venerdì 28 maggio 2021

73 - "Occhiali Neri" ("The Black Spectacles"/"The Problem of the Green Capsule", 1939) di John Dickson Carr

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Il mese scorso, nel recensire "Il Mostro del Plenilunio", mi sono reso conto di una grave mancanza che affliggeva Three-a-Penny; ovvero, non avevo ancora letto ed analizzato per voi un romanzo giallo scritto da John Dickson Carr con il suo personaggio più conosciuto, quel Gideon Fell che di frequente viene definito "dottore" ma in realtà è più un lessicografo ed esperto di lingue, oltre che investigatore dilettante celebre per le sue indagini su casi di delitti della camera chiusa. Si trattava di una circostanza ben strana, dal momento che Carr non è certo un giallista sconosciuto (io stesso, nonostante preferisca le storie ideate da Dorothy L. Sayers e Agatha Christie, lo ritengo uno tra i Grandi del genere) e in Italia, almeno tra gli appassionati, non passa molto tempo senza che qualcuno citi lui o una sua opera proprio con protagonista Fell. Avrei già dovuto sopperire a questa lacuna tra i post del blog; forse la causa di tale dimenticanza è da riscontrare nel fatto che istintivamente ricollego questo personaggio al libro "Le Tre Bare", da tanti ritenuto il capolavoro dell'autore e una tra le opere più straordinarie e spettacolari di tutta la storia della crime story di stampo tradizionale. Purtroppo, ancora una volta, esso si può trovare soltanto nei mercatini dell'usato oppure (però bisogna essere fortunati) nei siti di remainders; per questo motivo, credo, ho come "messo da parte" Fell in attesa di una ristampa di questo titolo, per introdurvelo al meglio. Eppure, ripensandoci, non è necessario aspettare che "Le Tre Bare" venga pubblicato di nuovo perché possiate fare un lieto incontro col buon, seppur burbero, dottore: ci sono tanti altri libri in cui egli appare che sono considerati come pietre miliari della classica crime novel. Penso, ad esempio, a "Il Terrore che Mormora". Non vorrei dilungarmi troppo su questo libro, nel caso in cui non lo conosciate e rischi quindi di rovinarvi la lettura, ma sappiate che tutto ruota attorno a un omicidio avvenuto in cima a una torre nel bel mezzo di un bosco, dove nessuno tranne la vittima può essere salita. L'assassino è forse un essere soprannaturale, dal momento che tra le altre cose nel libro viene affrontato nientemeno che il tema del vampirismo?

Polillo ha ripubblicato questo titolo alcuni anni fa e Rusconi lo darà in ristampa entro l'anno, per cui magari più avanti potrei approfittarne per rileggerlo e recensirlo. Ma oggi ho preferito puntare a qualcosa di diverso, proprio per presentarvi Gideon Fell in tutta la sua astuzia diabolica e forma smagliante (almeno in senso figurato). Infatti, tra le altre opere di Carr disponibili in libreria si può trovare pure la decima avventura in ordine cronologico del mastodontico dottore: "Occhiali Neri" (Polillo Editore, 2005). Questo romanzo del mistero brilla per numerosi motivi, tra i quali figurano ovviamente l'enigma, come l'autore ci ha ben abituato nel corso della sua prolifica carriera, e l'atmosfera che egli riesce a creare e a mescolare con la tensione, fino a dare vita a un miscuglio che rasenta il filo che separa il terrore dall'inquietudine. Ciò per cui penso sia fondamentale "Occhiali Neri", tuttavia, riguarda qualcosa che ha a che fare col suo contenuto, con una serie di quesiti che la sua storia solleva e diversi temi che vengono affrontati. Infatti, come era solito fare Carr nell'ideazione di trame intricate e di delitti straordinari ed eclatanti, dentro questo romanzo del mistero viene in qualche modo analizzato uno tra i crimini (e criminali) più sinistri e spaventosi: l'avvelenamento. L'autore non si è limitato a ideare una trama liscia e scorrevole, piena di tensione e di mistero, oppure ad escogitare qualche trucco per ingannare anche il lettore più attento; in questo caso, ha tracciato ad uso e consumo di quest'ultimo un ritratto realistico e veritiero di quei criminali che dimostrano di possedere abbastanza sangue freddo da somministrare qualche sostanza letale alle proprie vittime e assistere al loro lento deperimento culminante con la morte. Ancora una volta, quindi, Carr ha dimostrato non solo di essere un inventore prolifico di modi per uccidere senza essere scoperti (o quasi), ma anche di possedere una vasta cultura in fatto di criminologia e di saper applicare quanto imparato e studiato all'occorrenza, nel caso in cui avesse bisogno di mettere in piedi una storia fittizia.

Vesuvius and Pompeii, Robert S. Duncanson, 1870
Tutto ha inizio in un luogo che non ci si aspetterebbe di trovare dentro un romanzo giallo inglese: Pompei. Infatti è proprio nella più viva delle città morte (come l'ha definita il divulgatore scientifico Alberto Angela) che facciamo la conoscenza dei principali personaggi della storia. In un peristilio di una villa romana, ci vengono presentati i Chesney: Marcus, il capofamiglia, un signore piccoletto e di mezza età che osserva il mondo con sguardo disilluso e cinico; suo fratello Joe, un medico con il cattivo vizio di bere e che soffre di un'indolenza che si potrebbe definire cronica, nonostante abbia una buona reputazione e svolga il proprio lavoro con diligenza; la loro nipote Marjorie Wills, una giovane ragazza molto bella ma alquanto taciturna. Assieme a loro tre troviamo alcuni amici: il professor Ingram, il quale è una vecchia conoscenza dei Chesney e si diletta nello studio della psicologia; il giovane Wilbur Emmet, che dirige la filiale principale dell'azienda di Marcus ed è segretamente innamorato di Marjorie; un altro giovanotto di nome George Harding, il quale si è unito alla comitiva quasi per caso e adesso è in procinto di fidanzarsi ufficialmente con la signorina Wills. Tutti loro vengono illustrati al lettore attraverso lo sguardo di un'altra persona ancora, un individuo che si rivelerà essere nientemeno che l'ispettore Andrew Elliot di Scotland Yard, il quale si è imbattuto nel gruppo per caso e li sta osservando dall'ombra delle colonne romane. Il motivo? Ebbene, se dapprima lo ha fatto per mera curiosità, in seguito la sua mente attenta è stata catturata da una parola sinistra e inquietante: avvelenatore. In uno strano impeto di confidenza, infatti, Marcus ha capito come Marjorie e George abbiano intenzione di fare sul serio e ha rivelato al giovanotto il motivo per cui la sua famiglia si trova in Italia; ovvero, per sfuggire alle malelingue che vedrebbero proprio sua nipote come la responsabile di una serie di avvelenamenti avvenuti nel villaggio da cui loro provengono. A Sodbury Cross, infatti, alcuni cioccolatini di un negozietto sono stati alterati con la stricnina e un bambino ci ha rimesso la vita, e del crimine è sospettata l'unica persona ad aver avuto un contatto con la merce: Marjorie.

Se in un primo momento Harding appare sconcertato, Chesney si affretta a rassicurarlo: non deve aver alcun timore che qualsiasi persona possa accusare qualcuno di loro degli avvelenamenti. Lui, che si vanta di vedere cose che le altre persone trascurano per pigrizia e svogliatezza, ha un'idea di come debbano essere andate le cose nella faccenda dei cioccolatini: nessuno della famiglia è colpevole, e intende dimostrare quanto prima la propria teoria. Per questo motivo (e per il fatto che George si comporti in modo molto arrendevole nei suoi confronti), Marcus ha accettato di includere George nella famiglia e lo invita a riaccompagnarli in patria, per assistere a una rappresentazione della tesi che ha elaborato. Eppure, le cose non si risolveranno in modo tanto semplice. Dopo aver lasciato Pompei, i Chesney e l'ispettore Elliot si separano... per poi incontrarsi di nuovo proprio a Sodbury Cross, dove il poliziotto viene inviato per indagare sugli avvelenamenti. Ma non è tutto qui: infatti, la notte stessa in cui quest'ultimo giunge alla stazione di polizia, un allarmato Joe Chesney telefona in centrale per annunciare come il fratello sia stato ucciso davanti agli occhi di numerosi testimoni, proprio nel corso della famosa rappresentazione che doveva svelare il metodo attraverso il quale il misterioso avvelenatore avrebbe messo in pratica il proprio piano. E a coronare il tutto, il delitto è stato accuratamente registrato da una telecamera. Questo dovrebbe semplificare le cose, giusto? E invece le testimonianze degli spettatori della recita non coincidono, si confondono, ingarbugliano un caso che fin dall'inizio si presenta insolitamente caotico. Marcus è stato ucciso perché sapeva troppo? Oppure il movente è un altro? Muovendosi tra i Chesney e i loro amici (ma sono davvero tali?), Elliot dovrà fare del proprio meglio per non perdere la ragione davanti a un'indagine all'apparenza senza alcuna logica. Ma soprattutto starà al dottor Gideon Fell, di soggiorno nella vicina Bath per una cura delle acque, sbrogliare la matassa e trovare un senso logico alle pazzie che si sono verificate a Sodbury Cross e non hanno ancora trovato risposta.

Bolton Abbey, Wharfedale, Stanley Roy Badmin, 20th secolo
John Dickson Carr ha legato per sempre il proprio nome a una serie di caratteristiche stilistiche e formali che si ritrovano spesso all'interno dei suoi gialli. Tra tutte, però, penso che l'importante fulcro attorno a cui ruotano le vicende che egli ha ideato sia l'enigma (pp. 23-34, 44-45, 51-52, 60-65, 69, 88, 90, 93-94, 97, 99-100, 103-108, 121-123, 131-132, 140-147, 157-160, 182-184, 190-192, cap. 20). Forse soltanto Agatha Christie, nel corso della sua carriera e dello scorrere degli anni, si è avvicinata alla grandezza di Carr nella creazione di assassinii originali e strabilianti; eppure, nel suo caso spesso più del mistero "duro e puro" conta un'attenzione ai personaggi e alla psicologia che essi rivelano, la quale influenza l'indagine con ampio margine. L'autore di "Occhiali Neri", invece, ha fatto proprio il caso suscitato dal delitto e lo ha trasformato in una sorta di materia primordiale da plasmare, di volta in volta, per definire la struttura delle sue storie. In parole povere, non sono i personaggi a plasmare il caso investigativo, quanto il caso stesso il punto di partenza da cui poi sviluppare i suoi protagonisti. Gli omicidi di "Occhiali Neri" sono un esempio di questo procedimento: non vediamo mai un processo di scavo profondo nel sentimento e nell'emozione degli attori sulla scena (a parte qualche eccezione), quanto percepiamo questi ultimi come simili a pedine da muovere su di una scacchiera ipotetica in favore di quanto accadrà di lì a poco. I crimini che Carr decide di mettere in scena dentro ai suoi romanzi di mistero sono pianificati con una cura del dettaglio quasi maniacale; ciò che accade davanti agli occhi del lettore non è causale, ma sistematicamente organizzato come i giochi di prestigio di un mago su di un palco. Se un certo individuo farà quella cosa, dietro ci sarà la volontà dell'autore di fargli fare e agire in quel determinato modo, poiché è nella meccanica del delitto che Carr dà il meglio di sé. Meccanica che, tra l'altro, si esprime in "Occhiali Neri" in una duplice forma a dir poco suggestiva: nell'alterazione di alcuni cioccolatini all'interno di un negozio e nella scenografica uccisione di un uomo nientemeno che davanti a un pubblico attento e all'occhio inesorabile di una telecamera. Si tratta di due forme di crimine che giocano su trucchi e spiegazioni logiche, basati su domande e risposte ben precise ma che possono variare e rigirare le carte in tavola più e più volte, e affascinano non solo chi legge saltuariamente un giallo classico, ma pure gli appassionati studiosi e critici del genere, dal momento che pongono quesiti interessanti con risposte tanto inaspettate quanto ragionevoli, simili a cruciverba (non per niente proprio "Occhiali Neri" è stato dedicato a Powys Mathers, ovvero il celebre Torquemada).

