venerdì 26 marzo 2021

66 - "Il Crimine del Secolo"/"L'Amante del Reverendo" ("About the Murder of the Clergyman's Mistress"/"The Crime of the Century", 1931) di Anthony Abbot

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
In America, la tradizionale crime story ha iniziato ad imporsi al grande pubblico con un po' di fatica, rispetto a quella nata in Inghilterra. In questa nazione, infatti, vige da sempre una certa propensione a proiettare gli sforzi verso il futuro, invece che in direzione della conservazione del passato; proprio perché gli Stati Uniti non hanno avuto qualcosa come il Rinascimento italiano oppure l'epoca della Guerra delle Due Rose britannica. Essendo un Paese nato in un'epoca più tarda rispetto ad altri, l'America non ha incamerato secoli e secoli di storia come è stato per l'Europa oppure l'Asia, e di conseguenza non ha coltivato quella sorta di culto per il passato che invece sentiamo fortemente noi (soprattutto italiani, dove si sono sviluppati imperi e dinastie fin da prima della nascita di Gesù). Inoltre, ho sempre più l'impressione che gli USA non siano nemmeno così interessati a costruire delle radici solide su cui basare la loro società, ma piuttosto a cavalcare una sorta di perenne onda su di una tavola da surf, mettendosi sotto i riflettori e accettando i rischi che ciò comporta. Perciò, è comprensibile come pure nello sviluppo di correnti culturali l'America abbia deciso di tracciare strade nuove, rispetto al percorrere quelle che già erano state tracciate in precedenza. Lo ha fatto col cinema, dando vita a Hollywood e a una vera e propria "macchina da guerra", capace di produrre kolossal in tempi brevi e consegnare una fama tanto fulgida quanto effimera a stuoli di star più o meno talentuose. Lo ha fatto nel campo della musica, quando generi come l'r&b e il rap hanno visto la luce nei ghetti delle periferie delle grandi metropoli e hanno generato fenomeni di costume e forme di protesta che ancora al giorno d'oggi sono validissime. E lo ha fatto nel campo della letteratura. La prima cosa che mi viene in mente, quando penso agli scrittori americani in generale, è la cosiddetta Beat Generation, quella corrente culturale che incarnarono Jack Kerouac, Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti, la quale vedeva una sorta di rifiuto delle norme imposte e del materialismo, in favore di religioni orientali e pensiero libero, a discapito dei valori della società del tempo. Oppure la narrativa di Thomas Pynchon, che non riesce ad essere mai classificata e definita del tutto. Niente di tutto ciò era esistito prima, nel Vecchio Continente.

E una cosa del genere vale pure per la crime story che, in America, fin da subito non viene considerata allo stesso modo che in Inghilterra. Intendiamoci: in un certo senso questo è naturale, visto che un tipo di società sortisce degli effetti in modo differente da quella di qualunque altra su qualsiasi aspetto della vita quotidiana che si rapporti ad essa e la interpreti. Però è curioso notare come in America si sia andati alla ricerca di un'interpretazione del romanzo del mistero diametralmente opposta a quella britannica: non esistono quasi più famiglie aristocratiche o circoli chiusi di sospettati, viene esasperato l'uso della violenza e l'azione rispetto alla riflessione, l'investigatore dilettante è sostituito da corpi di polizia composti da innumerevoli persone oppure da private eye professionisti, con tanto di licenza e matricola... È stato come se l'America avesse voluto dimostrare di essere proprio diversa dal Paese che le ha dato i natali. Detto ciò, però, bisogna sottolineare come questo non sia avvenuto proprio sempre. Alcuni giallisti e gialliste, infatti, preferirono sforzarsi per dare un'interpretazione della realtà che li circondava continuando a perpetuare la tradizione britannica, pur senza ricalcarla alla perfezione. Per prima fu Anna Katharine Green, la quale inserì nella sua produzione alcune storie che prevedevano un mistero da risolvere; poi venne il turno di altre colleghe come Mary Roberts Rinehart e le sue women in jeopardy (con le sue discepole) e quello di scrittori maschili, primo tra tutti S.S. Van Dine, il quale fece scuola presso molteplici suoi imitatori. Tutti loro non mancarono di inserire elementi del giallo classico inglese nelle loro opere, come investigatori dilettanti alla bisogna, cerchie di sospettati abbastanza ristrette, atmosfere che richiamavano l'arte e la cultura; ma allo stesso tempo non rinunciarono a mescolare questi elementi con altri appartenenti alla crime novel americana. Tra queste opere "ibride", oggi voglio recensire la seconda in ordine cronologico di uno dei discepoli di Van Dine, Anthony Abbot: "Il Crimine del Secolo" (Polillo Editore, 2021, conosciuto anche col titolo "L'Amante del Reverendo"). Essa incarna al meglio questo discorso di miscela tra passato e modernità, presentando un duplice delitto che viene affrontato sì da una squadra di polizia investigativa, ma con a capo un individuo risoluto e astuto come il classico segugio del mystery inglese. Le similitudini non si fermano qui, ma lasciate che vi spieghi un po' com'è la trama perché possiate rendervi conto della realtà dei fatti.

Low Tide, Afternoon, Treport, Maurice
Prendergast, 1892
Le vicende prendono avvio quando una barca a remi viene speronata da un motoscafo lungo l'East River di New York. Al suo interno non si trovano i prevedibili piccioncini arrabbiati per essere stati quasi catapultati nell'acqua gelida, ma ben due cadaveri che paiono vagare alla deriva: un uomo e una donna. Si tratterebbe di una faccenda di semplice routine, se non fosse che le identità dei due sono sconosciute poiché non portano alcun documento con sé... e che la loro morte sarà destinata a generare un grosso scandalo nella società perbenista della città. Infatti, nonostante non si sappia chi siano, i due cadaveri recano tracce inconfondibili di quale ruolo svolgessero al mondo: lei ha tutta l'aria di essere una giovane signora un po' disinvolta, una di quelle ragazze che non si prendono molto sul serio e a volte commettono qualche sciocchezza, e lui è vestito in abito talare; quindi, è un sacerdote. Cosa mai potrebbe farci un parroco assieme a una ragazza che si dovrebbe accompagnare meglio a un giovanotto? La polizia, convocata immediatamente sul posto nella persona dell'investigatore capo Thatcher Colt e del suo assistente Anthony Abbot, già si prefigura scenari poco felici: evidentemente, i due erano amanti e, a giudicare dagli abiti nuovi che indossano, erano in procinto di mettere in atto una fuga d'amore. Tuttavia, qualcuno deve averli intercettati e neutralizzati, forse proprio per coprire lo scandalo che sarebbe derivato dallo svelamento della loro relazione. E non è solo la mancanza di una pistola, a giustificare le ferite d'arma da fuoco che si trovano sui corpi, a suggerire quest'ipotesi; anche la presenza di mezza lettera d'amore, di un gatto con le zampe sporche di sangue (dove sangue non ce n'è) e di una strana foglia sotto ai due disgraziati farebbero pensare che il delitto abbia avuto luogo da qualche altra parte e che il responsabile si sia liberato di tutte le prove del suo crimine. Pertanto, Thatcher Colt e la sua squadra di agenti si mettono a caccia di questo fantomatico assassino, sfruttando tutte le armi che hanno a disposizione: rilevamenti di impronte digitali sulla scena del crimine, analisi di laboratorio, esami forensi e sopralluoghi in varie parti della città.

Alla fine di una ricerca approfondita, la polizia riesce a scovare la vera scena del delitto: un appartamento in un caseggiato che in quel momento è assolutamente deserto, affittato a una giovane coppia che si rivelerà essere composta dal sacerdote e dalla ragazza e all'interno del quale sembra proprio sia stata costruita la barchetta su cui i cadaveri sono stati ritrovati. Tutto ciò è molto strano, dal momento che i due avrebbero dovuto organizzare una fuga romantica, e non un suicidio premeditato; ma allora, perché mettersi a montare un'imbarcazione in gran segreto? E poi c'è quel coltello affilato e temibile appeso alla parete, che potrebbe essere stato usato per sgozzare la ragazza una volta già morta... Colt è inquieto e sconcertato dalla quantità di indizi che contrastano tra loro; e la successiva scoperta dell'identità dei due morti non lo aiuta molto a scacciare le tenebre dall'enigma. Si tratta infatti del reverendo Timothy Beazeley e della sua corista Evelyn Saunders, integerrimi parrocchiani della chiesa di St. Michael and All Angels. Questo significa avere a che fare con i loro familiari: dalla parte del parroco si contano la signora Elizabeth Beazeley, la sua vedova scostante e fredda come un iceberg, assieme ai fratelli Paddington e Gerald Curtainwood (il primo è menomato mentalmente e appassionato di coltelli, mentre il secondo ha tutta l'aria di aver ereditato un genere differente di pazzia: quello legato agli scatti d'ira); dalla parte dei Saunders, il marito ubriacone di Evelyn e sua figlia, William e Isabel. Tutti costoro sono sospettabili per il delitto, dal momento che presentano moventi plausibili che vanno dalla gelosia a uno spiccato senso del rispetto dell'onore ai meri sentimenti di odio e vendetta personale; ma nel corso dell'indagine si aggiungono pure un paio di ex segretarie del sacerdote: le signorine Bessy Struber, compassata e fin troppo indefessa al lavoro, e la chiacchierona Emma Hicks. A chiudere il cerchio, il fabbricere Mr. Chadwick. Pressato dal procuratore distrettuale, il quale vorrebbe chiudere il caso il prima possibile per non irritare l'opinione pubblica, e da un avvocato petulante e capace come il colonnello Powell, Colt deve contare solo sulla sua capacità di scindere le bugie dalla verità e sull'abilità della propria squadra per risolvere quello che i giornali già definiscono come "Il Crimine del Secolo". Ci riuscirà? Forse dopo aver appreso alcune informazioni che si nascondono nel Norfolk e in seguito all'inseguimento di un espresso da parte di un aereo...

