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venerdì 19 marzo 2021

65 - "La Casa dei Sette Cadaveri" ("Seven Dead", 1939) di J. Jefferson Farjeon

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Vi è mai capitato di provare un'infatuazione insensata e furibonda per qualcosa che avete letto? Oppure per una canzone che vi è capitato di ascoltare quasi per caso, ma vi è rimasta in testa peggio di un tormentone estivo, o ancora un film per il quale sareste disposti a pagare biglietti e biglietti del cinema, pur di vederlo e rivederlo più volte? Ammetto che una sensazione del genere non capita tutti i giorni; anche perché, se così fosse, non sarebbe più qualcosa di speciale che resta impressa nella nostra memoria oppure nel nostro cuore, a fissare un momento preciso della nostra vita e cambiandola. Tuttavia, io penso che bene o male ognuno di noi abbia sentito qualcosa di simile nel corso della propria esistenza. Per farla breve, penso sia proprio da un'emozione del genere che nascono le passioni che ci irretiscono e ci travolgono con la loro forza; pertanto sarebbe più che naturale provare e aver provato in passato questo tipo di emozione. Per cui, immagino avrete in mente cosa si prova quando si prende in mano un libro, si sente un motivo alla radio oppure si seleziona un film su una piattaforma streaming oppure ci si siede in una sala buia, in attesa della proiezione di una pellicola che in qualche modo ha stuzzicato la nostra curiosità, e ci si ritrova catturati da una forza magnetica che ci impedisce di ribellarci oppure ci fa sentire come se fossimo stati schiaffeggiati senza preavviso. Anche a me è successo, più di una volta, nonostante non si sia verificato magari con la stessa intensità. Ad esempio, per cogliere un aggancio con il recente Festival della Canzone Italiana in Sanremo, al primo ascolto della canzone "Amare" del gruppo La Rappresentante di Lista ho avvertito distintamente qualcosa che mi ha fatto dire: "eccoci, questa è la mia canzone di Sanremo 2021". Si tratta di un brano che (per come l'ho interpretato da dilettante) racconta come siamo fatti, con le nostre strabilianti imperfezioni e contraddizioni: spesso parliamo senza dire niente, piangiamo per dare sfogo alle nostre frustrazioni, alle nostre insicurezze e alle nostre paure, amiamo con tutti noi stessi senza risparmiarci mai, mai. In parole povere, tratteggia uno stato d'animo in cui ci ritroviamo; in cui io mi ritrovo. Penso sia stato ciò a fare risaltare "Amare" in mezzo al gruppo. Altre persone magari non sono rimaste colpite più di tanto da questa canzone; però è successo con brani differenti. Una mia amica semplicemente adora Mina, mentre un altro è fan di Claudio Baglioni: al di là del piacere che si può provare a sentire le loro voce, penso ci siano tante altre cose non dette dietro questo acceso interesse nei loro confronti.

Ovviamente anche parlando di film, ci sono pellicole che hanno saputo stregarmi in un modo che non mi sarei mai aspettato. Titoli come "La Strada" di Federico Fellini e altri facenti parte della filmografia di David Lynch, oltre a colpirmi nel profondo, hanno assunto un sapore particolare in seguito a un'esperienza di condivisione personale che mi tengo stretta e non dimenticherò mai; ma "Breakfast Club" di John Hughes e "St. Elmo's Fire" di Joel Schumacher sono forse gli esempi più limpidi per esprimere il concetto: essi narrano le incomprensioni che si instaurano tra ragazzi/e giovani e sul percorso di crescita che ognuno di essi intraprende, affiancato e stimolato dal/la coetaneo/a col quale magari pensa di non avere nulla a che spartire, ma in realtà è una sua immagine quasi speculare. Dal momento che io stesso faccio una fatica tremenda nel rapportarmi col prossimo, provo un viscerale attaccamento alle vicende che essi raccontano: descrivono quanto sia importante il dibattito e lo scontro tra persone affini, perché entrambe crescano (non cambino ma evolvano), e non credo ci sia niente di più importante di questo nella vita. Detto ciò, tuttavia, il mio campo preferito resta quello della lettura, ed è qui che ho avuto le sorprese più grandi in fatto di "infatuazioni". Mi è successo con la biografia di Agatha Christie, "La mia Vita", poiché essa narra gioie e dolori, vita e morte, fatica e svago, spensieratezza e abissi di depressione in cui tutti noi incappiamo negli anni, confortandoci e dandoci fiducia che le cose si aggiusteranno. Con un romanzo giallo che purtroppo si trova soltanto nei mercatini dell'usato, "Il Mondo dopo la Notte" di Charles Todd, dove la vividezza del racconto e delle vicende dei personaggi mi ha trasmesso emozioni talmente forti che sto aspettando il momento giusto per essere pronto a rileggerlo e recensirlo per voi, senza rischiare di finire di nuovo travolto. Con "Il Segreto delle Campane" di Dorothy L. Sayers, perché è l'unico racconto dove per il momento ho percepito davvero una sorta di rappresentazione della realtà pur dentro la finzione. E infine col romanzo giallo che recensisco oggi per voi: "La Casa dei Sette Cadaveri" di J. Jefferson Farjeon (Polillo Editore, 2011). A prima vista, quest'ultimo non lascerebbe mai intendere quanto esso stesso sia speciale; e forse non lo è, viste le stroncature che in tanti hanno espresso nei suoi confronti. Eppure, per me ha costituito una delle prime letture a tema crime al di fuori dei "soliti" Christie-Doyle-Stout e narra una storia che incarna il perfetto connubio tra thriller e giallo tradizionale, necessario a mio avviso per dare vita al romanzo del mistero perfetto; forse ancora di più che nell'altro libro dell'autore che ho già recensito su Three-a-Penny: "Sotto la Neve". Per questi motivi lo considero una tra le opere a cui sono più legato sentimentalmente, che mi piace rileggere ogni tanto.

Seven Sisters, Cliffs, Essex, Olga Koval, raffigurante una
casa sulla scogliere simile a Haven House
Le vicende che il libro narra prendono avvio da un tentativo di furto, perpetrato dal ladruncolo Ted Lyte presso Haven House, una casa alla periferia del villaggio di Benwick, sulla scogliera dell'Essex. Lyte è stato molto sfortunato negli ultimi tempi: di solito, si limita ad alleggerire qualche passante distratto e a trafugare piccoli oggetti in modo quantomeno discreto; ma adesso la fame si fa sentire e la carenza di furtarelli lo ha spinto ad addentrarsi nell'edificio che appare come abbandonato. La ghiaia del vialetto, infatti, è solcata da alcuni ciuffi d'erba troppo cresciuti, non si sente volare un mosca a parte il cigolio del cancello aperto del giardino, e le imposte delle finestre sono quasi tutte chiuse, a parte una di quelle superiori che sembra fargli un sarcastico occhiolino e invitarlo a sfidare la sorte. Così Ted è entrato dal retro e, dopo essersi attardato nella dispensa per riempire lo stomaco, si accinge a salire ai piani superiori per sottrarre oggetti di valore da rivendere al mercato nero. Eppure, c'è qualcosa che lo inquieta. Forse il silenzio totale dentro la casa? Oppure si tratta di altro, sottile e subdolo? Sempre più spaventato, Lyte decide di limitarsi a portare via qualche pezzo d'argenteria, senza essere avido. Però c'è quella porta chiusa, all'altra estremità dell'atrio, che lo attira come una calamita... Cosa si nasconde dietro ad essa? Forse qualcosa di prezioso? Ted si avvicina e, dopo aver girato la chiave nella serratura, spalanca l'uscio e... alla cruda luce elettrica si parano davanti ai suoi occhi sgranati ben sette cadaveri, alcuni riversi al suolo ed altri stesi su poltrone e divani. Terrorizzato il ladruncolo fugge a gambe levate, lasciandosi dietro pure la refurtiva, ma poco dopo viene fermato da un giornalista freelance, Thomas Hazeldean, appena sbarcato dal suo yacht, che lo ha scorto scappare lontano da Haven House come se avesse il diavolo alle calcagna. Condotto il fuggiasco alla stazione di polizia, ben presto appare chiaro agli agenti e ad Hazeldean che nella casa deve essere accaduto qualcosa di orribile ed inspiegabile, per produrre così tanti corpi in un colpo solo.

In realtà, una spiegazione abbastanza plausibile dei fatti esiste: suicidio collettivo. Ma perché questi individui avrebbero dovuto compiere un tale gesto estremo; e chi sono in realtà, dal momento che deve esistere un qualche legame che li unisca poiché hanno trovato la morte più o meno nello stesso identico momento? I loro abiti fanno pensare che se la siano vista brutta e a Haven House abitano solo un vecchio, di nome John Fenner, e sua nipote Dora. Come mai i sette predestinati hanno scelto proprio quella casa per terminare la loro vita? L'ispettore Kendall prende in mano le redini della situazione e, coadiuvato dal sergente Wade che deve istruire al meglio, si mette a cercare qualche indizio per risolvere il mistero. Però questi ultimi sono molto scarsi: ci sono il quadro di una giovane ragazza (probabilmente Dora Fenner) trapassato da una pallottola; imposte alle finestre non solo serrate ma addirittura inchiodate; un vaso con sopra una vecchia palla da cricket, messo al posto di un orologio sulla mensola del caminetto del salotto; un biglietto con alcuni strani numeri scritti di getto e senza senso apparente. Tutto ciò sembra incomprensibile, come incomprensibile è la causa della morte delle vittime, sulle quali non viene trovata traccia di colluttazione oppure ferita. Inoltre, John Fenner e la ragazza sembrano essersi volatilizzati dalla faccia della terra. A questo punto Hazeldean, spronato da Kendall a non intralciare le indagini e ad essere d'aiuto, ha un'idea: sulla mensola del caminetto c'era pure una cartolina della città di Boulogne, in Francia. Può essere che zio e nipote si siano recati laggiù per qualche oscuro motivo? Nemmeno il tempo di pensarlo e il giovane giornalista ha già raggiunto i bastioni che circondano la città vecchia, la Haute-Ville. Laggiù, tra strani venditori di stoffe e pensioni rintanate all'ombra delle mura, si trova forse la soluzione del crimine di Haven House? Oppure la chiave giace in qualche altro posto, e mille miglia di distanza e immerso in un passato dal quale sta cercando prepotentemente di risalire? Tra fughe rocambolesche, incontri con personaggi eccentrici, scontri e tranelli tesi da amici e nemici, sarà Kendall a tessere le fila di una verità che affonda le radici in una spiacevole esperienza per i sette cadaveri che hanno trovato la morte a Haven House.

