Copertina dell'edizione pubblicata dalla Polillo Editore |
Boucher, da parte sua, compì gli stessi passi di Crispin concentrando la pubblicazione della propria opera tra il 1937 e il 1942 (quindi soltanto cinque anni!) e proseguendo prima a recensire una quantità industriale di romanzi, racconti e saggi di genere fino al 1948, per poi occuparsi di science fiction o letteratura fantascientifica fino alla fine dei suoi giorni. Il motivo della sua decisione probabilmente fu legato al fatto che quest'ultimo tipo di narrativa lo attirava di più, visto come anche nei suoi mysteries fosse solito inserire aspetti legati a quel mondo nuovo e particolare. Tornando all'Inghilterra, pure la celebre Dorothy L. Sayers a un certo punto abbandonò la scrittura di romanzi del mistero; e lo stesso fece il suo storico "rivale", Anthony Berkeley. In questo caso, tuttavia, i moventi nascosti dietro a questo loro gesto sembrano differenti: Sayers perse gradualmente interesse nella crime story perché desiderava dedicarsi alla letteratura di stampo religioso, forse in un tentativo di redenzione per "l'amaro peccato" che aveva colpito la sua esistenza quando era ancora giovane; Berkeley, invece, ricevette un duro colpo alla propria autostima a causa di una delusione amorosa che significava tutto per lui... con la conseguenza che, dal 1940, tralasciò la scrittura di nuove storie per dedicarsi all'analisi di quelle di altri scrittori di genere e nell'attività di socio della Crime Writer's Association americana. Come vedete, quindi, in molti (e per motivi differenti) a un certo punto smisero di scrivere romanzi del mistero per dedicarsi ad altre attività. Pure l'autore del libro che recensirò oggi, Clifford Orr, compì un'operazione del genere: dapprima fu musicista, poi giornalista, poi libraio e infine approdò al giallo classico... finché non decise di tornare a fare l'editorialista. Nel suo caso, cosa andò storto? Un'ipotesi potrebbe essere dovuta al fatto che non riuscì più a superare la qualità straordinaria di "La Casa sulla Scogliera", il suo secondo libro di genere, dal momento che il terzo (chiamato "The Cornell Murders" e ambientato nell'omonimo college) non fu mai dato alle stampe. A breve spero di potervi presentare questo titolo; intanto, oggi resto nell'ambientazione universitaria e analizzerò "Delitti al College" (Polillo Editore, 2021), il suo esordio sul solco della tradizione più classica.
North Mass, Dartmouth, sede dalla prima morte in "Delitti al College" |
Il terrore si impossessa degli studenti e dei professori di Dartmouth, i quali decidono di far intervenire la polizia al fianco dell'uomo ufficiosamente incaricato di fare luce sul decesso di Coates. Peccato che quest'ultimo sia nientemeno che Joe Harris, uno dei sospettati del crimine. Lo stesso Kenneth teme che il padre possa essere in qualche modo coinvolto nel delitto dal momento che, in occasione di una missione a Boston per interrogare la madre di Byron, scopre come egli non sia estraneo alla vita dei congiunti dell'amico deceduto. Cosa ci fa una sua foto nell'album di famiglia che Mrs Coates gli ha mostrato? I quesiti si moltiplicano man mano che le indagini proseguono e il giovane si domanda se non sia il caso di fare delle indagini per conto proprio, senza affidarsi al genitore. Eppure, farlo non è per nulla facile: Kenneth è un tipo più istintivo ed emotivo, che razionale e freddo come invece è il padre, e non sa dove sbattere la testa per raccogliere gli indizi necessari per rendersi utile. Fortunatamente, gli eventi sembrano coinvolgerlo e andargli incontro senza che lui lo voglia: prima appare un fantomatico spettro proprio dall'oscurità della cappella dove Anderson è stato ucciso, poi alcune lettere che ha esaminato vengono frettolosamente consultate in seguito allo scassinamento di alcuni cassetti... Tutto ciò indica una direzione ben precisa per le indagini che padre e figlio si ritrovano a condurre: la verità e la soluzione del caso si trovano immerse nel passato nebuloso dei Coates, tra scheletri nell'armadio in senso figurato e personaggi che ritornano gettando lunghe ombre sul presente. Servirà però un'altra morte prima di riuscire a capire fino in fondo quanto l'avidità e la spietata determinazione abbiano contribuito a suscitare il terrore che serpeggia per Dartmouth.