Copertina dell'edizione
pubblicata nei Classici
del Giallo Mondadori
La pubblicazione di questo titolo della collana dei Bassotti Polillo si è fatta attendere come nessun'altra, visto che era prevista ancora prima della scomparsa del patron della casa editrice. Da parte mia, quindi, c'era una grande aspettativa al riguardo, nonostante sapessi che si trattava semplicemente di una ripubblicazione con tanto di traduzione mondadoriana; tuttavia, adesso vi devo confessare di essere stato soddisfatto solo in parte dalla sua lettura. Certamente non è stato qualcosa di noioso; anzi, ha saputo intrattenere dall'inizio alla fine, senza grandi cali di attenzione da parte mia. Però ho avuto l'impressione che fossero riusciti meglio gli altri due romanzi gialli di Abbot che ho letto diversi anni fa, "La Signora dei Nightclub" e "Sette Piccioni Sporchi di Sangue". Non saprei, questo "Il Crimine del Secolo" mi ha dato l'impressione di essere stato meno articolato e approfondito, come se l'autore si fosse curato di alcune cose e ne avesse tralasciate altre. Il ché è un peccato, visto che la trama è stata basata su una coppia di delitti avvenuti nella realtà. Si tratta del celebre Caso Hall-Mills, avvenuto in America alla fine del 1922: tali Edward Hall, sacerdote episcopale, ed Eleanor Mills, corista della sua parrocchia, erano stati ritrovati assassinati in un campo poco fuori New Brunswick (New Jersey) e il loro decesso aveva avuto una delle più potenti ripercussioni sulla società del tempo, tanto da essere oscurato soltanto dal rapimento Lindbergh (sfruttato da Agatha Christie per la trama del celeberrimo "Assassino sull'Orient-Express"). I fatti in breve: entrambi i cadaveri presentavano ferite d'arma da fuoco alla testa, la donna era stata pure sgozzata e messa di fianco al presunto amante, e tra di loro furono trovate lettere d'amore strappate. Ogni cosa faceva pensare a una sorta di vendetta da parte di un coniuge tradito... e infatti presto furono accusati dell'omicidio la vedova di Hall, Frances Noel Stevens, e i fratelli di lei, Henry Hewgill e William Carpender. Tuttavia la scena del crimine venne contaminata da curiosi accorsi sul posto e da una deplorevole gestione della faccenda da parte delle forze dell'ordine, così che per qualche tempo non si riuscì ad incriminare nessuno; fu solo grazie alle pressioni esercitate dal "New York Daily Mirror" che alla fine si decise di mettere sotto processo la signora Stevens. L'accusa fece di tutto per incriminare i sospettati, arrivando a convocare come teste una certa Jane Gibson, allevatrice di maiali che sosteneva di essere stata quasi testimone oculare del crimine; però la donna cambiò versione in più occasioni e la difesa si impegnò a screditarla, finché il verdetto non assolse gli imputati per mancanza di prove. La risonanza generata dallo scandalo e dall'importanza delle famiglie coinvolte, tuttavia, aveva catturato l'attenzione del pubblico (nel quale si trovava pure una certa Mary Roberts Rinehart) che rese il processo un vero e proprio "circo mediatico" e spinse la signora Stevens a denunciare il "New York Daily Mirror" per diffamazione.

Se fino a qui vi sembra che alcuni fatti siano praticamente identici a quelli che vi ho riassunto qui sopra, sappiate che le cose sono molto più complesse di quanto appaia a prima vista. Infatti, potrei aggiungere altri dettagli per dimostrare come Abbot abbia trasportato il Caso Hall-Mills dentro la sua trama e ci abbia poi costruito attorno alcuni aspetti inventati: oltre alle circostanze legate alla scena del delitto (corpi messi vicini, ferite causate da arma da fuoco e coltello) e l'accoppiata sacerdote più corista, ci sono alcune similitudini negli abiti indossati dalle vittime reali e quelle fittizie; il fatto che mancasse l'orologio dal polso sia di Hall sia di Beazeley; i sospetti suscitati contro la famiglia Stevens e quella dei Curtainwood, entrambe potenti e con ruoli di spicco all'interno della società; il curioso nome dell'avvocato dell'accusa, Alexander, identico a quello dell'uomo incaricato della difesa dei familiari di Beazeley. Ciò dimostra come Abbot non fosse uno sprovveduto oppure un autore che scriveva per il semplice gusto di farlo, privo di coscienza; anzi, mette in luce la sua intenzione di dare spessore alle storie che scriveva. Le vicende di "Il Crimine del Secolo" sono pertanto molto ben strutturate, dietro alla costruzione delle azioni dei personaggi e di quanto accade c'è ben più di un semplice lavoro di accumulo di fatti e di indizi. L'autore si è sforzato di rappresentare, dentro la finzione del suo romanzo, una certa realtà dei fatti: ha fatto agire la polizia come se assistessimo a un'indagine reale, ha spiegato quali siano le difficoltà a cui essa va incontro (ad esempio, è interessante rilevare come il procuratore Dougherty faccia molta pressione su Colt affinché quest'ultimo chiuda il caso in fretta, per permettergli di glorificarsi davanti ai giornalisti; oppure va sottolineato come spesso e volentieri le piste investigative possano finire in vicoli ciechi dai quali bisogna subito svicolare); Abbot ha mostrato quanto sia importante per un investigatore/ispettore la conoscenza del proprio mestiere, coltivata con studi approfonditi di casi esemplari su cui basare il proprio operato per poi mettersi all'opera in base alle circostanze peculiari di ogni delitto. Credo sia stato questo il punto più interessante toccato da "Il Crimine del Secolo": dimostrare come il police procedural sia strutturato in una sorta di percorso ad ostacoli da superare, tra sfide e vittorie (pp. 25-29, 31-34, 37-39, 43-44, 62-65, 70, 74-75, 82-85, 87-89, 95, 101-102, 108-111, 113-114, 122-125, 127-130, 133-134). Abbot è stato incredibilmente competente nel fare questo. Allora, vi chiederete qual è il problema che mi spinge a non considerarmi del tutto soddisfatto dalla lettura. Ebbene, penso che questo dispiegamento di forze e di astuzia e di esperienza da parte dell'autore non sia stato del tutto degno dell'indagine a cui esse sono state destinate. Ho percepito una debolezza di fondo nelle vicende, come se non fossero state del tutto esplorate: il finale stupisce ma non sconvolge, il gatto con le zampe macchiate di sangue, ad esempio, è scomparso poco dopo la sua apparizione quando magari poteva essere impiegato per ulteriori sviluppi; alcuni tra i personaggi sono comparsi il tempo di essere interrogati e poi sono stati messi da parte; la stessa azione ha occupato un posto che sta tra il troppo e il troppo poco, essendo esercitata più dalla "macchina" della polizia con i suoi agenti rispetto allo stesso Colt. Ecco, questi piccoli difettucci hanno intaccato la godibilità di "Il Crimine del Secolo", a mio parere un po' statico e troppo indirizzato a chi è appassionato di true crime, pur restando quest'ultimo una lettura più che valida rispetto a titoli meno riusciti.

Charles Fulton Oursler,
alias Anthony Abbot, nato
nel 1893 e morto nel 1952
Detto ciò, ho tutta l'intenzione di recuperare (con i tempi giusti) altre opere di Charles Fulton Oursler, vero nome di Anthony Abbot, poiché mi incuriosisce capire se le sensazioni che ho provato leggendo "La Signora dei Nightclub" e "Sette Piccioni Sporchi di Sangue" sono rimaste inalterate nel tempo. Nato a Baltimora nel Maryland, nel 1893, egli era figlio di un supervisore alla United Railways and Electric Company, discendente nientemeno che da una delle famiglie più antiche della città ma sfortunatamente non tra le più abbienti. Infatti, Fulton fu costretto ad abbandonare la scuola prima degli studi superiori per contribuire al sostentamento familiare e svolse innumerevoli lavori: imballatore in un grande magazzino, venditore porta a porta di latticini, impiegato in uno studio legale, prestigiatore nei night-club... Poi l'illuminazione: scoprì di possedere del talento nella scrittura e decise di tradire le aspettative dei genitori, i quali lo volevano avvocato, diventando reporter per il "Baltimore American". Da quel momento iniziò la sua lenta ascesa: nel 1918 si trasferì a New York dove si impiegò come caporedattore per "The Music Trades", per passare due anni dopo alla MacFadden Publications, una casa editrice di riviste popolari che gli affidò la direzione editoriale della testata e gli diede da lavorare per circa vent'anni. In questo periodo, Fulton si appassionò alle investigazioni criminali e a tutto ciò che su di esse trovava: articoli di cronaca, resoconti di processi, testimonianze tratte da interviste a sospettati... Per non parlare di quei mysteries che furoreggiavano al tempo, soprattutto quelli a firma S.S. Van Dine. Questo lo portò a cimentarsi nella narrativa del mistero come un discepolo di quest'ultimo, e in rapida successione (tra il 1930 e il 1943) Fulton pubblicò otto romanzi di genere sotto lo pseudonimo di Anthony Abbot: "Sette Piccioni Sporchi di Sangue" (conosciuto anche come "L'Omicidio di Geraldine Foster"), "Il Crimine del Secolo" o "L'Amante del Reverendo", "La Signora dei Nightclub", "La Regina del Circo", "Il Mistero di Madeline", "L'Uomo che Temeva le Donne", "La Soglia della Paura" e "Killer²". I primi sei si differenziano dagli ultimi due per un paio di caratteristiche: la prima è data dal fatto che, nel titolo originale, iniziano con la formula "About the Murder of..." (forse un espediente per far comparire i suoi libri in cima agli elenchi delle biblioteche pubbliche, assieme all'assunzione di uno pseudonimo le cui iniziali erano sempre date dalla lettera "A"? L'autore smentì la cosa), mentre la seconda riguarda il protagonista delle indagini: l'ispettore Thatcher Colt.

Costui è il capo della polizia di New York, un uomo duro ma giusto coi suoi uomini, disposto a lodarli e a redarguirli in ugual misura in base alla necessità, capace di compiere ragionamenti sensati pur senza apparire un superuomo "alla Sherlock Holmes". Egli infatti non incarna alcun ideale di segugio dotato al di sopra della media, quanto quello di un individuo sveglio e nel pieno delle facoltà fisiche e mentali dell'uomo comune che può sbagliare. Come dicevo, Colt fu personaggio principale in molti romanzi gialli di Abbot; finché l'autore decise di tentare di rimescolare le carte. Ma ormai l'interesse di Fulton si stava spostando dal mystery verso il giornalismo (che restò sempre la sua passione più grande): dal 1931 al 1942, infatti, aveva diretto la rivista "Liberty", per poi diventare commentatore radiofonico ed essere nominato, nel 1944, responsabile editoriale del "Reader's Digest". Tuttavia furono un viaggio in Palestina e la repentina conversione alla chiesa cattolica a imprimere sulla sua carriera di scrittore il segno dell'immortalità: nel 1949 Fulton pubblicò una rivisitazione del Nuovo Testamento sotto il titolo "The Greatest Story Ever Told" e questo lo consegnò definitivamente alla celebrità. Il romanzo di genere religioso vendette milioni di copie e da esso venne tratto un kolossal cinematografico, così l'autore decise di dedicarsi a questo tipo di narrativa e continuò fino alla fine della sua vita, stroncata da un infarto nel 1952. Come spesso accade, tuttavia, al giorno d'oggi la fama di Fulton resta legata alle sue opere del mistero, nelle quali come dicevo si riscontano somiglianze con quelle del suo ispiratore S.S. Van Dine. Ad esempio, entrambi usarono casi di true crime per costruire i loro delitti: in questo romanzo Abbot ha usato quello Hall-Mills, Van Dine in "Lo Strano Caso del Signor Benson" si ispirò all'assassinio di Joseph Bowne Elwell e in "La Canarina Assassinata" all'uccisione di Dot King. Oppure entrambi inserirono osservazioni e citazioni sul genere giallo per fare paragoni oppure rilevare distinzioni tra indagini (pp. 9, 32, 61, 82, 106).