Old postcard of Boulogne-sur-Mer, raffigurante la Città
Vecchia dentro i bastioni
Nell'introduzione qui sopra, ho accennato al fatto che alcuni lettori abbiano espresso un giudizio negativo nei confronti di "La Casa dei Sette Cadaveri". Forse sarebbe stato meglio che avessi specificato come quasi tutti si sono lamentati di come la sua storia è stata tratteggiata, al pari dei responsi sulla sua opera in generale. Appartenendo alla Golden Age, infatti, la narrativa di Farjeon dovrebbe essere più convenzionale dal punto di vista della forma stilistica e meno da quello dei contenuti, a detta dei suoi detrattori; senza portare con sé quegli elementi stilistici che dovrebbero essere relegati al passato, in favore di altri più innovativi e quindi migliori. Sono tutte cose che ho già spiegato nella recensione di "Sotto la Neve", ma ve le riassumo qui in breve: alcuni hanno lamentato una gravissima carenza di fair play dal punto di vista dell'enigma, altri il fatto che le trame dei suoi romanzi del mistero non siano focalizzate ed equilibrate a dovere, dal momento che si perdono in digressioni inutili oppure lasciano presagire altissime premesse che poi, immancabilmente, vengono deluse. Altri ancora sono convinti che i personaggi siano scialbi, oppure che il ritmo dell'azione non riesca mai ad ingranare la seconda marcia. Insomma, se dovessimo basarci solo su questi giudizi, probabilmente Farjeon dovrebbe essere cancellato dalla faccia della terra a causa del suo scarso talento. "Simpatici", "carini", "decisamente meno impeccabili" di altri, "resta un autore dai buoni propositi difficilmente mantenuti": sono questi i responsi che ricorrono maggiormente, quando si cerca qualche opinione sull'opera di Farjeon e, quindi, pure su "La Casa dei Sette Cadaveri". Eppure, è proprio così che stanno le cose? Voglio dire, non sarà che forse l'appassionato lettore di crime novels tradizionali è un po' troppo esigente, abituato com'è a leggere spesso grandi capolavori? Il paragone, a mio modesto parere, potrebbe generare reazioni spropositate. Se ti trovi davanti a un mystery con un treno bloccato dalla neve, la mente corre subito ad "Assassinio sull'Orient-Express" di Agatha Christie; e come si fa a reggere e vincere una sfida con quest'ultimo? La cosa migliore, secondo me, sarebbe quella di godere della storia senza avere l'intenzione di fare alcun accostamento e poi, alla fine della lettura, giudicare se il libro in sé ci è piaciuto o meno. Se a quel punto il responso è negativo perché dettato dal gusto personale, lì è lecito fare una bocciatura; ma se c'è qualcosa da salvare, in tutto quanto, è giusto che a Cesare venga dato ciò che è di Cesare.

Pertanto, a mio giudizio, con l'opera di Farjeon bisognerebbe avere l'onestà intellettuale di accettare come certi aspetti dei suoi libri siano stati trattati molto bene e riconoscerlo. Certo, pur appartenendo alla Golden Age questi ultimi non sono esenti da difetti; però non riesco a comprendere come possa esistere questo accanimento contro di loro. Tanto più perché la critica del tempo e il pubblico in generale ha spesso apprezzato i suoi sforzi. Non solo H.R.F. Keating, ma anche Dorothy L. Sayers (conosciuta per essere spietata nei suoi giudizi pure con gli amici e i colleghi del Detection Club) ha espresso ammirazione nei suoi confronti per l'attenzione data agli ambienti, la leggerezza narrativa, la dolcezza nel saper modellare intrecci e personaggi; per non parlare poi di Curtis Evans. E se non fosse stato abile nel suo mestiere, perché l'autore avrebbe pubblicato quasi ottanta romanzi? Il suo editore non gli avrebbe permesso di farlo, se fossero stati troppo scadenti, e il pubblico li avrebbe rigettati se non fossero stati di suo gradimento. Inoltre, nel 2014 proprio la ripubblicazione di "Sotto la Neve" ha generato un piccolo caso editoriale in Inghilterra, dove tale volume si è posizionato in alto nella classifica dei bestseller. Sarà un caso, oppure la narrativa di Farjeon vale qualcosa? Pure altri titoli che sono seguiti a questo piccolo exploit si sono venduti bene (non solo all'estero, ma pure in Italia), quindi forse i giudizi negativi che si leggono in rete sono dettati da mero gusto personale. E se così fosse, allora non è giusto bollare l'opera di questo giallista come scadente. Io stesso mi sono impegnato a riabilitarlo, in qualche modo. Già con la recensione di "Sotto la Neve" ho provato a sottolineare quali siano i lati positivi (nonostante restino quelli negativi) di quello straordinario romanzo del mistero, e lo stesso farò con "La Casa dei Sette Cadaveri". Indubbiamente la trama non è un perfetto meccanismo ad orologeria, come in un giallo di John Dickson Carr, ma ciò non vuol significare che l'enigma sia tutto all'interno della classica crime story: l'ho detto cento volte, ma a mio sindacabilissimo parere esso è importante tanto quanto gli altri elementi della storia (personaggi, ambientazione, stile e atmosfera generale). Il bello sta nel lasciarsi irretire dalla narrazione del caso, non soltanto nel mistero duro e puro: c'è molto di più in un giallo di quanto si pensi a prima vista e "La Casa dei Sette Cadaveri" lo dimostra.
A View from the Heights, Walter Spies, 1934,
raffigurante un'isola tropicale simile a quella
del romanzo
Allo stesso modo di come era stato per "Sotto la Neve", credo che il punto forte del romanzo analizzato oggi sia la sua atmosfera, la quale lo rende molto strano e difficile da classificare all'interno di un ipotetico schedario del genere giallo. Esso infatti dà vita a vicende immerse in un'aura bizzarra, come evocate dentro un sogno i cui contorni si disperdono fino a scomparire. Non esiste un vero inizio, dal momento che il mistero affonda le proprie radici in un passato che allunga le dita nell'arco di anni e Ted Lyte si imbatte in cadaveri che sono sconosciuti allo stesso lettore (pp. 8-11, 25-27); però non esiste nemmeno una fine intesa nel senso più stretto del termine, se non viene considerato il brevissimo paragrafo con cui si conclude il libro (capp. 25-27). È come se noi assistessimo a un lungo racconto onirico, magari nato dalla mente di Lyte, di Hazeldean oppure di Kendall e fossimo spettatori passivi (pp. 29-31, 34, 37, 40, cap. 6, 73-74, 78-81, 87, 90-91, 95-96, 114, 123, 125-126, 141-142, 172, 186-187, 197-198, 205-206, 217); cosa tra l'altro sottolineata dal fatto che non ci vengono forniti indizi veri e propri su cui lavorare per riuscire a scoprire da noi la verità. Qui non abbiamo un enigma inteso come nel tradizionale senso che ad esso veniva attribuito, con tanto di struttura logica e svolgimento serrato, quanto una serie di vicende e azioni che saltano da un momento all'altro senza che venga rispettata una sequenza rigorosa: iniziamo con la scoperta dei corpi e dei primi rilevamenti, poi seguiamo Hazeldean salpare alla volta di Boulogne e laggiù ci perdiamo in un racconto dove cospirazioni e melodramma dominano la scena, per tornare a Benwick dall'ispettore e i suoi aiutanti intenti a mettere in pratica un genere di indagine simile a quella che ha reso famoso Freeman Wills Crofts, con tanto di tabelle orarie; per concludere con una tappa a Boulogne dove il giornalista e Kendall mettono insieme ciò che sanno e riescono a risolvere il mistero. Pertanto, "La Casa dei Sette Cadaveri" rappresenta ancora una volta come Farjeon interpretasse la crime story: ovvero, un miscuglio tra thriller e pura detection, dove la cosa importante non è tanto CHI abbia commesso il/i delitto/i, ma piuttosto COME e PER QUALE MOTIVO si sia reso necessario agire in tal modo. Personalmente credo che questo punto di vista sia intrigante: invece di limitarsi a nascondere al lettore il colpevole, l'autore lo spinge a domandarsi molto di più sui retroscena dell'omicidio, mettendo in risalto i moventi e quanto essi possano celare. In "Sotto la Neve" era accaduta la stessa identica cosa: il colpevole era stato pescato quasi a caso, ma ciò che aveva condotto all'atto di violenza aveva costituito il vero fulcro del racconto. Quindi, che dire a coloro i quali si sono lamentati dell'enigma? Che hanno ragione a considerarlo quantomeno insolito e particolare, ma non nell'affermare che esso sia indigesto: Farjeon intrattiene per tutto il tempo, pur rivelandoci l'assassino praticamente a metà libro, perché induce il lettore a non abbassare la guardia e a interrogarsi su cosa si nasconda dietro la morte di ben sette persone.

E come lo fa? In un modo che trovo sia sempre più la risposta giusta per ideare un crimine fittizio: cioè equilibrando quasi alla perfezione il tipo di indagine più classica con quella sensazionalistica, emozionale e istintiva caratteristica del thriller! Fa indagare i suoi due protagonisti (Kendall e Hazeldean) su fronti diversi, lontani l'uno dall'altro e con metodi che hanno poco in comune: il giornalista impulsivo e romantico, grazie al proprio spirito di osservazione e guidato da un colpo di testa suscitato dall'emozione che un quadro ha generato nel suo animo, raggiunge Boulogne dove lascia che siano la fiducia, la gentilezza, un modo di fare tanto cortese che non sfigurerebbe dentro un drammone vittoriano, a guidare le proprie azioni e a metterlo nei guai (Farjeon inserisce una vena avventurosa nei sui libri per dare ritmo al racconto); mentre l'ispettore gioca la propria partita a partire dalle armi che possiede oppure ha a disposizione (una mente analitica e un plotone di agenti ai propri ordini) per raccogliere prove indiziarie e seguire una pista sulla quale è sicuro di ottenere risultati, dal momento che riesce a toccare con mano ciò che disturba la sua ricostruzione degli eventi. Ai segni di pneumatici, ai fori di proiettile, alle palle da cricket e ai messaggi in punto di morte, Farjeon affianca impressioni, segnali premonitori, emozioni generate da corridoi bui e da paesaggi assolati. Io trovo assolutamente meraviglioso questo metodo; anche perché non bisogna trascurare che, in questo modo, l'autore tenta di accontentare un po' tutti i lettori, sia quelli che prediligono un'indagine analitica sia quelli che desiderano provare qualche brivido di terrore in più. Il fatto che riesca o meno ad equilibrare il tutto è dettato dal gusto personale e non voglio sindacare oltre. Resta il fatto, comunque, che chi si avvicina all'opera di Farjeon, a mio parere non deve aspettarsi indagini serrate, esami scientifici oppure interrogatori e rilevazioni specifiche sulla scena del crimine; quanto storie dove bisogna lasciarsi un po' trasportare al largo, in balia delle maree del tempo e dello spazio, senza pretendere di seguire una rotta prestabilita: qui sono l'avventura e l'intrigante atmosfera sognante, gli aspetti suggestivi ed ingentiliti dei personaggi e la leggerezza della narrazione di fondo, al limite dell'inconsistenza, ad occupare le vicende riguardanti la sorte dei sette cadaveri di Haven House. Farjeon scrive per i sognatori e i romantici come il sottoscritto, e forse è per questo che amo molto le sue storie. Bisogna cogliere il meglio da esse, pur senza dimenticare di sottolineare i difetti che di tanto in tanto emergono nel corso della lettura, ed evitare di dare giudizi troppo affrettati e negativi alla sua opera.

