venerdì 30 aprile 2021

70 - "Delitto in una Camera Chiusa" ("The Sealed Room Murder", 1934) di Michael Crombie

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Per iniziare questa recensione, vorrei spendere qualche parola di ringraziamento in favore dell'Editore Polillo in Rusconi. Infatti, all'interno della sua collana "I Bassotti", negli ultimi mesi esso ha rapidamente dato alle stampe numerosi volumi, permettendo a noi appassionati lettori di classica crime story di poter divorare alcune opere di genere inedite in lingua italiana. Da dicembre, sono stati pubblicati "Il Rompicapo" di Lee Thayer, "La Scatola Mortale" di Basil Godfrey Quin, "Delitti al College" di Clifford Orr e "Delitto in una Camera Chiusa" di Michael Crombie, oltre alla riedizione della seconda opera di Anthony Abbot, "Il Crimine del Secolo". Mica male, per un editore che (pur dovendo restare fermo a causa di diverse vicissitudini dovute a cause interne ed esterne) si sta imponendo sempre più come il baluardo a cui fanno riferimento i lettori di romanzi gialli in Italia. Escludendo le collane da edicola del Giallo Mondadori, con la Serie Regolare e i Classici in primis, che nel corso del tempo hanno un po' mollato il colpo e si sono stabilizzate in standard a volte mediocri (però noto un miglioramento in atto, quindi sono fiducioso che le cose possano raddrizzarsi), proprio Polillo per primo ha compiuto l'azzardo di perseguire la strada della pubblicazione di romanzi del mistero della tradizione angloamericana; per cui, mi sento in dovere di attribuire una sorta di merito alla lungimiranza del suo patron e dei suoi collaboratori, i quali si sono lanciati in una sfida che al giorno d'oggi fa ben sperare nella prosperità della crime story classica. Perché poi, cosa importantissima, nella maggior parte dei casi ciò che viene dato alle stampe da Polillo è materiale inedito, quindi testi che vanno a nutrire la schiera di titoli a disposizione per chiunque sia interessato senza proporre doppioni; è questo un aspetto importante della faccenda. E poco importa se qualche volta ciò che viene tradotto e proposto non è del tutto all'altezza delle aspettative: si tratta comunque di romanzi o raccolte di racconti che fa piacere veder disponibili, perché contribuiscono ad ampliare la scelta a seconda dei diversi gusti di ognuno di noi.

Personalmente, tra questi ultimi romanzi gialli che Polillo ha pubblicato ho apprezzato di più "Delitti al College", nonostante esso presenti alcune ingenuità dovute al fatto che sia l'esordio di Clifford Orr e sia pur sempre un mystery di matrice americana. L'enigma è stato di stampo molto classico, con padre e figlio intenti ad indagare, e l'atmosfera di terrore che aleggiava sulla Dartmouth University ha suscitato la giusta dose di brividi. Meno, invece, mi è piaciuto "Il Rompicapo" proprio a causa del suo essere fin troppo incentrato nel puro mistero del cadavere in mezzo alla neve, a discapito di altri aspetti essenziali in un giallo che si rispetti, come caratterizzazione dei personaggi e stile narrativo di Thayer. "Il Crimine del Secolo" di Abbot mi ha convinto nella parte legata al police procedural, tenuto conto della precisione con cui essa è stata delineata, e nella trattazione di un enigma ispirato al caso di true crime che vide coinvolti Hall e Mills. Di "La Scatola Mortale" di Quin e del romanzo che oggi recensisco per concludere questa rassegna, "Delitto in una Camera Chiusa" di Michael Crombie (Polillo Editore, 2021), ho invece apprezzato il lato più avventuroso della trama, poiché è stato quello che mi ha intrattenuto di più e che in un certo senso ha prevalso su tutto il resto. Questi ultimi esempi, infatti, non sono riuscito a considerarli del tutto come romanzi del mistero, quanto piuttosto libri "alla Edgar Wallace", dove sono le peripezie corse dai personaggi a stare sotto le luci dei riflettori, invece delle morti sospette di alcuni individui. Oltretutto, il mistero costruito da Crombie è del tipo inverted, per cui al lettore viene già rivelato il nome dell'assassino e il bello nella lettura sta nello scoprire come il colpevole venga incastrato dall'opera dei poliziotti e degli investigatori dilettanti che lo perseguono. Forse per questo motivo piazzerei "Delitto in una Camera Chiusa" un gradino sotto rispetto al giallo di Quin. Badate, la storia fila e non manca il divertimento; soltanto ci sono alcuni piccoli difetti che non mi hanno del tutto convinto nel corso dello scorrere delle pagine. Ma andiamo con ordine.

Barrow Hill, Malcolm Midwood Milne, 1939, raffigurante una
scena simile a The Maidens
La trama prende avvio con l'imminente attracco di una nave da crociera presso il porto di Southampton. A bordo di quest'ultima si trovano due giovanotti, Alan Napier che sta facendo ritorno in patria dopo un periodo trascorso in Oriente per fare carriera nel campo bancario, e il giornalista Larry Milner che invece ha passato gli ultimi tre mesi in America ad occuparsi di un caso spinoso per conto del giornale in cui lavora. I due hanno fatto amicizia durante il viaggio e sono entrati abbastanza in confidenza perché Napier potesse confidare all'amico il suo imminente ricongiungimento con un vecchio compagno di scuola, Eric Winter: sono passati molti anni dall'ultima volta che si sono visti di persona, e Alan nutre grandi speranze nell'incontro che si prospetta all'orizzonte. Oltretutto, Winter ha promesso di presentargli la sorella Patricia, una ragazza che lui ha visto soltanto in foto ma della quale si è ormai infatuato. In attesa di sbarcare, Napier e Milner si recano a fare colazione quando all'improvviso i lieti scambi tra i due vengono interrotti dall'arrivo di una lettera spedita proprio dalla signorina Winter. Le notizie che porta sono terribili: Eric è morto da una settimana per delle complicazioni dovute a febbre tifoide e la ragazza sospetta non si tratti di una casualità, ma di un deliberato omicidio architettato dallo zio Godfrey. Sconvolto dallo shock, Alan Napier sbarca non appena possibile per cercare delle risposte alle domande che si affollano nella sua testa... ed incappa proprio nell'avvocato Godfrey Winter, il quale minimizza il fatto che Patricia non sia venuta ad accoglierlo (come aveva promesso nella lettera) e lo invita a rimandare la sua visita a The Maidens in occasioni più liete. Alan non riesce a convincersi che l'uomo non lo stia prendendo in giro: forse sono state le parole della donna che ama ad influenzarlo, ma egli ha come l'impressione che l'altro si sia voluto sbarazzare di lui... E infatti, non appena Napier sale sul treno per Londra accompagnato da Milner, l'avvocato torna nella casa in cui alloggia assieme alla nipote e il lettore scopre come la sua coscienza sia tutt'altro che pulita. Winter è un giocatore incallito alle corse dei cavalli, conduce uno stile di vita che richiede molto denaro e ormai ha esaurito i fondi da investire; per cui è naturale che abbia ucciso il nipote per ereditare la sua fortuna. Patricia, tuttavia, ha le idee ben chiare sullo zio e si è già impegnata a diffondere i pettegolezzi più insinuanti e ad inviare una lettera nientemeno che a Scotland Yard, per spingere l'opinione pubblica a fare qualcosa per fermarlo.

Sfortunatamente per lei, Godfrey è un avversario temibile. Da buon avvocato, egli ha pianificato il suo crimine in modo da non lasciare tracce che possano essere ricondotte alla sua persona e ha studiato un modo inattaccabile per far cessare le voci che girano sul suo conto: accusare la nipote di essere matta ed eventualmente internarla da qualche parte per renderla inoffensiva. Patricia stessa si rende conto di quanto la sua vita sia in pericolo quando, dopo un'accesa lite con lo zio, si mette al volante della propria auto per raggiungere Londra e finisce fuori strada per la rottura dell'asse dello sterzo, opportunamente limata fin quasi a tagliarla da qualcuno che vuole metterla a tacere. Intanto Alan Napier non si dà pace: Milner è preoccupato per lui e decide di raccogliere qualche informazione ufficiosa da un poliziotto che conosce, l'ispettore Evans di Scotland Yard, il quale rassicura i giovanotti sull'integrità del verdetto sulla morte di Eric Winter. Però poi i tre leggono la notizia dell'incidente quasi mortale di Patricia. Strano, non è vero, che una ragazza così giovane e sveglia, a bordo di un auto nuova, sia uscita di strada in quel modo? Milner inizia a dubitare dell'innocenza di Godfrey Winter e sfrutta le conoscenze a propria disposizione al giornale e nei luoghi che frequenta di solito per fare qualche indagine discreta; e l'incontro con l'avvocato (il quale quasi lo sequestra in un impeto di irrazionale timore) lo convince della colpevolezza di quest'ultimo. Ma come provarlo? Forse, se tornasse a The Maidens potrebbe raccogliere qualche indiscrezione dalla gente del villaggio e trovare le risposte che cercano lui e Napier. Ma per prima cosa bisogna fare in modo che Patricia non sia più nelle mani di Winter; così  Alan si reca in tutta segretezza alla villa in cui ella è rinchiusa e, con un colpo da maestro, riesce ad introdursi nella casa e a sottrarre l'amata dalle grinfie del tutore legale. Ma le avventure e i pericoli non sono finiti qui... Milner, affiancato da Napier e Patricia, dovrà faticare a lungo prima di incastrare Winter; e più di una persona dovrà morire per mano dell'avvocato, nel suo irriducibile tentativo di salvarsi dal giudizio capitale.

Farmhouse Bedroom, Eric Ravilious, 1939, raffigurante un
interno simile alla camera dell'infermiera Hopkins
Come dicevo sopra, "Delitto in una Camera Chiusa" può essere considerato più un romanzo d'avventura con sfumature misteriose che il contrario, come sarebbe più probabile che fosse. Con questo non intendo stroncarlo: il livello è superiore a quello di "Congelato" di Anthony Weymouth, dove mi sentivo di respingere ogni cosa, dallo stile antiquato al mistero debole ai personaggi poco caratterizzati oppure sgradevoli. Almeno stavolta mi sono divertito nel leggere. Però non possiamo certamente considerarlo come un giallo a tutti gli effetti. Se le peripezie corse dai protagonisti vengono descritte seguendo una vena che si concentra più sull'azione pura e si tralascia il fattore enigma, al punto che ci interessa di più scoprire in quali pericoli incorrerà Milner rispetto alle mosse che egli metterà in pratica per sconfiggere il suo avversario, capirete che c'è un bel problema di fondo. Lo sbaglio compiuto da Crombie, a mio parere, è stato quello di voler fare troppe cose insieme. Da come era partito, l'assetto della trama lasciava intendere uno svolgimento sulla falsariga di "L'Insospettabile" di Charlotte Armstrong, con un presunto assassino che ben presto si rivela tale e i suoi tentativi calcolati di screditare i suoi accusatori, con una protagonista femminile minacciata dal colpevole. Credo che se le cose avessero continuato in questo senso, magari approfondendo l'aspetto psicologico del criminale, dei sospettati complici, dell'investigatore e dei suoi amici, con tanto di riflessioni e cambi di punto di vista a seconda del personaggio che compiva tali ragionamenti, "Delitto in una Camera Chiusa" si sarebbe rivelato un eccellente tentativo di introdurre in Inghilterra quel giallo di suspense che in America aveva trovato un terreno molto fertile su cui crescere e svilupparsi (come avrebbe poi dimostrato proprio il romanzo di Armstrong una dozzina d'anni dopo). Invece, di punto in bianco, l'indagine viene affidata al giornalista Milner il quale intraprende un metodo che si riconduce a quello di un suo egregio collega, quello Spargo protagonista di "Delitto a Middle Temple" che entusiasmò addirittura il presidente degli Stati Uniti e diede enorme fama a J.S. Fletcher. Cosa ancora più triste, Milner inizia a compiere azioni che lo mettono in aperta competizione con Godfrey Winter e gli impediscono quindi di approfittare dell'effetto sorpresa che magari avrebbe serbato ancora qualche dubbio sull'autentica colpevolezza dell'avvocato.