Rollins Chapel, Dartmouth, sede del secondo delitto in "Delitti al College" |
Per passare a un altro elemento di "Delitti al College" che mi ha convinto, mi soffermerei sulla mescolanza data dall'ambientazione universitaria tratteggiata con abilità e l'integrazione per nulla forzata di essa con l'enigma. Penso sia chiaro come l'autore si sia ispirato alla propria esperienza all'università di Dartmouth per dare spessore alla faccenda: ad esempio, il dormitorio descritto nel romanzo nel quale alloggiano Coates e Harris altro non è che la vera North Mass, l'edificio dove Orr ha risieduto mentre era studente al college; oppure la cappella dove avviene il secondo delitto (quello di Sam Anderson) è ispirata alla Rollins Chapel di Dartmouth. Certo, la conoscenza della struttura del campus ha permesso a Orr di costruire una sorta di copia fittizia dei luoghi che era solito percorrere di persona e di sfruttare questi ultimi per testare ciò che aveva in mente, così da "mettere in atto" le azioni che intendeva far compiere ai suoi personaggi; però bisogna pur ammettere che siamo molto lontani dalla rappresentazione profonda e dettagliata del mondo accademico che ne ha fatto Michael Innes in "Morte nello Studio del Rettore". Ciò che conta per l'autore è soprattutto il mistero, non la descrizione della vita universitaria; per cui, ciò che fanno i protagonisti di "Delitti al College" risulterà solo plausibile se non addirittura naturale, ma senza andare troppo ad indagare temi particolari, e di conseguenza il fulcro della narrazione non sarà il fattore psicologico, ma l'enigma attinente alla realtà dei fatti (pp. 23-24, 29-30, 33-36, 39-41, 59-62, 79-81, 160-162, 170-174). L'importanza sta tutta nella praticità del crimine: se qualcosa non era materialmente possibile nella vita reale, allora non lo sarebbe stato nemmeno nella finzione del romanzo; viceversa, se ciò che era necessario mettere in pratica si poteva fare, allora sarebbe potuto essere inserito nella trama con tranquillità. A questo proposito, va poi aggiunta la sinergia tra Harris padre e Harris figlio, la quale mi è sembrata adeguata e con un giusto grado di trasparenza. Pure essa ha dato spessore al mistero, assieme all'atmosfera di cui ho già parlato: proprio come nei gialli di Ellery Queen (che tra l'altro hanno debuttato proprio nello stesso anno della pubblicazione di "Delitti al College"), questa coppia investigativa in veste semi-ufficiale riesce ad essere credibile agli occhi del lettore. Peccato solo non potersi fermare qui, nel prendere in considerazione gli elementi di questo romanzo giallo, dal momento che è proprio dai personaggi presi singolarmente che iniziano i piccoli problemi che stanno alla base della mia critica.