Detto ciò, tuttavia, vanno rilevate le differenze che Abbot apportò al modello del suo ispiratore: nel caso in questione, abbiamo un investigatore che sta dentro la polizia e non è, invece, in sfida contro le forze dell'ordine, per cui vediamo le cose da un punto di vista differente e seguiamo il metodo degli agenti in azione e l'interazione che esiste tra loro; all'estetismo e a un ampio uso della cultura viene contrapposto il pragmatismo dell'azione applicata all'enigma (pp. 35-36, 46-50, 122-125, 138-139, 147-150), pur con lo sfruttamento di svariati campi di conoscenza (penso a quello della botanica per scoprire a quale pianta appartenga la foglia trovata nella barca); vi è un uso più frequente di crudezza, nei gialli di Abbot, rispetto a quelli di Van Dine, dal momento che in questi ultimi il sangue non appare quasi mai in primo piano; infine, c'è molto più movimento negli spostamenti messi in atto da Colt e Abbot rispetto a quelli che potrebbe far compiere Van Dine al suo pigro investigatore. Quest'ultimo punto permette ad Abbot di descrivere meglio la città di New York e le sue strade, i suoi palazzi e i giardini (pp. 15-16, 23-24, 36-37, 39-41, 44-47, 53, 56, 61, 112, 117, 125, 134-135, 141-142); ma d'altra parte focalizza meno l'attenzione sui personaggi che, come dicevo, non vengono del tutto esplorati a mio parere (pp. 54-60, 64, 66, 72, 76, 80-81, 91, 100-101, 118, 165). Certamente i principali sospettati ci vengono presentati sufficientemente e con un'aderenza importante ai modelli reali del caso Hall-Mills (ad esempio, oltre a quelli già citati sopra, mi ha colpito come William Carpender assomigli a Paddington Curtainwood nell'atteggiamento particolare che adotta); però alcuni testimoni e individui secondari non assumono mai vita propria, come il fabbriciere Chadwick. Detto questo, comunque, ribadisco come "Il Crimine del Secolo" sia stato una lettura interessante e piacevole. Lettura che (qui concludo) si presta a un'interpretazione affascinante, per certi aspetti. Infatti, ho notato come l'autore abbia in qualche modo criticato la Chiesa e il suo perbenismo (pp. 117, 135,168-169, 171-175, 179-181): la figura del reverendo Beazeley non viene dipinta sotto luci tanto favorevoli e neppure i suoi parrocchiani fanno una bella figura, vengono citati brani della Bibbia come a commento di alcune azioni vergognose dei personaggi, la foglia trovata nella barca (guarda caso) è di un albero del paradiso. Ho avuto l'impressione, insomma, che Abbot non fosse ancora stato convertito alla bontà del cattolicesimo che lo avrebbe poi reso celebre. Proprio uno strano caso del destino, ma si sa che chi ha a che fare con la classica crime story incappa spesso e volentieri in queste circostanze quantomeno curiose.

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venerdì 19 marzo 2021

65 - "La Casa dei Sette Cadaveri" ("Seven Dead", 1939) di J. Jefferson Farjeon

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Vi è mai capitato di provare un'infatuazione insensata e furibonda per qualcosa che avete letto? Oppure per una canzone che vi è capitato di ascoltare quasi per caso, ma vi è rimasta in testa peggio di un tormentone estivo, o ancora un film per il quale sareste disposti a pagare biglietti e biglietti del cinema, pur di vederlo e rivederlo più volte? Ammetto che una sensazione del genere non capita tutti i giorni; anche perché, se così fosse, non sarebbe più qualcosa di speciale che resta impressa nella nostra memoria oppure nel nostro cuore, a fissare un momento preciso della nostra vita e cambiandola. Tuttavia, io penso che bene o male ognuno di noi abbia sentito qualcosa di simile nel corso della propria esistenza. Per farla breve, penso sia proprio da un'emozione del genere che nascono le passioni che ci irretiscono e ci travolgono con la loro forza; pertanto sarebbe più che naturale provare e aver provato in passato questo tipo di emozione. Per cui, immagino avrete in mente cosa si prova quando si prende in mano un libro, si sente un motivo alla radio oppure si seleziona un film su una piattaforma streaming oppure ci si siede in una sala buia, in attesa della proiezione di una pellicola che in qualche modo ha stuzzicato la nostra curiosità, e ci si ritrova catturati da una forza magnetica che ci impedisce di ribellarci oppure ci fa sentire come se fossimo stati schiaffeggiati senza preavviso. Anche a me è successo, più di una volta, nonostante non si sia verificato magari con la stessa intensità. Ad esempio, per cogliere un aggancio con il recente Festival della Canzone Italiana in Sanremo, al primo ascolto della canzone "Amare" del gruppo La Rappresentante di Lista ho avvertito distintamente qualcosa che mi ha fatto dire: "eccoci, questa è la mia canzone di Sanremo 2021". Si tratta di un brano che (per come l'ho interpretato da dilettante) racconta come siamo fatti, con le nostre strabilianti imperfezioni e contraddizioni: spesso parliamo senza dire niente, piangiamo per dare sfogo alle nostre frustrazioni, alle nostre insicurezze e alle nostre paure, amiamo con tutti noi stessi senza risparmiarci mai, mai. In parole povere, tratteggia uno stato d'animo in cui ci ritroviamo; in cui io mi ritrovo. Penso sia stato ciò a fare risaltare "Amare" in mezzo al gruppo. Altre persone magari non sono rimaste colpite più di tanto da questa canzone; però è successo con brani differenti. Una mia amica semplicemente adora Mina, mentre un altro è fan di Claudio Baglioni: al di là del piacere che si può provare a sentire le loro voce, penso ci siano tante altre cose non dette dietro questo acceso interesse nei loro confronti.

Ovviamente anche parlando di film, ci sono pellicole che hanno saputo stregarmi in un modo che non mi sarei mai aspettato. Titoli come "La Strada" di Federico Fellini e altri facenti parte della filmografia di David Lynch, oltre a colpirmi nel profondo, hanno assunto un sapore particolare in seguito a un'esperienza di condivisione personale che mi tengo stretta e non dimenticherò mai; ma "Breakfast Club" di John Hughes e "St. Elmo's Fire" di Joel Schumacher sono forse gli esempi più limpidi per esprimere il concetto: essi narrano le incomprensioni che si instaurano tra ragazzi/e giovani e sul percorso di crescita che ognuno di essi intraprende, affiancato e stimolato dal/la coetaneo/a col quale magari pensa di non avere nulla a che spartire, ma in realtà è una sua immagine quasi speculare. Dal momento che io stesso faccio una fatica tremenda nel rapportarmi col prossimo, provo un viscerale attaccamento alle vicende che essi raccontano: descrivono quanto sia importante il dibattito e lo scontro tra persone affini, perché entrambe crescano (non cambino ma evolvano), e non credo ci sia niente di più importante di questo nella vita. Detto ciò, tuttavia, il mio campo preferito resta quello della lettura, ed è qui che ho avuto le sorprese più grandi in fatto di "infatuazioni". Mi è successo con la biografia di Agatha Christie, "La mia Vita", poiché essa narra gioie e dolori, vita e morte, fatica e svago, spensieratezza e abissi di depressione in cui tutti noi incappiamo negli anni, confortandoci e dandoci fiducia che le cose si aggiusteranno. Con un romanzo giallo che purtroppo si trova soltanto nei mercatini dell'usato, "Il Mondo dopo la Notte" di Charles Todd, dove la vividezza del racconto e delle vicende dei personaggi mi ha trasmesso emozioni talmente forti che sto aspettando il momento giusto per essere pronto a rileggerlo e recensirlo per voi, senza rischiare di finire di nuovo travolto. Con "Il Segreto delle Campane" di Dorothy L. Sayers, perché è l'unico racconto dove per il momento ho percepito davvero una sorta di rappresentazione della realtà pur dentro la finzione. E infine col romanzo giallo che recensisco oggi per voi: "La Casa dei Sette Cadaveri" di J. Jefferson Farjeon (Polillo Editore, 2011). A prima vista, quest'ultimo non lascerebbe mai intendere quanto esso stesso sia speciale; e forse non lo è, viste le stroncature che in tanti hanno espresso nei suoi confronti. Eppure, per me ha costituito una delle prime letture a tema crime al di fuori dei "soliti" Christie-Doyle-Stout e narra una storia che incarna il perfetto connubio tra thriller e giallo tradizionale, necessario a mio avviso per dare vita al romanzo del mistero perfetto; forse ancora di più che nell'altro libro dell'autore che ho già recensito su Three-a-Penny: "Sotto la Neve". Per questi motivi lo considero una tra le opere a cui sono più legato sentimentalmente, che mi piace rileggere ogni tanto.

Seven Sisters, Cliffs, Essex, Olga Koval, raffigurante una
casa sulla scogliere simile a Haven House
Le vicende che il libro narra prendono avvio da un tentativo di furto, perpetrato dal ladruncolo Ted Lyte presso Haven House, una casa alla periferia del villaggio di Benwick, sulla scogliera dell'Essex. Lyte è stato molto sfortunato negli ultimi tempi: di solito, si limita ad alleggerire qualche passante distratto e a trafugare piccoli oggetti in modo quantomeno discreto; ma adesso la fame si fa sentire e la carenza di furtarelli lo ha spinto ad addentrarsi nell'edificio che appare come abbandonato. La ghiaia del vialetto, infatti, è solcata da alcuni ciuffi d'erba troppo cresciuti, non si sente volare un mosca a parte il cigolio del cancello aperto del giardino, e le imposte delle finestre sono quasi tutte chiuse, a parte una di quelle superiori che sembra fargli un sarcastico occhiolino e invitarlo a sfidare la sorte. Così Ted è entrato dal retro e, dopo essersi attardato nella dispensa per riempire lo stomaco, si accinge a salire ai piani superiori per sottrarre oggetti di valore da rivendere al mercato nero. Eppure, c'è qualcosa che lo inquieta. Forse il silenzio totale dentro la casa? Oppure si tratta di altro, sottile e subdolo? Sempre più spaventato, Lyte decide di limitarsi a portare via qualche pezzo d'argenteria, senza essere avido. Però c'è quella porta chiusa, all'altra estremità dell'atrio, che lo attira come una calamita... Cosa si nasconde dietro ad essa? Forse qualcosa di prezioso? Ted si avvicina e, dopo aver girato la chiave nella serratura, spalanca l'uscio e... alla cruda luce elettrica si parano davanti ai suoi occhi sgranati ben sette cadaveri, alcuni riversi al suolo ed altri stesi su poltrone e divani. Terrorizzato il ladruncolo fugge a gambe levate, lasciandosi dietro pure la refurtiva, ma poco dopo viene fermato da un giornalista freelance, Thomas Hazeldean, appena sbarcato dal suo yacht, che lo ha scorto scappare lontano da Haven House come se avesse il diavolo alle calcagna. Condotto il fuggiasco alla stazione di polizia, ben presto appare chiaro agli agenti e ad Hazeldean che nella casa deve essere accaduto qualcosa di orribile ed inspiegabile, per produrre così tanti corpi in un colpo solo.

