, l'aspetto "musicale" del romanzo non si limita alla mera descrizione di un mondo "elevato" rispetto a tutto il resto; voglio dire, non descrive il tema soltanto prendendolo da un punto di vista artistico. Una parte di esso viene trattato secondo un piglio materialista, mostrando come e quanto sia complicato "far quadrare i conti", per dirla in soldoni: i problemi che sorgono quando bisogna pagare un suonatore esoso oppure scontroso; i passi che si devono intraprendere per avere a che fare con qualche musicista che si rifiuta di essere contattato da chiunque, al di fuori di un agente ancor meno disposto a scendere a compromessi; l'organizzazione pratica di un concerto, la quale prevede non soltanto una lunga serie di scontri e botta e risposta di accordi più o meno soddisfacenti, ma pure l'affitto di un luogo materiale dove l'orchestra si possa esibire, il pagamento di tasse inevitabili ed obbligatorie, le riunioni alle quali i membri devono partecipare che devono essere organizzate tenendo conto di tantissime variabili... Anche questo è un merito di "Delitto al Concerto": mostrare come non tutto si riconduca a un aspetto ideale, ma sia necessario scendere a compromessi e occuparsi pure del lato più prosaico dell'organizzazione musicale. E su questi due aspetti antitetici, Hare ha costruito il suo romanzo giallo, sfruttandoli per dare vita a una storia come dicevo straordinaria, in cui si intrecciano uno stile solido e stabile e numerosi temi, per dare vita a un enigma dove la musica non è soltanto un pretesto per infondere atmosfera alla trama, ma gioca un ruolo di primo piano nella soluzione dell'indagine. Al mondo della Quarta Arte, fatuo in molte delle sue caratteristiche, illusorio, poco tangibile, effimero, viene infatti affiancata una narrazione dove i fatti sono ciò che più contano, al di là delle mere idee che uno può farsi; dove le testimonianze hanno più valore delle ipotesi, le correnti sotterranee sono declinate a perseguire mete poco idealizzate e volte a un profitto di carattere tangibile (possedere qualcuno in senso carnale, piuttosto che sentimentale, oppure un guadagno in termini di denaro) e le prove utili per svelare la verità sono di carattere pragmatico, rifacendosi alla conoscenza di cavilli legali come è solito in Hare. La stessa musica, addirittura, viene utilizzata per suffragare la soluzione finale in termini materiali. Credo sia stata questa capacità di mettere assieme mondi distanti tra loro, pur senza dare vita a uno scontro irrisolvibile, la chiave del successo di "Delitto al Concerto". Oltre al fatto di accompagnare il lettore nel complesso mondo della musica da concerto.

Alfred Gordon Clarke, alias Cyril Hare,
nato nel 1900 e morto nel 58
Cyril Hare (pseudonimo di Alfred Gordon Clarke) riuscì in questa impresa grazie al fatto di essere lui stesso un grande appassionato di musica concertistica. Nato nel 1900 a Mickleham, studiò Storia al New College di Oxford prima di intraprendere la professione forense a Londra. In concomitanza con il matrimonio, tuttavia, decise di intraprendere l'ulteriore pratica letteraria per incrementare le magre entrate che gli procurava il suo lavoro ed assunse uno pseudonimo che univa il nome della sua abitazione (Cyril Mansions) con il proprio luogo di lavoro (sito a Hare Court). Come Cyril Hare iniziò a scrivere racconti per il "Punch", finché nel 1937 riuscì a pubblicare con discreto successo il suo primo giallo, "Tenant for Death", in cui le indagini vengono affidate a un ispettore di Scotland Yard piuttosto convenzionale, Mallet. Quest'ultimo ricompare nel titolo seguente, "Death is no Sportsman", ma fu dal 1939 che l'attività letteraria di Hare si fece più originale: con "Suicide Excepted", infatti, egli cominciò a sfruttare la propria esperienza nel mondo giudiziario e della legge inglese per rinforzare intreccio e ambientazione dei suoi libri, dando sempre meno risalto alla figura di Mallet. Nel frattempo, ricoprì per qualche tempo il ruolo di judge's marshal e accompagnò un giudice itinerante con mansioni segretariali nei primi anni della Seconda Guerra Mondiale; esperienza che gli sarebbe servita per dare vita al suo capolavoro, "Tragedy at Law", in cui fece la sua comparsa il suo investigatore per eccellenza: l'avvocato Francis Pettigrew, il quale avrebbe anticipato i "personaggi di carne e sangue" (come l'ha definito il critico Martin Edwards) degli scrittori futuri. Pettigrew, infatti, risulta un individuo molto meno impostato e formale del tipico detective della Golden Age, interessato il giusto al denaro e disilluso, moderno e giusto, per il quale il delitto non è un gioco.