Joseph Jefferson Farjeon, nato nel 1883 e
morto nel 1955
Alla pari dei suoi gialli, Joseph Jefferson Farjeon fu un personaggio insolito per il suo tempo. Nato nel 1883 a Londra, in una famiglia in cui la cultura era di casa (suo padre Benjamin Leopold fu un importante romanziere, sua madre Maggie fu figlia di un noto attore dell'epoca, i fratelli Harry, Eleanor ed Herbert rispettivamente un compositore, un'autrice di libri per bambini e un critico teatrale), studiò in città fino al 1910, quando iniziò a lavorare per la Amalgamated Press, una casa editrice specializzata in riviste umoristiche. Per dieci anni mantenne l'impiego, finché non riuscì a pubblicare il suo primo libro, "The Master Criminal" del 1924. Uomo schivo e mite, "Joe" (come lo conoscevano gli amici) iniziò così la sua carriera di esponente di pregio della Golden Age del giallo anglosassone, benché declinata al thriller piuttosto che al tradizionale mystery deduttivo. Il suo marchio distintivo era l'originalità, tanto che non si fece frenare dalla prolificità (pubblicò circa ottanta volumi, a volte usando lo pseudonimo di Anthony Swift) e, in barba al cliché che vede la produzione forsennata di romanzi come sinonimo di mediocrità, riuscì addirittura a stabilire un ottimo rapporto con la critica (oltre agli autori sopra citati, venne elogiato anche dal drammaturgo americano Paul Wilstach e dallo studioso William Lyon Phelps). Vegetariano e pacifista (il suo "Death of a World" è un'appassionata protesta contro la corsa al riarmo dopo la Seconda Guerra Mondiale), Farjeon si distinse nella moltitudine di scribacchini di mysteries sensazionalistici per la scrittura ingentilita e legata al proprio background familiare. Infatti, oltre ad essere stato un appassionato fotografo e disegnatore di animali buffi (buffi perché li disegnava lui, beninteso), fu sempre molto interessato agli umili; interesse che ereditò da suo padre, al punto di diventare un empatico sostenitore della povera gente, la quale spesso ottiene una rivalsa all'interno dei suoi romanzi. Ad esempio, in alcuni di essi il protagonista è Ben, uno strano vagabondo che risolve casi misteriosi, alla maniera di un prosaico emulo del colto investigatore dilettante della tradizione classica, il quale vide evolvere la propria personalità e diventò uno dei più improbabili detective della sua era. Lo stesso Ben, per giunta, apparve nell'opera più ricordata di Farjeon: l'adattamento a sceneggiatura per Hitchcock della piece teatrale "Numero diciassette". Quest'ultima gli permise di ottenere grande popolarità su entrambe le sponde dell'Atlantico, oltre da aprirgli le porte della collana Collins Crime Club fino al 1955, quando Farjeon morì di cancro a Hove, nel Sussex.

Per allora, l'autore aveva dato alle stampe numerosi e diversi romanzi: tra i più famosi, ricordiamo "The Windmill Mystery" (1934), ambientato presso un sinistro mulino a vento e dedicato alla memoria della madre; "Holiday Express" (1935), che sfrutta il classico delitto in treno per esplorare la figura del giovane ragazzo protagonista; "Thirteen Guests" (1936), in cui avviene un delitto in una casa di campagna durante una tipica festa; "End of an Author" o "Death in the Inkwell" (1938), per il quale Farjeon trasse spunto dalla sua stessa esperienza, in modo da tracciare un complesso caso in cui uno scrittore di thriller e la sua segretaria corrono pericoli di ogni sorta; "The Judge Sums" (1942), in cui l'autore si cimenta nel giallo giudiziario mescolandolo a un caso reale; e "Gli Omicidi della Z", dove ci sono sì più omicidi, ma sullo stile della catena da serial killer; oltre ai già citati romanzi su Ben (come "Ben on the Job" del 1952) e "Death of a World". Ognuno di questi libri si distingue per stile, ambientazione e personaggi; e "La Casa dei Sette Cadaveri" non fa eccezione. Sfido chiunque a dire che non sia stato un piacere seguire le vicende raccontate capitolo dopo capitolo, partendo dall'inizio sorprendente fino all'altrettanto straordinario finale, calate in un'atmosfera resa magnificamente e dove la tensione non viene mai a mancare. Le premesse non vengono deluse, se si parte con l'idea di affrontare un racconto dove l'enigma ha una struttura poco dettata dal mero raziocinio: poesia e romanticismo dominano sui fatti tratteggiati, dove spesso e volentieri ci vengono presentate scene un po' desolate ma affascinanti. La corsa attraverso il giardino di Haven House mentre squilla l'avvisatore acustico del telefono, l'introduzione illegale di Ted Lyte nella casa con tutto il carico emotivo che essa comporta, l'arrivo di Hazeldean a Boulogne e l'intenso incontro con Dora Fenner, i continui flashback con cui l'autore permette a Kendall di ricostruire ciò che è accaduto in passato; ogni cosa è stata creata per caricare di sentimento la lettura e generare qualche tipo di emozione, che sia piacevole oppure no. Tutto è come cosparso di un leggerissimo velo di polvere, quasi Farjeon avesse avuto intenzione di evocare incantevoli scene appartenenti a un tempo trapassato già nel 1939 usando il proprio stile: la vita alla pensione di Madame Paula riecheggia ricordi del romanzo vittoriano, come pure l'interazione piena di affetto e galanteria tra Hazeldean e Dora Fenner.

Copertina dell'edizione inglese pubblicata
dalla British Library Crime Classics
È come se i fatti fossero stati cristallizzati nell'ambra, in una 
nostalgica "sospensione temporale" che permette di calarci in un contesto antiquato (con tanto di storia d'amore d'altri tempi, pp. 57, 65-67, 131-134, 143-144, 215-219) per assistere a vicende di straordinaria quotidianità od ordinaria eccezionalità, pur restando nel nostro presente. Ci muoviamo assieme ai personaggi in ambientazioni rese in modo dettagliato e vivido, quali case sulle scogliere, baie in cui attraccano barche, cittadine sulla costa e antiche cittadelle come la Haute-Ville di Boulogne (mi viene sempre voglia di partire e visitarla sul serio), con bastioni assolati e immersi nel verde degli alberi che scuotono le loro chiome al vento, isole tropicali inospitali e popolate di pinguini (pp. 8-12, 24-25, 30, 37, 40, 45, 55-56, 59-64, 72-74, 104-106, 123, 158, 170-171, 191-192, 199, 217, 219-220). E lo facciamo sempre dentro un racconto piacevole, nel quale si alternano l'aura di tranquillità con quella del pericolo e di sensazionali scoperte, in cui non manca il brio di ironici personaggi immersi in situazioni avventurose (pp. 15-16, 23, 36, 47, 71, 74-75, 86-87, 160-161, 165, 167-170). L'intreccio è di sicuro complesso ed ingegnoso, ma non risulta particolarmente sgradevole perché inserito in un contesto dal ritmo sostenuto, lento al punto giusto per poter assaporare e comprendere fino in fondo ogni cosa, mentre gli indizi vengono rivelati poco a poco. In fondo, la narrativa di Farjeon (come in questo "La Casa dei Sette Cadaveri") è simile a quella di una favola venata da un pizzico di mistero, nella quale si possono trovare gaglioffi e antagonisti che mettono in pericolo gli eroi, oggetti che nascondono un passato burrascoso e addirittura spettri evocati dalla mente umana. Tuttavia, basate bene: questo non significa che l'autore abbia sfruttato soltanto il lato emozionale del genere giallo, ma ha messo insieme tradizione e psicologia senza calcare troppo la mano sul melodramma; si è limitato alle cinquanta pagine della digressione di Hazeldean a Boulogne per farlo, mentre per il resto si è affidato all'indagine più pragmatica di Kendall. Al cuore dello stile dell'autore c'è il confronto della solidità con l'impalpabile e il fantastico, in cui avventure divertenti si affiancano ad oscure minacce che emergono dal passato. Questi è un fattore che gioca un ruolo non indifferente all'interno della storia: esso si affaccia tra le righe ad ogni piè sospinto, inesorabile, impossibile da sradicare, eterno e inscindibile dalla tradizione. Ed influenza l'essenza dei personaggi, i quali agiscono proprio come se fossero guidati dalle scoperte che fanno su quanto avvenuto in precedenza. Anche loro, proprio come tutto il resto, appaiono un po' sfuocati, con contorni poco nitidi, ma credo che sia una cosa voluta dall'autore per sottolineare questa aura di irrealtà.

Certo, essendo pochi non è difficile indovinare il colpevole; però li ho trovati perlopiù vividi e simpatici: Hazeldean è il ritratto del giovanotto un po' testa calda che si innamora per un colpo di fulmine e fa di tutto per raggiungere i suoi scopi, che siano di carattere sentimentale oppure no (pp. 46-47); il dottor John Ferrer possiede l'aspetto del professore un po' stralunato e nervoso, così come Madame Paula e la sua servitù incarnano lo stereotipo che il romanzo vittoriano ci ha consegnato. Interessanti sono stati i ritratti (purtroppo in breve) delle sette vittime, alcune delle quali avrebbero meritato un po' più di risalto all'interno di un romanzo... se solo non fossero state ammazzate (da notare Jane, l'unica donna del gruppo, che veste come un uomo e non vuole condividere la sua vita privata con gli altri. Forse un segno di velata omosessualità? Se così fosse, sarebbe importante visto l'anno di uscita del libro). Anche Kendall e Wade, con i loro battibecchi e l'interazione reciproca piena di riferimenti alla crime fiction (pp. 38, 167), sono riusciti ad emergere dal gruppo, assieme ad Hazeldean: uno è logico e astuto, l'altro un po' sempliciotto ma capace di cogliere le falle nei ragionamenti del suo superiore e di suggerire nuove piste da seguire. Chi mi ha colpito di più, tuttavia, è stata Dora Fenner. Tratteggiata come una ragazza un po' anonima e forse troppo scostante, non darebbe l'idea di avere chissà quali caratteristiche particolari, vero? E invece lascia emergere una forte insicurezza che le dona spessore (pp. 72-93, 204-205). Spesso dice "sono una sciocca", si scusa con Hazeldean a più riprese, fa confusione e si rimprovera da sola, non sopporta litigare col prossime e si sente sempre in colpa, anche quando è dalla parte della ragione: in questo atteggiamento ho rivisto molto di me stesso e per questo l'ho sentita vicina al mio stato d'essere. Non sottovalutatela. E non sottovalutate "La Casa dei Sette Cadaveri" in generale, nonostante i pregiudizi che potete nutrire nei suoi confronti. Come dicevo, se riuscite a non caricarvi troppo di aspettative sul fair play del mistero, questa sarà una lettura gradevole che non dimenticherete presto. Farjeon è uno scrittore straordinario, capace di irretire e di ammaliare come il Pifferaio di Hamelin, giocando con la fantasia e intrecciandola con meraviglia e immaginazione per dare vita a indagini insolite e diverse da quelle della tradizione.