In realtà, una spiegazione abbastanza plausibile dei fatti esiste: suicidio collettivo. Ma perché questi individui avrebbero dovuto compiere un tale gesto estremo; e chi sono in realtà, dal momento che deve esistere un qualche legame che li unisca poiché hanno trovato la morte più o meno nello stesso identico momento? I loro abiti fanno pensare che se la siano vista brutta e a Haven House abitano solo un vecchio, di nome John Fenner, e sua nipote Dora. Come mai i sette predestinati hanno scelto proprio quella casa per terminare la loro vita? L'ispettore Kendall prende in mano le redini della situazione e, coadiuvato dal sergente Wade che deve istruire al meglio, si mette a cercare qualche indizio per risolvere il mistero. Però questi ultimi sono molto scarsi: ci sono il quadro di una giovane ragazza (probabilmente Dora Fenner) trapassato da una pallottola; imposte alle finestre non solo serrate ma addirittura inchiodate; un vaso con sopra una vecchia palla da cricket, messo al posto di un orologio sulla mensola del caminetto del salotto; un biglietto con alcuni strani numeri scritti di getto e senza senso apparente. Tutto ciò sembra incomprensibile, come incomprensibile è la causa della morte delle vittime, sulle quali non viene trovata traccia di colluttazione oppure ferita. Inoltre, John Fenner e la ragazza sembrano essersi volatilizzati dalla faccia della terra. A questo punto Hazeldean, spronato da Kendall a non intralciare le indagini e ad essere d'aiuto, ha un'idea: sulla mensola del caminetto c'era pure una cartolina della città di Boulogne, in Francia. Può essere che zio e nipote si siano recati laggiù per qualche oscuro motivo? Nemmeno il tempo di pensarlo e il giovane giornalista ha già raggiunto i bastioni che circondano la città vecchia, la Haute-Ville. Laggiù, tra strani venditori di stoffe e pensioni rintanate all'ombra delle mura, si trova forse la soluzione del crimine di Haven House? Oppure la chiave giace in qualche altro posto, e mille miglia di distanza e immerso in un passato dal quale sta cercando prepotentemente di risalire? Tra fughe rocambolesche, incontri con personaggi eccentrici, scontri e tranelli tesi da amici e nemici, sarà Kendall a tessere le fila di una verità che affonda le radici in una spiacevole esperienza per i sette cadaveri che hanno trovato la morte a Haven House.

Old postcard of Boulogne-sur-Mer, raffigurante la Città
Vecchia dentro i bastioni
Nell'introduzione qui sopra, ho accennato al fatto che alcuni lettori abbiano espresso un giudizio negativo nei confronti di "La Casa dei Sette Cadaveri". Forse sarebbe stato meglio che avessi specificato come quasi tutti si sono lamentati di come la sua storia è stata tratteggiata, al pari dei responsi sulla sua opera in generale. Appartenendo alla Golden Age, infatti, la narrativa di Farjeon dovrebbe essere più convenzionale dal punto di vista della forma stilistica e meno da quello dei contenuti, a detta dei suoi detrattori; senza portare con sé quegli elementi stilistici che dovrebbero essere relegati al passato, in favore di altri più innovativi e quindi migliori. Sono tutte cose che ho già spiegato nella recensione di "Sotto la Neve", ma ve le riassumo qui in breve: alcuni hanno lamentato una gravissima carenza di fair play dal punto di vista dell'enigma, altri il fatto che le trame dei suoi romanzi del mistero non siano focalizzate ed equilibrate a dovere, dal momento che si perdono in digressioni inutili oppure lasciano presagire altissime premesse che poi, immancabilmente, vengono deluse. Altri ancora sono convinti che i personaggi siano scialbi, oppure che il ritmo dell'azione non riesca mai ad ingranare la seconda marcia. Insomma, se dovessimo basarci solo su questi giudizi, probabilmente Farjeon dovrebbe essere cancellato dalla faccia della terra a causa del suo scarso talento. "Simpatici", "carini", "decisamente meno impeccabili" di altri, "resta un autore dai buoni propositi difficilmente mantenuti": sono questi i responsi che ricorrono maggiormente, quando si cerca qualche opinione sull'opera di Farjeon e, quindi, pure su "La Casa dei Sette Cadaveri". Eppure, è proprio così che stanno le cose? Voglio dire, non sarà che forse l'appassionato lettore di crime novels tradizionali è un po' troppo esigente, abituato com'è a leggere spesso grandi capolavori? Il paragone, a mio modesto parere, potrebbe generare reazioni spropositate. Se ti trovi davanti a un mystery con un treno bloccato dalla neve, la mente corre subito ad "Assassinio sull'Orient-Express" di Agatha Christie; e come si fa a reggere e vincere una sfida con quest'ultimo? La cosa migliore, secondo me, sarebbe quella di godere della storia senza avere l'intenzione di fare alcun accostamento e poi, alla fine della lettura, giudicare se il libro in sé ci è piaciuto o meno. Se a quel punto il responso è negativo perché dettato dal gusto personale, lì è lecito fare una bocciatura; ma se c'è qualcosa da salvare, in tutto quanto, è giusto che a Cesare venga dato ciò che è di Cesare.

Pertanto, a mio giudizio, con l'opera di Farjeon bisognerebbe avere l'onestà intellettuale di accettare come certi aspetti dei suoi libri siano stati trattati molto bene e riconoscerlo. Certo, pur appartenendo alla Golden Age questi ultimi non sono esenti da difetti; però non riesco a comprendere come possa esistere questo accanimento contro di loro. Tanto più perché la critica del tempo e il pubblico in generale ha spesso apprezzato i suoi sforzi. Non solo H.R.F. Keating, ma anche Dorothy L. Sayers (conosciuta per essere spietata nei suoi giudizi pure con gli amici e i colleghi del Detection Club) ha espresso ammirazione nei suoi confronti per l'attenzione data agli ambienti, la leggerezza narrativa, la dolcezza nel saper modellare intrecci e personaggi; per non parlare poi di Curtis Evans. E se non fosse stato abile nel suo mestiere, perché l'autore avrebbe pubblicato quasi ottanta romanzi? Il suo editore non gli avrebbe permesso di farlo, se fossero stati troppo scadenti, e il pubblico li avrebbe rigettati se non fossero stati di suo gradimento. Inoltre, nel 2014 proprio la ripubblicazione di "Sotto la Neve" ha generato un piccolo caso editoriale in Inghilterra, dove tale volume si è posizionato in alto nella classifica dei bestseller. Sarà un caso, oppure la narrativa di Farjeon vale qualcosa? Pure altri titoli che sono seguiti a questo piccolo exploit si sono venduti bene (non solo all'estero, ma pure in Italia), quindi forse i giudizi negativi che si leggono in rete sono dettati da mero gusto personale. E se così fosse, allora non è giusto bollare l'opera di questo giallista come scadente. Io stesso mi sono impegnato a riabilitarlo, in qualche modo. Già con la recensione di "Sotto la Neve" ho provato a sottolineare quali siano i lati positivi (nonostante restino quelli negativi) di quello straordinario romanzo del mistero, e lo stesso farò con "La Casa dei Sette Cadaveri". Indubbiamente la trama non è un perfetto meccanismo ad orologeria, come in un giallo di John Dickson Carr, ma ciò non vuol significare che l'enigma sia tutto all'interno della classica crime story: l'ho detto cento volte, ma a mio sindacabilissimo parere esso è importante tanto quanto gli altri elementi della storia (personaggi, ambientazione, stile e atmosfera generale). Il bello sta nel lasciarsi irretire dalla narrazione del caso, non soltanto nel mistero duro e puro: c'è molto di più in un giallo di quanto si pensi a prima vista e "La Casa dei Sette Cadaveri" lo dimostra.
A View from the Heights, Walter Spies, 1934,
raffigurante un'isola tropicale simile a quella
del romanzo
Allo stesso modo di come era stato per "Sotto la Neve", credo che il punto forte del romanzo analizzato oggi sia la sua atmosfera, la quale lo rende molto strano e difficile da classificare all'interno di un ipotetico schedario del genere giallo. Esso infatti dà vita a vicende immerse in un'aura bizzarra, come evocate dentro un sogno i cui contorni si disperdono fino a scomparire. Non esiste un vero inizio, dal momento che il mistero affonda le proprie radici in un passato che allunga le dita nell'arco di anni e Ted Lyte si imbatte in cadaveri che sono sconosciuti allo stesso lettore (pp. 8-11, 25-27); però non esiste nemmeno una fine intesa nel senso più stretto del termine, se non viene considerato il brevissimo paragrafo con cui si conclude il libro (capp. 25-27). È come se noi assistessimo a un lungo racconto onirico, magari nato dalla mente di Lyte, di Hazeldean oppure di Kendall e fossimo spettatori passivi (pp. 29-31, 34, 37, 40, cap. 6, 73-74, 78-81, 87, 90-91, 95-96, 114, 123, 125-126, 141-142, 172, 186-187, 197-198, 205-206, 217); cosa tra l'altro sottolineata dal fatto che non ci vengono forniti indizi veri e propri su cui lavorare per riuscire a scoprire da noi la verità. Qui non abbiamo un enigma inteso come nel tradizionale senso che ad esso veniva attribuito, con tanto di struttura logica e svolgimento serrato, quanto una serie di vicende e azioni che saltano da un momento all'altro senza che venga rispettata una sequenza rigorosa: iniziamo con la scoperta dei corpi e dei primi rilevamenti, poi seguiamo Hazeldean salpare alla volta di Boulogne e laggiù ci perdiamo in un racconto dove cospirazioni e melodramma dominano la scena, per tornare a Benwick dall'ispettore e i suoi aiutanti intenti a mettere in pratica un genere di indagine simile a quella che ha reso famoso Freeman Wills Crofts, con tanto di tabelle orarie; per concludere con una tappa a Boulogne dove il giornalista e Kendall mettono insieme ciò che sanno e riescono a risolvere il mistero. Pertanto, "La Casa dei Sette Cadaveri" rappresenta ancora una volta come Farjeon interpretasse la crime story: ovvero, un miscuglio tra thriller e pura detection, dove la cosa importante non è tanto CHI abbia commesso il/i delitto/i, ma piuttosto COME e PER QUALE MOTIVO si sia reso necessario agire in tal modo. Personalmente credo che questo punto di vista sia intrigante: invece di limitarsi a nascondere al lettore il colpevole, l'autore lo spinge a domandarsi molto di più sui retroscena dell'omicidio, mettendo in risalto i moventi e quanto essi possano celare. In "Sotto la Neve" era accaduta la stessa identica cosa: il colpevole era stato pescato quasi a caso, ma ciò che aveva condotto all'atto di violenza aveva costituito il vero fulcro del racconto. Quindi, che dire a coloro i quali si sono lamentati dell'enigma? Che hanno ragione a considerarlo quantomeno insolito e particolare, ma non nell'affermare che esso sia indigesto: Farjeon intrattiene per tutto il tempo, pur rivelandoci l'assassino praticamente a metà libro, perché induce il lettore a non abbassare la guardia e a interrogarsi su cosa si nasconda dietro la morte di ben sette persone.

