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venerdì 16 aprile 2021

68 - "Delitti al College" ("The Dartmouth Murders", 1929) di Clifford Orr

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Ricollegandomi al discorso di introduzione alla recensione della scorsa settimana, per "La Scatola Mortale", oggi vorrei dilungarmi un po' di più su quegli autori che hanno sì pubblicato poco, nel corso della loro carriera, ma non per cause di forza maggiore come decessi improvvisi (come Christopher St. John Sprigg) o impedimenti di carattere medico (Annie Haynes) oppure legale (Milward Kennedy); quanto per cause dipendenti da una scelta consapevole o comunque legata a un percorso personale. Mi spiego meglio. Fatto curioso: all'interno della classica crime story più di un/una giallista, a un certo punto della propria vita, ha deciso di darci un taglio con le storie del mistero e di delitti fittizi per dedicarsi a tutt'altra materia. Così, in modo un po' improvviso per chi seguiva le loro carriere con entusiasmo e si augurava che esse proseguissero ancora per anni e anni. Si tratta di un discorso che non purtroppo non potrà mai avere una spiegazione del tutto soddisfacente, dal momento che bisognerebbe aver chiesto ai diretti interessati il motivo di questo repentino cambio di rotta ed essere soprattutto sicuri che le loro risposte siano state sincere (cosa di cui personalmente averi dubitato, conoscendo la fama di autori abituati ad ingannare i lettori con storie credibili ma fittizie); eppure, vorrei provare ad avanzare qualche ipotesi sui motivi che li hanno spinti a compiere questo gesto. Ad esempio, abbiamo Anthony Weymouth (ricordate, l'autore di "Congelato"?) il quale ha scritto alcuni romanzi gialli sfruttando la conoscenza derivata dalla pratica della professione di dottore, nel corso di sette anni... per poi decidere di proseguire soltanto la carriera medica, senza pubblicare altro di genere crime. Per quale motivo ha deciso di fare ciò? Per quanto mi riguarda, credo sia dovuto al fatto che i suoi non fossero gialli capaci di spiccare nella totalità di opere di genere. Forse ebbe il sentore che proseguire sarebbe stato poco gratificante. In ogni caso, mollò il colpo. Qualcosa di simile fecero Edmund Crispin, forse la più fulgida stella delle "leve della seconda generazione" del giallo della Golden Age britannica, e l'americano Anthony Boucher. Crispin concentrò la pubblicazione di opere straordinarie come "Il Negozio Fantasma", "La Morte nel Villaggio" e "Il Manoscritto Perduto" nell'arco di dieci anni, tra il 1944 e il 1953, per poi arrestarsi e tornare per un ultimo sprint soltanto nel 1970, con meno forza e determinazione. Come mai? Ebbene, lo fece soprattutto per problemi di alcolismo che minarono il suo talento e la sua salute, ma bisogna sottolineare come abbia speso il suo tempo nel recensire romanzi gialli di alcuni colleghi, per il "Sunday Times". Quindi, ancora una volta per una scelta dettata in parte da una dipendenza e in parte da un'intenzione che proveniva dall'urgenza di cambiare le carte in tavola.

Boucher, da parte sua, compì gli stessi passi di Crispin concentrando la pubblicazione della propria opera tra il 1937 e il 1942 (quindi soltanto cinque anni!) e proseguendo prima a recensire una quantità industriale di romanzi, racconti e saggi di genere fino al 1948, per poi occuparsi di science fiction o letteratura fantascientifica fino alla fine dei suoi giorni. Il motivo della sua decisione probabilmente fu legato al fatto che quest'ultimo tipo di narrativa lo attirava di più, visto come anche nei suoi mysteries fosse solito inserire aspetti legati a quel mondo nuovo e particolare. Tornando all'Inghilterra, pure la celebre Dorothy L. Sayers a un certo punto abbandonò la scrittura di romanzi del mistero; e lo stesso fece il suo storico "rivale", Anthony Berkeley. In questo caso, tuttavia, i moventi nascosti dietro a questo loro gesto sembrano differenti: Sayers perse gradualmente interesse nella crime story perché desiderava dedicarsi alla letteratura di stampo religioso, forse in un tentativo di redenzione per "l'amaro peccato" che aveva colpito la sua esistenza quando era ancora giovane; Berkeley, invece, ricevette un duro colpo alla propria autostima a causa di una delusione amorosa che significava tutto per lui... con la conseguenza che, dal 1940, tralasciò la scrittura di nuove storie per dedicarsi all'analisi di quelle di altri scrittori di genere e nell'attività di socio della Crime Writer's Association americana. Come vedete, quindi, in molti (e per motivi differenti) a un certo punto smisero di scrivere romanzi del mistero per dedicarsi ad altre attività. Pure l'autore del libro che recensirò oggi, Clifford Orr, compì un'operazione del genere: dapprima fu musicista, poi giornalista, poi libraio e infine approdò al giallo classico... finché non decise di tornare a fare l'editorialista. Nel suo caso, cosa andò storto? Un'ipotesi potrebbe essere dovuta al fatto che non riuscì più a superare la qualità straordinaria di "La Casa sulla Scogliera", il suo secondo libro di genere, dal momento che il terzo (chiamato "The Cornell Murders" e ambientato nell'omonimo college) non fu mai dato alle stampe. A breve spero di potervi presentare questo titolo; intanto, oggi resto nell'ambientazione universitaria e analizzerò "Delitti al College" (Polillo Editore, 2021), il suo esordio sul solco della tradizione più classica.