N.B. Ho notato che questo romanzo viene dato come "inedito" ma non è così. Il preciso Pietro De Palma ha sottolineato, nella sua recensione al titolo, come Aldo Martello Editore lo abbia pubblicato sotto il titoli di "La palla da cricket" negli anni '50, nei Gialli del Veliero.


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venerdì 13 marzo 2020

28 - "Morte al Telefono" ("Arrow Pointing Nowhere"/"Murder Listens In", 1944) di Elizabeth Daly

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
La settimana scorsa ci eravamo lasciati con la quarantena decretata soltanto per alcune regioni italiane; ebbene, da questa siamo tutti sulla stessa barca. Il Coronavirus, infatti, si è talmente esteso nel nostro Paese (e non solo, visto che si inizia a parlare di pandemia mondiale) da rendere necessaria l'istituzione di alcune regole categoriche per tutti, nessuno escluso, che prevedono il blocco totale di qualunque attività di gruppo e all'aperto. Si tratta di una situazione a dir poco drammatica, la quale limita le nostre attività quotidiane e ci costringe a un riposo forzato che, per alcuni, è davvero difficile da sopportare. Fortunatamente, esistono svaghi che ognuno di noi può praticare anche in casa; e tra questi c'è anche quello di poter continuare ad aggiornare il blog dal proprio salotto (connessione permettendo). Quindi, farò del mio meglio per proseguire nella lettura e recensione di romanzi gialli ogni settimana e fare la mia parte per svagare chi abbia la bontà e la voglia di darmi retta. E intendo fare ciò concentrando le mie scelte su alcuni libri che ben si adattano alla realtà odierna e al periodo storico che stiamo vivendo: libri nei quali contano molto la psicologia e la condizione della mente umana, portata al limite della pazzia e prigioniera di ossessioni sconvolgenti; oppure altri caratterizzati da un'ambientazione dove il mistero assume una connotazione "fisicamente costretta" e claustrofobica (comprendendo nel numero il "delitto della camera chiusa"), per farci empatizzare al meglio con i personaggi e le situazioni che essi andranno a vivere. Ovviamente continuerò a dare la precedenza al giallo di stampo britannico, che resta il mio preferito, ma intendo comunque fare qualche incursione anche in quello americano, le cui caratteristiche hanno forse incarnato al meglio il sentimento che proviamo noi tutt'oggi.

Il fattore principale delle storie di questo tipo, infatti, era costituito dalla grande atmosfera di suspense e angoscia che minacciava e quasi schiacciava i personaggi, tipica delle epopee delle women in jeopardy, (le “donne in pericolo” di Mary Roberts Rinehart e Mignon G. Eberhart), e dalla paranoia in cui essi venivano gettati; aspetto in seguito sviluppato da altri autori e, soprattutto, autrici quali Helen McCloy, Vera Caspary ed Elizabeth Daly. Questo tipo di narrativa espresse al meglio la realtà del loro tempo, così simile al nostro; ma allo stesso tempo venne influenzata dall'analisi in profondità della psiche dell'individuo, dallo straniamento e dalle sensazioni suscitate negli stessi personaggi e nel lettore, a discapito dell'azione tipica degli esponenti della scuola hard-boiled, più attenti al racconto dei fatti nudi e crudi della realtà di ogni giorno; e temi come quello della guerra, delle aspettative da parte del prossimo e delle sue ripercussioni e quello delle ossessioni nascoste o represse divennero terreno fertile su cui sviluppare trame intriganti e originali. I protagonisti sono spesso esponenti di famiglie aristocratiche ormai decadute oppure poveri diavoli sui quali la sfortuna si è accanita senza pietà; attori che non hanno avuto una parte da imparare e spesso sono costretti ad agire a braccio, sperando di azzeccare la battuta e di poter così vivere un po' più a lungo la propria vita grama e tratteggiata stoicamente, senza fronzoli. Il loro scopo diventa quello di non farsi notare, il loro mantra "vivi e lascia vivere" nell'ombra, in silenzio, mentre sviluppano complessi mentali dannosi che li riducono al silenzio e il loro umore vira verso la depressione.

Queste sono immagini molto pessimiste e sconfortanti, che a qualcuno possono apparire intollerabili nel momento storico in cui stiamo vivendo; eppure, io sono convinto che possano diventare catartiche e lenire almeno un po' la desolazione che a volte proviamo, facendoci capire che la situazione potrebbe andare peggio. Tra le letture di questo tipo che preferisco, ci sono sicuramente i libri di Margaret Millar, emblema di un fatalismo e una desolazione che restano irripetibili all'interno del genere della classica crime story, ma soprattutto quelli che scrisse la sopracitata Elizabeth Daly, tra i quali figura l'oggetto della recensione di oggi: "Morte al Telefono" (Polillo, 2006). Si tratta di un libro molto suggestivo, scritto con uno stile splendido e ambientato in uno scenario che pare sospeso nel tempo, in cui l'atmosfera della casa dei Fenway e la tensione psicologica sono influenzate dal conflitto militare in corso e da un diffuso senso di abbattimento e incertezza. I puristi dell'enigma potrebbero lamentare una maggiore concentrazione di indizi psicologici rispetto a quelli materiali, ma vi assicuro che comunque l'enigma si rivelerà di prim'ordine e caratterizzato da una malvagità rara e da un assassino che, nella sua lucida follia, vi darà i brividi.

Dipinto di John Aldridge, dal titolo "Winter Table", 1939, che
raffigura una scena che potrebbe essere vista dalle finestre del
Numero 24, la casa dei Fenway
Tutto ha inizio quando Henry Gamadge, l'investigatore dilettante e bibliofilo protagonista della storia, riceve la visita del signor Schenck, agente del Federal Bureau of Investigation e suo vecchio amico. Costui si è recato all'appartamento intorno alla Sessantesima Strada Est per recapitargli una curiosa missiva, una busta appallottolata trovata per caso dal postino di turno nei dintorni della proprietà della famiglia Fenway, la quale reca l'indirizzo di Gamadge e ha tutta l'aria di essere un'originale richiesta di aiuto. Al suo interno, infatti, si trova una piccola striscia di carta anonima, la quale invita il giovanotto a recarsi al Numero 24 per valutare alcune "interessanti curiosità librarie" non meglio specificate, raccomandando assoluta discrezione. Perché mai qualcuno dovrebbe contattarlo con un metodo tanto contorto, si chiede Gamadge, rischiando di non riuscirci affatto? Dal racconto di Schenck, infatti, traspare il fatto che quella non è stata la prima busta appallottolata, con tanto di indirizzo scritto in stampatello, a venir trovata. Inoltre, il postino avrebbe potuto ignorare quei pezzi di carta tutti stropicciati e non confidare mai ad anima viva i suoi dubbi sull'autenticità del messaggio. Intrigato dal fortunoso ritrovamento, dal fatto che le missive siano state gettate sul prato della casa dei Fenway, come se il mittente ci avesse ripensato, e dalla stranezza di tutta la faccenda, Gamadge decide di scoprire qualcosa di più su quella strana famiglia che pare non farsi mai vedere in giro. Una buona parola da parte dell'aristocratica zia della moglie Clara e l'aggancio fornito da un comune amico libraio permettono ben presto a Gamadge di essere invitato al Numero 24, dove in pochi riescono ad accedere, e di essere introdotto ai suoi curiosi abitanti e ai piccoli problemi che li affliggono; come la scomparsa di una veduta della vecchia Fenbrook (la casa in cui è nato il capofamiglia), sottratta da un libro appena una settimana prima. Ma cosa ha a che fare questa sparizione con i timori del suo misterioso cliente?

Poco dopo, Gamadge viene "contattato" di nuovo da quest'ultimo e inviato nella nuova Fenbrook, la casa di campagna dei Fenway, per compiere una sorta di sopralluogo, durante il quale la faccenda si ingarbuglia ancora di più. Ci sono troppe incognite: non solo chi sia il colpevole, ma anche quale mistero si nasconda al Numero 24 e chi sia la vittima del sopruso. L'uno o l'altra potrebbe essere il padrone di casa, Blake Fenway, riservato e sensibile al punto da voler ignorare le tensioni all'interno della famiglia; oppure sua figlia Caroline, dal temperamento bollente e il carattere cinico e disilluso. Oppure Belle, l'invalida cognata del proprietario della casa, o il figlio menomato mentale di lei, Alden. Chiudono il cerchio un anziano cugino di famiglia, Mott Fenway, e un terzetto di estranei che si è insediato in casa assieme a Mrs. Fenway, quando quest'ultima ha rovinosamente fatto ritorno in America dalla Vecchia Europa, mentre laggiù la guerra iniziava ad infuriare: il giovane Craddock, affetto da febbri intermittenti; l'anziana signorina Grove, dama di compagnia di Belle e sua vecchia amica d'infanzia, e sua nipote Hilda, per il momento isolata in campagna per riordinare l'immensa biblioteca della famiglia. Tornato in tutta fretta a New York, un preoccupato Gamadge si reca nuovamente al Numero 24 per ispezionare l'edificio con l'aiuto ufficioso di Mott Fenway e Caroline, ma si ritrova davanti a un delitto improvviso che infittisce il mistero ancora di più. Capirà allora di doversi sbrigare a risolvere la faccenda, prima che qualcun altro ci rimetta la vita, trovando la veduta scomparsa e smascherando un complotto diabolico.

Dipinto di Richard Savoie, dal titolo "Snowy Painting of
Quebec", che raffigura una tipica strada innevata del continente
americano nel corso del Novecento
Confrontandomi con alcuni amici e conoscenti, ho constatato che "Morte al Telefono" non è stato molto apprezzato. È un responso che mi stupisce solo in parte: da un lato, infatti, capisco le ragioni di quelli che si aspettavano un caso in qualche modo più "tradizionale", in cui fossero presenti indizi materiali e meno congetture e la vicenda venisse raccontata in modo più chiaro, senza intorbidire troppo l'aura attorno ai sospetti. D'altra parte però, come ho già spiegato ormai tante volte, sono convinto che un romanzo giallo non debba essere giudicato soltanto in base all'enigma che presenta al lettore e alla sua limpida complessità; e "Morte al Telefono" è un esempio lampante di ciò, poiché riesce a mettere in luce quanto, a volte, ciò che circonda il mistero sia importante tanto quanto quest'ultimo. Per quanto mi riguarda, una crime novel che si rispetti riesce ad andare oltre le apparenze, ci consegna un'immagine chiara della società del tempo in cui venne ideata e scritta, tratta spesso temi inconsueti per la cosiddetta "letteratura popolare", indaga l'animo umano e la psicologia dell'individuo. Si tratta dello stesso discorso che ho fatto recensendo "Il Segreto delle Campane" di Dorothy L. Sayers, oppure "Sotto la Neve" di J. Jefferson Farjeon: anche in quei libri (soprattutto nel secondo) l'enigma non ha una consistenza adeguata a reggere le aspettative finali di chi legge. Eppure, i loro scenari ci restituiscono un'immagine veritiera di cosa significasse vivere negli anni in cui le vicende sono ambientate. Ci vengono descritti personaggi che possono essere andati persi con l'avanzamento tecnologico e l'evolversi delle classi sociali, ma restano imbrigliati nelle pagine e risparmiati dalle sabbie del tempo in modo simile ai reperti archeologici, simbolo di una realtà che è esistita davvero; ma soprattutto, ci viene mostrato quanto, in realtà, gli impulsi e i sentimenti dell'essere umano non siano affatto cambiati a distanza di anni ed anni.