Grande appassionato di storia, di musica classica, di legge (come Michael Gilbert, ad esempio) e provetto oratore, nonché affetto da una "congenita e incurabile indolenza" che limitò la sua attività letteraria, Hare scrisse cinque romanzi con Pettigrew protagonista, che sommati a una trentina di racconti e agli altri rimanenti contano dieci esemplari della miglior crime story di stampo giudiziario, prima di morire nel 1958. Tra questi ultimi, l'unico a non presentare un investigatore di serie fu "Un Delitto Inglese", il quale vide invece come deus ex machina l'insolita figura di uno storico ungherese, il professor Bottwink, e si può considerare il più "classico" dei gialli di Hare. Esso venne basato su "The Murder at Warbeck Hall", un radiodramma composto per la serie "Mystery Playhouse presents The Detection Club", scritto in un tentativo di raccogliere fondi per il Club e trasmesso dalla BBC assieme a:
  • The Murder in the Mews by Agatha Christie;
  • A Nice Cup of Tea by Anthony Gilbert;
  • Sweet Death by Christianna Brand;
  • Bubble, Bubble, Toil and Trouble by E. C. R. Lorac,
  • Where Do We Go From Here? by Dorothy L. Sayers.
Sempre Martin Edwards ha rivelato che, al momento della sua morte, Hare aveva iniziato a scrivere un nuovo romanzo con protagonista il dottor Bottwink; purtroppo però non riuscì a finirlo e non se ne farà mai nulla, poiché l'esiguo manoscritto rimasto incompiuto è talmente breve da rendere impossibile capire come si sarebbe sviluppata la trama. Ciò è un vero peccato, visto il calibro del primo libro di quella che si prospettava come una serie di qualità. In ogni caso, per fortuna, ci resta il resto della sua opera letteraria che non è seconda a nessuno, in campo giudiziario. Infatti, se Gilbert applicò le proprie competenze in campo notarile e di avvocatura, la Legge e la Giurisprudenza trovano in Hare il miglior espressionista. Lo stesso "Delitto al Concerto" mette in mostra questa cosa dal momento che, come era già accaduto in "Un Delitto Inglese", il movente del delitto si debba andare a ritrovare in un cavillo legale che risale nientemeno che al Parlamento di Enrico VIII! Questa attenzione per il mondo giuridico è stata la benedizione/maledizione di Hare: da un lato, gli ha permesso di attingere da una fonte pressoché esclusiva per ricercare elementi da sfruttare per far muovere i suoi assassini, ma dall'altro ha precluso il cosiddetto fair play nello scioglimento del mistero da parte del lettore, il quale ovviamente non conosce tutti i codicilli legali. In questo si può riscontrare l'unico difetto di "Delitto al Concerto"; per il resto, come dicevo, si è trattato di un libro pieno di aspetti narrativi e tematiche interessanti.

Copertina dell'edizione in lingua
originale, pubblicata da Faber
In questo libro, Hare ha unito la propria passione per la musica con la sua ampia conoscenza della legge (pp. 35-38, 255-257), inserendo alcune digressioni che esulano dallo svelamento finale (come quella alla corte d'Assise) ed altre che, invece, sono strettamente legate al caso. Oltre a ciò, tuttavia, l'autore non ha rinunciato a sfruttare e mettere in atto gli accorgimenti che hanno reso grande e duratura la propria narrativa: uno stile a dir poco solido, pianificato e compilato, quasi antico come quello di Richard Austin Freeman, ma senza le lunghe parentesi tratteggiate in tono lirico (non per niente viene citato "David Copperfield" alle pp. 43, 45, 201, 205-206); un'attenzione ai particolari e a brevi descrizioni stringenti per quanto riguarda le ambientazioni; e una caratterizzazione profonda dei personaggi, alternando la loro fisicità con gli aspetti emozionali. Come era accaduto in "Un Delitto Inglese", sono questi ultimi a dare gran parte della forza alla trama. Nell'altro romanzo avevamo uno scenario affascinante come quello della casa isolata dalla neve a Natale; qui, le descrizioni sono meno suggestive e numerose ma non per questo scadenti. Allo stesso modo, inoltre, in "Delitto al Concerto" la storia raccontata non si dilunga più di tanto nel raccontare quale sia lo sfondo delle vicende; certo, nella parte comprendente i primi cinque capitoli ritroviamo una sorta di carrellata sui personaggi, la quale ci fa capire meglio quale sia il rapporto che li lega tra loro e ci permette di entrare nel loro modo di essere, ma da lì in poi è l'indagine ad occupare il centro dell'attenzione. Sono l'ispettore Trimble e il sergente Tate (ai quali si aggiunge saltuariamente Pettigrew) ad essere protagonisti di quanto accade sulla scena, a dispetto del ruolo di investigatore dilettante del tesoriere della Markshire Orchestral Society. Il lavoro della polizia prende il sopravvento su quello di Pettigrew, mostrando quanto esso sia complesso non solo dal punto di vista pratico, con tanti testimoni da interrogare e indurre a svelare la verità, rilevamenti da fare sulla scena del delitto e orari sballati, ma pure da quello umano. Ciò che prova Trimble nei confronti dei sottoposti e delle persone con cui viene in contatto, una sorta di senso di inferiorità che si accentua quando egli si ritrova al cospetto del capo della polizia MacWilliam (pp. 137-138); la frustrazione di Tate nel dover sottostare a un poliziotto più giovane ed inesperto, oltre che addestrato per non essere affabile coi sottoposti; l'affetto sincero che lega MacWilliam a questo giovane investigatore e la spinta a metterlo di fronte alle difficoltà per farlo crescere: tutto ciò è stato espresso in "Delitto al Concerto", e l'ho trovato davvero illuminante e bello, perché ha dimostrato come la polizia non sia fatta di automi senza cuore (pp. 123-125, 182-187, 211-212, 240-244, cap. 11).