North Mass, Dartmouth, sede dalla prima morte in "Delitti al
College"
La storia si apre con il ritrovamento del cadavere del giovane Byron Coates, studente della Dartmouth University di Hanover, nella contea di Grafton. Il suo corpo viene rinvenuto impiccato alla scala antincendio del dormitorio da Kenneth Harris, il suo compagno di stanza, in un gelido mattino nebbioso; quindi, l'ipotesi più probabile che gli inquirenti si trovano ad avanzare è quella che si tratti di suicidio. Tanto più che Coates, proprio il giorno precedente alla tragedia, aveva manifestato uno strano stato d'animo irrequieto e malinconico, per cui i segnali sarebbero in linea con questa ipotesi. Tuttavia, ben presto la curiosità e l'interesse di Harris e di un altro suo compagno, Charlie Penlon, sulla faccenda dimostrano come la corda a cui è stato trovato appeso Byron non sia affatto adatta allo scopo per cui è stata usata: è troppo spessa per poter fungere da cappio e stringere il collo del poveretto fino ad asfissiarlo. Questa conclusione, dunque, apre la strada a teorie ben più inquietanti come l'omicidio premeditato, le quali si fanno ancora più terrorizzanti quando si scopre che ad uccidere Coates è stato un ago sparato direttamente nel suo cranio, con una fredda precisione e un'abilità diabolica. L'atmosfera a Dartmouth cambia immediatamente e le persone più vicine alla giovane vittima vengono sospettate del crimine: oltre a Harris e Penlon, i quali abitano nello stesso dormitorio ma su piani differenti, pure altri due studenti (Sam Anderson e Jerry Smart) vengono inclusi nella lista dei possibili assassini, assieme alla sorella di Byron, Jean; alla sua dama di compagnia, miss Case; al padre di Kenneth, il quale si è trovato a Dartmouth per un'apparente casualità; al professor Bostwick, che da anni ha preso sotto la sua ala Coates e Harris e ha instaurato con loro un rapporto quasi familiare. I problemi per la soluzione del delitto, però, si moltiplicano perché nessuno riesce a dimostrare con certezza di avere un alibi per l'ora della morte di Coates. Poi, durante la celebrazione di una funzione religiosa nella cappella del campus, Sam Anderson viene ucciso da un ago simile a quello sfruttato per procurare la morte a Byron, mentre si trova nel coro a cantare.

Il terrore si impossessa degli studenti e dei professori di Dartmouth, i quali decidono di far intervenire la polizia al fianco dell'uomo ufficiosamente incaricato di fare luce sul decesso di Coates. Peccato che quest'ultimo sia nientemeno che Joe Harris, uno dei sospettati del crimine. Lo stesso Kenneth teme che il padre possa essere in qualche modo coinvolto nel delitto dal momento che, in occasione di una missione a Boston per interrogare la madre di Byron, scopre come egli non sia estraneo alla vita dei congiunti dell'amico deceduto. Cosa ci fa una sua foto nell'album di famiglia che Mrs Coates gli ha mostrato? I quesiti si moltiplicano man mano che le indagini proseguono e il giovane si domanda se non sia il caso di fare delle indagini per conto proprio, senza affidarsi al genitore. Eppure, farlo non è per nulla facile: Kenneth è un tipo più istintivo ed emotivo, che razionale e freddo come invece è il padre, e non sa dove sbattere la testa per raccogliere gli indizi necessari per rendersi utile. Fortunatamente, gli eventi sembrano coinvolgerlo e andargli incontro senza che lui lo voglia: prima appare un fantomatico spettro proprio dall'oscurità della cappella dove Anderson è stato ucciso, poi alcune lettere che ha esaminato vengono frettolosamente consultate in seguito allo scassinamento di alcuni cassetti... Tutto ciò indica una direzione ben precisa per le indagini che padre e figlio si ritrovano a condurre: la verità e la soluzione del caso si trovano immerse nel passato nebuloso dei Coates, tra scheletri nell'armadio in senso figurato e personaggi che ritornano gettando lunghe ombre sul presente. Servirà però un'altra morte prima di riuscire a capire fino in fondo quanto l'avidità e la spietata determinazione abbiano contribuito a suscitare il terrore che serpeggia per Dartmouth.