È ciò a cui ho fatto riferimento nel primo post che ho pubblicato su Three-a-Penny: la capacità della crime story di essere sempre attuale e simile a una lente d'ingrandimento utile per analizzare ciò che ci circonda e noi stessi; soprattutto dal punto di vista psicologico. Forse leggere tanti gialli mi ha reso cinico, ma mi capita spesso di vedere nella realtà di tutti i giorni scene che potrebbero appartenere a un mystery di mezzo secolo fa: gente arrivista e senza scrupoli che approfitta di persone arrendevoli che preferiscono subire in silenzio, invece di ribellarsi; individui ossessionati da manie represse che emergono in superficie di tanto in tanto; ragazzi e ragazze disperati, che non riescono a trovare un proprio posto nel mondo e trascorrono il tempo cercando di dare un senso alla propria esistenza. Per fortuna, tutto questo è inframmezzato da tante altre cose positive, che lasciano spazio a più di una speranza, come la buona volontà, l'istinto e l'intenzione a non arrendersi mai; però, è innegabile che le "paturnie" (per usare un'espressione di Holly Golightly) e un certo senso di malinconia e fatalismo permangano nel nostro animo adesso come mezzo secolo fa. Ecco, è questo ciò che, dal mio punto di vista, rende apprezzabili tanto quanto le opere più "tradizionali" i gialli psicologici delle autrici americane della prima metà del Novecento, come Margaret Millar ed Elizabeth Daly: riuscire a scavare nel profondo per portare in superficie i demoni e le paure degli individui, che sono un po' anche le nostre, e trasformarle in uno strumento di catarsi proprio come è accaduto quando sono state pubblicate. E a ben guardare, ci sono metodi differenti per farlo. Millar, infatti, ha ideato storie dove le vicende si fanno sempre più nere e disperate, calate in atmosfere notturne e un po’ rarefatte, in cui la salvezza dei personaggi non è contemplata e il Destino, influenzato dal loro carattere e dalla perdita della ragione, diventa una figura imbattibile, un incubo ad occhi aperti che si abbatte condannandoli a un'eterna infelicità (incidendo così nella narrativa di Helen McCloy); Daly, al contrario, compie un'azione diversa. Prendendo ad esempio proprio "Morte al Telefono", possiamo vedere che tutto sommato, pur regnando un diffuso senso di sconforto misto a desolazione ed arrendevolezza, agli attori sulla scena non viene negata una seconda possibilità, un'occasione per risvegliarsi dal torpore in cui erano caduti e per tornare alla vita.

Il racconto di questo sentimento, insito nel romanzo fin dall'inizio e simile a una convalescenza dopo un periodo di malattia, mi ha molto colpito e secondo me assomiglia a quello proprio di alcuni libri di Agatha Christie, dove l'esito delle indagini non esclude un finale lieto per i protagonisti (che sia questo il motivo dell'ammirazione di Agatha nei confronti della nostra Elizabeth?). Qui c'è ancora una speranza di guarigione, a differenza di quanto accade nell'atmosfera moribonda di Millar, e cure amorevoli possono compiere un miracolo per i bisognosi, affetti da fatalismo dovuto alla situazione critica della società. Noi lettori, assieme ai protagonisti, ci sentiamo cullati e sentiamo come alleviate le nostre paure; benché non ci venga risparmiata la visione del Male e della Pazzia mentre essi agiscono. Il conflitto, ad esempio, gioca un ruolo importante nella vicenda, scatenando gli eventi e descrivendo, nella finzione, le conseguenze che i soldati americani soffrirono sul serio a partire dagli anni '40: il senso di inadeguatezza, la frustrazione di non essere all'altezza, l'afflizione da PPT (Psicosi Post-Traumatica) si mescolano all'incapacità dei cittadini di far fronte alle conseguenze della guerra in corso (pp. 17, 24-27, 40, 42, 48, 80, 141, 185-186, 196-197) e alle ripercussioni della crisi del 1929, che aveva sferrato un duro colpo alla società statunitense, influenzando e mettendone in dubbio il futuro. Questo clima di tensione e nervosismo, inoltre, dà luogo alla nascita di un senso di timore che pervade ogni cosa, influenzando il rapporto tra le persone: in molti si aggrappano a piccoli gesti quotidiani per sfuggire all'angoscia, sviluppando una repulsione per lo scandalo che li spinge a fare di tutto per passare inosservati; anche additare il prossimo per futili motivi, pur di non trovarsi sotto le luci della ribalta. In questo frangente, dunque, è naturale che l'angoscia diventi sempre più insopportabile e si diffonda come un virus nell'aria, come un gas che si respira ogni giorno. Essa logora costantemente i rapporti sociali, attraverso sintomi fisici e psichici, ed avvelena gli equilibri tra le classi sociali, finché i timori di ognuno crescono a tal punto da trasformarsi in ossessioni vere e proprie. Tutti si rivolgono disperatamente a un passato che non può più tornare, pensano per sé, sempre alla ricerca di pace e solidità, incuranti del danno che possono arrecare agli altri ed attenti affinché nessuno sconvolga i fragili piani che hanno costruito; e ben presto questo atteggiamento spinge le menti spaventate delle persone ad iniziare una  sorta di “caccia alle streghe” e a partorire terribili ed inquietanti spettri, che infestano le conversazioni e spesso prendono forma di scandali o velate minacce, le quali molto spesso vengono ingigantite fino a premere sulle coscienze e ad alimentare pericolosi impulsi, paranoie e sconforto. Nemmeno i membri di una stessa famiglia furono risparmiati: allo stesso modo dei Fenway, tutti iniziano ad assumere posizioni contrastanti gli uni con gli altri, a immaginare le cose più orribili e a compiere azioni scellerate, al solo scopo di ottenere benefici personali, ma senza accorgersi di starsi costruendo da soli una prigione fatalistica dalla quale è difficile fuggire. In "Morte al Telefono" non ci viene risparmiato niente di tutto ciò, immerso in una fitta nube di sospetto che ingigantisce i fantasmi della mente; ad esso, però, Daly risponde con una storia opposta a quelle di Millar, nella quale i personaggi riescono ad affrontare le loro paure (e quelle dei lettori) mostrando la deriva della società e confortando la stabilità emotiva e psicologica di chi ne ha bisogno, con una preziosa speranza.

Elizabeth Daly, nata nel 1879 e morta nel 1967
L'attenzione alla psicologia è da sempre uno degli aspetti che caratterizzano il romanzo giallo, sia di stampo britannico sia di stampo americano; e soprattutto in quest'ultima declinazione esso ha trovato terreno fertile per svilupparsi e fiorire. Basta pensare alla narrativa delle women in jeopardy, oppure a quella delle "nuove leve" della metà del Novecento, incarnata da Charlotte Armstrong, Helen Reilly e le loro colleghe. Anche Elizabeth Daly intraprese la strada del giallo psicologico, benché declinato in una forma più tradizionale, quando decise di iniziare a scrivere romanzi gialli; e non c'è da stupirsene, visti gli altri suoi interessi. Nata nel 1879 a New York, in una famiglia tra le più in vista della società del tempo, fin dalla giovinezza respirò aria di cultura, poiché il padre e lo zio erano rispettivamente un giudice dell'Alta Corte e un commediografo di successo. Educata nelle scuole più prestigiose, dopo la laurea Elizabeth, a partire dal 1904, insegnò al Bryn Mawr College per tre anni, per poi dedicarsi alla sua passione più grande: il teatro. In questo ambito, dove la Vita viene messa in scena ogni giorno dell'anno, Daly si impegnò nella scrittura di testi, nella produzione e nella direzione, come regista, di moltissime opere scenografiche in veste amatoriale, imparando sempre più a comprendere le azioni degli individui e ciò che li muove per riuscire a trasportarli nei suoi copioni (tutto questo sarà poi inserito in "The Street Has Changed", un romanzo di costume nel quale un'attrice ritiratasi dalle scene rivive quarant'anni di teatro). Nei momenti di pausa, tuttavia, coltivò anche l'interesse per il mystery, che considerò sempre con rispetto e sul quale sosteneva: "Al suo meglio il romanzo poliziesco è un'alta forma di letteratura". Un po' come Dorothy L. Sayers, dall'altra parte dell'Oceano. Il suo autore preferito fu Wilkie Collins, il famosissimo ideatore del primo romanzo giallo classico come lo intendiamo oggi, "La Pietra di Luna", e ad esso si ispirò per provare a scrivere lei stessa alcune crime novels, in cui vengono tratteggiati spesso personaggi colti e complessi usando uno stile elegante e raffinato.