Al di là dell'enigma, poi, questo romanzo giallo di Carr assume valore aggiunto per la ragione di cui ho parlato nell'introduzione: affrontare l'indagine non solo da un punto di vista "pratico", con l'investigatore fittizio che interpreta gli indizi e li sistema come in un mosaico per ristabilire l'armonia, ma pure da quello puramente teorico, utilizzando esempi tangibili per sostenere le tesi di Elliot e Fell e trasformare un racconto di finzione in un piccolo compendio della letale arte dell'avvelenatore (cap. 18). Carr, da membro del Detection Club e fervente sostenitore del valore del giallo tradizionale, ha quindi sfruttato la propria conoscenza di criminologia per illustrare al meglio a chi legge quanto i contenuti dei libri gialli siano superficiali soltanto fino a un certo punto: le storie possono essere inventate, ma in giro per il mondo reale sono esistiti e continueranno purtroppo ad esistere biechi individui, decisi ad ottenere ciò che desiderano utilizzando qualsiasi mezzo abbiano a disposizione, lecito o meno che esso sia. Pertanto, non ci stupiamo a ritrovare citati nientemeno che il sinistro H.H. Crippen, al quale l'autore curiosamente conferisce il beneficio del dubbio sul fatto che la morte di Belle Elmore sia stata o meno accidentale; i medici Palmer (che era lieto di offrire da bere agli amici intrugli letali), Pritchard (talmente desideroso di libertà da uccidere moglie e suocera che lo soffocavano troppo), Buchanan (omicida della moglie per mezzo di un mix di morfina e belladonna), Cream (antesignano del serial killer che contò vittime in Canada, America e Inghilterra) e Lamson (assassino del giovane nipote storpio con della torta avvelenata); il sacerdote Richeson che avvelenò la consorte per sposare una ragazza più giovane e ricca; l'artista Wainewright, il quale ammazzò innumerevoli persone per incassare il denaro della loro assicurazione; l'avvocato Armstrong, il quale si offendeva quando gli ospiti rifiutavano le tartine letali che offriva loro; il chimico Hoch che simile a Barbablù si liberò di diverse mogli grazie a una penna stilografica avvelenata; il dentista Waite, reo di aver tentato di ammazzare i suoceri con germi di difterite, tubercolosi, polmonite e influenza; l'inventore Vaquier, che voleva letteralmente la botte(ga) piena e la moglie dell'oste; lo studente di medicina Carlyle Harris. Tutti costoro non solo sono vissuti realmente, ma svolgono la funzione di arricchire il caso dei delitti di Sodbury Cross e ampliare il discorso sul delitto che Carr aveva sempre in mente, quando scriveva. In questo modo, "Occhiali Neri" non è soltanto un magistrale esempio di come si costruisca un mistero credibile e stupefacente, ma anche una sorta di studio sul temibile crimine dell'avvelenamento degno di un trattato di medicina. In una parola, straordinario.

John Dickson Carr, nato nel 1906 e morto nel 1977
L'ingegnosità delle trame e il fascino per "l'impossibile che diventa realtà", oltre che per i trucchi di prestigiatori come quello sopra citato, sono sempre state caratteristiche innate di John Dickson Carr (o Carter Dickson, per usare lo pseudonimo con cui firmò i romanzi con Henry Merrivale), alla pari del concetto di voler "giocare una partita" col suo pubblico ad armi pari. La pretesa del rispetto del fair-play e la scommessa che poneva in ognuno dei suoi numerosi libri (come quella costituita dallo speciale sigillo che è stato messo nella prima edizione di "Il Mostro del Plenilunio", col quale sfidava i lettori a batterlo in astuzia) farebbero pensare che egli fosse nato in Inghilterra, la patria del giallo deduttivo; invece, la città che gli diede i natali fu l'americana 
Uniontown, in Pennsylvania. Laggiù, mentre suo padre aveva felicemente intrapreso la carriera di avvocato e pregustava una futura associazione col figlio, Carr iniziò invece il lungo percorso che lo avrebbe portato a diventare uno dei giallisti più famosi di tutti i tempi: dapprima, dimostrando una memoria formidabile con la recitazione di monologhi tratti da "Amleto", pagine di D'Artagnan, Sherlock Holmes e "Il Mago di Oz"; e poi attraverso la scrittura di racconti, pubblicati sul giornale scolastico dello Haverford College, dove esordì la figura del giudice istruttore Henri Bencolin di Parigi. Nel 1928, lo scarso rendimento scolastico spinse i suoi genitori a compiere la scelta estrema di allontanarlo dagli Stati Uniti in favore della Francia, dove avrebbe dovuto studiare alla Sorbonne. Il posto, tuttavia, non si addiceva a un giovane dalle idee conservatorie come lui e la vita da bohémien trovò una ferma opposizione da parte sua; eppure, l'ambiente si mostrò favorevole per dare il tocco finale al romanzo che stava scrivendo. Fu così che nacque "Il Mostro del Plenilunio", la versione ampliata e rivista di un lungo racconto che Carr aveva scritto ai tempi della scuola americana, "Grand Guignol", proprio con Bencolin quale personaggio principale. Il modesto successo che arrise al suo protagonista, rispetto ai successivi Fell e Merrivale, per qualche tempo costrinse Carr a tornare in America dai genitori; finché, nel 1930, durante una crociera, incontrò Clarice Cleaves, una ragazza di Bristol che poco dopo sarebbe diventata sua moglie. È curioso come proprio "Il Mostro del Plenilunio" sia stato il tramite attraverso cui Carr e Clarice iniziarono a scambiarsi le prime confidenze: in "The Golden Age of Murder", infatti, Martin Edwards ha spiegato che, in seguito al loro primo incontro nella sala del parrucchiere di bordo, i due futuri sposi trascorsero una serata a ballare e chiacchierare del più e del meno, finché Carr non accennò al fatto che aveva scritto una detective novel e chiese a Clarice se le avrebbe fatto piacere leggerla. In realtà, la ragazza non nutriva un particolare interesse in indagini e assassini fittizi; eppure, non ebbe cuore di deludere le evidenti aspettative del suo nuovo amico ed accettò di dargli un responso su quel libro. In quel modo, tra i due scoccò la scintilla ed entro un paio d'anni si trasferirono definitivamente in Inghilterra, dove la novella signora Carr intendeva far nascere le sue figlie. Anche suo marito (che nel frattempo aveva deciso di abbandonare Bencolin in favore di altri due personaggi molto simili tra loro, il dottor Gideon Fell e l'avvocato Henry Merrivale) fu entusiasta della scelta: dopotutto, era la patria dei suoi idoli d'infanzia, Chesterton e Doyle (del quale in seguito fu co-autore della biografia ufficiale), e sembrava che laggiù fosse il posto ideale per scrivere gialli sullo stile tradizionale; senza contare il fatto che la Storia dell'Europa cui poteva attingere avrebbe fornito molto materiale per il tipo di libri che intendeva scrivere.

Un'altra caratteristica dell'opera di Carr, infatti, è quella di affondare le proprie radici in miti e leggende molto antiche: ne sono un esempio le numerose citazioni che possiamo trovare all'interno di romanzi come "Il Terrore che Mormora", la cui trama ruota sul vampirismo, oppure dello stesso "Il Mostro del Plenilunio". Qui sono i lupi mannari, le bestie assetate di sangue e capaci di trasformarsi in uomini e donne pur mantenendo la loro anima selvaggia, ad occupare la trama e a fornire la base per i misteri del libro. Si tratta di argomenti che, proprio grazie alla loro aura di velato soprannaturale, si prestano ad essere interpretati e sfruttati in modo da fornire al lettore una base relativamente reale per un delitto immaginario, e che permisero a Carr di dare sfogo a un'insaziabile sete di ricerca storica. Questa passione emerge dalla lettura di alcuni romanzi giallo-storici, come "La Sposa di Newgate", "Il Diavolo Vestito di Velluto" e "La Corte delle Streghe" (uno dei suoi capolavori) e viene spesso incarnata dai personaggi dei suoi gialli. Tuttavia, fu il Delitto l'argomento a cui Carr si sentì più legato; tanto che i suoi detective soffrirono di una vera e propria ossessione nei confronti della Storia del Crimine: Bencolin, Merrivale e Fell, infatti, di volta in volta si fecero portavoce dei pensieri dell'autore, attraverso semplici citazioni (pure di casi reali, come avviene proprio in "Occhiali Neri", pp. 32, 76-77, 113, 152, 195, 197, 201, 262, 263) ma anche con l'utilizzo di piccole "conferenze" sull'omicidio e la sua applicazione nei romanzi del mistero. Oltre agli avvelenatori celebri sopra citati, si possono aggiungere Edith Thompson e Frederick Bywaters che cospirarono per eliminare il marito di lei pur fallendo nel loro piano diabolico, e il celebre caso di Christiana Edmunds il quale vede proprio l'utilizzo di cioccolatini avvelenati come mezzo di eliminazione di massa e fu di ispirazione dieci anni prima per "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" di Anthony Berkeley.