Da parte mia, ai fini dell'aspetto puramente enigmatico del romanzo, mi è molto dispiaciuto che la storia abbia preso questa deriva, poiché ha banalizzato tutto ciò che è venuto in seguito. L'indagine si è basata su una sorta di svelamento graduale degli indizi che avrebbero portato alla cattura e all'accusa di Winter senza dare modo al lettore di scoprirli (l'asse dell'auto trafugato dalla scena del delitto, ad esempio, viene consegnato nelle mani di Milner quasi con noncuranza, senza che ci sia stato dietro un importante lavoro di deduzione da parte sua). Pertanto, viene a cadere quel rispetto del fair play che mi sarei aspettato da un autore scozzese come Crombie; se "Delitto in una Camera Chiusa" fosse stato scritto da un autore americano, almeno non avrei avuto chissà quali aspettative. Per fortuna, questa deriva avventurosa della trama non ha tolto il piacere nello scoprire attraverso quanti pericoli il terzetto Patricia-Alan-Larry sono dovuti passare: la fuga rocambolesca da The Maidens, gli agguati e i ricatti, le visite notturne in camere sporche e gli scontri verbali-mentali tra protagonista e antagonista hanno svolto bene il loro compito,permettendomi di non annoiarmi mai fino all'ultima pagina. Però resto della mia idea iniziale, per quanto riguarda la riuscita del romanzo. Se l'autore avesse calcato meno la mano su cliché e su aspetti della trama che si riconducono al thriller sensazionalistico dei primi anni del Novecento (come complotti, ricatti da quattro soldi, travestimenti, fughe forsennate, scontri corpo a corpo), "Delitto in una Camera Chiusa" sarebbe riuscito meglio. E di sicuro proprio l'omicidio che dà il titolo al libro non si sarebbe trovato relegato agli ultimi tre capitoli, fatto e disfatto in fretta e furia! Per dare risalto all'importanza del sospetto gravante su Winter, Crombie ha tralasciato la materia fulcro del proprio romanzo. Per concludere questo discorso, tuttavia, spezzo una lancia a favore dell'autore per il fatto di aver usato un caso di true crime per prendere spunto per l'omicidio di Eric Winter: infatti, è esistito veramente un tale William Darling Shepherd che, a Chicago, ha ammazzato il giovane nipote William McClintock usando la febbre tifoide come scusa. Molto ingegnoso da parte di Crombie, ma non abbastanza per più di una modesta riuscita del suo libro.

Copertina della prima edizione originale
di "Delitto in una Camera Chiusa"
Michael Crombie, pseudonimo usato dal giallista James Ronald per firmare sette romanzi del mistero, è un altro autore del quale si possiedono pochissime informazioni. Nonostante la sua prolificità, infatti, egli rimane una figura avvolta da una relativa oscurità, poiché fu sì famoso in patria per aver scritto una quarantina di gialli, ma per il resto si conosce poco o nulla su di lui. Nacque a Glasgow, in Scozia, nel 1905, ed esordì nella letteratura di genere nel 1932 con "Counsel of Defence". Fin da quell'anno Crombie si diede molto da fare, arrivando a volte a scrivere ben quattro libri all'anno fino al 1938 quando si trasferì in Connecticut e rallentò notevolmente il ritmo di pubblicazione delle proprie opere. La sua passione più grande, condivisa da un gran numero di colleghi, era quella per il delitto della camera chiusa e su questo sottogenere egli di impegnò per dare vita a storie ambientate nel mondo della piccola borghesia. Protagonista dei romanzi che firmò col suo vero nome è il giornalista Julian Mendoza del "London Morning World", il quale esordì nel 1934 in "Death Croons the Blues" e apparve in seguito in "Cross Marks the Spot" (1933), nel quale egli indaga su un omicidio avvenuto in un appartamento occupato dalla sola vittima; "Murder in the Family" (1936) dove una signora viene strangolata alla presenza della nipote che sta leggendo un libro; "Promessa Mantenuta" (1942), in cui un signore rinchiuso in manicomio pare deciso a gustare una dolce vendetta contro i soci che lo hanno internato a suo dire senza necessità. Il più celebre, tuttavia, resta "This Way Out" del 1940, il quale venne trasposto su pellicola da Robert Siodmak nel film "Quinto: non ammazzare!" interpretato da Charles Laughton ed Ella Raines. Come Michael Crombie, invece, pubblicò solo alcune opere tre il 1934 e il 1941 che al giorno d'oggi sono rarissime e vendute a prezzi esorbitanti, dove il protagonista è l'altro giornalista Larry Milner, il quale si differenzia da Mendoza soltanto per poche caratteristiche fisiche. Oltre al fatto che Crombie tornò in patria nel 1955 e che da quel momento fino alla sua morte, avvenuta nel 1972, non pubblicò più nulla, le uniche altre informazioni che possediamo sul suo conto vengono da voci e chiacchiere. J.F. Norris del blog Pretty Sinister Books (che vi invito a consultare, dal momento che ha recensito "Delitto in una Camera Chiusa" in modo diametralmente opposto al mio) ha infatti riportato come un suo amico, il libraio Jamie Sturgeon, gli abbia confidato che Ronald sia stato costretto a tornare a Glasgow in seguito a una faccenda poco chiara di debiti verso lo Stato di New York, e che forse egli abbia adottato un giovane in modo non ufficiale.

Questo è quanto sappiano su Michael Crombie/James Ronald. Che altro si può aggiungere? Basandomi su "Delitto in una Camera Chiusa", ho avuto l'impressione che egli fosse un conservatore, nel senso che non andasse molto alla ricerca di innovazioni originali, sia nei temi sia negli aspetti formali, da inserire nei suoi libri. Proprio quello recensito oggi presenta una serie di luoghi comuni a molti romanzi dei primi del Novecento, dove l'onore, la cavalleria, il melodramma e tutte queste faccende andavano per la maggiore. Alla maniera dell'opera di Wilkie Collins, esistono complotti per danneggiare la reputazione di personaggi che non possono ribellarsi e devono combattere per averla vinta su inquietanti individui pronti a tutto pur di sopraffarli; l'azione predomina sul mistero al punto da occupare un ruolo fin troppo di primo piano, indebolendo la forza di "Delitto in una Camera Chiusa" e relegandolo a mera storia d'avventura con piccole sfumature di genere crime. Nemmeno l'ambientazione spicca più di tanto, essendo confinata a brevi descrizioni che appaiono scarne e frettolose. Lo stile è buono, pur non restando impresso nel lettore; per capirci, nello stesso anno in cui Crombie diede alle stampe questo libro, Dorothy L. Sayers pubblicava "Il Segreto delle Campane": il periodo è lo stesso, ma i risultati sono assolutamente e impietosamente differenti. Pure i personaggi non convincono del tutto: non sono antipatici come quelli di "Congelato", però a mio parere non prendono vita del tutto, restano come imbrigliati in stereotipi e in uno sfondo simile a carta moschicida. Ancora una volta, l'azione e il melodramma li caratterizzano, tralasciando lo studio della psicologia che li avrebbe resi migliori e più di impatto. Patricia assomiglia prima a un'isterica e in seguito quasi scompare dal racconto; Alan Napier fa la stessa fine, incarnando però prima l'ideale stereotipato dell'eroe che accorre in soccorso dell'amata peraltro mai incontrata dal vivo. Godfrey Winter assomiglia a quegli antagonisti diabolici ma incapaci di affrancarsi dal tipo "freddo-che-ride-sinistro-dominando-tutti". Milner soltanto riesce ad essere descritto a tutto tondo, essendo l'investigatore protagonista, ma ancora una volta l'autore cade in luoghi comuni e non riesce a conferirgli alcuna originalità. Per quanto riguarda gli altri attori sulla scena, sono figure incapaci di spiccare abbastanza per ottenere ruoli importanti, nonostante alcune figure (come quella del ragazzino che aiuta Milner nelle indagini a The Maidens) risultino simpatiche. Insomma, "Delitto in una Camera Chiusa" è una lettura che non lascia grandi segni, pur intrattenendo chi legge adeguatamente: si tratta di un libro che si inserisce meglio in quel filone che vede al suo interno pure "Il Mistero del Diario" di Milward Kennedy e A.G. Macdonell, nel quale sono le avventure corse dai protagonisti ad occupare soprattutto la trama e il carattere mystery viene declinato in base ad esse, non al contrario come sarebbe meglio che fosse. Pazienza. Consiglio questo giallo di Crombie a chi desidera trascorrere qualche ora in quieta tranquillità, senza serbare grandi aspettative sull'evoluzione dell'indagine che, a mio parere, non bisognerebbe neppure considerare come "delitto della camera chiusa" poiché relega questo aspetto alla parte finale del racconto.


Link a Delitto in una camera chiusa su Libraccio

Link all'edizione italiana su Amazon:

venerdì 23 aprile 2021

69 - "Il Mostro del Plenilunio" ("It Walks by Night", 1930) di John Dickson Carr

Copertina dell'edizione in lingua originale
pubblicata dalla British Library Crime
Classics
Se siete assidui frequentatori ed attenti lettori di Three-a-Penny, ricorderete come circa un paio di anni fa (quanto corre veloce il tempo!) mi ero deciso a recensire "L'Arte di Uccidere" di John Dickson Carr, il secondo romanzo giallo scritto dal Maestro del delitto della camera chiusa, con protagonista l'uomo di punta della polizia parigina Henri Bencolin. In quell'occasione, per introdurre il discorso sull'opera, mi ero soffermato sul fatto che l'editore inglese British Library, all'interno della collana "Crime Classics" curata dal critico Martin Edwards, avesse in programma di ripubblicare in lingua originale l'opera prima di questo scrittore, quel "It Walks by Night" che tanti problemi di cessione dei diritti e copyright aveva dato impedendo così una sua ricomparsa sugli scaffali da libreria per moltissimo tempo. Ebbene, alla fine la faccenda è andata in porto: il titolo è stato reso disponibile e questo piccolo grande miracolo ha permesso a chiunque padroneggi abbastanza l'inglese di gustare di nuovo l'oscuro fascino e l'ambigua bellezza di questo esordio che tanto già rivelava sulla narrativa di Carr. Con l'aggiunta in appendice, tra l'altro, di un racconto in cui indaga sempre Bencolin, dal titolo "The Shadow of the Goat". In Italia, purtroppo, le cose non sono andate altrettanto bene: se da una parte esiste una traduzione risalente agli anni '50 del secolo scorso, essa risulta ormai "fuori moda" in quanto alla terminologia usata e piena di tagli al testo originale, oltre a presentare un errore eclatante e madornale che influisce sulla scoperta del colpevole. E la cosa più grave è che pare non sia in cantiere alcuna ritraduzione o svecchiamento di quella già presente nelle edizioni italiane (soltanto tre, tra l'altro difficili da rintracciare se non nei mercatini dell'usato e nelle piattaforme web di compro-vendo libri). Personalmente, credo sia un fatto serio che un'opera tanto celebrata, famosa e avvincente quale "It Walks by Night" non sia stata ancora resa disponibile per il lettore italiano di classica crime story; eppure, finché non si deciderà di investire su di una nuova traduzione, le cose non cambieranno oppure lo faranno difficilmente: la soluzione più attuabile che mi viene in mente, sarebbe quella di fare un confronto tra il testo originale in lingua inglese e la traduzione anni '50 in italiano, per completare quest'ultima con le parti mancanti.