E come lo fa? In un modo che trovo sia sempre più la risposta giusta per ideare un crimine fittizio: cioè equilibrando quasi alla perfezione il tipo di indagine più classica con quella sensazionalistica, emozionale e istintiva caratteristica del thriller! Fa indagare i suoi due protagonisti (Kendall e Hazeldean) su fronti diversi, lontani l'uno dall'altro e con metodi che hanno poco in comune: il giornalista impulsivo e romantico, grazie al proprio spirito di osservazione e guidato da un colpo di testa suscitato dall'emozione che un quadro ha generato nel suo animo, raggiunge Boulogne dove lascia che siano la fiducia, la gentilezza, un modo di fare tanto cortese che non sfigurerebbe dentro un drammone vittoriano, a guidare le proprie azioni e a metterlo nei guai (Farjeon inserisce una vena avventurosa nei sui libri per dare ritmo al racconto); mentre l'ispettore gioca la propria partita a partire dalle armi che possiede oppure ha a disposizione (una mente analitica e un plotone di agenti ai propri ordini) per raccogliere prove indiziarie e seguire una pista sulla quale è sicuro di ottenere risultati, dal momento che riesce a toccare con mano ciò che disturba la sua ricostruzione degli eventi. Ai segni di pneumatici, ai fori di proiettile, alle palle da cricket e ai messaggi in punto di morte, Farjeon affianca impressioni, segnali premonitori, emozioni generate da corridoi bui e da paesaggi assolati. Io trovo assolutamente meraviglioso questo metodo; anche perché non bisogna trascurare che, in questo modo, l'autore tenta di accontentare un po' tutti i lettori, sia quelli che prediligono un'indagine analitica sia quelli che desiderano provare qualche brivido di terrore in più. Il fatto che riesca o meno ad equilibrare il tutto è dettato dal gusto personale e non voglio sindacare oltre. Resta il fatto, comunque, che chi si avvicina all'opera di Farjeon, a mio parere non deve aspettarsi indagini serrate, esami scientifici oppure interrogatori e rilevazioni specifiche sulla scena del crimine; quanto storie dove bisogna lasciarsi un po' trasportare al largo, in balia delle maree del tempo e dello spazio, senza pretendere di seguire una rotta prestabilita: qui sono l'avventura e l'intrigante atmosfera sognante, gli aspetti suggestivi ed ingentiliti dei personaggi e la leggerezza della narrazione di fondo, al limite dell'inconsistenza, ad occupare le vicende riguardanti la sorte dei sette cadaveri di Haven House. Farjeon scrive per i sognatori e i romantici come il sottoscritto, e forse è per questo che amo molto le sue storie. Bisogna cogliere il meglio da esse, pur senza dimenticare di sottolineare i difetti che di tanto in tanto emergono nel corso della lettura, ed evitare di dare giudizi troppo affrettati e negativi alla sua opera.

Joseph Jefferson Farjeon, nato nel 1883 e
morto nel 1955
Alla pari dei suoi gialli, Joseph Jefferson Farjeon fu un personaggio insolito per il suo tempo. Nato nel 1883 a Londra, in una famiglia in cui la cultura era di casa (suo padre Benjamin Leopold fu un importante romanziere, sua madre Maggie fu figlia di un noto attore dell'epoca, i fratelli Harry, Eleanor ed Herbert rispettivamente un compositore, un'autrice di libri per bambini e un critico teatrale), studiò in città fino al 1910, quando iniziò a lavorare per la Amalgamated Press, una casa editrice specializzata in riviste umoristiche. Per dieci anni mantenne l'impiego, finché non riuscì a pubblicare il suo primo libro, "The Master Criminal" del 1924. Uomo schivo e mite, "Joe" (come lo conoscevano gli amici) iniziò così la sua carriera di esponente di pregio della Golden Age del giallo anglosassone, benché declinata al thriller piuttosto che al tradizionale mystery deduttivo. Il suo marchio distintivo era l'originalità, tanto che non si fece frenare dalla prolificità (pubblicò circa ottanta volumi, a volte usando lo pseudonimo di Anthony Swift) e, in barba al cliché che vede la produzione forsennata di romanzi come sinonimo di mediocrità, riuscì addirittura a stabilire un ottimo rapporto con la critica (oltre agli autori sopra citati, venne elogiato anche dal drammaturgo americano Paul Wilstach e dallo studioso William Lyon Phelps). Vegetariano e pacifista (il suo "Death of a World" è un'appassionata protesta contro la corsa al riarmo dopo la Seconda Guerra Mondiale), Farjeon si distinse nella moltitudine di scribacchini di mysteries sensazionalistici per la scrittura ingentilita e legata al proprio background familiare. Infatti, oltre ad essere stato un appassionato fotografo e disegnatore di animali buffi (buffi perché li disegnava lui, beninteso), fu sempre molto interessato agli umili; interesse che ereditò da suo padre, al punto di diventare un empatico sostenitore della povera gente, la quale spesso ottiene una rivalsa all'interno dei suoi romanzi. Ad esempio, in alcuni di essi il protagonista è Ben, uno strano vagabondo che risolve casi misteriosi, alla maniera di un prosaico emulo del colto investigatore dilettante della tradizione classica, il quale vide evolvere la propria personalità e diventò uno dei più improbabili detective della sua era. Lo stesso Ben, per giunta, apparve nell'opera più ricordata di Farjeon: l'adattamento a sceneggiatura per Hitchcock della piece teatrale "Numero diciassette". Quest'ultima gli permise di ottenere grande popolarità su entrambe le sponde dell'Atlantico, oltre da aprirgli le porte della collana Collins Crime Club fino al 1955, quando Farjeon morì di cancro a Hove, nel Sussex.

Per allora, l'autore aveva dato alle stampe numerosi e diversi romanzi: tra i più famosi, ricordiamo "The Windmill Mystery" (1934), ambientato presso un sinistro mulino a vento e dedicato alla memoria della madre; "Holiday Express" (1935), che sfrutta il classico delitto in treno per esplorare la figura del giovane ragazzo protagonista; "Thirteen Guests" (1936), in cui avviene un delitto in una casa di campagna durante una tipica festa; "End of an Author" o "Death in the Inkwell" (1938), per il quale Farjeon trasse spunto dalla sua stessa esperienza, in modo da tracciare un complesso caso in cui uno scrittore di thriller e la sua segretaria corrono pericoli di ogni sorta; "The Judge Sums" (1942), in cui l'autore si cimenta nel giallo giudiziario mescolandolo a un caso reale; e "Gli Omicidi della Z", dove ci sono sì più omicidi, ma sullo stile della catena da serial killer; oltre ai già citati romanzi su Ben (come "Ben on the Job" del 1952) e "Death of a World". Ognuno di questi libri si distingue per stile, ambientazione e personaggi; e "La Casa dei Sette Cadaveri" non fa eccezione. Sfido chiunque a dire che non sia stato un piacere seguire le vicende raccontate capitolo dopo capitolo, partendo dall'inizio sorprendente fino all'altrettanto straordinario finale, calate in un'atmosfera resa magnificamente e dove la tensione non viene mai a mancare. Le premesse non vengono deluse, se si parte con l'idea di affrontare un racconto dove l'enigma ha una struttura poco dettata dal mero raziocinio: poesia e romanticismo dominano sui fatti tratteggiati, dove spesso e volentieri ci vengono presentate scene un po' desolate ma affascinanti. La corsa attraverso il giardino di Haven House mentre squilla l'avvisatore acustico del telefono, l'introduzione illegale di Ted Lyte nella casa con tutto il carico emotivo che essa comporta, l'arrivo di Hazeldean a Boulogne e l'intenso incontro con Dora Fenner, i continui flashback con cui l'autore permette a Kendall di ricostruire ciò che è accaduto in passato; ogni cosa è stata creata per caricare di sentimento la lettura e generare qualche tipo di emozione, che sia piacevole oppure no. Tutto è come cosparso di un leggerissimo velo di polvere, quasi Farjeon avesse avuto intenzione di evocare incantevoli scene appartenenti a un tempo trapassato già nel 1939 usando il proprio stile: la vita alla pensione di Madame Paula riecheggia ricordi del romanzo vittoriano, come pure l'interazione piena di affetto e galanteria tra Hazeldean e Dora Fenner.

Copertina dell'edizione inglese pubblicata
dalla British Library Crime Classics
È come se i fatti fossero stati cristallizzati nell'ambra, in una 
nostalgica "sospensione temporale" che permette di calarci in un contesto antiquato (con tanto di storia d'amore d'altri tempi, pp. 57, 65-67, 131-134, 143-144, 215-219) per assistere a vicende di straordinaria quotidianità od ordinaria eccezionalità, pur restando nel nostro presente. Ci muoviamo assieme ai personaggi in ambientazioni rese in modo dettagliato e vivido, quali case sulle scogliere, baie in cui attraccano barche, cittadine sulla costa e antiche cittadelle come la Haute-Ville di Boulogne (mi viene sempre voglia di partire e visitarla sul serio), con bastioni assolati e immersi nel verde degli alberi che scuotono le loro chiome al vento, isole tropicali inospitali e popolate di pinguini (pp. 8-12, 24-25, 30, 37, 40, 45, 55-56, 59-64, 72-74, 104-106, 123, 158, 170-171, 191-192, 199, 217, 219-220). E lo facciamo sempre dentro un racconto piacevole, nel quale si alternano l'aura di tranquillità con quella del pericolo e di sensazionali scoperte, in cui non manca il brio di ironici personaggi immersi in situazioni avventurose (pp. 15-16, 23, 36, 47, 71, 74-75, 86-87, 160-161, 165, 167-170). L'intreccio è di sicuro complesso ed ingegnoso, ma non risulta particolarmente sgradevole perché inserito in un contesto dal ritmo sostenuto, lento al punto giusto per poter assaporare e comprendere fino in fondo ogni cosa, mentre gli indizi vengono rivelati poco a poco. In fondo, la narrativa di Farjeon (come in questo "La Casa dei Sette Cadaveri") è simile a quella di una favola venata da un pizzico di mistero, nella quale si possono trovare gaglioffi e antagonisti che mettono in pericolo gli eroi, oggetti che nascondono un passato burrascoso e addirittura spettri evocati dalla mente umana. Tuttavia, basate bene: questo non significa che l'autore abbia sfruttato soltanto il lato emozionale del genere giallo, ma ha messo insieme tradizione e psicologia senza calcare troppo la mano sul melodramma; si è limitato alle cinquanta pagine della digressione di Hazeldean a Boulogne per farlo, mentre per il resto si è affidato all'indagine più pragmatica di Kendall. Al cuore dello stile dell'autore c'è il confronto della solidità con l'impalpabile e il fantastico, in cui avventure divertenti si affiancano ad oscure minacce che emergono dal passato. Questi è un fattore che gioca un ruolo non indifferente all'interno della storia: esso si affaccia tra le righe ad ogni piè sospinto, inesorabile, impossibile da sradicare, eterno e inscindibile dalla tradizione. Ed influenza l'essenza dei personaggi, i quali agiscono proprio come se fossero guidati dalle scoperte che fanno su quanto avvenuto in precedenza. Anche loro, proprio come tutto il resto, appaiono un po' sfuocati, con contorni poco nitidi, ma credo che sia una cosa voluta dall'autore per sottolineare questa aura di irrealtà.