Cosa ancora migliore, Hare ha impresso una forte carica ironica alla sua storia e ai suoi personaggi: gli stessi Trimble, MacWilliam e Tate agiscono con atteggiamenti a volte divertenti (come nell'interrogatorio a casa Roberts), ma è soprattutto Pettigrew a mostrarsi goffo e umano (oltre che diversissimo dal segugio ansioso di mettersi alla caccia di un omicida), quando ad esempio deve contattare Jenkinson come sostituto clarinettista (pp. 65-70, 101-104, 187-192, cap. 13). Con questo, però, non bisogna dimenticare che "Delitto al Concerto" è pur sempre un giallo del dopoguerra; pertanto, sono presenti alcuni riferimenti al razionamento di cibo e oggetti come le calze per signore, oltre allo spettro del conflitto e del nazismo stagliato dalla triste vicenda dei Zbartorovski (pp. 195-196). Insomma, c'è un equilibrio su cui si gioca tutto quanto, influenzato dalle correnti sotterranee che legano i personaggi l'uno all'altro, in un misto di amore e odio, gelosia e vendetta, bramosia e disgusto, snobismo e altruismo (pp. 58-59 130-133, 224-228); nessuno viene risparmiato dal conflitto interiore, come poi accade nella vita reale. La signora Basset, ad esempio, è una snob sociale, che misura il valore del prossimo in base al lignaggio e di comporta di conseguenza, ma non si rende conto di rendersi lei stessa ridicola; il signor Dixon, così posato, organizzato e sicuro di sé, appare incapace di accorgersi del tradimento della moglie; Clayton Evans, da parte sua, divide la propria persona tra il disprezzo per chi non possiede una grande cultura musicale e il raggiungimento della gloria. Nondimeno, Lucy Carless possiede un temperamento nervoso e desideroso di riuscire, nel bel mezzo di un eterno conflitto; Ventry è un collezionista di strumenti musicali, ma questo non gli impedisce di essere pure edonista e donnaiolo. Tutti costoro incarnano lo stereotipo del musicista capriccioso e dal temperamento artistico, cosa che si rivelerà funzionale allo svelamento dell'enigma. Non solo trovando sfogo attraverso le azioni dei protagonisti, infatti, il mistero è stato costruito, ma attingendo direttamente alla musica nella sua essenza: non bisogna limitarsi ad applicare il solito metodo del sondare i sentimenti e i segreti nascosti nell'animo, ma possedere una minuziosa conoscenza della Quarta Arte (e della legislatura inglese) per scoprire in anticipo "chi-l'ha-fatto" e in quale modo. Questo è l'unico difetto di "Delitto al Concerto"; per il resto, esso presenta un tipico mistero della Golden Age del giallo britannico che non mancherà di intrattenere il lettore: composto come da scatole cinesi l'una dentro l'altra, pieno di riferimenti alla realtà (come dimostra la citazione al caso delle "Spose nel Bagno" attribuito al serial killer John Gordon Smith) e alla letteratura di Dickens, schematico nella sua suddivisione per punti, con quel misto di Fato e pianificazione che ha reso celebre nel tempo il mystery anglosassone. Super consigliato.

P.S. Una curiosità, per finire. "Delitto al Concerto" è stato dedicato a un certo Arnold Goldsbrough: ci fu mai costui? Ebbene, alcune ricerche sulla rete mi hanno portato a scoprire che si trattava nientemeno che dell'organista al matrimonio tra Hare e Mary Lawrence nel 1933, alla chiesa di St. Martin in the Fields. Sapendo che nella storia è presente la figura di Ventry e che tipo sia egli, non ho potuto pensare che l'autore abbia voluto giocargli uno scherzo. O almeno spero lo sia stato, vista la cattiva reputazione dell'organista fittizio.

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