"Occhiali Neri" presenta pure un'altra caratteristica tipica della narrativa di Carr: l'atmosfera. Come era già accaduto in "Carte in Tavola" di Agatha Christie e nelle sue opere precedenti, ci troviamo di fronte a una narrazione molto cupa, quasi come se stessimo camminando dentro un incubo ad occhi aperti, dal quale ci è impossibile svegliarci (pp. 7-9, 20, 22, 38-41, 54-57, 59-60, 74-75, 81-83, 95-96, 162-163, 177-184, 187-190, 210-211, 243-247). Spesso l'ambientazione è notturna (gran parte dell'indagine sul delitto si svolge la notte stessa in cui esso si verifica), ma non mancano giornate uggiose dove la pioggia batte sui vetri delle finestre, e pomeriggi di sole nei quali niente farebbe presagire che qualcosa di terribile si stia per verificare; eppure, come recita l'adagio pronunciato dal sacerdote Stephen Lane in "Corpi al Sole", il male si annida pure sotto i caldi raggi della stella che ci illumina e riscalda. Pertanto, veniamo ingannati da questa finta aria di tranquilla quiete a Pompei, mentre i personaggi discutono di avvelenatori seriali, e nel giardino di Bellegarde dove si spande l'odore delle pesche e delle mandorle amare (pp. 23-24, 37-38, 41, 67-69, 102, 118, 127-128, 153-154, 200, 223, 238). Ma non è finita qui. "Occhiali Neri" è un giallo che riveste una certa importanza non solo sotto gli aspetti formali discussi qui sopra, ma anche nei temi in esso trattati. Soprattutto, è centrale la questione sulla validità dei testimoni (cap. 7). Quante volte ci siamo imbattuti, in un classico mystery della Golden Age, su teste indecisi e su prove e dimostrazioni che potrebbero rivelarsi fallaci? Ecco, nel suo romanzo Carr smaschera quanto ci si possa sbagliare nel valutare una faccenda nonostante siamo convinti della nostra percezione sensoriale. Non solo Marcus Chesney, ma pure Fell è scettico nel ritenere valida una testimonianza non suffragata da indizi concreti: sostengono entrambi che tutti noi portiamo dei metaforici occhiali neri, simili a paraocchi, i quali ci impediscono di renderci pienamente conto di quanto ci accade intorno. Io sono del tutto d'accordo, tra l'altro. Quello che importa, tuttavia, è il modo attraverso cui Carr dimostra la sua tesi: se Anthony Berkeley aveva messo alla berlina la possibilità per l'autore di stravolgere a piacimento una trama solo inserendo nuovi indizi in "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati", in "Occhiali Neri" il Maestro del delitto della camera chiusa evidenzia la nostra innata cecità di fondo, peggiorata da chi ci inganna volutamente.

La storia è incentrata sulla percezione che i personaggi (e il lettore) avvertono, sul punto di vista che decidono di adottare e sulla direzione che inevitabilmente si rivela erronea o comunque viziata da abbagli; proprio come in "Carte in Tavola", ci accorgiamo della verità sottoposta al nostro sguardo quando essa ci viene svelata. E non serve proprio a nulla possedere una prova video, poiché anche quella può essere manipolata: mai il detto "vedere per credere" è parso tanto errato. Ciò che dovrebbe dirimere i dubbi, scacciare le ombre, mettere i fatti nero su bianco (oppure a colori, se si tratta di una ripresa più recente), sottoporre al nostro sguardo inquisitorio ciò che è accaduto, in realtà confonde ancora di più le acque, genera nuovi sospetti (perché Tizio ha mentito? Come mai invece Caio ha detto la verità, dal momento che sarebbe il nostro indiziato numero uno?), ingarbuglia la matassa in un moderno Nodo Gordiano dove i lacci sono i ricordi differenti che i vari sospettati presentano alle forze dell'ordine. A chi credere? In fondo, i protagonisti delle storie di Carr sono individui turbati, non solo dal punto di vista mentale (gli assassini), ma anche da quello emozionale: tralasciando il risvolto sentimentale tra Elliot e Marjorie, il quale è un'aggiunta alla storia (pp. 128-129, 134-135, 164, 168-169, 174, 277), essi non suscitano la nostra fiducia a causa di comportamenti ambigui, di azioni melodrammatiche e teatrali che ci fanno pensare "questi stanno fingendo" pure nel momento in cui agiscono secondo la propria particolare natura. Se Marcus si mostra desideroso di stuzzicare un assassino, non vuol necessariamente dire che sia a sua volta un omicida; se Joe Chesney punta una pistola alla tempia a qualcuno forse non lo fa apposta; se Marjorie vuole comprare del cianuro magari lo impiegherà per sviluppare alcune fotografie; se George Harding lavora in un laboratorio chimico non è detto senta l'impulso irreprimibile di sottrarre qualche dose di veleno per scopi delittuosi; se il professor Ingram è appassionato di psicologia criminale, non è detto sia lui stesso un caso clinico. Eppure, il sospetto sorge spontaneo e chi legge non riesce a concedere fiducia con facilità, acuendo i dubbi di premessa dell'enigma. Si tratta di una faccenda di caratura non indifferente, soprattutto dentro a un romanzo giallo come "Occhiali Neri", il quale non è certo facile da interpretare nel modo corretto vista l'abilità del suo autore nel depistare chi legge. Da parte mia, non posso fare altro che ribadire quanto questo libro sia assolutamente strabiliante; forse per alcuni appare un po' troppo centrato sul mistero, con la conseguenza di tralasciare lo studio della psicologia come accaduto in Blake, ma resta una prova incredibile dell'abilità di Carr nel dare vita a racconti entusiasmanti e che meriterebbero di essere senza dubbio più conosciuti.

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venerdì 21 maggio 2021

72 - "La Belva Deve Morire" ("The Beast Must Die", 1938) di Nicholas Blake

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Esistono libri che segnano la storia della letteratura, se non addirittura la Storia con la S maiuscola (tipo la Bibbia di Gutenberg, "L'Interpretazione dei Sogni" di Freud e "Il Capitale" di Marx). Si tratta di opere che, grazie alla forza dirompente delle loro parole (che non sono meno potenti delle intenzioni, come qualche cretino vorrebbe farci credere) e degli argomenti che magari hanno il coraggio di affrontare sotto un nuovo punto di vista, danno come una scossa alle menti dei lettori, gettano benzina su convinzioni nebulose per conferire loro consistenza, irrompono nella vita di tutti i giorni con i loro insegnamenti oppure illuminano e indicano nuove strade per esplorare quella Terra di Nessuno che è il cervello umano, tanto prezioso quanto semisconosciuto. Ora, siccome Three-a-Penny è un blog dedicato alla classica crime story, per introdurre la recensione di oggi non mi dilungherò troppo sul generale, ma mi concentrerò sul particolare e su alcuni titoli che si possono considerare a ragione come veri e proprio outsider. Ad esempio, "Il Mistero della Camera Gialla" di Gaston Leroux è stato uno tra i primi romanzi del mistero a presentare un delitto avvenuto in una stanza chiusa dall'interno. Prima di allora (era il 1907) c'era stato Poe con "I Delitti della Rue Morgue" a fare un tentativo in tal senso, ma finì per scrivere un racconto e non una storia articolata. Pertanto, Leroux ha avuto la brillante idea di estendere questo lampo di genio dello scrittore americano e ha consegnato ai lettori qualcosa di mai visto prima: un crimine il cui colpevole non esiste (almeno in apparenza), dal momento che non si può essere trovato sul luogo della tragedia. Allo stesso modo, E.C. Bentley ha introdotto una grossa innovazione scrivendo "La Vedova del Miliardario" nel 1913, tracciando una sorta di modello a cui si sarebbero ispirati moltissimi tra i suoi colleghi del Detection Club: la casa di campagna, l'investigatore che deve sentire i testimoni racchiusi in una cerchia ristretta di persone, l'uso dell'atmosfera per caricare il racconto di tensione... Richard Austin Freeman, poi, con il personaggio del dottor Evelyn Thorndyke ha inaugurato il giallo scientifico, dove contano le prove di laboratorio, gli indizi sul campo e la logica per trovare un assassino, senza scomodare la psicologia; mentre Francis Iles ha compiuto esattamente il percorso inverso con "L'Omicidio è un Affare Serio" e il calare il lettore dentro la testa del criminale.

Tutti questi romanzi, pertanto, hanno dato uno scossone non da poco alle convenzioni che volevano il giallo come una sorta di mero cruciverba, in grado di distrarre senza spendere troppe energie. Ed è stata una cosa molto buona; ma da un certo punto la faccenda è cambiata ancora e un'altra rivoluzione è giunta a scardinare le certezze del genere mystery. Infatti, alcuni autori hanno iniziato a veicolare messaggi importanti attraverso un tipo di letteratura "commerciale" come quella del giallo, innalzando questi libri alla pari con opere più pretenziose: così non solo ci si ritrovava a scorgere usi e costumi dell'epoca, ma pure convinzioni e cambiamenti che stavano avvenendo dentro alla società. E in molti hanno fatto tutto ciò attingendo dal passato e dando vita a una crime novel che mette insieme logica e psicologia, praticità e riflessione, creando opere senza tempo che resistono ancora oggi. Ad esempio, "Assassinio sull'Orient-Express" di Agatha Christie è ancora in vetta alle classifiche di tutto il mondo perché racconta una storia dove esiste un caso "tangibile", con tanto di indizi, ma pure mette in discussione il senso di giustizia. Cosa è Bene e cosa è Male? Questo è il punto cruciale del successo del romanzo. Stessa cosa per l'opera di Dorothy L. Sayers, la quale riesce ad andare molto più in profondità di qualsiasi altra nel declinare innumerevoli temi, trattandoli con serietà e rispetto. Oppure ancora certi gialli di John Dickson Carr, come "Le Tre Bare" e "Il Terrore che Mormora" che suscitano dibattiti accesi, oltre a presentare enigmi di prim'ordine. In questo numero di giallisti e di titoli immortali io personalmente aggiungo pure Nicholas Blake assieme alla sua opera. Blake è stato una delle stelle più fulgide del giallo di seconda generazione all'interno del Detection Club, assieme a Edmund Crispin, Michael Innes e Christianna Brand: nelle sue trame non sono mancate indagini improntate sulla raccolta di indizi tangibili, ma allo stesso tempo la ricerca della verità attraverso lo studio del comportamento umano ha avuto un enorme sviluppo, portando all'evoluzione di alcuni concetti considerati immutabili. Dilemmi morali e questioni esistenziali non sono mancate all'interno dei suoi gialli (basti pensare a "Quando l'Amore Uccide" che ho già recensito), e oggi voglio ribadire questo concetto presentandovi quello che viene considerato come il suo mystery più celebre e acclamato: "La Belva Deve Morire" (Polillo Editore, 2002), una storia di dramma, tormento, disperazione, vendetta, rancore e giustizia che trova pari esempio in pochissime altre occasioni e mostra fin dove ci si può spingere nell'innovare un genere letterario.