Solo nel 1940, dopo aver superato la cinquantina, riuscì però a coronare questo sogno e a pubblicare "Notte d'Angoscia", la prima avventura del suo segugio dilettante Henry Gamadge. Costui è un bibliofilo, un appassionato collezionista di libri rari e antichi e un'autentica autorità in materia, giovane, alto e con un viso dai tratti marcati ma gradevole, il quale vive con un gatto (Martin) e un assistente di nome Harold Bantz, il cui aiuto si rivela sempre prezioso. Gentile, educato e provvisto di un discreto patrimonio, Gamadge venne ripreso in tutti i sedici romanzi successivi di Daly, appartenenti al tradizionale giallo a enigma, dei quali una delle più appassionate ammiratrici fu nientemeno che Agatha Christie (forse perché le vicende che le due scrittrici narravano si assomigliavano un po', tra famiglie di parenti-serpenti, ambienti eleganti e una certa tendenza al mettere in luce l'ipocrisia della società in cui vivevano?). I più famosi sono "Murders in Volume 2", "Evidence of Things Seen", "Any Shape or Form", "Death and Letters" e "The Book of the Crime", l'ultimo ad apparire prima della sua morte (avvenuta nel 1967, dopo essere stata insignita di uno speciale premio Edgar), e ovviamente "Morte al Telefono". Quest'ultimo può forse essere considerato il suo capolavoro, poiché delinea un mistero che mescola al meglio furto, ricatto e omicidio fino a creare una fitta nube di sospetto, la quale grava ininterrottamente sopra i protagonisti. Proprio questa capacità di suscitare la curiosità del lettore e tratteggiare in profondità la psicologia degli attori sulla scena (pp. 9-11, 12-14, 43-44, 58-60, 78-79, 87-88, 92-96, 127-134, 147-154, 178-183, 187-193, 234-240), pur descrivendo le vicende in scenari di tutti i giorni, è uno dei caratteri fondamentali dello stile di Daly, assieme al fatto che nella sua opera si parli spesso di cultura (pp. 25, 36-39, 41-42, 46-49, 51-60, 64-70, 192, 198) e affini con uno stile elegante e raffinato. In ogni pagina del libro, aleggia una sorta di patina simile a neve, che ricopre tutto e restituisce una dimensione simile a un sogno, in cui il tempo pare essersi fermato sia per i personaggi, sia per l'ambientazione (pp. 35-36, 45-46, 61-62, 96-97, 134-139, 169-170, 175, 177-178, 181). Percorriamo strade deserte in tempo di guerra, dove in pochi si avventurano e le auto sono quasi scomparse a causa del razionamento del petrolio; entriamo in una libreria deserta, sui cui scaffali riposano tantissimi tomi in attesa di tempi migliori, i caminetti lavorano a tutto spiano e commessi sonnacchiosi leggono seduti in eleganti poltrone, illuminati da lampade dalla luce soffusa; osserviamo silenziose camere, salotti e biblioteche sontuose e ricoperte di pannelli di legno chiaro e finestre a ghigliottina. Ogni tanto, ci caliamo in contesti quotidiani (pp. 17-20, 21-22, 29-30, 42-44, 51-52, 54-57, 98-99, 155-157, 160-163, 168-169, 171-174, 186-187), mangiamo qualche pasticcino e sorseggiamo una tazza di tè in compagnia di giovani eleganti e taciturni, oppure di signore che sferruzzano tenendo i ferri sulle ginocchia, serene soltanto all'apparenza, mentre i gomitoli rotolano ai loro piedi senza sosta.

Se qualcuno deve parlare, lo fa sottovoce; come se nelle vicinanze ci fosse un infermo che riposa ed egli dovesse usare tutte le sue forze per rimettersi in sesto, e non a causa di correnti sotterranee che ruggiscono tumultuose contro fragili argini. Ognuno degli abitanti del Numero 24, infatti, chi attraverso il cinismo e chi attraverso la negazione della realtà, ha sollevato una difesa psicologica contro qualunque colpo debba ricevere e lo scalpore che ne deriva, così da non attirare l'attenzione dell'opinione pubblica assetata di scandali (pp. 14-16, 21, 23, 28-29, 40, 87, 94, 125, 143, 189, 209, 238-239). Il malcontento ritorna in superficie nei discorsi tra Gamadge e i Fenway: i membri della famiglia (al contrario di Clara, Harold e gli altri loro amici e conoscenti) sono insoddisfatti, nascondono ferite segrete, delusioni interiori che faticano a rimarginarsi e traumi pregressi (pp. 23, 26-27, 32-36, 42-43, 62-64, cap. 5, pp. 75-84, 93-94, 100-101, 105-108, 118-120, 126, 136, 143-145, 191-195), allo stesso modo di quei quei poveretti a cui è stato tolto tutto, gli sconfitti di cui erano piene le città statunitensi, nel periodo in cui questo romanzo è stato pubblicato, sul punto di cedere se non aiutati. Ancorati al passato, essi non riescono ad affrontare il presente e si rifugiano nel conforto di un tempo morto da anni ma che non si decidono a seppellire; e in questo modo interrompono le loro esistenze, gettandosi addosso lo sconforto e il fatalismo (p. 145) che sfociano nella paranoia e costruendo prigioni invisibili ed inespugnabili. Sono vivi, questi individui, ma complessati nella loro complessità psichica (pp. 25, 27, 31-33, 58-60, 81-83, 128, 143-144, 194-196, 203-205): desiderano essere rassicurati e ricevere attenzione, stanchi di andare avanti per inerzia, come Blake; vogliono disperatamente cambiare la situazione in cui si trovano, come Caroline e Mott. Sono consapevoli che serva uno scossone, uno spintone per svegliarli, ma non osano fare il primo passo per il rischio di una catastrofe, come Belle e la sua cerchia; finché diventa troppo tardi e gli equilibri cambiano, dando il via a una serie di eventi che porteranno più di una persona a compiere imprese terribili. Credo fermamente che la confessione finale (pp. 243-256) debba essere letta con attenzione, per comprendere appieno l'agghiacciante freddezza dell'assassino e la sua lucida follia. Si tratta del coronamento di un enigma strano, insolito, nel quale gli indizi assumono maggiore carattere psicologico rispetto a quello materiale, ma che non risulta inferiore a quello di altri grandi gialli classici. "Morte al Telefono", infatti, è un vero romanzo da brivido, poiché ci mostra come andare a fondo nella psiche dell'individuo e dipinge una società che assomiglia paurosamente alla nostra, bisognosa di conforto e fatta di persone ferite che, tuttavia, hanno la possibilità di riuscire a riscattarsi, se solo riescono a convincersene.

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venerdì 27 dicembre 2019

19 - "Sotto la Neve/Morte nella Neve" ("Mystery in White", 1937) di J. Jefferson Farjeon

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore
La poesia e il romanticismo che permeano la classica crime story hanno saputo affascinarmi fin dal momento in cui, una decina di anni fa, mi sono avvicinato a questo genere per la prima volta. A dire il vero, forse sarebbe meglio specificare che mi sono appassionato al giallo classico proprio a causa della sua capacità di riuscire a evocare incantevoli scene appartenenti a un tempo ormai andato, ma ancora suggestive quando esse, durante la lettura, si dipanano davanti ai miei occhi. È questo il potere della nostalgica "sospensione temporale", che ci permette di calarci in un contesto antiquato (ma non ammuffito) e assistere a vicende di straordinaria quotidianità od ordinaria eccezionalità, come se si trovassimo in una favola. Non penso di essere l'unico a subirne l'attrattiva; anzi, sono convinto che ciò si verifichi per ognuno di noi lettori, grazie alla particolare capacità dell'autore di catturare la nostra attenzione e alla presa che le sue parole fanno nella nostra testa. Al di là di un'ambientazione confortevole, infatti, è soprattutto lo stile sognante, che ci avvolge con calore e ci culla tra le sue braccia, a dare originalità al mystery della prima metà del Novecento. Immaginate, ad esempio, una di quelle pensioni in cui è facile imbattersi quando si viaggia per la campagna inglese. L'edificio in sé magari non trasmette alcuna emozione particolare; eppure, uno scrittore abile con le parole potrebbe riuscire ad infondergli un'atmosfera singolare grazie al suo rodato eloquio. Potrebbe spiegare che sono le dieci di sera e che l'oste si è appena congedato augurando la buona notte. Che, nel salottino, il signor X attizza il fuoco del caminetto e appoggia lentamente, sul tavolino accanto alla sua poltrona preferita, il piatto di biscotti appena sfornati che gli è stato offerto e che ha portato con sé. Che, mentre si versa del tè caldo, ha del tutto dimenticato il freddo che preme contro le finestre; nei suoi pensieri c'è posto solo per il calore del fuoco e per il libro che si appresta a leggere. Che, oltretutto, la neve scende fitta sulla brughiera intorno all'ostello e si sentono le campane di una chiesa battere in lontananza.

Ecco, ora davanti a noi si è dipinta una scena forse un po' melensa, ma senza dubbio di grande suggestione e fascino, non solo per l'ambientazione intima ma soprattutto per ciò che trasmette e ci fa provare; una di quelle che trova nel giallo di Natale una carica ancora più potente, in cui il senso di isolamento che traspare da ogni cosa, il mistero si accentua nei silenzi della casa, il contrasto tra caminetti accesi che illuminano abeti decorati e calze appese e le gelide dita della bufera (fuori dalla finestra) e della gelosia (dentro nella stanza) vengono amplificati come se passassero attraverso un megafono. A questo tipo di ritratti ci ha abituato Agatha Christie, imbattibile nel dipingere qualunque cosa con una semplicità allo stesso tempo disarmante e carica di significato; oppure Joseph Jefferson Farjeon, che Polillo ha riportato in auge con coraggio. Lo stile rarefatto e perversamente gradevole di quest'ultimo, il quale mescola gioiosa ironia con un'ombra di dolorosa cupezza, rappresenta perfettamente il terzo elemento che, oltre all'enigma agitato dalle correnti emotive sotterranee (vedasi "Quando L'Amore Uccide"), ai variegati personaggi costretti a convivere in un luogo isolato, con le loro spiccate personalità (vedasi "Natale con Delitto") e all'ambientazione intrigante, caratterizza il "Christmas Murder Mystery". Quindi, colgo l'occasione per recensire il suo "Sotto la Neve" (Polillo Editore, 2008/Lindau Edizioni, 2018, col titolo "Morte nella Neve"); bistrattato da tanti, assieme al resto della sua opera, per la carenza in fatto di enigma e fair-play, quanto capace di evocare lo spirito del Delitto come se si trattasse di una presenza fisica, all'interno di una vicenda in cui giganteggiano un'ambientazione sognante e pregevole, ritratta con un certo senso di drammaticità, e personaggi originali nel loro essere normali. Io provo un affetto profondo per i libri di Farjeon (non per nulla, ho comprato anche l'edizione Lindau di questo titolo!): spero che, una volta finita questa recensione, anche voi possiate comprendere un po' della bellezza della sua opera

Una tipica casa immersa nel bianco della neve, isolata nella
campagna
È la Vigilia di Natale. Sei persone si trovano bloccate all'interno dello scompartimento di terza classe del treno da St. Pancras, nel bel mezzo della campagna inglese, a causa di una furiosa bufera di neve. Jessie Noyes, ballerina di fila, sta dirigendosi a Manchester per ottenere una disperata scrittura; Robert Thomson, impiegato dall'animo romantico e dalla vita monotona, è in viaggio per recarsi da una vecchia zia malata; David e Lydia Carrington, fratello e sorella, sono intenzionati a raggiungere Londra per festeggiare il Natale con alcuni conoscenti; Mr. Hopkins, uno di quegli scocciatori che spesso si incontrano e non fa altro che vantarsi di aver compiuto grandi imprese, apparentemente intende solo infastidire i suoi compagni di sventura; Edward Maltby, membro della Reale Società di Spiritismo, sta dirigendosi al villaggio di Naseby per mettersi in contatto con l'anima defunta di Carlo I. Ognuno di loro affronta la forzata pausa del convoglio come meglio può, immaginando di essere un eroico salvatore oppure facendo delle avances; oppure chiacchierando di fantasmi e spiriti incorporei, mentre sul paesaggio fuori dal finestrino i fiocchi bianchi continuano a cadere senza sosta. All'improvviso, però, Maltby dà l'impressione di scorgere qualcosa al di là del vetro e si getta nel bel mezzo della bufera, con grande sconcerto dei suoi compagni di viaggio. Di lì a poco, stanchi di aspettare, anche il resto degli occupanti dello scompartimento (al di fuori di Mr. Hopkins) decide di seguire il suo esempio, pur di arrivare in una stazione, e si immerge nel bianco vorticare del tardo pomeriggio. Dopo pochi passi, tuttavia, i quattro avventurosi finiscono per perdersi tra i fiocchi di neve che cadono sempre più fitti. La situazione sembra disperata, finché il gruppo non si imbatte per casualità in una grande casa isolata: la porta d'ingresso è aperta, il fuoco è acceso in ogni stanza e il tè è stato appena preparato. I viaggiatori del convoglio sono grati al Destino e si reputano fortunati di aver scampato il pericolo di dover trascorrere la notte nella tormenta...