Siccome da tempo desideravo rimettermi in pratica nella traduzione, dopo gli sforzi perseguiti su "The Golden Age of Murder", io stesso ho deciso di tentare un'operazione del genere. Tempo fa mi sono procurato una copia del volume in lingua inglese; e poiché avevo già in mio possesso il volumetto dei Classici del Giallo Mondadori tradotto, in una settimana mi sono impegnato a fondo per selezionare i paragrafi che sono stati tagliati ed ignorati dalla precedente traduttrice... col risultato che, alla fine, ho rimesso mano all'intera lunghezza del romanzo e lo ho trasposto in italiano da cima a fondo. Infatti, ben presto mi sono accorto di quanto fosse povero il testo dell'edizione riportata al numero 196 dei Classici del Giallo, privo com'era di molte parti narrative che sono a tutti gli effetti spezzoni integranti la narrativa di Carr. Il risultato finale, a mio parere, si è discostato moltissimo da quello della prima trasposizione nella nostra lingua: se l'atmosfera da incubo tanto caratteristica della letteratura del Maestro del delitto della camera chiusa era stata quasi del tutto cancellata e ridotta, adesso essa trasudava dalle pagine in una sorta di abisso profondo, un buco nero che inghiotte quanto incappa nella sua strada. Ribadisco ancora una volta il concetto che gli appassionati di giallo in Italia si meritino una traduzione decente di questo esordio a dir poco impressionante, dove sembra di camminare attraverso una specie di sogno ad occhi aperti, in cui si intrecciano eventi mostruosi come decapitazioni, bagni di sangue, sorprese sgradevoli al chiaro di luna, scene impressionanti alla luce fioca delle candele, assieme a idilliaci incontri in camere arredate secondo lo stile vittoriano e intime discussioni sotto pioppi e altri alberi scossi dal vento e irradiati dal sole primaverile. Nel frattempo, io mi impegno a presentarvi questo romanzo seguendo il testo originale: non sia mai che qualcuno si renda conto della grandiosità dell'enigma che esso racchiude, oppure della maestosa solennità delle descrizioni che l'autore fa nel corso del racconto, e decida di dare il giusto riconoscimento a quello che in italiano viene chiamato "Il Mostro del Plenilunio" (Classici del Giallo Mondadori n. 196, 1975).

Caffè Greco, Renato Guttuso, 1976, simile al locale
Fenelli in cui si svolge parte della trama
Ad accentuare questo carattere gotico e impressionante, la storia inizia con la descrizione di un mostro mitologico; quel lupo mannaro che popola le fiabe dei bambini e le storie del folklore degli adulti soprattutto nel centro Europa. Il giovane Jeff Marle si è visto recapitare un volume con all'interno questo testo da Henri Bencolin, l'uomo di punta della polizia parigina e suo intimo amico, poco prima che loro due si rechino al Club Fenelli per occuparsi di una faccenda che riguarda il proprietario del libro. Infatti, Bencolin ha chiesto al professor Grafenstein, un luminare delle malattie psichiatriche di Zurigo, di raggiungere lui e Marle in un'alcova del salone principale del locale per discutere di Alexandre Laurent, un giovanotto all'apparenza sano di mente ma che qualche tempo prima ha tentato di ammazzare la novella sposa con un rasoio, in una sorta di quieto raptus. Laurent è un appassionato lettore di storie del terrore e di miti raccapriccianti, oltre che di poeti maledetti e altre amenità; e Bencolin è a disagio nel dover constatare che, dopo un periodo di prigionia in un ospedale psichiatrico, Laurent sia riuscito a fuggire. Cosa più grave ancora, l'ex signora Laurent, madame Louise, si è lasciata alle spalle la traumatica esperienza col precedente marito (o almeno ha fatto il possibile per dimenticare) e nel frattempo si è risposata con un aristocratico atletico ma un po' ingenuo, il Duca di Saligny. Quindi, è chiaro come Laurent possa diventare un pericoloso avversario per la coppietta. In realtà, egli ha già inviato un messaggio minatorio a Louise e ha fatto una fugace apparizione nel bagno della casa di alcuni amici dei due, i coniugi Kilard, per poi scomparire nel nulla. Inoltre, poco dopo essere fuggito dal manicomio, Laurent si è recato da un chirurgo plastico della malavita, si è fatto cambiare i connotati del volto e, per concludere al meglio l'opera, ha ammazzato il medico che poteva smascherarlo. Tutta questa storia viene riferita da Bancolin a Grafenstein, e il primo si domanda se non sia il caso di farsi affiancare dal luminare per risolvere lo spinoso problema dell'ossessione di Laurent; magari il dottore potrebbe dargli una parere pure su Saligny e madame Louise, i quali si trovano proprio da Fenelli.

E infatti, poco dopo, la donna si avvicina al loro tavolo. Si tratta di una bellezza un po' oscura, affascinante, magnetica ma, allo stesso tempo, offuscata da un velo di malinconia mista a tristezza e a un sospetto abuso di sostanze stupefacenti. Sedutasi, mostra segni di irrequietezza: teme che Laurent abbia seguito lei e Saligny per far loro pagare l'essersi sposati, e chiede protezione a Bencolin, il quale osserva pigramente il salone in cui si trovano. All'improvviso, proprio all'altro capo della stanza, il gruppetto scorge la schiena di un uomo che attraversa l'uscio che collega il salon alla sala da gioco: "eccolo là, il Duca" osserva annoiata Louise. Poi la porta si richiude alle sue spalle, precludendolo alla vista. Passano pochi minuti, durante i quali Marle si interroga sul destino impietoso che si è accanito sulla signora che siede al suo fianco e sulla pazzia di Laurent; poi un inserviente si avvicina alla porta attraversata da Saligny con un vassoio e, proprio sulla soglia, lo fa cadere a terra. Lo spettacolo che si presenta agli occhi del poveretto, del signor Fenelli e del gruppo nell'alcova (accorso senza dare nell'occhio) è terrificante e orrendo: il Duca di Saligny giace a terra come inginocchiato, in una pozza di sangue fuoriuscita dal moncherino della sua testa decapitata e sistemata con cura ad osservare, con occhi sgranati e vuoti, i tardivi soccorritori. Bencolin prende immediatamente in mano la situazione, convoca i suoi agenti sparsi sul piano nelle varie stanze e si assicura che nessuno possa interferire con le indagini che si appresta a compiere. Il primo ad arrivare è Francois, l'uomo migliore che il prefetto tiene alle sue dipendenze, il quale è stato piazzato all'altro capo della camera, davanti all'unica altra porta che conduce nella sala da gioco. "Ebbene?" domanda Bencolin, "è passato qualcuno da quella parte?". La risposta dell'agente è sconcertante: "No, signore". Come può essersi quindi volatilizzato l'assassino di Saligny? I tempi e gli alibi dei sospettati (tra cui figurano le conoscenze della vittima: Fenelli, madame Salingy, un tizio dall'aria aristocratica di nome Edouard Vautrelle, la coppia dei Kilard che si è allontanata sul presto dal locale, un giovanotto americano chiamato Sid Golton che ha tutta l'aria di essere ubriaco, una misteriosa ragazza che giace in un letto al piano di sopra) coincidono e sembrano completarsi l'uno con l'altro: allora, chi ha ucciso Saligny? Starà a Bencolin dimostrare come un delitto impossibile abbia potuto verificarsi ed incastrare l'assassino... ma non dopo che qualcun altro abbia presenziato al suo appuntamento con la Morte.

Piantina del secondo piano del locale Fenelli
Per essere un esordio, "Il Mostro del Plenilunio" di John Dickson Carr non è affatto male. Al suo interno ci sono alcune ingenuità, quello è sicuro; però mi sento di affermare con una certa sicurezza che se tutti gli autori di romanzi gialli, e non solo, fossero in grado di produrre come opera prima un libro di questo calibro, saremmo tutti molto fortunati. Perché, in sostanza, già da qui si possono riscontrare il talento acerbo e le tante caratteristiche che costituiranno in futuro la straordinaria narrativa del Maestro del delitto della camera chiusa; magari ancora abbozzati, ma comunque presenti e rintracciabili se si aguzzano gli occhi e il cervello. D'altronde, non è questo il primo sforzo letterario di Carr: in precedenza, egli aveva pubblicato qualche racconto sul "The Haverfordian", un giornale universitario, con protagonista proprio Henri Bencolin; per cui è comprensibile come "Il Mostro del Plenilunio" appaia in una forma quasi perfetta, derivando da "Grand Guignol" apparso su questa rivista nella primavera del 1929. Pertanto, ci troviamo di fronte a un mystery capace di stregare il lettore e di trasportarlo come dentro un'incubo, nonostante una certa tendenza al melodramma che un po' spezza il senso di realtà delle vicende narrate. Chiamato in un primo momento "With Blood Defiled", esso getta le proprie fondamenta su quell'aspetto che ha dato e darà sempre a Carr fama imperitura: il suscitare un'atmosfera gotica, tenebrosa, nella quale il lettore si dibatte come catturato e imbrigliato nella ragnatela di un enorme insetto. Quello che circonda i personaggi richiama il macabro in un eccesso di descrizioni fiume, vivide e oscure allo stesso tempo, attraverso l'uso di immagini suggestive come salotti immersi nella penombra, candele che ardono sopra tavole imbandite, chiari di luna contro edifici immersi nella penombra o al chiaro di luna, figure inquietanti che emergono dalle ombre negli angoli delle camere e delle strade, oppure bussano con dita frementi alle finestre per attirare le persone sprovvedute nelle loro grinfie tanto più umane di quanto si possa credere. Ogni cosa si staglia contro lo sfondo, quasi brillando di luce propria e imprimendosi nella mente del lettore che si lascia coinvolgere nel racconto e percepisce i fatti narrati molto più realmente di quanto non siano in realtà. Già, perché se da un lato Carr utilizza questa tecnica per dare risalto alle vicende, agli indizi e a ciò che avviene nel corso dei due giorni di indagine di Bencolin, dall'altro introduce uno spiccato senso di irrealtà in quanto narra. Non siamo ancora ai livelli di "Le Tre Bare" oppure "Il Terrore che Mormora"; in "Il Mostro del Plenilunio" le suggestioni vengono calcate e sottolineate a forza, proprio per inesperienza e timore di non riuscire a imprimere la giusta dose di dramma ai fatti.

Carr infila qualsiasi cosa gli passi per la mente, quando pensa al romanzo giallo dei primi anni del Novecento che ha furoreggiato in America (il suo paese natio) e a quello vittoriano proveniente dalle letture di gioventù nella biblioteca del padre (non solo Poe, Chesterton e Leroux, ma pure Dumas e i classici francesi del secolo precedete): un esempio è l'uso della spada come arma del delitto, quale ricordo dei duelli dei Tre Moschettieri e dei romanzi di cappa e spada; oppure le tormentate storie d'amore che vedono intrecciarsi i protagonisti. Inoltre, è presente una sorta di mistico Fato che agisce sopra ad ogni cosa, in una chiara citazione ai racconti in cui Padre Brown agisce ed egli si ritrova a riflettere su cosa siano il Bene e il Male. Ma oltre a questo, troviamo pure un gusto per la suspense davvero esasperato, che quasi non permette a chi legge di tirare il fiato e pare trascinare e strattonare il lettore a forza lungo le pagine che si sfogliano. Non avranno mai pace, sembra sogghignare Carr: poiché incarniamo il personaggio di Marle, spesso attonito di fronte agli eventi che si susseguono in rapida successione, prima si troviamo di fronte a un dialogo dai significati oscuri, poi veniamo presentati a una donna affascinante che ci racconta una storia incredibile su un fantasma che lascia cadere una cazzuola in un bagno, poi ancora rinveniamo un cadavere dalla testa mozzata che nessuno può aver decapitato. Dipingere e spiegare l'impossibile e l'assurdo è lo scopo dell'autore; spiazzare chi legge facendo leva sulle armi migliori su cui un giallista può contare, senza curarsi di apparire ridondante ed eccessivo. Per quanto mi riguarda, si è trattato di una mossa a doppio taglio: il mio gusto per il melodrammatico è stato ampiamente ripagato da questo modo di agire "sopra le righe", ma bisogna mettere in conto che il proverbio dice "il troppo stroppia". Pertanto, "Il Mostro del Plenilunio" si presenta sì come un esordio fantastico (inteso in più declinazioni) e che fa una sicura presa sul lettore, ma allo stesso tempo rischia di eccedere nel trattare le vicende con la misura giusta a cui ci si dovrebbe attenere. Un capolavoro imperfetto, ecco come si potrebbe considerare questo giallo di Carr.