A Lane near Arles, Vincent van Gogh, 1888
Il racconto si apre con un breve quanto lapidario paragrafo: "Ho deciso di uccidere un uomo. Non so chi sia né dove viva, non ho idea di che aspetto abbia. Ma lo troverò e lo ucciderò". Molto melodrammatico, vero? D'altronde, a parlare in prima persona è uno scrittore di romanzi gialli, Frank Cairnes, il quale sta scrivendo un diario sotto lo pseudonimo di Felix Lane che funzioni come "complice muto" del proposito criminale che si è prefisso di assolvere: trovare l'autista dell'automobile che ha investito e ucciso il suo piccolo Martie e ripagarlo della stessa moneta, poiché la polizia è arrivata a un punto morto. Eppure Felix sembra preda di una sorta di disarmante avvilimento: nonostante voglia riuscire nel proprio compito, non ha la più pallida idea di come fare per portarlo a termine e la sua coscienza ogni tanto fa capolino per metterlo in guardia. Oltretutto, i pochi rapporti che ha deciso di mantenere lo inducono a trovare conforto nel prossimo; ma Lane è deciso: non riuscirà a vivere se prima non avrà giustiziato l'assassino di suo figlio e riversa il suo odio sulla carta, per poter ragionare con lucidità maggiore. E se all'inizio le cose non promettono molto bene, al punto di indurlo quasi a rinunciare per la sfiducia, ben presto alcuni dettagli sulla figura del misterioso omicida iniziano ad emergere. Durante un viaggio in macchina, infatti, Felix si imbatte in una fattoria molto isolata dove viene a sapere che un certo autista è finito in una gora d'acqua proprio nel periodo cruciale della tragedia occorsa a Martie. Perché lavare di proposito un parafango, se non ci fosse stata dietro una coscienza sporca? Nell'auto si trovavano due persone: un omone volgare che continuava a blaterare e una ragazza che aveva tutta l'aria di essere sull'orlo di una crisi di nervi. Per una coincidenza fortuita, costei è un'attrice conosciuta in Inghilterra, Lena Lawson, e Felix riesce ad ottenere un incontro con lei con la scusa di raccogliere materiale per un suo prossimo libro. La ragazza è molto bella, anche se un po' vanesia e superficiale, e pare abbia avuto un forte esaurimento nervoso qualche tempo prima: forse a causa del trauma di un investimento? Da questo punto in poi, Lane inizia a ricostruire il passato della giovane e si rende conto di come i tasselli vadano pian piano al loro posto: c'è addirittura un certo George Rattery che compare di sfuggita nei suoi discorsi e che viene subito scacciato, come se fosse un orrendo ricordo...

Felix Lane ormai è certo che il suo uomo (e vittima designata) sia Rattery; per cui, con una scusa, si fa presentare alla sua famiglia da Lena e inizia a sondare il terreno per capire se i suoi sospetti siano fondati o meno. Al di là di questo discorso, comunque, George si rivela essere un uomo terribile: alza la voce e le mani con la moglie Violer e con il figlioletto Phil, asseconda le idee antiquate e rivoltanti della madre Ethel che governa la casa a proprio piacimento, flirta con la signora Rhoda Carfax, la moglie del socio in affari con cui gestisce un'officina per automobili. E poi assume comportamenti egocentrici e pretende di essere l'unico in grado di sapere come stare al mondo. Felix ha deciso che, anche se non fosse l'uomo che sta cercando, l'assassino del suo piccolo Martie, Rattery deve scomparire dalla faccia della terra per non rischiare di influenzare negativamente Phil e portarlo alla pazzia. Però le cose sono più facili a dirsi che a farsi: come ha insegnato il mite dottor Bickleigh di "L'Omicidio è un Affare Serio", non è semplice ideare un delitto e poi farla franca. Servono doti particolari quali sangue freddo, un cervello capace di prevedere le mosse degli investigatori, essere in grado di dimostrare di non poter essere sospettabili. Felix possiede tutto ciò? A quanto pare è così poiché, nonostante un tentativo andato a vuoto, adesso ha trovato il modo giusto per sbarazzarsi di George Rattery: un finto incidente in barca, dal momento che l'altro non sa nuotare. Così arriva il gran giorno, tutto è pronto fin nei minimi dettagli... Quando all'improvviso il Fato decide di metterci lo zampino ancora una volta: dopo aver favorito Lane, ora pare ostacolarlo. Ma le cose non sono così semplici e ci saranno ancora tanti colpi di scena, prima della scoperta della verità sul caso raccontato in "La Belva Deve Morire". Perché ci sarà davvero un delitto, ma non certo come il lettore si aspetterebbe; e nemmeno Nigel Strangeways, convocato d'urgenza da Felix per un aiuto disperato, assieme alla moglie Georgia. Il racconto, da psicologico puro, si trasforma in un misto affascinante che saprà catturare il lettore e non gli permetterà di chiudere il libro. "La belva deve morire" recita il titolo: chissà se le cose andranno davvero in questo senso.

Two Figures in a Boat, Eric Ravilious, c.1930s
Mi fermo a questo punto nel delineare la trama per non rischiare di rovinarvi la lettura, dal momento che le scoperte che verranno in seguito saranno a dir poco sorprendenti. Tengo comunque a dirvi fin da subito che "La Belva Deve Morire" è proprio il tipo di giallo che oserei definire perfetto. Ogni cosa al suo interno è stata calcolata nei minimi dettagli, gli equilibri dosati da una parte e dall'altra per non sbilanciare un aspetto rispetto a un altro, i temi sono stati approfonditi, sviscerati, analizzati e restituiti al lettore con una forza strabiliante. Insomma, ha letteralmente tutto ciò che uno può chiedere a un autore perché soddisfi i propri desideri. Quello che più si nota leggendo questo romanzo, però, è che Blake vi ha infuso un'attenzione particolare nel trattare la psicologia dei personaggi, compiendo un grosso passo in avanti nella trattazione del senso di ciò che è giusto o sbagliato e quello di colpevolezza, proprio di un criminale. Con Felix, ci troviamo di fronte non solo a uno scrittore di mysteries fin troppo deciso a farsi giustizia da sé, caratterizzato in profondità e le cui caratteristiche mentali vengono continuamente sottoposte al giudizio del lettore, ma pure a una serie di sospettati di un delitto la cui personalità ci viene svelata pian piano, in un crescendo di tensione ed atmosfera a dir poco suggestiva. Dapprima facciamo il nostro incontro con quest'uomo distrutto dall'assassinio del figlioletto, con la vita spezzata e mai più sanabile: grazie al suo diario, riusciamo ad entrare nella sua mente, ad aggirarci tra le macerie che la popolano e agli spettri che la infestano tipo una casa stregata, e scopriamo come non sia quello che viene definito di solito "un assassino nato", quanto piuttosto un individuo portato all'esasperazione (non alla pazzia, sia chiaro, poiché ragiona con una lucidità distorta solo in parte) e che non ha più nulla da perdere. Quello che ci viene descritto è ormai un essere umano finito, straziato nell'animo, incapace di far fronte alla prova alla quale è stato sottoposto. Attraverso le sue stesse parole, veniamo a sapere come il dolore sia diventato talmente forte, per lui, da trasformarsi in cibo di cui nutrirsi, carbone che alimenti la sua sete di vendetta, l'unica cosa che gli resta. E in tutto questo, sembra che Felix Lane stia compiendo una sorta di analisi di Frank Cairnes, come se volesse tentare di comprendere il "se stesso" che fa capolino tra le righe. Credo sia uno dei ritratti più terrificanti e straordinari di assassino (presunto o meno, si scoprirà più avanti) che abbia mai ritrovato in un giallo, poiché non solo riusciamo a percepire i lati più oscuri del suo cuore e della sua mente, ma pure le debolezze a cui va incontro. La sua coscienza, così debole quanto la fiammella di una candela agitata dal vento, sembra sempre lì lì per estinguersi e far diventare Felix un criminale; eppure, resiste tenace contro i soffi malvagi che vogliono soffocarla (pp. 11-13, 18, 20-22, 25, 29, 33, 36-39, 41-42, 44-47, 53, 55-62, 64-69, 73, 75-76, 79-81, 84-86, 88-89, 91, 93-100, 102, 104, 108-109, 112-113, 119-123, 133-134, 136-137, 165-167, 208, 212-213, 253).

Il diario di Felix, tuttavia, non si limita a mostrarci come sia fatto il suo proprietario, cosa pensi, come intenda agire per vendicarsi, quali terribili piani stia facendo contro l'assassino del figlio; attraverso i ritratti che delinea Lane, ci facciamo un'idea ben precisa delle altre persone in cui egli si imbatte e che saranno poi parte integrale dell'indagine successiva. Da fine psicologo e conoscitore della natura umana, egli ci permette di fare il nostro incontro con Lena Lawson, questa attrice un po' sciocca ma decisa, descritta come volgare e appassionata amante in un primo momento, poi come leale amica e confidente. Assistiamo alla sua graduale evoluzione, all'attaccamento sincero che sviluppa verso Felix, ai suoi timori che lui possa considerarla simile a una donna di facili costumi, all'insicurezza nascosta sotto gli atteggiamenti impostati dell'attrice di professione. Anche lei, allo stesso modo del suo amato "Micetto", è sensibile e capisce che c'è qualcosa che non va in Lane, però non riesce ad essergli d'aiuto. Felix lascia emergere il suo lato più frivolo dal racconto, nonostante mostri la preoccupazione di Lena quando si rende conto di come lui la stia allontanando pian piano, mentre si avvicina il momento in cui dovrà mettere in atto il proprio progetto criminoso. Sarà poi in seguito, quando Lane lascerà il posto di narratore, che avremmo un quadro completo della ragazza, molto più benevolo di quello che era stato fin lì tratteggiato. Invece quello di George Rattery si dimostrerà ampiamente negativo: non solo da ciò che emerge dalle parole di Felix, le quali lo descrivono come un rozzo ignorante capace di tormentare il prossimo e abusare di quanti gli stanno intorno, ma pure dal racconto in terza persona che viene fatto in seguito. Rattery incarna allo stesso tempo l'assassino e la vittima ideali, mostrandoci ancora una volta come tutti quanti noi siamo duplici: tanto è spietato, crudele, spregevole, insolente, prepotente quando assume il ruolo del capofamiglia e del vessatore, quanto per queste stesse caratteristiche la preda ideale di un Fato giudizioso e benevolo che dovrebbe toglierlo di mezzo per fare un favore al resto del mondo. Un ritratto altrettanto dettagliato viene fatto per gli altri componenti della famiglia Rattery: la vecchia Ethel, la "matrona romana" che spadroneggia in casa e ritiene giustificato il delitto d'onore, pronta a servirsi di mezzucci e ricatti per ottenere ciò che vuole e spietata addirittura con Phil, ma indifesa e isolata; Violet con il figlio Phil, prede di individui più determinati di loro, costretti a sopportare le angherie e a una sottomissione totale, mentre covano nel proprio cuore il risentimento e l'odio senza sfoghi. Per non parlare dei Carfax, gli amici e vicini di casa che risultano la coppia meno ben assortita ma tutto sommato soddisfatta. Possono nascondere segreti l'uno all'altra, possono essere bugiardi oppure mistificatori, ma assassini? Questa è una domanda a cui Nigel Strangeways dovrà rispondere. Questo studio della psicologia dei personaggi, pertanto, costituisce il perno attorno a cui si sviluppa "La Belva Deve Morire" ed è una sorta di sorgente dalla quale la trama stessa trae vigore, poiché è dal disvelamento di nuovi aspetti caratteriali dei protagonisti che nascono piste da seguire, capovolgimenti e sorprendenti svolte nel racconto. Poche volte prima di questo caso si era verificato qualcosa di simile.

