Copertina dell'edizione pubblicata dalla Polillo Editore |
Per quanto mi riguarda, ad esempio, amo molto quelle storie dove si calca la mano sugli aspetti sovrannaturali e sulla creazione di un'atmosfera particolare, dove la tensione e un certo timore vengono sfruttati per esaltare i fatti criminosi che si verificano in esse. Penso a quei romanzi un po' datati di Mary Roberts Rinehart, dove fanciulle indifese vengono spesso a trovarsi a combattere contro nemici implacabili e sconosciuti, magari inseriti nei loro stessi ambienti familiari o di amicizia; oppure a quelli di Mignon G. Eberhart, con infermiere pronte a gettarsi sulla pista di assassini insospettabili e una trattazione più moderna di temi ancora oggi attuali; oppure ancora la serie di Henry Gamadge ad opera di Elizabeth Daly, dove vengono declinate la paura e la pazzia e l'investigatore si muove in ambienti semi-aristocratici con passo felpato, a differenza di quelli dei più decisi e diretti private-eye dei bassifondi delle metropoli degli scrittori della scuola dei duri. Questo tipo di racconto, nonostante presenti numerose differenze da quello britannico, tutto sommato dipinge situazioni che ad esso si ricollegano; è ingentilito e caratterizzato da vicende tranquille (almeno all'apparenza...). Forse per questo il mio gusto personale è più appagato da esso: nonostante il giallo tradizionale della Golden Age inglese abbia più spessore, una sorta di background solido su cui poggiare le radici per poi elevarsi, e per questo resti il mio preferito, quello americano fa del proprio meglio per declinare quegli stessi elementi di trama in un terreno composto di materiale differente e più "sdrucciolevole", adattandoli alle necessità e producendo risultati apprezzabili. E sempre per questo motivo, su Three-a-Penny mi concentro sugli scrittori d'oltre Manica e sulle loro opere. Mi viene più facile fare confronti tra loro, e riesco a sviluppare sulle tematiche che essi affrontano un pensiero più discorsivo. Eppure, ogni tanto un cambiamento ci vuole; per cui oggi ho deciso di soffermarmi su un'autrice americana che per me era del tutto nuova, ma mi incuriosiva. Con la complicità dell'uscita nello scorso novembre del suo primo romanzo giallo in italiano, infatti, ho letto e oggi recensirò "Il Rompicapo" di Lee Thayer (Polillo Editore, 2020). Si tratta di una storia che si è rivelata diversa da come me la aspettavo; una vera sorpresa, a volte nel bene e altre nel male, alla quale non mancano un'ambientazione invernale (per restare sul "giallo sulla neve"), alcuni personaggi abbastanza ben caratterizzati e, soprattutto, un enigma architettato ed orchestrato con maestria ed ingegno, il quale funge da fulcro per tutte le vicende.
After the Storm, Hemet, California, Anna Hills, 1922, raffigurante un paesaggio simile a quello intorno a Fern Hills |
Un po' intimoriti dall'improvviso silenzio che regna nel giardino della casa e un po' stizziti per il fatto che Hood sia loro sfuggito (perché deve essere per forza andata così), Carlisle, Clancy e Kent scendono dall'automobile e si incamminano sulla terrazza che porta davanti all'uscio principale dell'edificio, per suonare il campanello. Tutto tace, niente si muove nella semioscurità che li circonda. Persino quando il trillo della campana risuona nelle stanze gelide della villa, sembra che loro siano rimasti gli unici esseri viventi al mondo. Tuttavia, nei paraggi si trova qualcosa che nessuno di loro si aspetta di trovare... Ai piedi della scala che porta al prato abbondantemente spolverato di neve, pochi metri sotto alla terrazza, si trova infatti il cadavere di un giovanotto ben vestito, il quale ha una profonda ferita alla gola e il collo spezzato. Carlisle, Clancy e Kent pensano subito al peggio, considerando che Hood non si trova da nessuna parte; però, con una certa sorpresa, quando i tre giovani si avvicinano al corpo si rendono conto che non si tratta del loro amico; quest'ultimo fa appena in tempo ad affacciarsi all'uscio di casa, prima di spiccare un balzo ed unirsi a loro alla base della scala. No; il cadavere su cui dovrà indagare la polizia è quello di un tale di nome Walter Brown, un tizio che Hood afferma di aver incontrato pochi minuti prima e del quale conosce poco altro, oltre al nome. Come è arrivato fin lì? E se davvero Louis non lo conosceva, come aveva potuto Brown presentarsi a un appuntamento a casa sua, quando i suoi amici sanno a malapena quando decide di rifugiarsi a Fern Hills? La domanda più sconcertante di tutte, riguardo l'omicidio, è però un'altra: come diamine ha fatto Brown ad essere ammazzato, dal momento che non ci sono coltelli sulla coltre bianca che lo circonda, se le uniche impronte impresse nella neve sono quelle che lui stesso ha lasciato? Qualcuno deve essersi avvicinato a lui per spezzargli l'osso del collo, lo sostiene pure il medico legale! Così, accantonando i lieti propositi di una meritata vacanza, Clancy torna a dedicarsi all'investigazione, scoprendo che forse i suoi amici non gli hanno detto tutta la verità... Chi era l'uomo che hanno incontrato in macchina? Perché Louis ha ritardato tanto? E di chi era il grido che il maggiordomo di Hood ha sentito echeggiare in casa e nel giardino proprio mentre Brown veniva ammazzato? Bisognerà fare molta strada prima di scoprire la verità.