John Dickson Carr, nato nel 1906 e morto
nel 1977
L'ingegnosità delle trame e il fascino per "l'impossibile che diventa realtà", oltre che per i trucchi di prestigiatori come quello sopra citato, sono sempre state caratteristiche innate di John Dickson Carr (o Carter Dickson, per usare lo pseudonimo con cui firmò i romanzi con Henry Merrivale), alla pari del concetto di voler "giocare una partita" col suo pubblico ad armi pari. La pretesa del rispetto del fair-play e la scommessa che poneva in ognuno dei suoi numerosi libri (come quella costituita dallo speciale sigillo che è stato messo nella prima edizione di "Il Mostro del Plenilunio", col quale sfidava i lettori a batterlo in astuzia) farebbero pensare che egli fosse nato in Inghilterra, la patria del giallo deduttivo; invece, la città che gli diede i natali fu l'americana 
Uniontown, in Pennsylvania. Laggiù, mentre suo padre aveva felicemente intrapreso la carriera di avvocato e pregustava una futura associazione col figlio, Carr iniziò invece il lungo percorso che lo avrebbe portato a diventare uno dei giallisti più famosi di tutti i tempi: dapprima, dimostrando una memoria formidabile con la recitazione di monologhi tratti da "Amleto", pagine di D'Artagnan, Sherlock Holmes e "Il Mago di Oz"; e poi attraverso la scrittura di racconti, pubblicati sul giornale scolastico dello Haverford College, dove esordì la figura del giudice istruttore Henri Bencolin di Parigi. Nel 1928, lo scarso rendimento scolastico spinse i suoi genitori a compiere la scelta estrema di allontanarlo dagli Stati Uniti in favore della Francia, dove avrebbe dovuto studiare alla Sorbonne. Il posto, tuttavia, non si addiceva a un giovane dalle idee conservatorie come lui e la vita da bohémien trovò una ferma opposizione da parte sua; eppure, l'ambiente si mostrò favorevole per dare il tocco finale al romanzo che stava scrivendo. Fu così che nacque "Il Mostro del Plenilunio", la versione ampliata e rivista di un lungo racconto che Carr aveva scritto ai tempi della scuola americana, "Grand Guignol", proprio con Bencolin quale personaggio principale. Il modesto successo che arrise al suo protagonista, rispetto ai successivi Fell e Merrivale, per qualche tempo costrinse Carr a tornare in America dai genitori; finché, nel 1930, durante una crociera, incontrò Clarice Cleaves, una ragazza di Bristol che poco dopo sarebbe diventata sua moglie. È curioso come proprio "Il Mostro del Plenilunio" sia stato il tramite attraverso cui Carr e Clarice iniziarono a scambiarsi le prime confidenze: in "The Golden Age of Murder", infatti, Martin Edwards ha spiegato che, in seguito al loro primo incontro nella sala del parrucchiere di bordo, i due futuri sposi trascorsero una serata a ballare e chiacchierare del più e del meno, finché Carr non accennò al fatto che aveva scritto una detective novel e chiese a Clarice se le avrebbe fatto piacere leggerla. In realtà, la ragazza non nutriva un particolare interesse in indagini e assassini fittizi; eppure, non ebbe cuore di deludere le evidenti aspettative del suo nuovo amico ed accettò di dargli un responso su quel libro. In quel modo, tra i due scoccò la scintilla ed entro un paio d'anni si trasferirono definitivamente in Inghilterra, dove la novella signora Carr intendeva far nascere le sue figlie. Anche suo marito (che nel frattempo aveva deciso di abbandonare Bencolin in favore di altri due personaggi molto simili tra loro, il dottor Gideon Fell e l'avvocato Henry Merrivale) fu entusiasta della scelta: dopotutto, era la patria dei suoi idoli d'infanzia, Chesterton e Doyle (del quale in seguito fu co-autore della biografia ufficiale), e sembrava che laggiù fosse il posto ideale per scrivere gialli sullo stile tradizionale; senza contare il fatto che la Storia dell'Europa cui poteva attingere avrebbe fornito molto materiale per il tipo di libri che intendeva scrivere.

Un'altra caratteristica dell'opera di Carr, infatti, è quella di affondare le proprie radici in miti e leggende molto antiche: ne sono un esempio le numerose citazioni che possiamo trovare all'interno di romanzi come "Il Terrore che Mormora", la cui trama ruota sul vampirismo, oppure dello stesso "Il Mostro del Plenilunio". Qui sono i lupi mannari, le bestie assetate di sangue e capaci di trasformarsi in uomini e donne pur mantenendo la loro anima selvaggia, ad occupare la trama e a fornire la base per i misteri del libro. Si tratta di argomenti che, proprio grazie alla loro aura di velato soprannaturale, si prestano ad essere interpretati e sfruttati in modo da fornire al lettore una base relativamente reale per un delitto immaginario, e che permisero a Carr di dare sfogo a un'insaziabile sete di ricerca storica. Questa passione emerge dalla lettura di alcuni romanzi giallo-storici, come "La Sposa di Newgate", "Il Diavolo Vestito di Velluto" e "La Corte delle Streghe" (uno dei suoi capolavori) e viene spesso incarnata dai personaggi dei suoi gialli. Tuttavia, fu il Delitto l'argomento a cui Carr si sentì più legato; tanto che i suoi detective soffrirono di una vera e propria ossessione nei confronti della Storia del Crimine: Bencolin, Merrivale e Fell, infatti, di volta in volta si fecero portavoce dei pensieri dell'autore, attraverso semplici citazioni (pure di casi reali, come avviene in "Occhiali Neri") ma anche con l'utilizzo di piccole "conferenze" sull'omicidio e la sua applicazione nei romanzi del mistero. Senza contare il breve scambio di battute sulla mentalità dell'assassino alle prime pagine di "Il Mostro del Plenilunio" se ne può leggere una prova nel dialogo che Marle, Bencolin e Grafenstein mettono in scena alle pagine 138-139: in questa occasione, i tre discutono su quanto sia importante per un investigatore la conoscenza del proprio mestiere basata sulla scienza, e se i poliziotti in America non utilizzino metodi poco intelligenti per scoprire la verità nelle loro indagini. Inoltre Marle, da buon Watson di turno, sembra propenso a considerare la realtà delle cose più eccitante della finzione, il suo compagno però si dichiara fermamente contrario. È la fantasia a dare forma al mondo reale, sostiene Bencolin, per cui lo scrittore non deve sforzarsi di tradurre con troppo rigore la realtà che lo circonda in materiale per i suoi libri, ma limitarsi a narrare una storia che, per quanto possa apparire a volte improbabile e con personaggi simili ai burattini del teatro, procuri divertimento al lettore.

Seconda edizione italiana di "Il
Mostro del Plenilunio" purtroppo
tagliata e fallata
Un assunto che dimostra al meglio quale fosse la concezione di Carr riguardo il romanzo giallo: costruire vicende credibili in cui, tuttavia, non mancasse quel pizzico di irrealtà che li contraddistingue da mere cronache. Non per caso egli fu il primo americano ad essere ammesso nel Detection Club, grazie al sostegno di Dorothy L. Sayers e Anthony Berkeley; dopotutto, sono evidenti la comunione di interessi per il true crime e intenti a cui egli stesso e gli autori della Golden Age miravano. Nei suoi gialli, infatti, si possono ritrovare diversi elementi che rimandano alla crime story di quel periodo, contrassegnati da un palese uso del contrasto. Sopra abbiamo visto come l'atmosfera sia macabra e inquietante; ebbene, ciò viene dato dall'accostamento di momenti ironici (come durante i battibecchi tra Marle e Sharon Grey) con altri dove invece dominano il terrore. Luce e buio occupano un ruolo importantissimo in questa sorta di gioco: traducendo, mi sono reso conto che Carr ha dato risalto al brillio, alla lucentezza, allo splendore, al luccichio di tantissimi oggetti e parti del corpo dei suoi personaggi, come le spalle delle signore, le fiammelle tremolanti delle candele, le lampadine elettriche che scacciano le ombre, gli occhi che secondo la tradizione rivelano l'anima di una persona. Di volta in volta, tutto ciò cambia a seconda di un movimento, di un soffio di vento, di un balzo improvviso; simbolicamente, l'autore ci suggerisce come non ci dobbiamo fidare di nessuno dei sospettati, poiché nascondono lati del loro carattere che non sempre è piacevole scoprire. Pure i colori, tra i quali domina il rosso in contrasto all'oro, vengono sottolineati da Carr per dare risalto alle vicende e assumono carattere allegorico: il primo è ovviamente quello del sangue, ma pure della passione e dell'odio cieco; il secondo quello che si associa tanto all'avidità quanto alla nobiltà (vera o falsa che sia); c'è poi il verde scuro con l'argento delle pareti del terzo piano di Fenelli, dove si verificano le nefandezze più scellerate, il quale assume qualità paludose. In terzo luogo, contrastano tra loro l'apparente impossibilità dei delitti commessi in "Il Mostro del Plenilunio": all'inizio i fatti ci vengono dipinti come se fossero favole, miti e leggende da considerare in astratto, ma poi i delitti diventano qualcosa di fin troppo tangibile, da indagare attraverso l'uso della scienza e della logica. Non per niente, a mo' di indizio viene inserita nella trama una copia del libro dell'assurdo per eccellenza, "Alice nel Paese delle Meraviglie".

Quindi pure l'enigma gioca su tutta una serie di scontri metaforici, poiché mette insieme logica e pazzia, scienza e suspense, freddezza e passione, calcolo e audace improvvisazione, attingendo sotto alcuni aspetti a una nota tragedia di William Shakespeare. Proprio per questo, però, questo romanzo non dovrebbe essere considerare troppo riuscito: infatti, se da una parte riesce a portare a casa un mistero con una spiegazione plausibile e possibile ai fini delle leggi della fisica, in quanto a probabilità di riuscita suscita più di una perplessità (perché quando quel personaggio ha fatto quella cosa, l'altro non si è insospettito? Come ha fatto quello a non vedere quella cosa accadere? Ecc...). Inoltre, l'enigma deve una certa parte della sua costruzione all'attingere da parte di Carr all'opera di alcuni suoi colleghi: la parte scientifica da Richard Austin Freeman, la tabella oraria da Freeman Wills Crofts, l'ambientazione suggestiva e orrorifica da Edgar Allan Poe e alcuni aspetti della caratterizzazione dei personaggi da Gaston Leroux. Proprio su questi ultimi ritroviamo per l'ennesima volta un contrasto che sottintende significativamente il tema del doppio: ognuno dei protagonisti, compresi Marle e Bencolin, presentano una natura che non si riesce mai a focalizzare del tutto. L'investigatore ci viene dipinto come una sorta di individuo satanico, con i capelli che assomigliano alle corna di un satiro e un inquietante ghigno che spesso compare sulle sue labbra, eppure è un personaggio capace di dimostrare una certa empatia verso chi se la merita; Marle divide la propria natura tra l'irruenza e la quiete, tra la stupidità del tipico Watson e l'essere in grado di ragionare con lucidità; Saligny e Laurent rappresentano le facce diametralmente opposte di una stessa medaglia agli occhi di Louise, la quale divide la propria anima tra disperazione e determinazione; Edouard Vautrelle si atteggia a gran signore, ma forse nasconde un passato da misero soldato; Sharon Grey desidera disperatamente emanciparsi dalla condizione di prostituta ma continua a prestarsi a relazioni equivoche; Sid Golton adotta un comportamento ambiguo con madame Saligny, pur presentando un volto all'apparenza gioviale.