Cecil Day-Lewis, alias Nicholas Blake, nato
nel 1904 e morto nel 1972
Una tra le cose più sconcertanti di tutto quello che riguarda Felix, tuttavia, è il fatto che egli sia una sorta di autoritratto (pp. 14-15, 22, 23) di Cecil Day-Lewis, l'uomo che si nascondeva dietro lo pseudonimo di Nicholas Blake. Poeta Laureato, amico di W.H. Auden, esperto critico, elogiato da Churchill e da Lawrence d'Arabia, nonché padre dell'attore Daniel Day-Lewis, Day-Lewis nacque nel 1904 a Ballintubbert, in Irlanda, ma si trasferì ben presto in Inghilterra, dove venne educato in alcune delle più prestigiose scuole del Regno Unito. Dopo la pubblicazione di una prima raccolta di poesie e la laurea a Oxford nel 1925, egli si sposò con Constance Mary King e iniziò ad insegnare in alcune scuole, trovando tuttavia una certa ostilità a causa della sua adesione al comunismo. Nel 1935, volendo integrare i magri guadagni che gli procacciava la sua produzione poetica, Day-Lewis decise di intraprendere la carriera di scrittore e pubblicò il suo primo mystery, "Questione di Prove", adottano lo pseudonimo di Nicholas Blake. Il romanzo, che ottenne l'elogio della critica ma gli costò anche il posto di lavoro come insegnante (il caso è incentrato su una relazione adulterina tra la moglie del preside e un insegnante), introdusse il personaggio di Nigel Strangeways, l'immagine fittizia di Auden a cui vennero affiancati i tratti peculiari dell'investigatore dilettante: la passione per la citazione (innumerevoli all'interno dei suoi romanzi) e per la declamazione di poesie ad alta voce, l'intelligenza, la cultura, un certo fascino e buone maniere. Prima della morte, avvenuta nel 1972 mentre si trovava ospite dell'amico Kingsley Amis, Day-Lewis usò il suo nom de plume per produrre altri diciannove gialli (tra cui vanno ricordati "La Belva Deve Morire", ispirato da un incidente quasi mortale occorso al figlio e da cui è stato tratto un film diretto da Claude Chabrol, "Le Pentole del Diavolo", "La Testa di Creta" e "Una Lama nel Cuore"), quasi tutti con protagonista Strangeways (il quale compie nel corso della sua esistenza un'evoluzione complicata quanto quella del suo stesso creatore), sostenendo spesso che essi servissero per sovvenzionare le spese della sua famiglia che, nel frattempo, era cambiata molte volte: a partire dagli anni '40, infatti, Day-Lewis divorziò dalla moglie e intraprese una lunga serie di relazioni con altre donne più giovani. Anche Dorothy L. Sayers ed Anthony Berkeley insistettero ad affermare come le loro crime novels fossero un semplice riempitivo per guadagnare soldi facili; il mio modesto parere è che, se davvero fosse stato così, non ci avrebbero mai messo tanto cuore ed anima nel crearli. Tutti e tre, infatti, non studiarono trame insipide e semplicistiche, ma si impegnarono ad innovare il genere, e Blake lo fece soprattutto con lo sviluppo della psicologia emotiva e l'introduzione di quesiti complessi ed intriganti.

Un esempio a sostegno di questa argomentazione è costituito proprio da "La Belva Deve Morire", il quale (come abbiamo visto) riesce a fondere molti aspetti contrastanti della classica crime story. Non solo dal punto di vista della psicologia del personaggi, i quali vengono esaminati come attraverso una lente d'ingrandimento sotto l'aspetto emotivo, ma pure in numerose altre declinazioni possiamo riscontrare l'originalità di Blake nell'approccio al giallo e la sua intenzione nel voler creare opere originali nelle trattazione dei temi e nella composizione stilistica. La trama stessa e l'enigma, che si sviluppano proprio a partire dai risvolti che gli stessi protagonisti mettono in moto, mescolano riflessione e azione e sono centrali nella costruzione del risultato finale: la loro complessità alimenta la curiosità del lettore in modo straordinario, generano equivoci e danno vita a colpi di scena inaspettati poiché improvvisi e governati da un Fato che spesso, nell'opera dell'autore, è beffardo, ironico nella sua malvagità. Spesso mi è capitato di leggere qualche thriller contemporaneo e ho riscontrato come l'ossessione per la costruzione dei personaggi spesso porti a trascurare lo sviluppo della storia; ecco, bisognerebbe prendere esempio da Blake il quale riesce a portare avanti di pari passo entrambi questi aspetti, con equilibrio e soprattutto in modo egregio e diverso. Infatti, basta dare un'occhiata alla struttura del racconto: all'inizio abbiamo un diario che ci permette di avanzare lungo la linea temporale e, allo stesso tempo, di iniziare a comprendere le personalità degli attori sulla scena; poi, cambiando registro, Felix e gli altri personaggi ci vengono mostrati da un punto di vista impersonale; ancora, passiamo a osservare le vicende attraverso gli occhi di Nigel Strangeways, il quale getta una nuova luce su quanto credevamo di conoscere; infine, attraverso note e articoli di giornale, Blake corona il tutto tornando all'impersonalità (o quasi). Tutto ciò è assolutamente sorprendente, poiché permette a chi legge di farsi un'idea a 360 gradi delle personalità e del mondo all'interno di "La Belva Deve Morire": a un certo punto tutto diventa familiare, entriamo in sintonia con gli attori e comprendiamo i loro stati d'animo.

A questa divisione tra una prima parte forte dal punto di vista emotivo e le altre, dove invece lo stile è più impersonale e l'indagine assume una forza tradizionale pur giocando sull'uso della psicologia come punto di partenza per la raccolta di prove tangibili, si aggiunge poi la cupezza dei toni del racconto. "La Belva Deve Morire", allo stesso modo di "Quando l'Amore Uccide", non racconta una vicenda dai contorni frivoli oppure "leggeri" come accade in altri frangenti dentro la classica crime story britannica: qui ci troviamo di fronte a una tragedia umana, che parte fin dalle prime righe con un ritmo serrato e che pone enfasi sulla tristezza dei destini di Martie e di Felix. Se nel caso che coinvolse l'aviatore Fergus O'Brien, quest'ultimo assumeva atteggiamenti cinici verso le minacce di morte che gli venivano rivolte e nella conclusione rivelava quanto la sua esistenza fosse stata caratterizzata da rancori e odii radicati, allo stesso modo Felix Lane ci annuncia subito di essere un potenziale assassino senza scrupoli o riserve, deciso a farsi giustizia da sé e incurante delle conseguenze del proprio gesto. Come due facce di una stessa medaglia, due specchi che riflettono l'uno con l'altro, questi personaggi non aspirano a una forma di redenzione o di riscatto, non agiscono per un fine che appaia nobile ai loro occhi: fanno semplicemente quello che devono per una sorta di senso dell'onore distorto. Anzi, meglio ancora: compiono determinate azioni per ottenere ciò che spetta loro e il Fato ha negato. "Vendetta, il boccone più dolce che sia mai stato cucinato all'inferno" scrisse una volta Walter Scott; ebbene, Felix si ciba in gran quantità di questo piatto in "La Belva Deve Morire". Nutre questo sentimento terribile con gli abusi domestici di cui sono vittime Violet e Phil Rattery, con i flirt di George con Lena e Rhoda, con il ricordo ossessivo della sorte di Martie e i cocci della propria vita. Questo romanzo (come gran parte dell'opera di Blake) non è di facile comprensione dal punto di vista dei contenuti: il rancore, l'odio radicato nel profondo, la vendetta emergono in continuazione, mescolati con la natura meschina (ma sarà davvero così?) del protagonista che non esita a servirsi di qualsiasi mezzo per raggiungere il proprio fine; addirittura ingannando i sentimenti di Lena e la fiducia degli amici come il generale Shrivenham. Nonostante la presenza di toni quasi troppo enfatici soprattutto nella parte del racconto dedicato al diario, c'è un incredibile senso di realtà al fondo di "La Belva Deve Morire": ciò che conduce Lane non è uno scherzo oppure una facezia tipica di un giallo dell'inizio del Novecento, ma un gioco molto pericoloso che può vedere il suo trionfo come la propria caduta inesorabile.

Pertanto, questo giallo dipinge una situazione che potrebbe benissimo rispecchiare la realtà dei fatti, seguendo l'esempio che già in precedenza Dorothy L. Sayers aveva indicato come modello. E lo fa sfruttando non solo uno stile ricercato, complesso, melodrammatico nei toni e carico di una forte corrente di sensibile coinvolgimento interiore, il quale rivisita la poesia classica di Terenzio, Catullo, Ovidio e altri grandi autori più o meno classici (vengono citati Coventry Patmore, poeta ottocentesco, la "Ballata di Lord Randall" e "Vier ernste Gesänge" op. 121 di Brahms, pp. 17, 47, 49, 51, 53, 86, 119, 130, 134-135, 156, 160, 165, 170, 172, 185-186, 230, 232, 247, 253, 266); Blake decide di trattare temi seri e importanti come il senso di giustizia (pp. 11-13, 18, 30-31, 64, 87-89, 257), di coscienza criminale e di riflessione sul delitto (pp. 9-10, 19, 25-28, 31-38, 44, 54, 63, 70-71, 77-78, 81, 92-93, 103, 141-143, 149-150, 152-154, 160-164, 167-168, 195-199, 248-255). Quando una persona è giustificata nel commettere un omicidio? Cosa sono il Bene e il Male, di fronte alla cattiveria innata dell'uomo? Esiste il delitto "buono", quello che permette di liberare alcune vittime dalle angherie di un aguzzino altrimenti intoccabile? Può un assassino essere capace di convivere con la propria colpa, se questa è in qualche modo legittimata? E chi decide tutto ciò? L'autore si interroga su tutti questi quesiti e ci presenta la sua visione delle cose, senza banalizzare. Dimostra come la giustizia sia qualcosa che sta al di sopra dell'essere umano: nessuno di noi può esercitarla oppure governarla fino in fondo, poiché nonostante i nostri piani dettagliati può sempre accadere una coincidenza a scombinare la faccenda. Questo concetto è insondabile; come pure la coscienza di un assassino. Uno può sforzarsi di penetrare nei fili sconnessi di una mente malata, seguirli come dentro un labirinto in cui la perdita dell'orientamento sarà fatale, ma sarà sempre un'indagine condotta solo "fino a un certo punto". Nemmeno il criminale stesso riesce a capire fin dove si può spingere. Si tratta di concetti attuali ancora oggi, che giustificano il perdurato successo di "La Belva Deve Morire"; assieme alla costruzione di personaggi eccellenti, un'atmosfera cupa e terribile, una genuina tensione, un enigma che da solo potrebbe costituire il fulcro di un giallo molto più semplice ma comunque valido, l'esplorazione delle conseguenze della vendetta dà vita a un romanzo del mistero di prima classe. Un vero capolavoro, in cui la coscienza sporca la fa da padrone. Consigliatissimo.