The Fisherman, Renoir, 1874, che potrebbe benissimo raffigurare Harrison Carlisle intento a pescare |
Ho apprezzato il fatto che il metodo per ammazzare Brown sia stato spiegato secondo logica, quando in un primo momento esso appariva quanto mai sovrannaturale: come nella migliore tradizione classica, è stato usato "un complesso sistema di leve e specchi" (cit.) per mettere in atto l'inganno, e la soluzione non è apparsa troppo complessa e macchinosa per essere messa in atto. Un individuo determinato avrebbe compiuto certe azioni proprio come l'autrice ha spiegato, e non avrebbe incontrato difficoltà nel farlo. Inoltre l'utilizzo di un certo pragmatismo nella descrizione plantare dei luoghi e nel piglio con cui il caso è stato condotto (in parte dal poliziotto di Fern Hills, l'ispettore Winkle che tenta di spiegare i fatti seguendo la sua mente da sempliciotto, e in parte da Clancy, molto più esperto e logico) nel misurare impronte di scarpe, nell'esame delle ferite dal punto di vista medico, nell'impiego di numerose armi (coltelli, pistole, ecc...), nel ricercare un certo tipo di pneumatici ben preciso e nella presenza di numerosi testimoni (o presunti tali), lasciano capire come l'intento di Thayer fosse quello di impostare una storia dove il delitto viene affrontato alla maniera di Sherlock Holmes, con rilevamenti e tutto ciò che li riguarda dal punto di vista materialistico. Infatti, alla fine non emerge mai un vero profilo psicologico dell'assassino, inteso come lo avrebbe potuto fare ad esempio Nicholas Blake: tutto si riconduce a un delitto compiuto secondo un metodo analitico e matematico (il titolo originale stesso, QED, si rifà al "come volevasi dimostrare" dei teoremi della geometria), dove il movente ha carattere pragmatico. Questa cosa, da un lato, può essere considerata un punto debole, dal momento che il giallo della Golden Age, quello a cui siamo tutti un po' più affezionati, si concentra più sulla psicologia dell'assassino a discapito del meno trucco scenico (nello stesso Carr, nonostante l'impossibilità del crimine sia sempre accentuata, troviamo personaggi tormentati e complessi, capaci di regalare più di un brivido con la loro stessa presenza sulla scena); però non dobbiamo dimenticare che "Il Rompicapo" è pur sempre un libro del 1922, quindi degli albori dell'Età dell'Oro del giallo tradizionale, e non bisogna essere troppo duri su questo fronte, a mio modesto parere. Inoltre, in aggiunta alla buona qualità dell'enigma, non bisogna dimenticare che questo giallo sa regalare numerose descrizioni di scenari affascinanti e suggestivi: a partire dai boschi dove Clancy e Harrison vanno a pescare e incontrano il vecchio Bill, fino alle strade di New York di Broadway e agli interni del teatro in cui miss Gale recita, per arrivare ai tempestosi orizzonti dell'ultima corsa dell'assassino e dei suoi inseguitori, ogni cosa viene evocata e descritta con enfasi dall'autrice, la quale si dimostra molto abile nel tratteggio di paesaggi e nel dipingere luoghi.
Emma Redington Lee, alias Lee Thayer, nata nel 1874 e morta nel 1973 |
Bisogna inoltre ammettere che Thayer viene pure menzionata da alcuni critici, ma non sempre in termini lusinghieri. Alcuni addirittura hanno affermato che, dopo aver letto alcuni suoi romanzi, si potrebbe rivalutare l'odiosa figura di Philo Vance, notoriamente un individuo tanto astuto e competente quanto antipatico. E sotto certi aspetti, i libri dell'autrice sono proprio scadenti; tanto più che ella non cambiò mai il proprio stile in meglio, nemmeno dopo che Van Dine diede uno scossone al giallo americano con la sua opera. Come osservato da alcuni critici, il lavoro di Thayer può essere accostato più a quello di Anna Katharine Green, rispetto a quello di Mary Roberts Rinehart: non abbiamo mai storie piene di suspense e di terrore puro, con fanciulle in preda al panico e assalite da misteriosi assassini in case oscure. Il fine dell'autrice di "Il Rompicapo", come dicevo, è quello di tratteggiare un'inchiesta pulita, logica e senza alcun tipo di risvolto soprannaturale (a meno che non serva per sviare l'attenzione del lettore, ma succede di rado); proprio come fece Green. Ci sono altre somiglianze in questo senso: il fatto che le ambientazioni siano simili, con grandi case isolate e chiuse dove i protagonisti rimpiccioliscono di fronte alle oscure vastità; che sulle scene del delitto restino tantissime prove da rilevare e da mettere insieme per ricostruire l'accaduto, indizi spesso sinistri e inquietanti; le descrizioni liriche e poetiche degli ambienti e del paesaggio, con un contrasto tra natura e metropoli che caratterizza pure la narrativa di Green. L'impossibilità dell'enigma (pp. 20-21, 24-27, 29-30, 142-143) segue una tradizione inaugurata in America da Anna Katharine, dove la soluzione viene svelata mano a mano. Detto ciò, tuttavia, restano le stesse critiche che si potrebbero rivolgere a Green: lo svelamento dell'assassino che non riesce ad essere all'altezza di altri in romanzi più celebrati; una tendenza a concludere in fretta e con azione frenetica la faccenda, dopo aver intrapreso una strana più lenta nella prima parte della storia; l'inserimento di frasi che al giorno d'oggi definiremo razziste (quando entra in scena il maggiordomo cinese dei Carlisle, p. 61); uno stile fin troppo essenziale, pure se si tratta di un romanzo giallo americano, dove il tono scanzonato stride con gli eventi delittuosi che si verificano.