Infine, voglio sottolineare come "Il Mostro del Plenilunio" sia un romanzo giallo più crudo di quanto ci si potrebbe aspettare. Non solo ci sono grandi spargimenti di sangue, decapitazioni, mani insanguinate oppure gelide che toccano con le loro dita molli e corpi decomposti, ma pure personaggi ritratti semi-svestiti, psicopatici e folli contro i quali bisogna combattere. La moralità esiste e non esiste al tempo stesso, poiché crimini di tutti i tipi commessi dai personaggi meno sospettabili vengono a galla nel corso della narrazione. Non è un giallo edulcorato, dove anziane signorine prendono il tè e discutono del delitto; qui Carr ci fa piombare in un terrificante incubo dove lo stesso concetto di giustizia non incarna un ideale condiviso pienamente. Bencolin persegue nel proprio compito di investigatore più nel ruolo di giudice che in quello di poliziotto, alla ricerca di un riscatto dal fallimento nel proteggere Saligny; non è la cattura della preda a spronarlo. L'ambiguità morale di colpevoli e vittime, con la distinzione tra Bene e Male, corona un romanzo giallo che, pur non essendo un libro che tocca la perfezione, di sicuro si piazza tra i capolavori del genere e merita di essere conosciuto da tutti gli appassionati. Magari pure quelli italiani, con una traduzione adeguata.

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venerdì 16 aprile 2021

68 - "Delitti al College" ("The Dartmouth Murders", 1929) di Clifford Orr

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Ricollegandomi al discorso di introduzione alla recensione della scorsa settimana, per "La Scatola Mortale", oggi vorrei dilungarmi un po' di più su quegli autori che hanno sì pubblicato poco, nel corso della loro carriera, ma non per cause di forza maggiore come decessi improvvisi (come Christopher St. John Sprigg) o impedimenti di carattere medico (Annie Haynes) oppure legale (Milward Kennedy); quanto per cause dipendenti da una scelta consapevole o comunque legata a un percorso personale. Mi spiego meglio. Fatto curioso: all'interno della classica crime story più di un/una giallista, a un certo punto della propria vita, ha deciso di darci un taglio con le storie del mistero e di delitti fittizi per dedicarsi a tutt'altra materia. Così, in modo un po' improvviso per chi seguiva le loro carriere con entusiasmo e si augurava che esse proseguissero ancora per anni e anni. Si tratta di un discorso che non purtroppo non potrà mai avere una spiegazione del tutto soddisfacente, dal momento che bisognerebbe aver chiesto ai diretti interessati il motivo di questo repentino cambio di rotta ed essere soprattutto sicuri che le loro risposte siano state sincere (cosa di cui personalmente averi dubitato, conoscendo la fama di autori abituati ad ingannare i lettori con storie credibili ma fittizie); eppure, vorrei provare ad avanzare qualche ipotesi sui motivi che li hanno spinti a compiere questo gesto. Ad esempio, abbiamo Anthony Weymouth (ricordate, l'autore di "Congelato"?) il quale ha scritto alcuni romanzi gialli sfruttando la conoscenza derivata dalla pratica della professione di dottore, nel corso di sette anni... per poi decidere di proseguire soltanto la carriera medica, senza pubblicare altro di genere crime. Per quale motivo ha deciso di fare ciò? Per quanto mi riguarda, credo sia dovuto al fatto che i suoi non fossero gialli capaci di spiccare nella totalità di opere di genere. Forse ebbe il sentore che proseguire sarebbe stato poco gratificante. In ogni caso, mollò il colpo. Qualcosa di simile fecero Edmund Crispin, forse la più fulgida stella delle "leve della seconda generazione" del giallo della Golden Age britannica, e l'americano Anthony Boucher. Crispin concentrò la pubblicazione di opere straordinarie come "Il Negozio Fantasma", "La Morte nel Villaggio" e "Il Manoscritto Perduto" nell'arco di dieci anni, tra il 1944 e il 1953, per poi arrestarsi e tornare per un ultimo sprint soltanto nel 1970, con meno forza e determinazione. Come mai? Ebbene, lo fece soprattutto per problemi di alcolismo che minarono il suo talento e la sua salute, ma bisogna sottolineare come abbia speso il suo tempo nel recensire romanzi gialli di alcuni colleghi, per il "Sunday Times". Quindi, ancora una volta per una scelta dettata in parte da una dipendenza e in parte da un'intenzione che proveniva dall'urgenza di cambiare le carte in tavola.

Boucher, da parte sua, compì gli stessi passi di Crispin concentrando la pubblicazione della propria opera tra il 1937 e il 1942 (quindi soltanto cinque anni!) e proseguendo prima a recensire una quantità industriale di romanzi, racconti e saggi di genere fino al 1948, per poi occuparsi di science fiction o letteratura fantascientifica fino alla fine dei suoi giorni. Il motivo della sua decisione probabilmente fu legato al fatto che quest'ultimo tipo di narrativa lo attirava di più, visto come anche nei suoi mysteries fosse solito inserire aspetti legati a quel mondo nuovo e particolare. Tornando all'Inghilterra, pure la celebre Dorothy L. Sayers a un certo punto abbandonò la scrittura di romanzi del mistero; e lo stesso fece il suo storico "rivale", Anthony Berkeley. In questo caso, tuttavia, i moventi nascosti dietro a questo loro gesto sembrano differenti: Sayers perse gradualmente interesse nella crime story perché desiderava dedicarsi alla letteratura di stampo religioso, forse in un tentativo di redenzione per "l'amaro peccato" che aveva colpito la sua esistenza quando era ancora giovane; Berkeley, invece, ricevette un duro colpo alla propria autostima a causa di una delusione amorosa che significava tutto per lui... con la conseguenza che, dal 1940, tralasciò la scrittura di nuove storie per dedicarsi all'analisi di quelle di altri scrittori di genere e nell'attività di socio della Crime Writer's Association americana. Come vedete, quindi, in molti (e per motivi differenti) a un certo punto smisero di scrivere romanzi del mistero per dedicarsi ad altre attività. Pure l'autore del libro che recensirò oggi, Clifford Orr, compì un'operazione del genere: dapprima fu musicista, poi giornalista, poi libraio e infine approdò al giallo classico... finché non decise di tornare a fare l'editorialista. Nel suo caso, cosa andò storto? Un'ipotesi potrebbe essere dovuta al fatto che non riuscì più a superare la qualità straordinaria di "La Casa sulla Scogliera", il suo secondo libro di genere, dal momento che il terzo (chiamato "The Cornell Murders" e ambientato nell'omonimo college) non fu mai dato alle stampe. A breve spero di potervi presentare questo titolo; intanto, oggi resto nell'ambientazione universitaria e analizzerò "Delitti al College" (Polillo Editore, 2021), il suo esordio sul solco della tradizione più classica.

North Mass, Dartmouth, sede dalla prima morte in "Delitti al
College"
La storia si apre con il ritrovamento del cadavere del giovane Byron Coates, studente della Dartmouth University di Hanover, nella contea di Grafton. Il suo corpo viene rinvenuto impiccato alla scala antincendio del dormitorio da Kenneth Harris, il suo compagno di stanza, in un gelido mattino nebbioso; quindi, l'ipotesi più probabile che gli inquirenti si trovano ad avanzare è quella che si tratti di suicidio. Tanto più che Coates, proprio il giorno precedente alla tragedia, aveva manifestato uno strano stato d'animo irrequieto e malinconico, per cui i segnali sarebbero in linea con questa ipotesi. Tuttavia, ben presto la curiosità e l'interesse di Harris e di un altro suo compagno, Charlie Penlon, sulla faccenda dimostrano come la corda a cui è stato trovato appeso Byron non sia affatto adatta allo scopo per cui è stata usata: è troppo spessa per poter fungere da cappio e stringere il collo del poveretto fino ad asfissiarlo. Questa conclusione, dunque, apre la strada a teorie ben più inquietanti come l'omicidio premeditato, le quali si fanno ancora più terrorizzanti quando si scopre che ad uccidere Coates è stato un ago sparato direttamente nel suo cranio, con una fredda precisione e un'abilità diabolica. L'atmosfera a Dartmouth cambia immediatamente e le persone più vicine alla giovane vittima vengono sospettate del crimine: oltre a Harris e Penlon, i quali abitano nello stesso dormitorio ma su piani differenti, pure altri due studenti (Sam Anderson e Jerry Smart) vengono inclusi nella lista dei possibili assassini, assieme alla sorella di Byron, Jean; alla sua dama di compagnia, miss Case; al padre di Kenneth, il quale si è trovato a Dartmouth per un'apparente casualità; al professor Bostwick, che da anni ha preso sotto la sua ala Coates e Harris e ha instaurato con loro un rapporto quasi familiare. I problemi per la soluzione del delitto, però, si moltiplicano perché nessuno riesce a dimostrare con certezza di avere un alibi per l'ora della morte di Coates. Poi, durante la celebrazione di una funzione religiosa nella cappella del campus, Sam Anderson viene ucciso da un ago simile a quello sfruttato per procurare la morte a Byron, mentre si trova nel coro a cantare.

Il terrore si impossessa degli studenti e dei professori di Dartmouth, i quali decidono di far intervenire la polizia al fianco dell'uomo ufficiosamente incaricato di fare luce sul decesso di Coates. Peccato che quest'ultimo sia nientemeno che Joe Harris, uno dei sospettati del crimine. Lo stesso Kenneth teme che il padre possa essere in qualche modo coinvolto nel delitto dal momento che, in occasione di una missione a Boston per interrogare la madre di Byron, scopre come egli non sia estraneo alla vita dei congiunti dell'amico deceduto. Cosa ci fa una sua foto nell'album di famiglia che Mrs Coates gli ha mostrato? I quesiti si moltiplicano man mano che le indagini proseguono e il giovane si domanda se non sia il caso di fare delle indagini per conto proprio, senza affidarsi al genitore. Eppure, farlo non è per nulla facile: Kenneth è un tipo più istintivo ed emotivo, che razionale e freddo come invece è il padre, e non sa dove sbattere la testa per raccogliere gli indizi necessari per rendersi utile. Fortunatamente, gli eventi sembrano coinvolgerlo e andargli incontro senza che lui lo voglia: prima appare un fantomatico spettro proprio dall'oscurità della cappella dove Anderson è stato ucciso, poi alcune lettere che ha esaminato vengono frettolosamente consultate in seguito allo scassinamento di alcuni cassetti... Tutto ciò indica una direzione ben precisa per le indagini che padre e figlio si ritrovano a condurre: la verità e la soluzione del caso si trovano immerse nel passato nebuloso dei Coates, tra scheletri nell'armadio in senso figurato e personaggi che ritornano gettando lunghe ombre sul presente. Servirà però un'altra morte prima di riuscire a capire fino in fondo quanto l'avidità e la spietata determinazione abbiano contribuito a suscitare il terrore che serpeggia per Dartmouth.