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venerdì 14 maggio 2021

71 - "Il Gatto e il Topo" ("Cat and Mouse", 1950) di Christianna Brand

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Dopo un periodo dedicato a romanzi gialli molto tradizionali, ho sentito il bisogno di tornare a leggere qualcosa che si ricollegasse con il mondo della suspense e del thriller. Era da "La Bambola Assassina" che non affrontavo più questo tipo di crime novel, e mi mancava l'immergermi in un'atmosfera da brivido capace di suggestionare e di rendere elettrizzante la lettura. Pertanto, ho dato un'occhiata ai numerosissimi volumi di questo tipo che sono in attesa sui miei scaffali e mi sono domandato cosa potessi scegliere. D'altra parte, però, non mi andava molto l'idea di selezionare un'autrice oppure un autore americano: di solito, le vicende che raccontano nei loro libri sono fin troppo sensazionalistiche, poiché mettono in ombra il lato più enigmatico del mistero in favore di una trattazione a tinte forti della storia. Pertanto, ho escluso scrittrici come Rinehart ed Eberhart, assieme allo loro colleghe, per lasciarle in pausa in vista di un futuro forse non troppo lontano; e lo stesso dicasi per gli autori maschili, i quali hanno dimostrato di trattare spesso più il lato movimentato e violento del mistero, rispetto a quell'aura bizzarra che circonda gli avvenimenti dei gialli delle loro colleghe. L'unico che mi venisse in mente, che potesse andare bene per il tipo di romanzo del mistero che intendessi leggere, era Patrick Quentin. Se ricordate bene, quando ho presentato "Presagio di Morte", avevo sottolineato la ferocia e la crudezza con cui gli scrittori che si celavano sotto a tale pseudonimo avevano esposto i terribili fatti che accadevano nella vallata di Grindle. Ebbene, per essere onesti bisogna affermare che in altri casi ci sono andati più leggeri e hanno dato vita a opere in cui l'azione (pur sempre presente) è sottomessa alla riflessione. Penso ad esempio a "Troppe Lettere per Grace", nel quale una giovane studentessa di un tipico college americano trovasse la morte in seguito a una fitta corrispondenza con un ignoto spasimante: all'indagine del tenente Trant, Quentin ha accostato i ragionamenti e i pensieri di una compagna di scuola della vittima, la quale quasi accompagna l'azione del poliziotto con la sua voce interiore. Ecco, cercavo qualcosa del genere. Però Quentin è stato tradotto e pubblicato solo per il Giallo Mondadori, i cui volumi sono molto difficili da trovare se non nei mercatini dell'usato, con un pizzico di fortuna; per cui, ho declinato l'ipotesi.

Quello che mi serviva, mi sono detto, era qualcosa di simile a "Troppe Lettere per Grace", capace di stuzzicare l'attenzione e di poter essere disponibile per chiunque desiderasse approfondire la mia recensione con una lettura di prima mano. Così, mi sono rivolto ancora una volta ai fidati Bassotti Polillo e, scorrendo i titoli dell'elenco delle pubblicazioni, mi sono imbattuto in "Il Gatto e il Topo" di Christianna Brand (2010). Su questa autrice se ne sono dette di tutti i colori: il critico Martin Edwards, all'interno di "The Golden Age of Murder", l'ha descritta in modo un po' vago in relazione ad alcune osservazioni che lei in persona aveva fatto su un paio di colleghi e colleghe, osservando come fosse una signorina incline al pettegolezzo e non sempre così affabile come si potrebbe essere portati a considerarla a prima vista. Tra le altre cose, sembrava ce l'avesse con Anthony Gilbert e che fosse un tipetto intraprendente nel flirtare con John Dickson Carr (sposato con Clarice, ricordiamo) e con Anthony Berkeley, uno che non si faceva certo pregare per scambiare più di una parola con una signorina affascinante. D'altra parte, però, Brand viene considerata come l'ultima grande autrice del passato a scrivere romanzi gialli tradizionali, intesi proprio come enigmi da sciogliere per il semplice gusto di farlo e senza scomodare troppo la psicologia del criminale alla maniera moderna. I suoi libri, soprattutto quelli con protagonista l'ispettore Cockrill di Scotland Yard, hanno suscitato commenti entusiasti da parte di critici e lettori negli ultimi ottant'anni: addirittura Julian Symons, che non era certo un tizio solito ai complimenti, ha sempre professato una grande ammirazione nei suoi confronti. Per questi motivi, dunque, mi intrigava fare un tentativo con uno dei libri che Brand aveva scritto: per capire se alla fine fosse giustificato questo entusiasmo, e se tra le righe trasparissero una certa frivolezza e la sua passione per il gossip. Così ho deciso di leggere "Il Gatto e il Topo" e, ad essere sincero, non sono ben sicuro che mi sia piaciuto del tutto, per una serie di motivi che vi spiegherò. Ma intanto vediamo la trama.

Lake with Castle on a Hill, Joseph Wright of Derby, 1787,
raffigurante un castello simile a Penderyn
All'inizio la storia viene impostata come se fosse una sorta di romanzo giallo che getta uno sguardo nel vittorianesimo. Ci troviamo in una redazione giornalistica (più precisamente, quella della rivista femminile Girls Together) dove le signorine Miss La-Vostra-Amica e Miss Facciamoci-Belle stanno discutendo dell'ennesima missiva inviata alla prima da una certa Amista, la quale chiede continui consigli su faccende amorose che la riguardano. Proprio come in una storia "alla Jane Eyre", Amista è innamorata del suo tutore, tale Carlyon, il quale si degna a malapena di guardarla in faccia e di ricambiare con cortesia le attenzioni e l'affetto che la poverina gli riserva settimana dopo settimana. Nell'ultima lettera, tuttavia, pare che le preziose indicazioni di Miss La-Vostra-Amica (rigorosamente redatte grazie a un modulo prestampato) abbiano dato i frutti sperati: Amista è in procinto di convolare a nozze col suo Carlyon, il quale si è dichiarato e in barba alla sua povertà, alla sua estrazione sociale inferiore e alla differenza d'età, ha deciso di mollare le sue riserve per concedersi a lei. Questo genera un certo disappunto nelle due redattrici, le quali avrebbero preferito un finale più melodrammatico a quello scambio di smancerie e frivolezze; eppure, Miss La-Vostra-Amica non può fare a meno di essere tutto sommato contenta per come sono andate le cose. Anzi, avrebbe voglia di conoscere finalmente qualcuno che ha coronato il suo sogno d'amore in un modo tanto romantico. Così, approfittando di un periodo di vacanza e abbandonando il suo soprannome in favore del più prosaico Katinka Jones, si reca nel Galles (dove è originaria la sua famiglia e si trova la casa di Carlyon) e dopo una tappa presso uno zio arriva a Pentre Trist. Laggiù la ragazza fa il suo incontro con la fauna locale: alcuni contadini siedono al pub dove lei va a chiedere indicazioni su come raggiungere i novelli sposi, ma non sembrano prendere sul serio la sua richiesta d'informazioni. Certo, esiste un certo Carlyon che sta su a Penderyn, una specie di castello raggiungibile dopo aver attraversato in barca il fiume e un ripido sentiero; però Amista è sconosciuta a tutti quanti.

Indispettita, Katinka riesce a convincere la signora Evans (la quale porta il latte in giro per il villaggio e pure a Penderyn) a farsi accompagnare lassù, assieme a un giovanotto di nome Chucky che si fa passare per un poliziotto. La ragazza, oltre ad essere infastidita dalle attenzioni che le rivolge questo tizio di cui dubita sia un giornalista sotto mentite spoglie, è ben determinata a scoprire perché tutti la stiano prendendo in giro... Eppure, quando finalmente si trova davanti al portone d'ingresso ha come la sensazione che ci sia qualcosa che non va dalle parti di Penderyn. C'è troppo silenzio, e una volta entrata nell'edificio le sembra come di soffocare. Il successivo incontro con Carlyon non migliora certo le cose: innanzitutto, perché lui si dimostra molto freddo e antipatico nei suoi confronti, affermando che non esiste nessuna moglie e che la ragazza si stia inventando tutta la storia di sana pianta per un qualche suo fine segreto; ma anche perché Katinka cade vittima del suo fascino tenebroso e si innamora. Spaventata da tutte queste emozioni e dal turbamento che la casa ha suscitato nel suo cuore, la ragazza fugge lungo il sentiero e si sloga una caviglia: l'unica soluzione è che lei debba essere ospitata a Penderyn. Da questo punto iniziano i veri guai per Katinka. Prima viene ricoverata in una camera un po' isolata della casa, senza alcun conforto se non un letto freddo dove riposare e con la porta sbarrata durante la notte; poi ha come la sensazione che gli abitanti l'abbiano drogata con della morfina per poterla controllare e, nel dormiveglia, di ricevere la visita di un essere mostruoso, con il volto sfregiato e le articolazioni deturpate come se fosse stato vittima di un incidente spaventoso. E se al mattino le cose appaiono meno vivide e terrificanti, gli interrogativi si moltiplicano: dapprima Carlyon pare disposto a concederle un po' di comprensione e simpatia, poi torna a richiudersi in se stesso. E di Amista, la giovane sposa, non c'è alcuna traccia. Forse è lei la figura inquietante che nottetempo ha fatto visita alla sua camera da letto? Oppure il mistero è molto più fitto di quanto Katinka possa immaginare? E Chucky cosa c'entra in tutta la faccenda? In un turbinio di segreti, colpi di scena, fughe, litigi e rivelazioni, bisognerà aspettare l'ultimo capitolo per avere chiara la verità.

Arkwright's Cotton Mills by Night, Joseph Wright of Derby,
1782
Come avrete capito dalla trama, "Il Gatto e il Topo" non è il classico romanzo giallo a cui sono abituati i lettori di genere. Non ci troviamo di fronte a un libro in cui l'indagine viene condotta da un poliziotto oppure da un investigatore privato (dilettante o meno), quanto a un tipo di racconto che richiama il sottogenere delle women in jeopardy, quello che viene racchiuso nella perifrasi "Se-solo-avessi-saputo". Eppure, la faccenda non è così semplice come può apparire a prima vista. Non esiste una narrazione rivolta al passato, tipica dei gialli di Rinehart e delle sue seguaci americane, dove la protagonista si limita a ripercorrere con la mente i fatti terrificanti di cui ella è stata protagonista suo malgrado: in questo caso, la storia procede lungo una linea retta rivolta verso il futuro, punteggiata dai frequenti pensieri che passano per la testa di Katinka mentre lei assiste sempre più alla creazione di una specie di complotto ai suoi danni. Pertanto, c'è sì la componente della "ragazza in pericolo" che non viene creduta, che tutti pensano possegga un'immaginazione fin troppo sviluppata, che sostiene argomentazioni senza fondamento e scatenano l'ilarità, ma  la protagonista è in un certo senso più cosciente della situazione in cui si trova. Sa che qualcuno sta nascondendo uno scheletro nell'armadio (oppure direttamente dentro Penderyn, chissà?), sa che dovrà contare solo su se stessa per risolvere il mistero, sa di star correndo un grande pericolo a restare nei paraggi di Carlyon e degli altri abitanti della sua casa. In questo fatto, secondo me, "Il Gatto e il Topo" si differenzia maggiormente dai libri delle Regine del Brivido americane. Per il resto, troviamo molte similitudini tra i due tipi di mystery; a parte forse il fatto che Brand non rinunci comunque a sottolineare l'importanza dell'enigma all'interno dell'opera, nonostante l'impostazione da thriller che dà ad esso. Infatti, se nella prima parte la trama appare incentrata su una storia quasi vittoriana, con Katinka in procinto di trovarsi in balia di misteri angosciosi, circondata da personaggi e luoghi (come Penderyn) che la intimoriscono soffocandola oppure la irritano permettendole di dare sfogo alla propria vena caratteriale più emotiva (leggasi semi-isterica), d'altra parte dopo un grosso svelamento all'interno del racconto quest'ultimo pare rientrare nel solco del giallo psicologico, con una serie di sospetti e di dubbi che la stessa protagonista prenderà in considerazione con un pizzico di logica.