Tutto ciò rende "Il Rompicapo" meno buono di quanto mi aspettassi, unito al fatto che i personaggi non sono sempre ben caratterizzati. Certo, per citare miss Gale, oppure Harrison Carlisle e lo stesso Clancy, loro sono figure a tutto tondo, che spiccano sulla carta e si rendono protagonisti attivi nelle vicende; ma altri come Robert Kent e Louis Hood, il sospettato principale, non hanno lo stesso impatto; anzi, tendono a scomparire. Poi sono proprio pochini gli indiziati, per poter fornire davvero un gruppo in cui scovare l'assassino. Pure questo è un richiamo alla narrativa di Green. Da una parte, abbiamo individui che restano in disparte per gran parte del racconto e tornano in scena di punto in bianco; dall'altra, personaggi come Clancy che ci vengono presentati a tutto tondo. Lui stesso, in particolare, è una figura interessante, dal momento che mette insieme l'investigatore privato all'americana, grintoso, determinato e molto attivo fisicamente (segue gli indizi nei boschi e per le strade della città come un segugio nato dalle penne degli autori della scuola hard-boiled, ha energia da vendere e non ha paura di mettere in scena inseguimenti quando è necessario, è implacabile nel torchiare i sospettati e nel metterli alle strette) con quella del detective di stampo più razionale, il quale limita il lavoro pratico a favore di quello mentale e logico, segue una missione che lo porterà a scoprire l'inganno con l'uso del proprio cervello, agisce in gran parte per conto suo e ha un atteggiamento meno scorbutico e violento. Non per nulla, all'apparenza, sembra quasi uno di quei giovanotti un po' sciocchi e alle prime armi. Detto ciò, comunque, i personaggi non soddisfano più di tanto le aspettative e mi inducono ad abbassare il voto di giudizio. Però voglio concludere con una nota positiva, che in parte riscatta "Il Rompicapo" dalla delusione che poteva essere, se non avesse presentato un enigma molto buono e un'ambientazione tratteggiata con abilità (pp. 16-18, 33-35, 64-67, 73-74, 76-79, cap. 9, 111-112, 117, 133, 135, 150, 159-162, 179, 181, 194, 202, 208-210, 214-216): l'inserimento di temi insoliti che conferiscono originalità alla trama e aiutano nella scoperta della verità. Viene trattata a lungo la pesca, con termini specifici e una narrazione che lascia trapelare come Thayer debba essere stata un'appassionata in materia (pp. 59-60, cap. 7, 132, 150-155); il teatro e ciò che lo riguarda vengono approfonditi e portati sulla scena in più occasioni, in parte assieme al cinema (pp. 133-139); il jujitsu, quella tecnica delle arti marziali orientali che poche volte ha avuto spazio in un giallo classico, gioca un ruolo che la porta ad essere discussa in diverse occasioni (62-63, 116); viene accennato alla politica, la quale non può mancare in un mystery americano; l'amicizia che lega Harrison e Clancy, così tante volte manifestata e celebrata; la stregoneria (pp. 120-123). Sono modi rudimentali per dare brio al racconto, e Thayer ha fatto un buon lavoro in merito. Forse bisognerebbe tenere da conto il fatto che questo romanzo è stato scritto in un'epoca molto precedente alla nostra, e perdonare qualche piccolo scivolone. Non lo so; io resto dell'idea che "Il Rompicapo" sia come uno di quegli episodi del manga di Detective Conan (penso lo conosciate tutti, e se così non fosse recuperate subito): molto centrati sull'indagine, con qualche accenno all'ambientazione suggestiva e con personaggi intercambiabili tra loro. È un libro senza troppe pretese, che vuole mettere in scena in delitto congegnato come un meccanismo ad orologeria, tralasciando discorsi troppo complicati. Niente di eccitante, ma nemmeno del tutto deludente. Sufficiente, direi.
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