Tuttavia nessuno sembra abitare tra quelle quattro mura, e ad accoglierli trovano soltanto il quadro di uno strano vecchio che pare osservarli dalla sua tela. Che fine hanno fatto i proprietari e la servitù? E come mai sul pavimento della cucina si trova un coltello da pane? Ben presto ai rifugiati nella casa deserta si aggiungono Maltby e un individuo dall'aspetto minaccioso e pericoloso, il quale afferma di chiamarsi Smith e sembra nascondere molti segreti. Che si stiano preparando grossi guai? Tutto sembra confermarlo, poiché il vento della tempesta non porta solo nuove aggiunte alla comitiva, ma anche un grido disperato dall'esterno dell'edificio... Inizia in questo modo una vicenda strabiliante, in cui porte chiuse vengono riaperte come d'incanto, spettri e fantasmi sembrano aggirarsi tra gli ospiti, sedie e letti traggono in inganno e turbano alcuni membri del gruppo; mentre il soggetto del quadro appeso sopra al camino tiene d'occhio e segue ossessivamente i movimenti degli ospiti della casa. Nel corso della notte più lunga della propria vita, ognuno farà il possibile per scongiurare la cupa e impalpabile minaccia che (questo è certo) si sta avvicinando sempre più; ma alla fine essa arriverà comunque, assieme a una storia complessa e straordinaria, forse rivelata grazie all'aiuto di uno spirito sarcastico simile agli Spettri della "Ballata di Natale" di Charles Dickens.

Ritratto di gentiluomo, simile a quello del vecchio di
Valley House
Come ho detto sopra, benché l'opera narrativa di Farjeon appartenga al periodo della Golden Age del giallo all'inglese, essa è stata fortemente criticata da numerosi lettori a causa della sua parziale differenza di struttura e contenuto, rispetto a quella della "convenzionale" crime story classica. Più di uno, ad esempio, ha osservato come essa sia carente dal punto di vista dell'enigma, adducendo come scusa il fatto che manchi la canonica applicazione del fair-play al rispettivo caso di ogni suo romanzo. Altri, invece, si sono soffermati sul fatto che le sue trame, a differenza di quelle tradizionali, compiano un percorso inverso: partendo cioè da premesse altissime e concludendosi con insulsi finali involuti, in cui lo svelamento del colpevole ha perso qualunque attrattiva e i presupposti non vengono mantenuti. Forse ciò è dato anche dal fatto che, in alcuni casi (come in "Sotto la Neve"), la presenza di elementi che rimandano a libri ben più famosi e celebrati abbia creato errate aspettative in questo senso (come non pensare, sostengono, ad "Assassinio sull'Orient-Express" di Agatha Christie, trovandoci davanti a un treno bloccato dalla neve?), quando in realtà le rispettive storie viaggiano su binari completamente diversi e non pretendono di assomigliarsi in alcun modo. In ogni caso, il risultato che consegue all'analisi di questi elementi conduce purtroppo a freddi giudizi negativi o perlomeno neutrali: i romanzi di Farjeon, infatti, sono stati spesso definiti come "simpatici" o "carini" oppure letture "decisamente meno impeccabili" di altre, a cui si aggiungono commenti sullo scrittore del tipo "non ho ancora capito se lo amo o lo detesto" o "resta un autore dai buoni propositi difficilmente mantenuti". Eppure, c'è qualcosa che colpisce quando vengono menzionati i libri di questo autore: ovvero, il loro grande successo presso la critica del tempo e il pubblico in generale. Mi spiego meglio.

Per cominciare, fin dagli inizi del Novecento, gran parte di questi volumi riscosse moltissimo successo, tanto da indurlo a produrne una quantità enorme (circa ottanta) toccando generi diversi tra loro. Qualcuno può osservare che egli si impegnò a scriverne così tanti perché gli permettevano di guadagnare denaro; tuttavia, se anche fosse, non gli sarebbe stato possibile farlo se le sue storie non fossero piaciute ai lettori. In secondo luogo, inoltre, va contato il fatto che anche in epoca contemporanea Farjeon ha ottenuto un successo inaspettato: nel 2014, quando la British Library Crime Classics decise di pubblicare proprio "Sotto la Neve" come titolo per le feste di Natale, nessuno (nemmeno Martin Edwards, che venne incaricato di scrivere una prefazione alla nuova edizione) poteva immaginare che "Mystery in White" avrebbe venduto in pochi mesi ben 60.000 copie in totale, diventando uno dei bestsellers di quell'anno. E la stessa cosa valse per altri due titoli ("Thirteen Guests" e "The Z Murders"), i quali confermarono il successo che aveva arriso alla sua opera quasi un secolo dopo la pubblicazione. Pure in Italia, dove il giallo non gode di una particolare fortuna o diffusione, i tre romanzi di questo autore pubblicati da Polillo ("La Casa dei Sette Cadaveri", "Gli Omicidi della Z" e questo "Sotto la Neve") devono aver riscosso un piccolo successo; altrimenti ci si sarebbe fermati al primo e si sarebbe puntato su altro. Tutto ciò è significativo, non trovate? Infine, va menzionato il grande rispetto con cui la critica ha sempre trattato i libri di Farjeon: non solo H.R.F. Keating, ma anche Dorothy L. Sayers, tanto rigida con i suoi colleghi quanto era con se stessa in fatto di giudizi, elogiò apertamente i suoi sforzi letterari per l'attenzione agli ambienti, la leggerezza narrativa, la dolcezza nel saper modellare intrecci e personaggi, confessando di esserne un'appassionata lettrice; in epoca più recente, poi, Curtis Evans ha più volte ribadito la propria ammirazione per i romanzi con protagonista il vagabondo Ben, oltre agli altri titoli già citati. Quindi, tutto ciò non vorrà dire qualcosa? Magari che, chi critica negativamente i libri di Farjeon, forse non ha del tutto ragione? Io penso sia così. Infatti, se è innegabile che le loro trame non presentino perfetti congegni ad orologeria come quelle dei gialli della Christie oppure leali partite tra chi legge e l'autore, al modo di quelle nei mysteries di John Dickson Carr, e non serva a nulla nasconderne i difetti, d'altra parte vorrei sottolineare come, in una classica crime novel, l'enigma occupi a mio sindacabilissimo parere una parte tanto importante quanto quella di altri elementi, come l'atmosfera che in esso si respira oppure la resa dei personaggi e ciò che essi riescono a manifestare. Il bello del giallo, insomma, non sta solo nella perfezione dell'enigma (il quale, nel caso dei libri di Farjeon, presenta evidenti mancanze in fatto di fair-play nei confronti del lettore), ma pure nella sua resa generale in fatto di stile e contenuti affrontati. Per alcuni questo discorso non vale; io invece sono convinto di quanto sostengo e voglio spezzare una lancia a favore. C'è molto di più in un giallo di quanto si pensi a prima vista, e "Sotto la Neve" lo dimostra.

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Lindau Edizioni
Prendiamo, ad esempio, l'aura di bizzarra attesa che pervade un po' tutto il romanzo: l'autore si è soffermato su di esso in modo da ricreare un'atmosfera di straordinaria piacevolezza, in cui la suspense del mistero e una grande quantità di interrogativi si mescolano al brio dei personaggi, costretti a vivere situazioni al limite del paradossale ma pur sempre "normali" nella loro ingenuità e disposti a prendere le cose con una certa filosofia. L'ambientazione, con l'immancabile casa isolata dalla neve (in questo caso la coltre bianca arriva addirittura ad ostruire porte e finestre del pianterreno!), è davvero meravigliosa (pp. 7-8, 21-25, 27, 47, 73, 106-107, 171-176, 187-188) e la storia, all'inizio, promette di essere più che scoppiettante, grazie anche a uno stile venato da un sottile humor e da un pizzico di suggestione. Proprio questa concentrazione sugli aspetti del soffuso melodramma del racconto e il volerli mescolare ad elementi della tradizionale crime story all'inglese (come la bufera, la casa isolata, l'investigatore dilettante) rappresenta, secondo me, l'originalità del libro e lo avvicina al "Christmas Murder Mystery": essi danno una marcia in più all'ingegnosità dell'intreccio (forse troppo contorto), inserendosi benissimo in una storia caratterizzata da un ritmo narrativo più lento del solito, ma allo stesso tempo adeguato, il quale permette al chi legge di immergersi in questa favola moderna e di assaporare ogni pagina, senza sentirsi spinto con urgenza ad arrivare alla fine del volume, mentre gli indizi gli vengono rivelati poco a poco nel corso della narrazione e lo accompagnano lungo un percorso tortuoso. Come in "Quando l'Amore Uccide", la psicologia dei personaggi gioca un ruolo di primo piano per comprendere l'enigma nella sua interezza (sebbene lo faccia in modo un po' diverso), e come in "Natale con Delitto" i personaggi covano emozioni contrastanti che di volta in volta minacciano di esplodere ed esercitano un movente nelle loro azioni. A tutto ciò, infine, viene accostato un enigma complesso, che può far provare una certa insoddisfazione a causa delle troppe cose lasciate al caso al momento della soluzione, ma che si pone perfettamente all'interno del filone del thriller di stampo anglosassone di cui fece parte anche l'opera di Ethel Lina White. Un'altra cosa che il lettore manca di notare, infatti, è proprio questa: ovvero che, sebbene l'anno di pubblicazione (1937) e le premesse facciano presagire un racconto in cui la detection tradizionale la fa da padrone, in realtà è la tensione che domina la scena dalla prima all'ultima pagina di questo libro; quella tensione che fece la fortuna delle Regine del Brivido americane e permise pure a White di dare vita a un connubio tra classico e moderno.