Certo, essendo pochi non è difficile indovinare il colpevole; però li ho trovati perlopiù vividi e simpatici: Hazeldean è il ritratto del giovanotto un po' testa calda che si innamora per un colpo di fulmine e fa di tutto per raggiungere i suoi scopi, che siano di carattere sentimentale oppure no (pp. 46-47); il dottor John Ferrer possiede l'aspetto del professore un po' stralunato e nervoso, così come Madame Paula e la sua servitù incarnano lo stereotipo che il romanzo vittoriano ci ha consegnato. Interessanti sono stati i ritratti (purtroppo in breve) delle sette vittime, alcune delle quali avrebbero meritato un po' più di risalto all'interno di un romanzo... se solo non fossero state ammazzate (da notare Jane, l'unica donna del gruppo, che veste come un uomo e non vuole condividere la sua vita privata con gli altri. Forse un segno di velata omosessualità? Se così fosse, sarebbe importante visto l'anno di uscita del libro). Anche Kendall e Wade, con i loro battibecchi e l'interazione reciproca piena di riferimenti alla crime fiction (pp. 38, 167), sono riusciti ad emergere dal gruppo, assieme ad Hazeldean: uno è logico e astuto, l'altro un po' sempliciotto ma capace di cogliere le falle nei ragionamenti del suo superiore e di suggerire nuove piste da seguire. Chi mi ha colpito di più, tuttavia, è stata Dora Fenner. Tratteggiata come una ragazza un po' anonima e forse troppo scostante, non darebbe l'idea di avere chissà quali caratteristiche particolari, vero? E invece lascia emergere una forte insicurezza che le dona spessore (pp. 72-93, 204-205). Spesso dice "sono una sciocca", si scusa con Hazeldean a più riprese, fa confusione e si rimprovera da sola, non sopporta litigare col prossime e si sente sempre in colpa, anche quando è dalla parte della ragione: in questo atteggiamento ho rivisto molto di me stesso e per questo l'ho sentita vicina al mio stato d'essere. Non sottovalutatela. E non sottovalutate "La Casa dei Sette Cadaveri" in generale, nonostante i pregiudizi che potete nutrire nei suoi confronti. Come dicevo, se riuscite a non caricarvi troppo di aspettative sul fair play del mistero, questa sarà una lettura gradevole che non dimenticherete presto. Farjeon è uno scrittore straordinario, capace di irretire e di ammaliare come il Pifferaio di Hamelin, giocando con la fantasia e intrecciandola con meraviglia e immaginazione per dare vita a indagini insolite e diverse da quelle della tradizione.

N.B. Ho notato che questo romanzo viene dato come "inedito" ma non è così. Il preciso Pietro De Palma ha sottolineato, nella sua recensione al titolo, come Aldo Martello Editore lo abbia pubblicato sotto il titoli di "La palla da cricket" negli anni '50, nei Gialli del Veliero.


Link a La casa dei sette cadaveri su Libraccio

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venerdì 12 marzo 2021

64 - "I Delitti della Vedova Rossa" ("The Red Widow Murders", 1935) di Carter Dickson

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore
Dopo mesi e mesi di temperature rigide e giornate uggiose o invernali, alla fine siamo giunti a marzo e a quella che si preannuncia essere un'altra primavera molto particolare per tutti noi. Già quella dello scorso anno, infatti, è stata unica nel suo genere, dal momento che ci ha visto nientemeno che rinchiusi in casa, per proteggerci dal contagio della pandemia da Coronavirus. Dopo tanto tempo, la situazione si è perlomeno raddrizzata un po', visto che sono iniziate le somministrazioni di alcuni vaccini fortunatamente sviluppati con infaticabile determinazione dagli scienziati di tutto il mondo; però la luce in fondo al tunnel appare ancora lontana e temo che la situazione resterà atipica per un bel po'. Pertanto, ci dobbiamo accontentare di quel poco che abbiamo a disposizione: giornate che pian piano si allungano e una primavera che, come dicevo, appare strana ma allo stesso tempo come una fonte di fiducia. In cuor mio, mi auguro che essa ci permetta almeno di riprendere quei contatti sociali che sono mancati negli ultimi dodici mesi; io stesso, durante la pandemia, ho rivalutato i rapporti con persone che prima conoscevo e ne ho creati altri che spero con forza possano diventare più solidi una volta allentate le misure di contenimento del virus. Quindi, nonostante la persistenza di questo periodaccio, spero che le cose possano migliorare. Da parte mia, continuerò a recensire romanzi gialli per voi e per me stesso; però mettendo da parte quelle letture che sono confinate all'autunno e all'inverno. Con un graduale passaggio, inizierò da romanzi popolati dalle scroscianti piogge di marzo per arrivare a quelli più assolati e vacanzieri dei mesi estivi (anche se non so quanto potremmo goderci le ferie anche quest'anno). Se non potremmo farlo "dal vivo", mettetela così: almeno vi farò viaggiare con la mente e sognare un po' con me. E per iniziare questa nuova fase del viaggio nelle recensioni di Three-a-Penny, ho deciso di tornare a una vecchia conoscenza di voi lettori; a quel John Dickson Carr che vi avevo già presentato molto tempo fa, quando analizzai il suo terzo romanzo con protagonista il giudice istruttore Henri Bencolin, "L'Arte di Uccidere".

Se ben ricordate, lo avevo recensito in occasione della riedizione in lingua inglese del primo giallo in assoluto che Carr pubblicò nella sua lunga carriera, quel "Il Mostro del Plenilunio" che in Italia è stato pubblicato in forma ridotta soltanto nel Giallo Mondadori da edicola e andrebbe riproposto quanto prima per noi lettori. In quell'occasione, avevo fatto un lungo excursus sul travaglio editoriale che era servito perché esso potesse tornare a vedere la luce in libreria; ebbene arrivati a questo punto, grazie agli aggiornamenti mensili che preparo ogni mese, saprete che la British Library ha rimesso a disposizione del suo bacino di lettori tutte le quattro opere prime del Maestro del Delitto della Camera Chiusa. Si è trattato di un'operazione splendida, che come dico sarebbe da mettere in atto pure nel nostro Paese; non solo per l'ammirazione che moltissimi di noi appassionati nutre per John Dickson Carr e la sua opera complessiva, ma anche per il semplice fatto che romanzi del mistero di tale caratura dovrebbero essere a disposizione di chiunque ne sia attratto oppure incuriosito. Ma non sono io a decidere queste cose (anche se mi piacerebbe moltissimo ritradurre l'esordio del Maestro per una collana prestigiosa come Polillo), per cui intanto ci dobbiamo accontentare di ciò che ci è stato dato. Proprio Polillo/Rusconi, tuttavia, ha in programma di ripubblicare un titolo di Carr che già in passato era apparso nei suoi Bassotti ed è ormai esaurito, se non nei siti di remainders o su piattaforme di commercio online: "I Delitti della Vedova Rossa" (2011), firmato sotto le pseudonimo di Carter Dickson. Ambientato in una Londra tetra e marzolina, avvolta dalla nebbia nonché sottoposta a oscuri presagi e leggende legate al Terrore francese del post-Rivoluzione, mi è sembrato la lettura ideale per aprire il nuovo corso di Three-a-Penny; per cui, ecco qui i miei pensieri su questo giallo strano e terrorizzante, nel quale l'autore ci mette davanti a una domanda tanto lapidaria quanto inquietante: "può una stanza uccidere?".

Una foto di Londra durante la Great Smog, nel dicembre 1952
raffigurante un paesaggio che ricorda la nebbia che avvolge
la città nel romanzo
La camera in questione è la "Vedova Rossa" del titolo, chiusa da moltissimi anni e avvolta da un'aura malsana causata da una leggenda che vedrebbe spacciato chiunque osasse restare al suo interno da solo per troppo tempo. Tra l'inizio e la fine del 1800, infatti, essa ha già causato la morte violenta di almeno quattro persone, tutte imparentate tra loro oppure legate da rapporti di amicizia, ritrovate con il volto annerito e orribili ghigni stampati in volto, e rattrappite sul pavimento dagli spasmi causati da un veleno che non è stato trovato da nessuna parte. Già una volta, la Vedova Rossa è stata smontata pezzo per pezzo, assieme ai mobili che contiene, soffitto e pavimento compresi, ma nessuno è stato capace di scoprire quale diabolico marchingegno abbia causato la morte di Charles Brixham padre, di sua figlia Marie (deceduta il giorno prima delle nozze), del vecchio amico di famiglia Martin Longueval e del nonno dell'attuale Lord Mantling, Alan. Così, la camera è stata sigillata per impedirle di portare ancora morte e tragedia. Tuttavia, adesso Casa Mantling sta per essere abbattuta per fare posto a un nuovo centro residenziale a Mayfair e l'attuale Lord vuole scoprire quale sia il segreto della Vedova Rossa a tutti i costi. Pertanto, ha ideato un macchinoso e terrificante metodo per sincerarsi della verità: accompagnato dai familiari (suo fratello Guy, studioso della famigerata storia di famiglia; sua zia Isabel, la matrona della casa; la sorella Judith) e di alcuni amici e conoscenti (l'avventuriero Robert Carstairs, l'arredatore francese Martin Longueval Ravelle, l'artista Ralph Bender, lo psichiatra Eugene Arnold, il professore di letteratura Michael Tairlane, il direttore del British Museum Sir George Anstruther e il celebre Henry Merrivale, il Vecchio del Ministero della Guerra), aprirà nuovamente la stanza. Poi, ognuno degli ospiti convitati alla sua tavola dovrà estrarre a sorte una carta da gioco da un mazzo nuovo, e chi avrà il dubbio onore di pescare quella col valore più elevato dovrà trascorrere almeno due ore dentro la Vedova Rossa. Si tratta di una sfida da non prendere con cuore leggero: infatti, nonostante tutti quanti siano consapevoli che, se mai c'è stato una terribile trappola mortale dentro la stanza, dopo tanto tempo esse debba aver perso la propria letalità, è pur vero che la suggestione gioca brutti scherzi a chi non ha i nervi abbastanza saldi per resistere alla prova.