Rollins Chapel, Dartmouth, sede del secondo delitto in
"Delitti al College"
"Delitti al College" è stato un romanzo giallo soddisfacente, tutto sommato. Certo, non si può dire che si tratti di un capolavoro sotto ogni fronte, ma nel complesso è riuscito ad intrattenermi e si è rivelato una lettura adeguatamente buona. Ciò che mi ha colpito fin da subito è stata la capacità dell'autore di sollevare una sorta di atmosfera macabra e misteriosa attorno agli eventi che doveva raccontare (pp. 11-12, 14, 20-21, 50-53, 70-76, 94-95, 139-140, 141-143, 184, 205-210): il racconto stesso di Kenneth, fatto in prima persona, è riuscito a calarmi dentro le vicende e a farmi toccare con mano l'aura notturna e rarefatta in cui si trovano ad indagare i due Harris, padre e figlio. Ci sono state molte scene "ad effetto", le quali ovviamente hanno dato ancora più forza alla narrazione un po' tetra di Orr: ad esempio, mi è piaciuto come egli si sia soffermato su molte apparizioni improvvise (tra presunti fantasmi e fuggitivi piuttosto concreti) e su situazioni dove l'azione non è certo mancata ma senza risultare estranea all'enigma che si andava ad indagare. Inoltre, pure lo sfruttamento di scenari spesso notturni oppure nebbiosi è stato funzionale al mantenimento di quest'atmosfera un po' inquietante; per non parlare del fatto che, in quelli più "soleggiati", non sono comunque mancati riferimenti a venti gelidi e a caminetti accesi. Anche la rappresentazione degli ambienti della casa di famiglia dei Coates a Boston sono stati tratteggiati seguendo le stesse direttive: luci basse e poco numerose, mobili che davano il senso della solennità e di austerità, pochissime fonti di rumore oppure suoni a disturbare il silenzio carico di mistero. Insomma, credo che sia stato fatto un lavoro molto buono in quanto alla creazione del contesto in cui i personaggi si muovono e nel sottolineare la tensione e il senso di mistero in cui le vicende sono immerse. Non a caso, la narrativa di Orr è stata accostata a quella di John Dickson Carr, il Maestro non solo del delitto della camera chiusa ma pure dell'uso del gotico e del sovrannaturale per esacerbare il senso di angoscia che le sue trame già suscitavano nel lettore. Eppure, mi sento di fare un piccolo appunto riguardo questa considerazione accettata da più di un appassionato: tenderei ad andarci piano nel fare accostamenti di questo genere, dal momento che Carr è riuscito a dare vita a uno stile unico ed irripetibile. Si può al massimo dire che Orr sia stato influenzato, allo stesso modo del suo collega, da un qualche tipo di sentore dell'epoca, una tensione diffusa nella società del tempo che ha saputo trasmettersi in certe persone le quali sono riuscite a coglierla; in "Delitti al College" manca quella sorta di spessore che Dorothy L. Sayers è riuscita a descrivere in una frase che disse proprio sullo stile del suo illustre collega.