In questo modo, dunque, "Sotto la Neve" e gli altri romanzi di Farjeon si pongono meglio tra i mysteries della suspense e del brivido, che nel giallo della più stretta Golden Age; nel primo caso, l'aderenza al gioco pulito e alla perfezione dell'enigma non era stretta come nel secondo, per cui viene a spiegarsi anche per quale motivo questi elementi non siano stati trattati con maggior precisione dall'autore e nelle vicende regni una certa superficialità. Chi si avvicina all'opera di Farjeon, a mio parere non deve aspettarsi né indagini serrate, esami dal punto di vista scientifico oppure interrogatori e rilevazioni specifiche sulla scena del crimine; né romanzi sensazionalistici come quelli buttati già da autori come Sydney Horler o Sapper, in cui vengono esibiti razzismo e xenofobia: qui sono l'intrigante atmosfera pseudo-sovrannaturale, gli aspetti suggestivi ed ingentiliti (tratti dal giallo classico e da quello più psicologico) dei personaggi e la leggerezza della narrazione di fondo, al limite dell'inconsistenza, ad occupare le vicende del gruppo di ospiti improvvisati alla Vigilia di Natale. Questo libro, insomma, non fa per i puristi dell'enigma, ma per chi desidera provare qualcosa di diverso, non disdegna misteri meno curati e ama immergersi in una serie di situazioni in cui la suggestione (pp. 12-15, 34-37, 58-62, 102-106, oltre a cap. 15) riesce ad avvolgerlo; magari ambientate a Natale, quando il fascino e la magia delle feste raggiunge il suo culmine. Poiché io sono assolutamente un romantico, ho amato questa storia dall'inizio alla fine e ho cercato di cogliere il meglio da essa; sfido chiunque a dire che non sia stato un piacere seguire le vicende raccontate capitolo dopo capitolo, in un'atmosfera resa magnificamente e dove la tensione non viene mai a mancare, e tutto sommato credo che esse siano adeguate alle premesse (tralasciando in parte l'enigma, come ho detto sopra) e a loro modo straordinarie nel saper mescolare indagine tradizionale e suggestione, come in pochi altri casi. Su una cosa non ho dubbi: Jefferson Farjeon e la sua opera non lasciano mai indifferenti, nel bene e nel male.

Joseph Jefferson Farjeon, nato nel 1883 e morto
nel 1955
Alla pari dei suoi gialli, Joseph Jefferson Farjeon fu un personaggio insolito per il suo tempo. Nato nel 1883 a Londra, in una famiglia in cui la cultura era di casa (suo padre Benjamin Leopold fu un importante romanziere, sua madre Maggie fu figlia di un noto attore dell'epoca, i fratelli Harry, Eleanor ed Herbert rispettivamente un compositore, un'autrice di libri per bambini e un critico teatrale), studiò in città fino al 1910, quando iniziò a lavorare per la Amalgamated Press, una casa editrice specializzata in riviste umoristiche. Per dieci anni mantenne l'impiego, finché non riuscì a pubblicare il suo primo libro, "The Master Criminal" del 1924. Uomo schivo e mite, "Joe" (come lo conoscevano gli amici) iniziò così la sua carriera di esponente di pregio della Golden Age del giallo anglosassone, benché declinata al thriller piuttosto che al tradizionale mystery deduttivo. Il suo marchio distintivo era l'originalità, tanto che non si fece frenare dalla prolificità (pubblicò circa ottanta volumi, a volte usando lo pseudonimo di Anthony Swift) e, in barba al cliché che vede la produzione forsennata di romanzi come sinonimo di mediocrità, riuscì addirittura a stabilire un ottimo rapporto con la critica (oltre agli autori sopra citati, venne elogiato anche dal drammaturgo americano Paul Wilstach e dallo studioso William Lyon Phelps). Vegetariano e pacifista (il suo "Death of a World" è un'appassionata protesta contro la corsa al riarmo dopo la Seconda Guerra Mondiale), Farjeon si distinse nella moltitudine di scribacchini di mysteries sensazionalistici per la scrittura ingentilita e legata al proprio background familiare. Infatti, oltre ad essere stato un appassionato fotografo e disegnatore di animali buffi (buffi perché li disegnava lui, beninteso), fu sempre molto interessato agli umili; interesse che ereditò da suo padre, al punto di diventare un empatico sostenitore della povera gente, la quale spesso ottiene una rivalsa all'interno dei suoi romanzi. Ad esempio, in alcuni di essi il protagonista è Ben, uno strano vagabondo che risolve casi misteriosi, alla maniera di un prosaico emulo del colto investigatore dilettante della tradizione classica, il quale vide evolvere la propria personalità e diventò uno dei più improbabili detective della sua era. Lo stesso Ben, per giunta, apparve nell'opera più ricordata di Farjeon: l'adattamento a sceneggiatura per Hitchcock della piece teatrale "Numero diciassette". Quest'ultima gli permise di ottenere grande popolarità su entrambe le sponde dell'Atlantico, oltre da aprirgli le porte della collana Collins Crime Club fino al 1955, quando Farjeon morì di cancro a Hove, nel Sussex.

Per allora, l'autore aveva dato alle stampe numerosi e diversi romanzi: tra i più famosi, ricordiamo "The Windmill Mystery" (1934), ambientato presso un sinistro mulino a vento e dedicato alla memoria della madre; "Holiday Express" (1935), che sfrutta il classico delitto in treno per esplorare la figura le giovane ragazzo protagonista; "Thirteen Guests" (1936), in cui avviene un delitto in una casa di campagna durante una tipica festa; "End of an Author" o "Death in the Inkwell" (1938), per il quale Farjeon trasse spunto dalla sua stessa esperienza, in modo da tracciare un complesso caso in cui uno scrittore di thriller e la sua segretaria corrono pericoli di ogni sorta; "The Judge Sums" (1942), in cui l'autore si cimenta nel giallo giudiziario mescolandolo a un caso reale; "La Casa dei Sette Cadaveri", nel quale avviene un inspiegabile delitto di massa, e "Gli Omicidi della Z", dove ci sono sì più omicidi, ma sullo stile della catena da serial killer; oltre ai già citati romanzi su Ben (come "Ben on the Job" del 1952) e "Death of a World". Ognuno di questi libri si distingue per stile, ambientazione e personaggi; e "Sotto la Neve" non fa eccezione. In una vicenda in cui le sensazioni la fanno da padrone, sinistri presagi si accumulano sempre più a formare dubbi e i sospetti aleggiano come spettri tra le pagine, Farjeon dipinge situazioni caratterizzate da un'apparente tranquillità, in cui elementi del quotidiano si trasformano pian piano in inquietanti sintomi di un malessere diffuso e rendono il racconto simile a una favola venata da un pizzico di mistero, sullo stile dei racconti di fantasmi che tanto andavano di moda tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento (pp. 9-10, 58-59, 141, 202, 221). A differenza della narrativa delle Regine del Brivido americane o di sue colleghe britanniche (come Lorna Nicholl Morgan), egli mise insieme tradizione e psicologia senza calcare la mano sulla ricerca di un melodramma spiccato e fine a se stesso, ma piuttosto dando vita a un dualismo in cui il brivido e la tensione vengono soffusi in un racconto più classico, dove la suspense generata ha un impatto meno scioccante sul lettore (pp. 10-11, 29-31, 39-41, 48-49, 74-75, 94-96, 102-103, 115-118, 129-130, oltre ai capp. 17 e 25) e dominano l'idea di destino (p. 189) e una certa galanteria d'altri tempi (p. 122). Al cuore dello stile dell'autore, c'è il confronto della solidità con l'impalpabile e il fantastico, in cui avventure divertenti si affiancano ad oscure minacce che emergono dal passato. Questi è un fattore che gioca un ruolo non indifferente all'interno della storia: esso si affaccia tra le righe ad ogni piè sospinto, inesorabile, impossibile da sradicare, eterno e inscindibile dalla tradizione. Ben poche volte mi sono sentito tanto coinvolto sentimentalmente in un giallo convenzionale ma allo stesso tempo originale, in cui le percezioni non si limitano al campo dell'emozione, ma si estendono alle descrizioni di oggetti e luoghi con tono distinto e intimo e la sospensione temporale ne viene tanto gratificata. Grazie allo stile schietto eppure onirico e piacevole, il quale catapulta il lettore in una vicenda dai tratti irreali, attraversata da una minaccia invisibile (da notare il sogno febbrile di Thomson o la spedizione di David fuori dalla casa) e farcita di digressioni (pp. 42-43, 99-100...) legate ai temi del sentimento e dell'emozione, come solo Farjeon ha saputo fare (non per niente Dorothy L. Sayers ha osservato che lui "è del tutto insuperabile nella [sua] abilità da brivido in [fatto di] avventure misteriose"), l'autore esalta il senso di coscienza (pp. 27-28, 41, 74-75, 79, 98-101, oltre al cap. 9) in modo da gettare una potente luce sui personaggi e ce li dipinge come vivaci, benché segnati da una certa irrealtà e avvolti da una certa nebbia, la quale non permette di avere una visiona chiara del loro insieme pur facendoceli sentire vicini. Lydia e il suo atteggiamento forzatamente allegro per far fronte alle avversità, David e la sua inadeguatezza davanti alla forza interiore della sorella; il povero Thomson, dal ruolo più che marginale e la personalità incolore che non riescono a non strappare un sorriso; la piccola Jessie, con le sue paure e i pensieri frivoli riversati nelle pagine del diario (73, 76-77, 105-112, 132, oltre al cap, 27): ognuno di loro non presenta un carattere spiccato (a parte forse Maltby), ma riesce ad occupare un posto nel nostro cuore proprio grazie al suo essere normale, simpatico e un po' indifeso. È stata questa capacità nel saper esaltare con empatia "piccole persone" come sfortunati impiegati e segretarie pasticcione ad aver distinto Farjeon dalla massa.

Insomma, se ci si fa caso, "Sotto la Neve" a prima vista appare fin troppo convenzionale, date la normalità dei personaggi, l'uso della fin troppo classica casa isolata dalla neve e la banalità della soluzione dell'enigma. Ma, in realtà, lo è davvero? Io credo che, pur nella sua semplicità, esso riesca a toccare le corde giuste nell'animo del lettore e sia una lettura tutt'altro che anonima, ma qualcosa capace di incuriosire pur non prendendosi molto sul serio: come Maltby, il quale sembra godere un mondo nel prendere in giro i suoi compagni di sventura, tra il serio e il faceto, mentre racconta storie di spiriti e suggerendo nefaste conseguenze per ogni singolo fatto curioso avvenuto nella casa. Farjeon, per bocca del suo personaggio, sembra dire: "Smettetela di essere così tristemente prosaici e pratici, mentre indagate su un presunto delitto! Provate ad uscire dai soliti schemi e chiedetevi se ci sia bisogno di concentrarsi per forza solo sul'enigma, con tanto di prove da raccogliere e mostrare agli altri". L'autore si impegna dunque a tracciare un mistero doppio per il solo gusto di intrattenerci; meno riuscito nel finale a causa del troppo affidamento di Maltby sulle supposizioni, ma pur sempre degno di nota, poiché riesce a divertire fino allo svelamento degli ultimi capitoli, con la sua atmosfera ovattata e suggestiva che in qualche modo mi ha ricordato "Trappola per Topi" della Christie. Forse anche per questo motivo "Sotto la Neve" e l'opera di Farjeon riscuotono da sempre un grande successo: mettono in scena una vicenda che, pur senza prendersi troppo sul serio, fa trascorrere alcune ore in spensieratezza. Proprio come ci si aspetterebbe dalle più celebrate crime novels.


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