Rollins Chapel, Dartmouth, sede del secondo delitto in
"Delitti al College"
"Delitti al College" è stato un romanzo giallo soddisfacente, tutto sommato. Certo, non si può dire che si tratti di un capolavoro sotto ogni fronte, ma nel complesso è riuscito ad intrattenermi e si è rivelato una lettura adeguatamente buona. Ciò che mi ha colpito fin da subito è stata la capacità dell'autore di sollevare una sorta di atmosfera macabra e misteriosa attorno agli eventi che doveva raccontare (pp. 11-12, 14, 20-21, 50-53, 70-76, 94-95, 139-140, 141-143, 184, 205-210): il racconto stesso di Kenneth, fatto in prima persona, è riuscito a calarmi dentro le vicende e a farmi toccare con mano l'aura notturna e rarefatta in cui si trovano ad indagare i due Harris, padre e figlio. Ci sono state molte scene "ad effetto", le quali ovviamente hanno dato ancora più forza alla narrazione un po' tetra di Orr: ad esempio, mi è piaciuto come egli si sia soffermato su molte apparizioni improvvise (tra presunti fantasmi e fuggitivi piuttosto concreti) e su situazioni dove l'azione non è certo mancata ma senza risultare estranea all'enigma che si andava ad indagare. Inoltre, pure lo sfruttamento di scenari spesso notturni oppure nebbiosi è stato funzionale al mantenimento di quest'atmosfera un po' inquietante; per non parlare del fatto che, in quelli più "soleggiati", non sono comunque mancati riferimenti a venti gelidi e a caminetti accesi. Anche la rappresentazione degli ambienti della casa di famiglia dei Coates a Boston sono stati tratteggiati seguendo le stesse direttive: luci basse e poco numerose, mobili che davano il senso della solennità e di austerità, pochissime fonti di rumore oppure suoni a disturbare il silenzio carico di mistero. Insomma, credo che sia stato fatto un lavoro molto buono in quanto alla creazione del contesto in cui i personaggi si muovono e nel sottolineare la tensione e il senso di mistero in cui le vicende sono immerse. Non a caso, la narrativa di Orr è stata accostata a quella di John Dickson Carr, il Maestro non solo del delitto della camera chiusa ma pure dell'uso del gotico e del sovrannaturale per esacerbare il senso di angoscia che le sue trame già suscitavano nel lettore. Eppure, mi sento di fare un piccolo appunto riguardo questa considerazione accettata da più di un appassionato: tenderei ad andarci piano nel fare accostamenti di questo genere, dal momento che Carr è riuscito a dare vita a uno stile unico ed irripetibile. Si può al massimo dire che Orr sia stato influenzato, allo stesso modo del suo collega, da un qualche tipo di sentore dell'epoca, una tensione diffusa nella società del tempo che ha saputo trasmettersi in certe persone le quali sono riuscite a coglierla; in "Delitti al College" manca quella sorta di spessore che Dorothy L. Sayers è riuscita a descrivere in una frase che disse proprio sullo stile del suo illustre collega.

Per passare a un altro elemento di "Delitti al College" che mi ha convinto, mi soffermerei sulla mescolanza data dall'ambientazione universitaria tratteggiata con abilità e l'integrazione per nulla forzata di essa con l'enigma. Penso sia chiaro come l'autore si sia ispirato alla propria esperienza all'università di Dartmouth per dare spessore alla faccenda: ad esempio, il dormitorio descritto nel romanzo nel quale alloggiano Coates e Harris altro non è che la vera North Mass, l'edificio dove Orr ha risieduto mentre era studente al college; oppure la cappella dove avviene il secondo delitto (quello di Sam Anderson) è ispirata alla Rollins Chapel di Dartmouth. Certo, la conoscenza della struttura del campus ha permesso a Orr di costruire una sorta di copia fittizia dei luoghi che era solito percorrere di persona e di sfruttare questi ultimi per testare ciò che aveva in mente, così da "mettere in atto" le azioni che intendeva far compiere ai suoi personaggi; però bisogna pur ammettere che siamo molto lontani dalla rappresentazione profonda e dettagliata del mondo accademico che ne ha fatto Michael Innes in "Morte nello Studio del Rettore". Ciò che conta per l'autore è soprattutto il mistero, non la descrizione della vita universitaria; per cui, ciò che fanno i protagonisti di "Delitti al College" risulterà solo plausibile se non addirittura naturale, ma senza andare troppo ad indagare temi particolari, e di conseguenza il fulcro della narrazione non sarà il fattore psicologico, ma l'enigma attinente alla realtà dei fatti (pp. 23-24, 29-30, 33-36, 39-41, 59-62, 79-81, 160-162, 170-174). L'importanza sta tutta nella praticità del crimine: se qualcosa non era materialmente possibile nella vita reale, allora non lo sarebbe stato nemmeno nella finzione del romanzo; viceversa, se ciò che era necessario mettere in pratica si poteva fare, allora sarebbe potuto essere inserito nella trama con tranquillità. A questo proposito, va poi aggiunta la sinergia tra Harris padre e Harris figlio, la quale mi è sembrata adeguata e con un giusto grado di trasparenza. Pure essa ha dato spessore al mistero, assieme all'atmosfera di cui ho già parlato: proprio come nei gialli di Ellery Queen (che tra l'altro hanno debuttato proprio nello stesso anno della pubblicazione di "Delitti al College"), questa coppia investigativa in veste semi-ufficiale riesce ad essere credibile agli occhi del lettore. Peccato solo non potersi fermare qui, nel prendere in considerazione gli elementi di questo romanzo giallo, dal momento che è proprio dai personaggi presi singolarmente che iniziano i piccoli problemi che stanno alla base della mia critica.

Clifford Orr, nato nel 1899 e morto nel 1951
Prima di passare a questo discorso, tuttavia, mi voglio soffermare sulla figura dell'autore, per poter contestualizzare meglio le obiezioni che farò qui sotto. Nato nel 1899 a Portland, nel Maine, Clifford Orr era figlio di un agente pubblicitario e nipote di un capitano marittimo. Fin dalle scuole superiori aveva manifestato una certa passione per la scrittura; passione che aveva coltivato pure all'università di Dartmouth, dove si era occupato di scrivere i libretti di alcune opere musicali messe in scena dagli studenti del corso di teatro. Orr lasciò il college nel 1922 senza prendere alcuna laurea, nonostante avesse seguito un corso regolare di studi, e continuò a scrivere testi per canzoni (tra cui quella di "I May Be Wrong" portata al successo da Doris Day), mentre occupava un posto di giornalista al "Boston Evening Transcript". Qualche anno dopo assunse l'incarico di dirigere la libreria di Wall Street della casa editrice Doubleday, Doran; fu durante quest'esperienza che si rese conto di quanto fosse popolare il romanzo giallo. Stuzzicato dalla sfida che comportava la stesura di un mystery, entro il 1929 Orr diede alle stampe un opera di questo genere, "Delitti al College", ambientato nell'università che aveva frequentato e ispirato alla sua esperienza come studente. Dapprima pubblicato a puntate, questo libro incarna alla perfezione il classico giallo degli anni '20 (forse fin troppo, dirà qualcuno) ma ottenne grande notorietà per l'inconsueta ambientazione universitaria del mistero; al punto che nel 1935 ne venne tratta una modesta riduzione cinematografica dal titolo "A Shot in the Dark". Incoraggiato dal successo, Orr si mise a ideare un nuovo romanzo del mistero, stavolta più originale e suggestivo nelle atmosfere, e alla fine produsse "La Casa sulla Scogliera", un vero e proprio tour de force del quale il critico Charles Williams disse: "Un libro troppo buono è, per l'autore, una maledizione al pari di un libro pessimo. Non riesco a immaginare cosa mai mr. Orr potrà mai escogitare per il prossimo". Inconsapevolmente, Williams portò sfortuna a Orr, il quale interruppe la scrittura di gialli proprio dopo la pubblicazione di tale romanzo per diventare editorialista per il "The New Yorker", incarico che mantenne per vent'anni. Eppure la sua vita non era felice: omosessuale, alcolista, ne passò di tutti i colori entrando e uscendo dalle cliniche che disintossicarsi, pur mantenendo il suo sguardo dagli occhi verdi puntato a sondare ciò che lo circondava e senza rinunciare al proprio spirito caustico. Morì nel 1951, poco prima di compiere 52 anni, nella cittadina di Hanover dove (ironia della sorte) aveva ambientato il suo romanzo d'esordio.

Come avete visto, quella di Orr non fu un'esistenza tranquilla. Passò da un lavoro all'altro senza darsi tregua, si occupò di attività disparate e lo fece nella frenesia che solo uno spirito come il suo poteva a malapena sopportare. E questa fretta e incostanza si riflette proprio su "Delitti al College", il quale presenta una costruzione che nel suo insieme riesce a convincere, ma non fa altrettanto se i suoi elementi vengono presi in considerazione uno alla volta. Meglio ancora, quello che voglio dire è che ci sono tanti piccoli difetti in questo libro, pecche che potevano essere aggiustate se soltanto l'autore si fosse soffermato meglio su di esse nel momento in cui le ha prese in considerazione e poi inserite nella trama. Sono soprattutto ingenuità causate dall'inesperienza: se avesse avuto trascorsi più consistenti e un metodo più strutturato, probabilmente Orr avrebbe portato a termine un lavoro fatto meglio. Ad esempio, risultano abbastanza strane alcune azioni compiute dai personaggi, come lasciare le porte sempre aperte (intese come non chiuse a chiave), pure alla notte, oppure nel fatto che la gente si sposti per le camere delle persone con una spaventosa tranquillità, senza curarsi del fatto di star magari invadendo la loro privacy (su questo punto, tuttavia, mi riservo un dubbio dal momento che forse, tra studenti di uno stesso dormitorio, si tratta di una pratica comune). In ogni caso, tuttavia, certe azioni risultano molto strane. In secondo luogo, se l'accoppiata degli Harris funziona quando presa come unica entità (da sottolineare i battibecchi tra padre e figlio, molto simili a quelli reali), i due mi sono sembrati molto irritanti quando presi da soli. Voglio dire, Kenneth mi ha dato l'impressione di essere uno sciocco petulante, capace solo di mettersi a gridare affermazioni con stupore e ad interrogarsi con superficialità sulle faccende importanti per il caso (nonostante abbia comunque apprezzato il lato più emozionale del suo carattere, pp. 19-21, 25-27, 35-37, 44-45, 50, 58, 67-68, 77-78, 89-90, 100-102, 106-109, 115-116, 125, 135, 177, 179, 217-218)); suo padre, invece, mi è sembrato un individuo pomposo ed ermetico, quasi peggio di quella sfinge di Sherlock Holmes: il suo atteggiamento supponente, quasi irrisorio verso il prossimo è stato molto irritante. Cosa ancora più grave, tuttavia, è il fatto che Orr abbia impostato l'indagine sui delitti di Dartmouth facendo fare sì alcune scoperte a Kenneth ed altre a suo padre... ma senza che uno dei due riuscisse a spiccare. In tal modo, non abbiamo mai un "vero" investigatore che agisce da deus ex machina, ma qualche piccolo indizio raccolto da uno e qualche altro dall'altro. Il finale stesso del racconto mette in mostra i difetti di questo tipo di indagine: l'assassino si smaschera praticamente da solo, senza che il merito vada a uno oppure a un altro. Mi è sembrato come se tutti facessero osservazioni intelligenti (pure personaggi secondari come Penlon e Jerry Smart), tranne chi avrebbe dovuto applicarsi sul serio: cioè Kenneth!. La stessa rappresentazione di una forza di polizia "arrendevole", che delega il caso ai dilettanti, lascia qualche perplessità. Infine, la soluzione del mistero non mi è sembrata all'altezza delle premesse. Se il caso presenta risvolti e colpi di scena a ogni piè sospinto, affonda la propria essenza nel passato che allunga la propria ombra a incombere sul presente (pp. 145-147, capp. 8, 17), e viene condotto con maestria dall'insieme di investigatori che di esso si occupa, non si può certo dire che il risultato sia del tutto soddisfacente perché troppo veloce e scarno, oltre che carente nello spiegare gli indizi che hanno portato alla cattura della persona colpevole. Pertanto, non me la sento di dire che "Delitti al College" sia un capolavoro del genere giallo. Piacevole sì, ma non qualcosa di imprescindibile. Va dato atto, comunque, all'autore di essere riuscito a dare vita a una vicenda che si colloca in un'ipotetica valutazione di quattro stelle su cinque, sopra a quella di romanzi meno riusciti come "La Scatola Mortale". Sono curiosi di scoprire come sarà "La Casa sulla Scogliera": presto lo leggerò e vi dirò se riuscirà a compensare i difetti riscontrati in quest'altro libro.