Per passare a un altro elemento di "Delitti al College" che mi ha convinto, mi soffermerei sulla mescolanza data dall'ambientazione universitaria tratteggiata con abilità e l'integrazione per nulla forzata di essa con l'enigma. Penso sia chiaro come l'autore si sia ispirato alla propria esperienza all'università di Dartmouth per dare spessore alla faccenda: ad esempio, il dormitorio descritto nel romanzo nel quale alloggiano Coates e Harris altro non è che la vera North Mass, l'edificio dove Orr ha risieduto mentre era studente al college; oppure la cappella dove avviene il secondo delitto (quello di Sam Anderson) è ispirata alla Rollins Chapel di Dartmouth. Certo, la conoscenza della struttura del campus ha permesso a Orr di costruire una sorta di copia fittizia dei luoghi che era solito percorrere di persona e di sfruttare questi ultimi per testare ciò che aveva in mente, così da "mettere in atto" le azioni che intendeva far compiere ai suoi personaggi; però bisogna pur ammettere che siamo molto lontani dalla rappresentazione profonda e dettagliata del mondo accademico che ne ha fatto Michael Innes in "Morte nello Studio del Rettore". Ciò che conta per l'autore è soprattutto il mistero, non la descrizione della vita universitaria; per cui, ciò che fanno i protagonisti di "Delitti al College" risulterà solo plausibile se non addirittura naturale, ma senza andare troppo ad indagare temi particolari, e di conseguenza il fulcro della narrazione non sarà il fattore psicologico, ma l'enigma attinente alla realtà dei fatti (pp. 23-24, 29-30, 33-36, 39-41, 59-62, 79-81, 160-162, 170-174). L'importanza sta tutta nella praticità del crimine: se qualcosa non era materialmente possibile nella vita reale, allora non lo sarebbe stato nemmeno nella finzione del romanzo; viceversa, se ciò che era necessario mettere in pratica si poteva fare, allora sarebbe potuto essere inserito nella trama con tranquillità. A questo proposito, va poi aggiunta la sinergia tra Harris padre e Harris figlio, la quale mi è sembrata adeguata e con un giusto grado di trasparenza. Pure essa ha dato spessore al mistero, assieme all'atmosfera di cui ho già parlato: proprio come nei gialli di Ellery Queen (che tra l'altro hanno debuttato proprio nello stesso anno della pubblicazione di "Delitti al College"), questa coppia investigativa in veste semi-ufficiale riesce ad essere credibile agli occhi del lettore. Peccato solo non potersi fermare qui, nel prendere in considerazione gli elementi di questo romanzo giallo, dal momento che è proprio dai personaggi presi singolarmente che iniziano i piccoli problemi che stanno alla base della mia critica.

Clifford Orr, nato nel 1899 e morto nel 1951
Prima di passare a questo discorso, tuttavia, mi voglio soffermare sulla figura dell'autore, per poter contestualizzare meglio le obiezioni che farò qui sotto. Nato nel 1899 a Portland, nel Maine, Clifford Orr era figlio di un agente pubblicitario e nipote di un capitano marittimo. Fin dalle scuole superiori aveva manifestato una certa passione per la scrittura; passione che aveva coltivato pure all'università di Dartmouth, dove si era occupato di scrivere i libretti di alcune opere musicali messe in scena dagli studenti del corso di teatro. Orr lasciò il college nel 1922 senza prendere alcuna laurea, nonostante avesse seguito un corso regolare di studi, e continuò a scrivere testi per canzoni (tra cui quella di "I May Be Wrong" portata al successo da Doris Day), mentre occupava un posto di giornalista al "Boston Evening Transcript". Qualche anno dopo assunse l'incarico di dirigere la libreria di Wall Street della casa editrice Doubleday, Doran; fu durante quest'esperienza che si rese conto di quanto fosse popolare il romanzo giallo. Stuzzicato dalla sfida che comportava la stesura di un mystery, entro il 1929 Orr diede alle stampe un opera di questo genere, "Delitti al College", ambientato nell'università che aveva frequentato e ispirato alla sua esperienza come studente. Dapprima pubblicato a puntate, questo libro incarna alla perfezione il classico giallo degli anni '20 (forse fin troppo, dirà qualcuno) ma ottenne grande notorietà per l'inconsueta ambientazione universitaria del mistero; al punto che nel 1935 ne venne tratta una modesta riduzione cinematografica dal titolo "A Shot in the Dark". Incoraggiato dal successo, Orr si mise a ideare un nuovo romanzo del mistero, stavolta più originale e suggestivo nelle atmosfere, e alla fine produsse "La Casa sulla Scogliera", un vero e proprio tour de force del quale il critico Charles Williams disse: "Un libro troppo buono è, per l'autore, una maledizione al pari di un libro pessimo. Non riesco a immaginare cosa mai mr. Orr potrà mai escogitare per il prossimo". Inconsapevolmente, Williams portò sfortuna a Orr, il quale interruppe la scrittura di gialli proprio dopo la pubblicazione di tale romanzo per diventare editorialista per il "The New Yorker", incarico che mantenne per vent'anni. Eppure la sua vita non era felice: omosessuale, alcolista, ne passò di tutti i colori entrando e uscendo dalle cliniche che disintossicarsi, pur mantenendo il suo sguardo dagli occhi verdi puntato a sondare ciò che lo circondava e senza rinunciare al proprio spirito caustico. Morì nel 1951, poco prima di compiere 52 anni, nella cittadina di Hanover dove (ironia della sorte) aveva ambientato il suo romanzo d'esordio.