Clifford Orr, nato nel 1899 e morto nel 1951 |
Come avete visto, quella di Orr non fu un'esistenza tranquilla. Passò da un lavoro all'altro senza darsi tregua, si occupò di attività disparate e lo fece nella frenesia che solo uno spirito come il suo poteva a malapena sopportare. E questa fretta e incostanza si riflette proprio su "Delitti al College", il quale presenta una costruzione che nel suo insieme riesce a convincere, ma non fa altrettanto se i suoi elementi vengono presi in considerazione uno alla volta. Meglio ancora, quello che voglio dire è che ci sono tanti piccoli difetti in questo libro, pecche che potevano essere aggiustate se soltanto l'autore si fosse soffermato meglio su di esse nel momento in cui le ha prese in considerazione e poi inserite nella trama. Sono soprattutto ingenuità causate dall'inesperienza: se avesse avuto trascorsi più consistenti e un metodo più strutturato, probabilmente Orr avrebbe portato a termine un lavoro fatto meglio. Ad esempio, risultano abbastanza strane alcune azioni compiute dai personaggi, come lasciare le porte sempre aperte (intese come non chiuse a chiave), pure alla notte, oppure nel fatto che la gente si sposti per le camere delle persone con una spaventosa tranquillità, senza curarsi del fatto di star magari invadendo la loro privacy (su questo punto, tuttavia, mi riservo un dubbio dal momento che forse, tra studenti di uno stesso dormitorio, si tratta di una pratica comune). In ogni caso, tuttavia, certe azioni risultano molto strane. In secondo luogo, se l'accoppiata degli Harris funziona quando presa come unica entità (da sottolineare i battibecchi tra padre e figlio, molto simili a quelli reali), i due mi sono sembrati molto irritanti quando presi da soli. Voglio dire, Kenneth mi ha dato l'impressione di essere uno sciocco petulante, capace solo di mettersi a gridare affermazioni con stupore e ad interrogarsi con superficialità sulle faccende importanti per il caso (nonostante abbia comunque apprezzato il lato più emozionale del suo carattere, pp. 19-21, 25-27, 35-37, 44-45, 50, 58, 67-68, 77-78, 89-90, 100-102, 106-109, 115-116, 125, 135, 177, 179, 217-218)); suo padre, invece, mi è sembrato un individuo pomposo ed ermetico, quasi peggio di quella sfinge di Sherlock Holmes: il suo atteggiamento supponente, quasi irrisorio verso il prossimo è stato molto irritante. Cosa ancora più grave, tuttavia, è il fatto che Orr abbia impostato l'indagine sui delitti di Dartmouth facendo fare sì alcune scoperte a Kenneth ed altre a suo padre... ma senza che uno dei due riuscisse a spiccare. In tal modo, non abbiamo mai un "vero" investigatore che agisce da deus ex machina, ma qualche piccolo indizio raccolto da uno e qualche altro dall'altro. Il finale stesso del racconto mette in mostra i difetti di questo tipo di indagine: l'assassino si smaschera praticamente da solo, senza che il merito vada a uno oppure a un altro. Mi è sembrato come se tutti facessero osservazioni intelligenti (pure personaggi secondari come Penlon e Jerry Smart), tranne chi avrebbe dovuto applicarsi sul serio: cioè Kenneth!. La stessa rappresentazione di una forza di polizia "arrendevole", che delega il caso ai dilettanti, lascia qualche perplessità. Infine, la soluzione del mistero non mi è sembrata all'altezza delle premesse. Se il caso presenta risvolti e colpi di scena a ogni piè sospinto, affonda la propria essenza nel passato che allunga la propria ombra a incombere sul presente (pp. 145-147, capp. 8, 17), e viene condotto con maestria dall'insieme di investigatori che di esso si occupa, non si può certo dire che il risultato sia del tutto soddisfacente perché troppo veloce e scarno, oltre che carente nello spiegare gli indizi che hanno portato alla cattura della persona colpevole. Pertanto, non me la sento di dire che "Delitti al College" sia un capolavoro del genere giallo. Piacevole sì, ma non qualcosa di imprescindibile. Va dato atto, comunque, all'autore di essere riuscito a dare vita a una vicenda che si colloca in un'ipotetica valutazione di quattro stelle su cinque, sopra a quella di romanzi meno riusciti come "La Scatola Mortale". Sono curiosi di scoprire come sarà "La Casa sulla Scogliera": presto lo leggerò e vi dirò se riuscirà a compensare i difetti riscontrati in quest'altro libro.
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