In fin dei conti, "Il Gatto e il Topo" è un romanzo del mistero che si riallaccia alla corrente inaugurata da Francis Iles con "L'Omicidio è un Affare Serio" e che, contemporaneamente a Brand, stava godendo di un periodo d'oro grazie all'opera di Julian Symons, scrittore e critico di genere celebre tanto per la maestria nell'ideare omicidi diabolici e contorti quanto per la parzialità dei propri giudizi nei confronti dell'opera dei colleghi. Non per nulla, proprio il romanzo recensito oggi è stato da lui inserito in una lista dei 100 migliori gialli di tutti i tempi. Ma io mi domando: è davvero così? A mio modesto parere, è stato un po' esagerato. E il motivo è da ritrovarsi proprio in quella sua prima parte così atipica della storia. Va bene l'impiego di luoghi e personaggi tipicamente inglesi e conformi alla società del tempo: la casa tenebrosa, segreti striscianti lungo i suoi corridoi bui, camerieri ambigui che mescolano bugia e verità, una ragazza in pericolo che non viene creduta e uno spasimante tormentato; tutto ciò fa parte del giallo, poiché ad esempio in "Qualcuno ti Osserva" essi vengono impiegati al meglio. Però, c'è un'obiezione da fare. Mettere insieme queste cose col giallo psicologico "puro" può a volte generare una netta rottura tra i due sottogeneri, dal momento che l'enigma della seconda parte prende in qualche modo le distanze da quello della prima. Non conta quasi più la necessità di dare enfasi all'emozione, fulcro della trama fino a quel momento; adesso bisogna dedicarsi all'indagine logica. Ecco, io ho trovato un po' straniante questo accostamento e il relativo stacco tra le due parti, anche perché non permette di suscitare chissà quali sospetti tra i personaggi. La particolarità di questo conturbante mystery è giocata sull'atmosfera fuggevole, sull'ambiguità dei personaggi e sul fatto che ogni cosa venga gradualmente e ripetutamente rovesciata. Non era necessario dilungarsi così a lungo nella creazione di un'aura fin troppo emotiva e gotica per introdurre le vicende. Dunque, per riassumere, a mio parere "Il Gatto e il Topo" non è tanto uno tra i massimi capolavori del giallo anglosassone, quanto una prova notevole dell'abilità di Brand nel saper capovolgere qualsiasi situazione spiazzando il lettore.

Mary Christianna Milne, alias Christianna Brand,
nata nel 1907 e morta nel 1988
Come dicevo sopra, la figura di Mary Christianna Milne (alias Christianna Brand) è avvolta da una duplice aura che tende ad esaltare numerosi suoi pregi e ad evidenziare altrettanto bene alcuni difetti del suo carattere. Nata in Malesia nel 1907, fin da bambina aveva iniziato a viaggiare fino in India al seguito dei genitori, per poi approdare nel Somerset per completare i propri studi. Ora dello scoccare dei suoi diciassette anni, tuttavia, la famiglia si era impoverita e Brand era stata costretta ad abbandonare i libri in favore di un'occupazione che le desse di ché vivere. Fu governante, ballerina, modella, segretaria, insegnante di danza, standista, decoratrice d'interni e commessa; e proprio mentre svolgeva tale lavoro iniziò a coltivare l'idea di scrivere un libro. La leggenda narra che ogni giorno lei avesse a che fare con una collega antipatica che le rendeva la vita impossibile, e pertanto avesse iniziato a fantasticare su come farle fare una fine tragica per trovare un po' di sollievo. L'idea sedimentò nella sua mente ancora per diverso tempo, tanto che fece in tempo a sposarsi con il giovane chirurgo Roland S. Lewis, finché nel 1941 diede alle stampe "La Morte ha i Tacchi Alti", dove appunto viene uccisa una giovane commessa. Nello stesso anno, inoltre, pubblicò pure "Cockrill Perde la Testa" nel quale fece il suo esordio l'ispettore omonimo, della polizia del Kent, il quale deve indagare sulla scoperta di un cadavere decapitato. Modellato sulla figura del suocero, basso, con un naso aquilino, perspicace e con un carattere burbero, Cockrill fu protagonista di altri cinque romanzi pubblicati tra il 1944 e il 1955, tra i quali va ricordato assolutamente "Delitto in Bianco". Benché ingegnoso per il modo in cui viene perpetrato il crimine (un delitto su di un tavolo operatorio, alla presenza di ben sette testimoni), questo è forse il titolo che più accusa il passare del tempo a causa dei dialoghi un po' datati tra i medici e gli infermieri di un ospedale militare durante la Seconda Guerra Mondiale. In ogni caso, esso resta un capolavoro. Per il resto, tra gli altri sforzi di Brand in campo mystery, segnalo "Il Giardino delle Rose" con protagonista sempre lo stesso ispettore Chucky di "Il Gatto e il Topo". Per il resto, dopo il 1955 e fino alla morte sopraggiunta nel 1988, l'autrice decise di abbandonare il giallo e di dedicarsi a racconti e opere di genere differente; ad esempio scrisse la trilogia con protagonista Tata Matilda, celebre serie per ragazzi da cui sono stati tratti alcuni film con protagonista Emma Thompson.

Ma quello che interessa a noi riguarda la sua esperienza come giallista, per cui soffermiamoci sulla sua narrativa in questo senso. In "Il Gatto e il Topo", come pure nell'altro suo grande romanzo del mistero "Uno della Famiglia", ritroviamo tutte le caratteristiche che resero famosa Brand. Ad esempio, l'ingegnosità della trama: pur con i dovuti difetti di cui ho già ampiamente parlato sopra, non si può certo dire che la storia di Amista e Katinka sia banale oppure semplice. Ci troviamo di fronte a un caleidoscopio di fatti, sorprese, colpi di scena che si susseguono senza sosta, senza mai lasciare al lettore un momento di respiro; ogni cosa viene capovolta quando meno ci si aspetta, una certezza cade per lasciare il posto a un dubbio che poi, divenuto quasi sicurezza, a sua volta cede il passo a una consapevolezza (ma è poi così?). In questo risiede gran parte del fascino di "Il Gatto e il Topo", come pure nell'abilità dell'autrice di nascondere gli indizi con criterio; cioè mettendoli sotto il naso di chi legge ma senza evidenziarli. Immergendo le vicende in un'atmosfera surreale, angosciosa, tenebrosa e inquietante, Brand esalta non solo ciò che accade ma dà vita a una sorta di cortina di fumo da gettare sugli occhi, la quale impedisce che ciò che è davvero importante balzi alla vista. Riesce a sviare il lettore come pochi altri, pur lasciandogli credere di aver capito tutto. Infatti, appena Katinka arriva a Penderyn facciamo la conoscenza di Carlyon e il suo atteggiamento ambiguo ci fa pensare subito: "Colpevole". Subito dopo, però, ce lo dipinge come un uomo solitario e sensibile; impossibile che sia un criminale. O forse sì, dal momento che tratta Katinka con freddezza e antipatia? E lo stesso si può dire per qualsiasi personaggi del libro: la signora Love con il suo aspetto artificioso e le sue maniere pratiche, ma pur sempre cortese e gentile; l'ispettore Chucky, tanto desideroso di infastidire Katinka con le sue facezie quanto di proteggerla e allontanarla da quella casa in cui sta succedendo qualcosa di orribile; la signorina Evans del Latte che ha un'aria tanto indifesa, con i suoi scaffali pieni di romanzi d'amore e l'impiego al villaggio, ma non ha mai visto Amista... ed Amista deve esistere, poiché le lettere alla redazione di Girls Together non si sono certo inviate da sole; Dai Jones, coriaceo come un nano del mito e protettivo nei confronti di Carlyon. L'assassino è qui, tra tutti questi attori di un dramma che viene pian piano alla luce, tra passi in avanti e passi indietro, scoperte significative e indizi falsi.

Pensate che la trama è ispirata a una storia vera, se bisogna credere a Brand (e non è detto sia così affidabile, se è vera la faccenda del pettegolezzo che era solita coltivare): infatti lettere simili a quelle di Amista sarebbero state inviate a una certa zia dell'autrice, Mary, che agiva come redattrice per conto di una rivista per signore. Ma non si tratta soltanto di questo. Possiamo ritrovare cenni al romanzo vittoriano, tra "Jane Eyre" di Charlotte Bronte e "Rebecca la prima moglie" di Daphne Du Maurier (Penderyn assomiglia a Thornfield Hall e a Manderley, mentre Carlyon potrebbe assumere il ruolo di Mr. Rchester e di Maxim de Winter, l'apparente frivolezza dello stile, il dramma che si staglia sullo sfondo, la minaccia evocata dalla continua similitudine tra gatti e topi); a "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" di Anthony Berkeley, con i continui guizzi di trama che ti fanno dire: "Ecco, è questa la soluzione del caso", per poi farti subito rimangiare le parole perché è sbucato un nuovo fatto che non si accorda con la teoria appena esposta; in un certo senso pure a "La Signora Scompare" di Ethel Lina White, poiché ritroviamo la figura della ragazza che sostiene il verificarsi di un crimine ma nessuno le crede. L'autrice di "Il Gatto e il Topo" mette insieme tutto ciò ma non lo fa semplicemente scopiazzando, poiché inserisce comunque una certa ironia a smorzare i toni melodrammatici (esemplari sono le discussioni tra Katina e Miss Facciamoci-Belle, da cui traspare l'esperienza di Brand nella vita di redazione, e Katinka e Chucky) e declina in modo originale molti cliché fino a dare vita a un racconto il cui pregio sta nel continuo gioco tra autrice e lettore: sfruttando virtuosismi stilistici, la capacità di sollevare un velo simile alla pioggia che cade incessante su ogni cosa, la caratterizzazione magistrale dei personaggi che cambiano maschera a seconda di un raggio di luce oppure di una parola di troppo, Brand capovolge ogni indizio, ogni azione mostrandola di volta in volta secondo un punto di vista nuovo. Certo, i personaggi sono comunque pochi e la prima parte della storia forse è un po' troppo esaltata dal punto di vista sentimentale; ma questo non toglie che il libro resti una prova notevole all'interno dell'opera di Brand, la quale venne e viene tutt'oggi elogiata. Ci sarà pure un motivo se ciò si verifica, no? Una spiegazione la può dare proprio "Il Gatto e il Topo", che vi consiglio di leggere per farvi un'idea di quanto un giallista possa tentare di creare qualcosa di assolutamente originale, non senza fare qualche piccolo passo falso.