Come avete visto, quella di Orr non fu un'esistenza tranquilla. Passò da un lavoro all'altro senza darsi tregua, si occupò di attività disparate e lo fece nella frenesia che solo uno spirito come il suo poteva a malapena sopportare. E questa fretta e incostanza si riflette proprio su "Delitti al College", il quale presenta una costruzione che nel suo insieme riesce a convincere, ma non fa altrettanto se i suoi elementi vengono presi in considerazione uno alla volta. Meglio ancora, quello che voglio dire è che ci sono tanti piccoli difetti in questo libro, pecche che potevano essere aggiustate se soltanto l'autore si fosse soffermato meglio su di esse nel momento in cui le ha prese in considerazione e poi inserite nella trama. Sono soprattutto ingenuità causate dall'inesperienza: se avesse avuto trascorsi più consistenti e un metodo più strutturato, probabilmente Orr avrebbe portato a termine un lavoro fatto meglio. Ad esempio, risultano abbastanza strane alcune azioni compiute dai personaggi, come lasciare le porte sempre aperte (intese come non chiuse a chiave), pure alla notte, oppure nel fatto che la gente si sposti per le camere delle persone con una spaventosa tranquillità, senza curarsi del fatto di star magari invadendo la loro privacy (su questo punto, tuttavia, mi riservo un dubbio dal momento che forse, tra studenti di uno stesso dormitorio, si tratta di una pratica comune). In ogni caso, tuttavia, certe azioni risultano molto strane. In secondo luogo, se l'accoppiata degli Harris funziona quando presa come unica entità (da sottolineare i battibecchi tra padre e figlio, molto simili a quelli reali), i due mi sono sembrati molto irritanti quando presi da soli. Voglio dire, Kenneth mi ha dato l'impressione di essere uno sciocco petulante, capace solo di mettersi a gridare affermazioni con stupore e ad interrogarsi con superficialità sulle faccende importanti per il caso (nonostante abbia comunque apprezzato il lato più emozionale del suo carattere, pp. 19-21, 25-27, 35-37, 44-45, 50, 58, 67-68, 77-78, 89-90, 100-102, 106-109, 115-116, 125, 135, 177, 179, 217-218)); suo padre, invece, mi è sembrato un individuo pomposo ed ermetico, quasi peggio di quella sfinge di Sherlock Holmes: il suo atteggiamento supponente, quasi irrisorio verso il prossimo è stato molto irritante. Cosa ancora più grave, tuttavia, è il fatto che Orr abbia impostato l'indagine sui delitti di Dartmouth facendo fare sì alcune scoperte a Kenneth ed altre a suo padre... ma senza che uno dei due riuscisse a spiccare. In tal modo, non abbiamo mai un "vero" investigatore che agisce da deus ex machina, ma qualche piccolo indizio raccolto da uno e qualche altro dall'altro. Il finale stesso del racconto mette in mostra i difetti di questo tipo di indagine: l'assassino si smaschera praticamente da solo, senza che il merito vada a uno oppure a un altro. Mi è sembrato come se tutti facessero osservazioni intelligenti (pure personaggi secondari come Penlon e Jerry Smart), tranne chi avrebbe dovuto applicarsi sul serio: cioè Kenneth!. La stessa rappresentazione di una forza di polizia "arrendevole", che delega il caso ai dilettanti, lascia qualche perplessità. Infine, la soluzione del mistero non mi è sembrata all'altezza delle premesse. Se il caso presenta risvolti e colpi di scena a ogni piè sospinto, affonda la propria essenza nel passato che allunga la propria ombra a incombere sul presente (pp. 145-147, capp. 8, 17), e viene condotto con maestria dall'insieme di investigatori che di esso si occupa, non si può certo dire che il risultato sia del tutto soddisfacente perché troppo veloce e scarno, oltre che carente nello spiegare gli indizi che hanno portato alla cattura della persona colpevole. Pertanto, non me la sento di dire che "Delitti al College" sia un capolavoro del genere giallo. Piacevole sì, ma non qualcosa di imprescindibile. Va dato atto, comunque, all'autore di essere riuscito a dare vita a una vicenda che si colloca in un'ipotetica valutazione di quattro stelle su cinque, sopra a quella di romanzi meno riusciti come "La Scatola Mortale". Sono curiosi di scoprire come sarà "La Casa sulla Scogliera": presto lo leggerò e vi dirò se riuscirà a compensare i difetti riscontrati in quest'altro libro.

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