Inoltre, non bisogna trascurare un altro fatto molto importante ai fini del gioco a cui tutti quanti stanno per approcciarsi. I Mantling sono conosciuti in città per la loro fama di famiglia antichissima, ma ben pochi sanno che il primo individuo della casata è stato un reduce della Rivoluzione Francese e del Regime del Terrore che ne è seguito. Costui a un certo punto era come impazzito, forse influenzato dall'esperienza sul continente e dalla famiglia della moglie (quella dei boia della neonata Repubblica in terra francese), e da allora si era tramandata la diceria che tra i Mantling si aggirasse lo spettro della follia; intesa non tanto come tara mentale, ma quanto come eccentricità volta ad isolare dalla società gli individui da essa affetti. Ma adesso un cane e un pappagallo sono stati trucidati dentro la casa, e il sospetto che un maniaco omicida si aggiri per i suoi corridoi si è fatto pressante. Per cui, chi osi sfidare la Vedova Rossa corre il rischio di ritrovarsi pure in balìa di un degenerato. Lord Mantling tenta di minimizzare il pericolo, come suo fratello Guy il quale deride qualunque tipo di sospetto e crede che gli unici rischi possano derivare dalla credenza degli antichi rituali esoterici di cui è appassionato; eppure la vecchia Isabel non si sente per nulla tranquilla. Anche alcuni tra gli ospiti, come Anstruther, Tairlane e il perspicace H.M., temono possibili ripercussioni sui membri della famiglia; però quando il prescelto per la prova viene sorteggiato, le cose sembrano risolversi. Toccherà al giovane Bender sfidare la Vedova, e chi può mai voler fargli del male? Così, egli entra nella camera della morte mentre altri fanno la guardia all'unica porta dalla quale si può passare per uscire (la finestra della stanza, infatti, è sprangata con sbarre di ferro molto solide). Trascorrono le ore, e ad intervalli regolari la voce dell'artista risuona dietro il battente serrato... fino ad arrivare alla mezzanotte, quando la prova ha termine. Sembra che tutto sia andato per il verso giusto? All'apparenza... Infatti, non appena l'uscio viene riaperto, il cadavere di Bender fa la sua comparsa accanto al letto a baldacchino all'interno della Vedova Rossa: la camera ha avuto ancora una volta la meglio sul suo occupante. Ciò che lascia stupefatti tutti quanti, però, è ciò che il corpo rivela durante l'autopsia: il giovane è morto da almeno un'ora. Allora, chi rispondeva al suo posto alle chiamate periodiche? Questo è solo uno degli interrogativi a cui il Vecchio dovrà trovare risposta, nel corso di un'indagine allucinante e spaventosa... prima che qualcun altro venga eliminato dalla rosa dei sospetti con brutalità.

Un ventriloquo assieme al suo pupazzo, 1920
circa
Se ricordate un po' quello che avevo scritto nella recensione di "L'Arte di Uccidere", probabilmente ritroverete pure in "I Delitti della Vedova Rossa" certi aspetti che avevo trattato allora. Infatti, penso che la narrativa di Dickson/Carr si possa riassumere in alcuni punti specifici, i quali prenderò in esame man mano che mi imbatterò in essi. Però, come prima cosa, voglio dire di non essere stato del tutto convinto da questo romanzo. Certo, questo non significa che esso sia scadente; anzi, alcuni elementi sono molto suggestivi e riescono ad impressionare favorevolmente il lettore. Però, qualcosa non ha funzionato del tutto, forse per il fatto che "I Delitti della Vedova Rossa" è comunque uno tra i primi gialli della serie di Merrivale e, quindi, le capacità di Carr non erano ancora nel pieno delle loro forze. In ogni caso, ci sono notevoli miglioramenti rispetto all'altro giallo dell'autore che ho recensito. Ad esempio, l'atmosfera che si respira leggendo è gotica ma non grottesca ed esagerata, quindi meno pesante al punto di diventare opprimente che in "L'Arte di Uccidere"; nonostante permanga comunque l'eredità che l'autore raccolse dai racconti di G.K. Chesterton con protagonista Padre Brown (nei quali era presente una sorta di incombente irrequietezza o timore) e dai romanzi di cappa e spada "alla Dumas", dove una parte importante è occupata da fatti pittoreschi. Carr mise insieme questo tipo di letteratura con la narrativa del mistero, dando vita a storie tratteggiata con uno stile unico ed inimitabile, adornato di scenari inquietanti i quali spesso vengono collegati ad eventi funesti (in questo caso, la Camera della Vedova Rossa si rifà al Regno del Terrore francese) e di descrizioni che trasudano presagi densi e gravosi i quali sembrano schiacciare i personaggi coinvolti negli omicidi terrificanti che egli ha ideato, nel quale inoltre si mescolano tantissimi temi. In seguito, Carr sarebbe riuscito ad alleggerire ancora di più i toni di quanto fatto in questo libro, fino a trovare l'equilibrio giusto senza dover ricorrere a inseguimenti nella notte o a minacce fin troppo spaventose; nel caso di "I Delitti della Vedova Rossa", però, ricorre ancora a scenari notturni e a scene in cui il melodramma e il soprannaturale sono un po' eccessivi per poter affermare che sia stato al suo meglio.

Qui dominano di nuovo scenari lussuosi e decadenti di case di famiglie aristocratiche sull'orlo del baratro, nei quali si percepisce con chiarezza un'aura marcescente che non lascia presagire nulla di buono; anzi, accentua una sorta di deviazione dalla normalità che pare riflettere la situazione psicologica del gruppo di esseri umani che li popolano (pp. 8, 11-15, 52-53, 66-67, 149, 175, 203-205, 210-211, 253, 268, 272-275, 281-282, 286, 288-289, 296-298, 301). Non siamo ai livelli di quelle della saga di Bencolin, ma comunque pure in "I Delitti della Vedova Rossa" non ci appare strano che succedano vicende di sangue, al debole chiarore della luce delle candele e dei caminetti quasi spenti, dal momento che è come se l'autore ci avesse proiettato indietro nel passato e immerso in una storia ambientata tra la fine del Settecento e Ottocento: ciò che accade esprime un modo di vivere che mescola la raffinatezza snobistica dell'epoca dei proprietari terrieri e, allo stesso tempo, getta una luce potente su quanto in quel momento storico quegli stessi agissero da semi barbari, assetati di odii e vendette per amori tormentati. La stessa Londra di "I Delitti della Vedova Rossa", come quella di "L'Arte di Uccidere", è talmente nebbiosa e misteriosa e in qualche modo impersonale che potrebbe nascondere fantasmi che emergono dal vittorianesimo come automobili dei primi del Novecento; turba il lettore il quale non riesce a farsi un'idea chiara del luogo in cui si sta svolgendo il racconto, simile a un incubo ad occhi aperti in cui avvengono fatti inspiegabili. L'invito rivolto a Tairlane, passante semi disinteressato, di unirsi al circolo di giocatori intenzionati a sfatare il mito della Vedova, con il suo carico di incertezza e di mistero sottolineato dall'aspetto deserto e solitario di Curzon Street; i continui riferimenti al pericolo che la Camera può scatenare sui suoi occupanti, nonostante l'aria dimessa e quieta; i numerosi momenti in cui Casa Mantling ci viene presentata come mezza disabitata e popolata dagli spettri del passato: tutto viene caricato di una forte emozione che si divide tra il brivido di eccitazione e quello dello sgomento che paralizza. È in questo senso che Carr ha mantenuto un'espressione dei fatti un po' sopra le righe; per il resto, come dicevo, la tensione e la cappa pesante di dramma che avevamo trovato in "L'Arte di Uccidere" viene almeno un po' alleggerita. In quale modo? Ebbene, in "I Delitti della Vedova Rossa" l'autore riesce a trovare una valvola di sfogo a questa sua tendenza ad esagerare nell'essere pittoresco grazie all'uso della Storia, intesa con l'iniziale maiuscola e uno tra i suoi interessi principali (come dimostreranno i gialli storici che produrrà più in là con gli anni).

Attraverso di essa, infatti, Carr sfrutta la capacità di descrivere scene raccapriccianti calandole in un passato che pare ossessionare i personaggi, ma senza renderle il centro della vicenda. Mi spiego meglio. Il capitolo 9 è un chiaro esempio di ciò che intendo, dal momento che narra una sorta di lunghissimo flashback nel quale ci viene raccontato con doverosi dettagli veritieri quanto dovesse essere terribile vivere nella Francia post Rivoluzione, nel Regno del Terrore. In esso, l'autore si diverte a scendere in particolari spaventosi, ad evocare immagini di gente decapitata in nome della Libertà e di un ideale che non era riuscito a manifestarsi con i dovuti contenimenti, a spiegare quanto Charles Brixham abbia patito e sia rimasto profondamente segnato da quanto ha visto coi propri occhi. Carr narra del suo incontro con la bella Marie-Hortense Sanson, del suo sbigottimento nello scoprire che i membri della famiglia di lei erano incaricati da secoli del triste ruolo di boia, della situazione insopportabile che la vecchia Marthe si era impegnata a creare per farlo impazzire; e fa tutto questo senza lesinare nel raccontare quanto di più orribile dovrebbe essere accaduto nella realtà dei fatti. Per il resto della storia, egli non si sofferma più di tanto su scenari paurosi e inquietanti, pur senza dimenticare di dare qualche tocco horror ad essa. Però nell'ideare la leggenda della Camera della Vedova ha lasciato libera la propria fantasia; in questo modo, ha trovato un adeguato compromesso alla propria inclinazione come narratore tra il "gotico" e il puro enigma tradizionale all'inglese. In sostanza, ha creato una sorta di miasma che parte dal passato e si propaga nel presente, influenzandolo ma non pregiudicandolo... O forse è così, in un certo senso? In molti, infatti, hanno lamentato come questa soluzione sia di poca efficacia e contribuisca soltanto a mostrare come egli fosse interessato a descrivere invece di intrattenere. In realtà, io non lo penso. Certo, Carr si diletta nel dilungarsi su fatti che magari sono inutili al fine della scoperta della verità sugli omicidi di Casa Mantling; ma sono convinto che senza di essi il mistero di "I Delitti della Vedova Rossa" non avrebbe avuto quella speciale aura tra il minaccioso e l'ipnotico. Essi sono parte integrante e necessaria di questo interessante romanzo, perché contribuiscono ad evocare l'atmosfera gelida degli ambienti in cui è calato il racconto e le tenebre pervase dall'orrore e dalla tensione in cui si muovono i personaggi. Sembra come di camminare in stati d'animo che non ci lasciano mai indifferenti. Ciò che convince meno e piazza "I Delitti della Vedova Rossa" sotto ad altri titoli dell'autore come "Le Tre Bare" e "Il Terrore che Mormora", a mio parere, riguarda l'enigma stesso.

John Dickson Carr, nato
nel 1906 e morto nel 1977
Questo è un peccato, dal momento che l'ingegnosità delle trame e il fascino per "l'impossibile che diventa realtà" sono sempre state caratteristiche innate di John Dickson Carr (o Carter Dickson, per usare lo pseudonimo con cui firmò i romanzi con Henry Merrivale), alla pari del concetto di voler "giocare una partita" col suo pubblico ad armi pari. La pretesa del rispetto del fair-play e la scommessa che poneva in ognuno dei suoi numerosi libri farebbero pensare che egli fosse nato in Inghilterra, la patria del giallo deduttivo; invece, la città che gli diede i natali fu l'americana 
Uniontown, in Pennsylvania. Laggiù, mentre suo padre aveva felicemente intrapreso la carriera di avvocato e pregustava una futura associazione col figlio, Carr iniziò invece il lungo percorso che lo avrebbe portato a diventare uno dei giallisti più famosi di tutti i tempi: dapprima, dimostrando una memoria formidabile con la recitazione di monologhi tratti da "Amleto", pagine di D'Artagnan, Sherlock Holmes e "Il Mago di Oz"; e poi attraverso la scrittura di racconti, pubblicati sul giornale scolastico dello Haverford College, dove esordì la figura del giudice istruttore Henri Bencolin di Parigi. Nel 1928, lo scarso rendimento scolastico spinse i suoi genitori a compiere la scelta estrema di allontanarlo dagli Stati Uniti in favore della Francia, dove avrebbe dovuto studiare alla Sorbonne. Il posto, tuttavia, non si addiceva a un giovane dalle idee conservatorie come lui e la vita da bohémien trovò una ferma opposizione da parte sua; eppure, l'ambiente si mostrò favorevole per dare il tocco finale al romanzo che stava scrivendo. Fu così che nacque "Il Mostro del Plenilunio", la versione ampliata e rivista di un lungo racconto che Carr aveva scritto ai tempi della scuola americana, "Grand Guignol", proprio con Bencolin quale personaggio principale. In esso, si possono notare le influenze che subì fin da bambino, quando si appassionò 
alla lettura grazie alle lunghe ore trascorse nella biblioteca del padre, a divorare i romanzi di cappa e spada scritti da Dumas, insieme alle avventure narrate da Stevenson e Poe, per poi passare ad Arthur Conan Doyle e soprattutto a G.K. Chesterton, il quale divenne una vera e propria ossessione per lui. Il modesto successo che arrise al protagonista di "Il Mostro del Plenilunio", rispetto ai successivi Fell e Merrivale, per qualche tempo costrinse Carr a tornare in America dai genitori; finché, nel 1930, durante una crociera, incontrò Clarice Cleaves, una ragazza di Bristol che poco dopo sarebbe diventata sua moglie.