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venerdì 9 aprile 2021

67 - "La Scatola Mortale" ("The Death Box", 1929) di Basil Godfrey Quin

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Come mi è già capitato di ribadire recensendo romanzi gialli qui su Three-a-Penny, esistono una quantità industriale di mysteries che sono stati dimenticati in favore di altre opere che hanno invece resistito alla prova del tempo. Il ché è un peccato, perché in moltissimi casi non si è trattato di una sorte meritata. A libri come "Congelato" di Anthony Weymouth o "Il Rompicapo" di Lee Thayer (per fare un esempio che comprenda entrambe le sponde dell'Atlantico), i quali non riescono nemmeno oggi a spiccare più di tanto per originalità oppure per guizzi narrativi significativi, si possono contrapporre piccoli capolavori semisconosciuti quali "Com'è Morto il Baronetto?" di H.H. Stanners e "Morte a Linwood Court" di Mary Durham, oppure piacevoli racconti senza grandi pretese ma rese ottimali come "Chi ha Ucciso Charmian Karslake?" di Annie Haynes e "Uno Dopo l'Altro" di A.G. Macdonell. Senza dimenticare le numerose opere di autori quali Christopher St. John Sprigg e Milward Kennedy, che si sono dimostrate all'altezza di quelle di colleghi maggiormente celebrati ma sono state oscurate da sorti avverse e tristi casualità. Sprigg, infatti, morì molto giovane mentre combatteva per la causa comunista in Spagna, senza riuscire a valorizzare i suoi gialli nel modo adeguato; mentre Kennedy subì un durissimo colpo al suo amor proprio e al talento che possedeva quando venne accusato di diffamazione, in seguito alla pubblicazione di "Death to the Rescue" (la cui traduzione italiana attendiamo tutti quanti con trepidazione). Sono convinto che, se le carriere di questi autori non si fossero bruscamente arrestate, probabilmente oggi sentiremo parlare ancora dei loro romanzi del mistero alla pari di quelli degli altri loro compagni più famosi; e lo stesso vale per gli altri scrittori che ho menzionato qui sopra: Stanners possedeva il talento di intrigare il lettore e avrebbe fatto strada, se soltanto avesse persistito nel seguire la propria meta; Haynes lo stesso, se la malattia non le avesse impedito di continuare ad esaminare le scene di delitti reali a cui ispirarsi per creare le proprie fittizie. Durham, secondo il mio modesto parere, avrebbe dovuto avere una carriera perlomeno pari a quella di Haynes, se la sua opera complessiva raggiunge gli standard posti da "Morte a Linwood Court"; mentre Macdonell meritava di conquistare in autonomia il proprio posto nel firmamento del mystery tradizionale, senza essere accostato a Kennedy e a Rhode.

Per fortuna, negli ultimi anni tali scrittori misconosciuti stanno tornando alla ribalta sia in lingua originale sia in traduzione estera. Non solo Moonstone Press, Dean Street Press e Fonthill, ma pure le italiane Lindau, Le Assassine e Polillo/Rusconi hanno avviato una campagna di recupero di queste opere dimenticate, riproponendole ai lettori affinché la loro memoria non venga cancellata e loro possano ancora godere delle storie che tali autori hanno lasciato in eredità. Si tratta di un'operazione che riceve tutta la mia approvazione, dal momento che penso sia meraviglioso avere a disposizione da leggere cose sempre nuove e non soltanto ristampe periodiche di titoli già editi. A questo proposito, proprio nei mesi scorsi, Rusconi ha mandato in stampa un quartetto di romanzi gialli che ha visto la luce in lingua italiana per la prima volta: il sopracitato "Il Rompicapo" di Lee Thayer (che non mi ha convinto del tutto, pur essendo stato interessante sotto alcuni punti di vista), "Delitto in una Camera Chiusa" di Michael Crombie, "Delitti al College" di Clifford Orr e "La Scatola Mortale" di Basil Godfrey Quin (Polillo Editore, 2021). Premesso che recensirò presto i romanzi di Orr e Crombie, oggi mi voglio soffermare sull'ultimo perché presenta una caratteristica molto particolare: su Internet e in generale nel dibattito tra critici e appassionati, è praticamente inesistente. Voglio dire, fino a un anno fa non esistevano studi su di esso; poi PuzzleDoctor di "In Search of the Classic Mystery Novel", in occasione del suo 1200° post, ha recensito proprio "La Scatola Mortale". Quindi, capirete quanto fosse raro trovare questo libro finché Rusconi non lo ha pubblicato nella nostra lingua. E perché mai questo romanzo è così sfuggente? Si tratta forse di un ingiusto oblio come è accaduto per Sprigg, Stanners, Haynes e Durham? Mi sentirei di rispondere: sì e no. Suona strano, lo so, ma dopo averlo letto credo che sia stata un'operazione tanto meritevole quella di rendere di nuovo disponibile un giallo tanto raro, quanto tutto sommato poco incisiva dal punto di vista dell'impatto che esso ha avuto su di me. In parole povere, non è stato qualcosa di esaltante, originale e innovativo in quanto ad enigma e narrazione; però mi ha intrattenuto e il suo lavoro lo ha svolto, per cui ve lo presento.

Apple Trees, Sunset, Eragny, Camille Pissarro,
1896, raffigurante un paesaggio simile a quello del
giardino e della brughiera di Ellingham-Place
La storia inizia in modo simile a "Poirot a Styles Court": il giovane Charles Harvey, rientrato dal fronte orientale con un'invalidità permanente e un cospicuo patrimonio ereditato dal padre, trascorre un piacevole pomeriggio in un campo da golf. Lì, per una fortunata coincidenza, si imbatte nel suo amico James Clarkson-Parry, il quale è stato suo superiore in guerra e adesso si diletta a godersi la vita. Dopo un rapido scambio di convenevoli, i due decidono di cenare assieme e durante la serata Clarkson-Parry confida all'amico di essere stato poliziotto per un periodo, nonostante la sua classe sociale e il denaro della sua famiglia gli avessero permesso di vivere senza lavorare. Ora l'uomo è un investigatore privato, dal momento che mal sopportava l'idea di dover sottostare a regole precise e morali che avrebbero limitato il suo campo d'azione, e chiede a Harvey di affiancarlo come una sorta di "Watson" nei casi di cui si occupa. Charles, spronato dall'amicizia che lo lega all'altro e dalla prospettiva di una vita meno noiosa di quella che conduce al momento, accetta di buon grado e nemmeno quarantotto ore dopo, nell'ufficio di Clarkson-Parry, si presenta un signore a chiedere una consulenza su un enigma che lo assilla. L'uomo, di nome Henry Rothman, è un altro commilitone del detective e la sera precedente ha assistito a una scena molto strana e inquietante presso una casupola di sua proprietà presso Highmoor, sei miglia a nord di Novocaster: a sua insaputa, un gruppetto di cinque uomini mascherati si è dato appuntamento dentro all'edificio, in seguito a un complesso procedimento di riconoscimento reciproco basato su segnali. Per fare cosa? Rothman non lo ha ben capito. Tutto quello che ha visto è stata l'elezione di un fantomatico presidente per questa associazione, la consegna a quest'ultimo di una strana scatola di latta, piatta e con l'incisione della Morte sul coperchio, e un breve tafferuglio che si è concluso con la fuga di uno dei membri del gruppo e l'abbandono della scatola stessa proprio ai suoi piedi.

Rothman, incuriosito dalla faccenda e deciso a scoprire come mai quei cinque uomini avevano violato la sua proprietà, ha raccolto il contenitore e lo ha portato a casa, chiudendolo in cassaforte in attesa di consultare Clarkson-Parry sul da farsi. L'investigatore gli consiglia di liberarsi del fardello il prima possibile, dal momento che le intenzioni dei membri di quella società non lasciano presagire nulla di buono, ma Rothman vuole arrivare in fondo alla faccenda e insiste per assoldare il suo ex-commilitone. Così Clarkson-Parry, insieme al fidato Harvey, dopo aver preso gli accordi necessari ed essersi congedato da Rothman si reca a cena da quest'ultimo per visionare la fantomatica "Scatola della Morte"... scoprendo che l'altro è stato ucciso nel suo studio, con una pugnalata al cuore. Quello che appare chiaro fin da subito è che la società segreta di cui era venuto a conoscenza Rothman deve c'entrare qualcosa: la cassaforte, infatti, è stata svuotata e due ciclisti sospetti sono stati visti fuggire a gambe levate dalla casa del signorotto. Eppure, nel nucleo familiare di quest'ultimo si annidano più sospetti di quanto si creda: sua moglie, l'attrice May Manners; la cameriera Clara Morris, il segretario Nelson e il maggiordomo Knowles potrebbero essere complici della banda oppure membri della stessa, sotto mentite spoglie? Secondo Clarkson-Parry, tutto è possibile. Anche scoprire come le vicende si possano ingarbugliare fino a costituire una matassa informe e inestricabile, mettendo insieme indizi e piste che forse servono solo a confondere le acque. L'ispettore Tom Thompson, incaricato di eseguire le indagini sull'omicidio, ha le idee confuse e pecca dell'immaginazione necessaria per trovare gli intoppi all'interno del caso; per cui toccherà alla coppia Clarkson-Parry/Harvey sforzarsi per scoprire quale sia la verità dietro al delitto, tra inseguimenti in auto e a piedi, rapimenti nel cuore della notte, travestimenti per incursioni armate e qualche partita a golf per distendere i nervi. E capire soprattutto se l'associazione della "Scatola della Morte" abbia qualcosa a che fare con la morte di Rothman.

Le Repas des Pauvres, Alphonse Legros, 1877, raffigurante
alcuni signori riuniti attorno a un tavolo come i membri della 
Società della Morte
L'impostazione della storia dà già un segnale chiaro e forte di come Quin abbia affrontato questo suo primo romanzo; ovvero, ispirandosi a piene mani alla tradizione che in quel momento (primi del Novecento) andava per la maggiore. La cosa, vi confesso, non mi ha entusiasmato più di tanto, dal momento che ci ho trovato fin troppi riferimenti allo stile di altri giallisti e molto poca originalità e idee proprie; per questo sono un po' tiepido nei confronti di "La Scatola Mortale". Forse, se l'autore si fosse limitato a cogliere qualche elemento soltanto per sviluppare un corso di pensiero autonomo, le cose sarebbero andate diversamente e mi sarei sentito più coinvolto nelle vicende di cui ha trattato. Pazienza, è andata così e lui ha preferito giocare sul sicuro. Ad esempio, all'inizio della storia Quin si rifà in un certo senso all'esordio nel genere di Agatha Christie, con i protagonisti che sono due ex-commilitoni che si rincontrano per caso e decidono di dare il via a una collaborazione che possa avvantaggiare sia l'uno che l'altro: Clarkson-Parry ha una mente "ingenua" sulla quale testare i propri ragionamenti e che lo possa pungolare, mentre Harvey può dare sfogo all'ammirazione che prova per l'amico e migliorare se stesso. In aggiunta, l'ispettore Thompson strizza molto l'occhio alla figura di James Japp, il poliziotto che compare spesso nelle storie con protagonista Hercule Poirot e si trova a dover sostenere la parte dell'agente tanto utile per svolgere il lavoro di routine quanto un po' ottuso nei ragionamenti che porteranno alla soluzione dell'enigma (p. 41). Passiamo poi a Dorothy L. Sayers e al suo Lord Peter Wimsey: da parte mia, ho visto una chiara citazione da parte di Quin nel dipingere Clarkson-Parry come il protagonista della sua collega, simile a un aristocratico che non disdegna passatempi riservati a individui della sua classe sociale ma, allo stesso tempo, si getta volentieri nella mischia per evadere proprio da quel mondo che rischia di ingabbiarlo e limitare la sua libertà di espressione. L'idea stessa di una coppia di investigatori dove (in qualche caso) uno è la mente e l'altro il braccio farebbe pensare a Nero Wolfe e Archie Goodwin, i protagonisti dei romanzi gialli di Rex Stout... se solo non fosse che il loro esordio sarebbe avvenuto solo cinque anni dopo la pubblicazione di "La Scatola Mortale".

Ciò che invece ha influenzato maggiormente lo stile e la narrativa di Quin è stato Arthur Conan Doyle. Si percepisce benissimo come l'autore abbia esercitato un'ascendente sul suo collega (pp. 42, 99, 104, cap. 12, pp. 135-136): oltre alle mere citazioni che si possono riscontrare dentro la vicenda, la stessa coppia agisce proprio come il segugio di Baker Street e il fido Watson. Clarkson-Parry è sempre avanti a Harvey in quanto a ragionamento e astuzia, la pianificazione delle mosse da mettere in atto sono spesso nascoste all'assistente e addirittura poco approfondite, la misoginia espressa dai protagonisti maschili e soprattutto da Clarkson-Parry (il quale considera le esponenti del gentil sesso come sirene ammaliatrici che distolgono l'attenzione dai focus della vita e inducono a compiere errori, pp. 56, 163-166, 185-186, 239-245)) e la tendenza a sfruttare lo sport e il passatempo come strumento per rilassarsi e trovare ristoro dalle fatiche mentali quotidiane. Tutto questo mi ha riportato alla mente le interazioni tra Holmes e il suo assistente; per non parlare poi del fatto che Harvey sia spesso ritratto come una sorta di cagnolino che si affretta ad eseguire gli ordini del suo superiore e guardi a lui come a una divinità che cammina sulla Terra (pp. 39, 47, 61, 71, 74, 80, 124, 173). Molte volte l'assistente si interroga sul comportamento strano del suo superiore, tenta di anticiparlo con ragionamenti contorti e riflessioni, ma Clarkson-Parry è sempre un passo avanti... e si ritrova a spiegare il proprio comportamento con una spiegazione un po' didascalica. Tra l'altro, qualche volta racconta azioni che non si sono svolte sul palcoscenico accessibile al lettore, ma di nascosto ad esso; quindi, non rispetta del tutto il fair play. Questa abitudine a dare per scontato alcune cose e a trattare l'enigma come se fosse una sorta di apocrifo holmesiano mi ha un po' deluso: dopotutto, erano passati quasi dieci anni da "Poirot a Styles Court" e il giallo si era evoluto dalla formula approntata da Doyle. Formula che, oltretutto, non rispecchia quello che io considero il "vero" giallo classico. Infatti, proprio ispirandosi alle gesta di Holmes, Quin ha seguito il modello che vedeva l'inserimento di una componente avventurosa necessaria a smuovere un po' le acque del ragionamento fin troppo analitico e scientifico del segugio di Baker Street, cadendo nella trappola di dare vita a una storia più simile a quelle di Edgar Wallace, con tanto di complotti e scorribande, invece di esplorare il lato "enigmatico" della storia come, ad esempio, ha fatto Hilda Lawrence (pp. cap. 2, pp. 30, 115-118, 124-126, 130-131, cap. 14, pp. 154, 174, 192-195, 197-200, 223-231). Questo è stato un grave errore, che ha pregiudicato la riuscita del romanzo per i puristi della crime story della Golden Age. Da parte mia, come dicevo, ho apprezzato comunque gli sforzi di Quin e mi sono divertito a leggere "La Scatola Mortale"; però non lo considero un capolavoro perduto della narrativa del mistero. Ci sono state troppe cose "già viste", nonostante l'autore abbia tentato di dare una svolta originale alla vicenda.

Basil Godfrey Quin, nato nel
1891 e morto nel 1968
Rispetto ad altri autori di romanzi gialli dimenticati, di Basil Godfrey Quin si sa un po' di più. Nato a Newcastle nel 1891, della sua famiglia non si conosce praticamente nulla e le prime note biografiche sul suo conto risalgono a quando, a 16 anni, iniziò a frequentare la Newcastle Royal Grammar School, dove praticò molto sport e si dimostrò uno studente modello. Nel 1910 ottenne una borsa di studio per studiare matematica all'Armstrong College, dove restò fino allo scoppio della guerra. In quel momento decise di abbandonare gli studi e di arruolarsi come volontario, vedendosi spedito in Francia a combattere a Ypres proprio nei giorni della fatidica campagna di luglio. Ora del 1917, quando venne congedato, aveva ottenuto la Croce di Guerra per il valore dimostrato sul campo; però non la ritirò con tutti gli onori. Fu sempre molto schivo al riguardo, e non la indossò mai in tutte le riunioni con i vecchi compagni d'armi. Tra il 1917 e il 1920, Quin si occupò ancora di incarichi per conto dell'esercito, poi tornò a studiare matematica da dove aveva lasciato e si diplomò. In seguito, insegnò per molti anni al Rutherford College di Newcastle (vi rimase fino al 1951, dopo essere passato di grado da semplice insegnante a docente anziano). Già dalla fine degli anni '20, tuttavia, Quin aveva iniziato ad interessarsi di scrittura e aveva dato alle stampe "La Scatola Mortale", un romanzo giallo che seguiva la tradizione più classica delle storie del tempo, con rapimenti e ricatti e una coppia di protagonisti che ricordava Sherlock Holmes e il dottor Watson: l'onorevole James Clarkson-Parry e il suo assistente Charles Harvey. Il libro dovette riscuotere un certo successo, tanto da spingere l'autore a proseguire nei suoi sforzi con altri quattro romanzi: "Mystery of the Black Gate", "The Murder Rehearsal", "Mistigris" e "The Phantom Murder". A questo punto, tuttavia, l'autore interruppe la serie (forse perché si era stufato, forse per mancanza di tempo, forse per altri impegni). Nel 1938 si sposò con la collega Ida Ritson, dalla quale ebbe due figlie, e dopo la pensione si occupò di una piccola attività di stampa per una quindicina d'anni; fino al 1968, quando un tumore se lo portò via.

Questo è tutto quanto riguarda la vita di Quin. E sui suoi libri, cosa altro si può aggiungere oltre a quello che ho già detto sopra? L'ambientazione viene raffigurata con maestria, anche se non ci sono moltissime descrizioni e il fulcro restano i dialoghi e le azioni dei personaggi (pp. 36-37, 40-41, 46-47, 56, 86-87, 95-96, 119-120, 124-126, 192-193, 211-212). In gran parte dei casi essa è data dalla cittadina fittizia di Novocaster, che fa il verso alla Newcastle in cui l'autore ha vissuto. Lo stile è buono, anche se nella traduzione di Rusconi si contano innumerevoli errori di battitura e di traduzione (sul serio, saranno quasi una cinquantina abbondante): la parte del leone è occupata dagli scambi tra Clarkson-Parry e Harvey, dove il primo agisce da insegnante per il secondo e lo istruisce direttamente oppure attraverso le sue azioni. Ad esempio, in qualche occasione Charles tenta di fare qualche osservazione intelligente per aiutare nelle indagini e il suo mentore lo corregge oppure smentisce con ironia. Un'altra caratteristica della narrativa dell'autore, sempre legata allo stile e ai temi dei suoi libri, si può riscontrare nel fatto che in essa spesso vengono inseriti militari, soldati di vario genere e riferimenti alla vita nell'esercito: il racconto di Harvey all'inizio della storia, i continui rimandi alle sortite notturne durante inseguimenti di sospettati e incursioni armate, ma anche affettuosi ricordi di vita condivisa con i compagni in un momento tragico della storia dell'umanità. Gli stessi faccia-a-faccia con gli assassini vengono caricati di significati che rimandano alla guerra e all'esperienza al fronte di Harvey che altro non è se non un alter ego dello stesso Quin; per non parlare delle difficoltà condivise, del cameratismo, della ricerca di un bene comune e di un senso di scopo che possa avvicinare gli esseri umani. Un certo gusto per la rappresentazione delle classi sociali si può rilevare benissimo in "La Scatola Mortale": i Rothman vengono dipinti come personaggi di alto lignaggio, soprattutto la moglie che viene rappresentata come una sorta di regina dalla quale bisogna guardarsi e che deve essere rispettata in qualunque occasione; il rapporto che si instaura tra Thompson e la donna è chiaramente subordinato dall'estrazione di nascita, come quello tra lei e Clarkson-Parry, aristocratico e quindi "pari" nelle interazioni con May Manners. Per non parlare dei camerieri, delle dame da compagnia e dei segretari che devono stare al loro posto: molto classista (pp. 56-58, 79, 81-82, 128-129).

Un altro aspetto della storia che avevo già menzionato sopra riguarda la misoginia: le donne sono rappresentate come esseri tra l'angelico e la virago, pronte a sollevare gli uomini dalla miseria in cui si trovano ma altrettanto disposte a rigettarli da dove li hanno raccolti. Ciò implica una certa patina di irrealtà nella raffigurazione dei personaggi, che non emergono mai del tutto dal ruolo che è stato loro imposto; a parte forse Clarkson-Parry e Harvey, oltre all'ispettore Thompson (e all'assassino, che nella confessione dimostra una passione ardente e toccante). Sono gli investigatori ad occupare sempre la scena, mentre i sospettati vengono interrogati e compaiono sul palcoscenico per interpretare la loro parte con una certa superficialità. Ed è il rapporto tra Clarkson-Parry e Harvey ad aver colpito i miei pensieri per gran parte della durata della lettura; ho notato un affetto particolare tra i due, nonostante il primo sia più freddo e compassato del suo amico (anche in questo c'è un ennesimo paragone con Sherlock e Watson). Forse è stata soltanto una mia impressione, una cosa che ho immaginato. In ogni caso, Harvey spende anima e corpo per il compagno e non esita a farsi avanti per risparmiargli fatica e preoccupazioni, da vero amico qual è. E credo sia stato questo il pregio più grande di "La Scatola Mortale": mettere in scena l'interazione tra investigatore e spalla nel miglior modo possibile. L'enigma in sé, infatti, non è dei migliori dal momento che include un sacco di cliché e digressioni che poco hanno a che fare con il genere al suo meglio: non solo ricatti, ma pure nascondiglio segreti, inseguimenti, rapimenti, travestimenti e una quantità di avventure che meglio si adattano a un romanzo di Wallace che a uno di Doyle (pp. 31-32, 34, 89-91, 114-115). In ogni caso, come dicevo, la lettura di questo libro non mi è pesata al contrario di altre fatte quest'anno (leggasi Weymouth); per cui mi sento di consigliarvi la lettura con l'aspettativa di assaporare una storia con poche pretese e che vi faccia trascorrere qualche ora in leggerezza, per staccare la mente da pensieri troppo cupi in favore delle rocambolesche vicende che il "misterioso signor Quin" (per citare un personaggio di Agatha Christie) ha predisposto per voi.

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