È curioso come proprio "Il Mostro del Plenilunio" sia stato il tramite attraverso cui Carr e Clarice iniziarono a scambiarsi le prime confidenze: in "The Golden Age of Murder", infatti, Martin Edwards ha spiegato che, in seguito al loro primo incontro nella sala del parrucchiere di bordo, i due futuri sposi trascorsero una serata a ballare e chiacchierare del più e del meno, finché Carr non accennò al fatto che aveva scritto una detective novel e chiese a Clarice se le avrebbe fatto piacere leggerla. In realtà, la ragazza non nutriva un particolare interesse in indagini e assassini fittizi; eppure, non ebbe cuore di deludere le evidenti aspettative del suo nuovo amico ed accettò di dargli un responso su quel libro. In quel modo, tra i due scoccò la scintilla ed entro un paio d'anni si trasferirono definitivamente in Inghilterra, dove la novella signora Carr intendeva far nascere le sue figlie. Anche suo marito (che nel frattempo aveva deciso di abbandonare Bencolin in favore di altri due personaggi molto simili tra loro, il dottor Gideon Fell e l'avvocato Henry Merrivale) fu entusiasta della scelta: dopotutto, era la patria dei suoi idoli d'infanzia, Chesterton e Doyle (del quale in seguito fu co-autore della biografia ufficiale), e sembrava che laggiù fosse il posto ideale per scrivere gialli sullo stile tradizionale; senza contare il fatto che la Storia dell'Europa cui poteva attingere avrebbe fornito molto materiale per il tipo di libri che intendeva scrivere. Un'altra caratteristica dell'opera di Carr, infatti, è quella di affondare le proprie radici in miti e leggende molto antiche: ne sono un esempio le numerose citazioni che possiamo trovare all'interno di romanzi come "Il Terrore che Mormora", la cui trama ruota sul vampirismo, oppure i culti segreti, le maledizioni e la religione degli antichi Egizi, assieme ai più recenti racconti sul boia di Londra, Jack Ketch, citati in "L'Arte di Uccidere". Si tratta di argomenti che, proprio grazie alla loro aura di velato soprannaturale, si prestano ad essere interpretati e sfruttati in modo da fornire al lettore una base relativamente reale per un delitto immaginario, e che permisero a Carr di dare sfogo a un'insaziabile sete di ricerca storica. Questa passione emerge dalla lettura di alcuni romanzi giallo-storici, come "La Sposa di Newgate", "Il Diavolo Vestito di Velluto", "La Corte delle Streghe" (uno dei suoi capolavori) e l'ultimo suo giallo pubblicato nel 1972, qualche anno prima della morte: "Il Mistero di Muriel".

Copertina di una vecchia edizione di
"I Delitti della Vedova Rossa"
Tut
tavia, 
fu il Delitto l'argomento a cui Carr si sentì più legato (pp. 24, 59, 66, 98, 101-102, 106-108, 114, 135, 184-187, 191-196, 217-218, 223-226, 245-246, 256-257, 259-260, 265-268, 293-295); tanto che i suoi detectives soffrirono di una vera e propria ossessione nei confronti della Storia del Crimine: Bencolin, Merrivale e Fell, infatti, di volta in volta si fecero portavoce dei pensieri dell'autore, attraverso semplici citazioni (pure di casi reali, come avviene in "Occhiali Neri") ma anche con l'utilizzo di piccole "conferenze" sull'omicidio e la sua applicazione nei romanzi del mistero. In qualche modo, gli omicidi di Carr si ispirano sempre alla realtà per prendere forma nella finzione, e lo scrittore non deve sforzarsi di tradurre con troppo rigore i fatti concreti che lo circondano in materiale per i suoi libri, ma limitarsi a narrare una storia che, per quanto possa apparire a volte improbabile e con personaggi simili ai burattini del teatri, procuri divertimento al lettore. Un assunto che dimostra al meglio quale fosse la concezione di Carr riguardo il romanzo giallo: costruire vicende credibili in cui, tuttavia, non mancasse quel pizzico di irrealtà che li contraddistingue da mere cronache. Non per caso egli fu il primo americano ad essere ammesso nel Detection Club, grazie al sostegno di Dorothy L. Sayers e Anthony Berkeley; dopotutto, sono evidenti la comunione di interessi per il true crime e intenti a cui egli stesso e gli autori della Golden Age miravano. Nei suoi gialli, infatti, si possono ritrovare diversi elementi che rimandano alla crime story di quel periodo: a parte l'ambientazione di cui ho discusso sopra, i personaggi vedono un evolvere della propria situazione, di libro in libro, e possiedono caratteristiche particolari che li contraddistinguono dalla massa (gli investigatori sono bruschi e imponenti, onniscienti e sanguigni; gli antagonisti subdoli e intelligentissimi; i comprimari come Guy Mantling sono interessati ad argomenti insoliti o provengono da luoghi esotici, da cui traggono la loro mentalità particolare): sono eccentrici, quasi picareschi (pp. 232-233), con caratteristiche, manie e ossessioni oppure semplici interessi che comunque li imprimono nella memoria del lettore. Ad esempio la vecchia Isabel, con gli occhi tanto azzurri da sembrare bianchi e il racconto della sua infanzia segnata dalla morte violenta del padre, lascia il segno; allo stesso modo, Alan Mantling è un omone che fa curiose allusioni, pratica il ventriloquismo, è abituato alla vita violenta perché cacciatore e sembra come perseguitato dallo spettro della Vedova Rossa.

Guy è forse quello più inquietante nella famiglia Mantling: con una testa dalla forma strana, un paio di occhiali scuri che non toglie mai (nemmeno in casa) e un carattere stizzito, nervoso e decisamente asociale, è il candidato perfetto per il ruolo dell'assassino. Robert Carstairs e Martin Ravelle sono un po' meno caratterizzati e questo è un peccato, perché avrebbero meritato un po' più di spazio, come pure il personaggio del dottor Arnold e quella degli aiutanti dell'investigatore. La parte del leone, tuttavia, spetta proprio al Vecchio, a quell'H.M. che spesso viene raffigurato come goffo oppure ironico ma qui è adeguatamente astuto e riflessivo (nonostante gli sfugga un importante indizio che non dovrebbe passare inosservato). Proprio a questo proposito, arriviamo al punto dolente di "I Delitti della Vedova Rossa": il mistero vero e proprio. Solitamente, nella narrativa di Carr gli enigmi sono costruiti con una tecnica che li rende spettacolari, fuori dal comune; un po' alla maniera di quelli di Ellery Queen, come ha sottolineato Howard Haycraft. Si tratta di favole soprannaturali dalle soluzioni apparentemente incredibili, a volte tanto complesse da non permettere al lettore di riuscire a risolvere il mistero prima che l'autore ce lo sveli, in cui il finale lascia spiazzati e sorpresi. Pure in questo caso ciò avviene... ma in una forma meno potente di quanto ci si sarebbe aspettati. Insomma, non è del tutto all'altezza. Va benissimo lo stile con cui è tratteggiato (una volta Dorothy L. Sayers disse: "John Dickson Carr ci trasporta dal piccolo, artificiale mondo del comune intreccio poliziesco nell'oscurità minacciosa che sta al di fuoriÈ in grado di creare un'atmosfera con un aggettivo e di rendere un'immagine da una cancellata di ferro, un tavolo impolverato, una lampada a gas che spunta dalla nebbia. Può metterci in apprensione con un'illusione o deliziarci con un'allegra assurdità. Ogni frase ci dà un brivido di convinto piacere"), ma ciò che critico è il fatto che alla fin fine esso sia basato su una serie di coincidenze un po' campate per aria. Non entro nei dettagli per non spoilerare, ma diciamo che se non si fossero verificate certe circostanze (circostanze che tra l'altro hanno bisogno di una spiegazione molto complessa per essere capite fino in fondo) non esisterebbero i delitti della Vedova Rossa.

Ho avuto la sensazione che l'idea di fondo fosse più interessante di quanto poi si è espresso su carta. Di solito, i delitti migliori e più stupefacenti sono quelli che si basano su trucchi semplici che producono conseguenze impensabili; nel caso di quelli di "I Delitti della Vedova Rossa" accade in contrario: abbiamo premesse che ci fanno immaginare che la storia avrà uno svolgimento pazzesco (e così è in effetti, sia chiaro), le quali però si risolvono con una spiegazione della verità che lascia un po' con l'amaro in bocca. Si prova un po' di delusione nel pensare come sia stato più eccitante il percorso che ha poi portato alla soluzione, rispetto a quest'ultima. Quello che è mancato forse è stato il ritmo giusto nell'esposizione dei fatti, oltre al fatto che le prove non sono del tutto chiare da interpretare per il lettore e il movente si ricava da un'oscura legge inglese del tempo di Enrico VIII. Voglio dire, quando spiegate da Merrivale appaiono più che sufficienti, ma se ci si arrangia non è proprio la stessa cosa perché si rischia di confondersi e infilarsi in vicoli ciechi a ogni piè sospinto. Detto ciò, in ogni caso, i metodi attraverso cui i delitti vengono perpetrati sono strabilianti e molto buoni, perché sorprendono chi legge; e poi l'idea della stanza che uccide viene sviluppata con abilità. Per tirare le somme, quindi: quale è il mio verdetto su "I Delitti della Vedova Rossa"? Se lo si considera come un romanzo giallo da leggere per passatempo, senza avere chissà quali pretese di perfezione e aspirando a trovare un mistero che sappia coinvolgere il lettore, allora questa è la lettura che fa per voi. Se invece siete alla ricerca di qualcosa che sappia darvi soddisfazioni nel campo della costruzione di un enigma plausibile, dettato dalla logica, allora forse potreste restare un po' delusi dal risultato finale. In ogni caso, rispetto ad altri gialli che ho letto negli anni, questo si piazza in una posizione molto elevata della classifica. Non è una stupidaggine e per essere compreso al meglio necessita di una certa concentrazione Semplicemente, nell'opera dell'autore, non è all'altezza di altri titoli nonostante tutto.


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