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venerdì 7 maggio 2021

# - Aggiornamenti dall'Approvvigionatore Letterario (Maggio 2021)

Cari amici e lettori dell'Angolo dell'Approvvigionatore Letterario, bentornati (oppure benvenuti, se è la vostra prima volta su Three-a-Penny). In questo complesso 2021 non sembra affatto, ma i mesi si accavallano senza tregua e siamo già giunti a maggio, con l'approssimarsi all'estate e, forse, a una stagione più mite che ci permetta di svagarci di più. Infatti, già dalla fine di aprile le restrizioni dovute alla pandemia sono state allentate e abbiamo avuto la fortuna di poter uscire di casa con meno timore, nonostante gli indici di contagio restino sempre a livello di allerta e non si debba abbassare la guardia. In ogni caso, speriamo sia l'inizio di un periodo di relativa calma per i nostri nervi affaticati, che ci permetta di tirare il fiato in attesa della fine di questa situazione sgradevole che stiamo vivendo ormai da tanto tempo. E intanto, mentre osserviamo come evolverà la situazione in Italia e all'estero, ancora una volta vi presento le uscite librarie mensili nel segno del giallo, così che possiate svagarvi un po' e magari scoprire qualche autore che prima non conoscevate ed appassionarvi. In questo appuntamento in particolare ci sono alcuni titoli molto interessanti, che potrete accaparrarvi magari in vista di una capatina in spiaggia: infatti, cosa c'è di meglio che leggere un giallo sotto l'ombrellone? Per cui, andiamo a vedere cosa vi propongo.

Copertina di "Complotto all'Ambasciata"
pubblicato dal Giallo Mondadori
Per primi, diamo un'occhiata ai consueti volumetti da edicola del Giallo Mondadori. Nella Serie Regolare, troviamo nientemeno che un inedito di una grandissima autrice della Golden Age della classica crime story, la quale conta al proprio attivo numerosi capolavori del genere: Ngaio Marsh, con "Complotto all'Ambasciata". Devo fare una precisazione, tuttavia, parlando di questo romanzo: badate che esso è stato scritto nel 1974, ben lontano dall'epoca d'oro dei mystery giocati su un perfetto fair play e ambientati in un mondo tanto imperfetto quanto ricco di suggestioni sociali. Pertanto, da parte mia non mi aspetterò chissà quale giallo tradizionale, quanto un libro del mistero contaminato dalla spy-story (che in quegli anni, complice l'ascesa di Le Carré ai vertici delle classifiche internazionali) e da un racconto incentrato su temi che furoreggiavano nella metà degli anni Settanta. E infatti, a guardare la trama, sembrerebbe proprio una storia del genere. Abbiamo un presidente africano, Bartholomew Opala, in visita a Londra per questioni diplomatiche tra l'Inghilterra e il suo paese natio, il Ng'ombwana. Poiché egli è stato compagno di scuola del sovrintendente di Scotland Yard Roderick Alleyn, a quest'ultimo viene  affidato il compito di proteggerlo mentre si trova sul suolo inglese... Peccato che si tratti di un compito abbastanza gravoso e impegnativo, poiché Opala conta un lunga lista di nemici giurati i quali sarebbero più che felici di toglierlo di mezzo, e lui stesso sia un individuo allergico a misure di sicurezza troppo invasive. Come fare per tenerlo al sicuro?, si domanda Alleyn. Magari prendere qualche precauzione in più potrebbe essere un'idea. Però ben presto accade una disgrazia: nonostante tutto, nel corso di un ricevimento all'ambasciata di Ng'ombwana un uomo viene trafitto da una lancia cerimoniale e rimane ucciso. Opala è illeso, ma fino a quando durerà la situazione? Perché Alleyn è convinto che un pericolo insidioso si nasconda nell'ombra e stia tramando un nuovo piano diabolico... Come vedete, "Complotto all'ambasciata" presenta maggiormente le caratteristiche di un giallo recente, con temi sociali e un enigma che si interseca al clima opprimente dei tumultuosi anni Settanta. Detto ciò, tuttavia, sono sicuro che esso sia scritto con il magistrale stile di Marsh e che non sia una lettura da ignorare; per cui, vi consiglio di procurarvene una copia prima di restare senza.

Copertina di "Uno Studio in Nero"
pubblicato dal Giallo Mondadori
Nei Classici del Giallo, invece, torna ancora un volta l'inossidabile Ellery Queen con un titolo che occupa un posto di rilievo all'interno della sua opera: "Uno Studio in Nero". Queste parole vi ricordano forse qualcosa? Ebbene, se così fosse, sappiate che il vostro intuito non vi ha tradito: si tratta di un palese riferimento all'opera di esordio come giallista di quell'Arthur Conan Doyle che, nel 1887, diede vita all'investigatore dilettante più celebre della Storia: Sherlock Holmes. All'inizio della storia, Ellery si trova nel suo appartamento e, tanto per cambiare, si annoia: in vista non ci sono casi interessanti da risolvere, non ha voglia di uscire per le strade e i negozi di New York ma l'immobilità lo infastidisce. Così, quando si presenta alla sua porta un amico che gli consegna un pacco dicendo che, al suo interno, si trova nientemeno che un taccuino originale del dottor John Watson (spalla del segugio di Baker Street), Queen si getta subito alla scoperta del contenuto del libretto. Vergate sulle pagine, spiccano le parole che raccontano di un caso segreto condotto da Holmes... nientemeno che sulle tracce del celeberrimo Jack lo Squartatore. Già questo di per sé sarebbe un motivo davvero degno per immergersi nello studio dell'indagine di Sherlock; se poi l'investigatore ha insinuato che l'assassino sia stato in origine una donna, le rivelazioni diventano decisamente scottanti. Ma la faccenda è davvero da intendersi in questi termini? E lo scritto è originale oppure si tratta di un falso ben architettato? Starà ad Ellery scoprire la verità calandosi in un mistero che lo trasporterà in piena epoca vittoriana, a caccia del serial killer più diabolico, squilibrato e assetato di sangue della Storia. Uno dei primi "apocrifi" sherlockiani (ovvero una storia dove viene fatto rivivere per mano di un autore un personaggio di terzi), "Uno Studio in Nero" narra un caso emozionante e ben architettato, il quale non mancherà di lasciarvi a bocca aperta e a trasmettere più di un brivido di terrore.

Copertina di "L'Assassino Bussa alla Porta"
pubblicato da Polillo Editore
Passiamo ora a Polillo Editore presso Rusconi, il quale ha dato alle stampe altri volumi che si erano man mano accumulati in scaletta a causa della pandemia. E lo ha fatto proponendo agli appassionati di genere "L'Assassino Bussa alla Porta" di Harriet Rutland e "I Morti non Vedono" di Max Afford. Per quanto riguarda il primo, la sua autrice non è una novità per i lettori di Three-a-Penny: se ben ricordate, infatti, diverso tempo fa avevo recensito per voi il suo "L'Inquilino del Piano di Sopra", un romanzo giallo psicologico davvero tenebroso, ambientato nel triste periodo della Seconda Guerra Mondiale in cui l'Inghilterra è stata come isolata dal resto del mondo a combattere Hitler, con la popolazione costretta a ogni sorta di sacrificio e con i nervi a pezzi in attesa del prossimo bombardamento. Ebbene, il consenso che deve aver trovato quel libro (compreso quello del sottoscritto) pare abbia spinto l'editore ad investire ancora su Rutland, e il risultato è stata la pubblicazione di "L'Assassino Bussa alla Porta". Di cosa tratta? La storia è ambientata a Prestleignton Hydro, uno stabilimento idroterapico molto simile a quello della cittadina in cui viveva la stessa scrittrice (si narra abbia cambiato solo il nome per non incorrere in problemi con i clienti e il personale della struttura), il quale ospita anziani e malati che tra una cura e l'altra assaporano il piacere di sparlare di scandali più o meno piccanti riguardanti i più giovani nei dintorni. Un pettegolezzo di qui, un pettegolezzo di lì; cosa può mai andare storto? Ebbene, in breve le voci diventano tanto pressanti per qualcuno da spingere all'omicidio... Anzi, all'omicidio plurimo, dato che tutti i giovanotti e le signorine iniziano a venire eliminati in modo alquanto sistematico e indiscriminato. Ma è davvero così casuale la scelta dell'assassino? Secondo i vegliardi, la mano dietro a questi crimini efferati può essere fermata se si impegnano a scoprire a chi essa appartenga. Così iniziano ad indagare con discrezione. Però spetterà all'enigmatico Mr. Winkley dare loro una mano per risolvere il mistero. Mystery satirico e impregnato di black humor, "L'Assassino Bussa alla Porta" diverte e intrattiene grazie alla maestria di Rutland nel tratteggiare le situazioni più disparate. Forse non sarà incisivo come l'altro suo romanzo, ma io sono curioso di leggerlo per bene.

Copertina di "I Morti non Vedono"
pubblicato da Polillo Editore
In secondo luogo, Polillo ha pubblicato "I Morti non Vedono" di Max Afford. Ancora una volta, dopo Ngaio Marsh, questo mese troviamo un autore proveniente dall'emisfero australe all'interno dell'Angolo dell'Approvvigionatore Letterario: infatti, Afford era originario dell'Australia e laggiù visse un'esistenza piena di impegni, che lo portò ad essere giornalista, ovviamente scrittore e scrittore di pezzi per la radio. Proprio a questo campo si ispirò per scrivere il romanzo che è stato tradotto in italiano. La trama è divisa in due parti: nella prima, l'ispettore Read e l'investigatore Jeffery Blackburn fanno visita a uno studio radiofonico londinese che sta per essere inaugurato. All'improvviso, tuttavia, mentre stanno assistendo a una commedia una delle giovani signorine addette alle postazioni vocali muore misteriosamente all'interno di uno stanzino oscuro e chiuso a chiave. Durante la registrazione non può essere entrato nessuno, quindi chi è il colpevole? Deve essere qualcuno dell'entourage della radio, poiché solo quelle persone sapevano come muoversi dentro l'edificio senza dare nell'occhio. Da questo punto parte la seconda parte del libro, dove troviamo l'indagine della polizia e di Blackburn per trovare ed arrestare il colpevole, tra droga, messaggi segreti, veleni e storie d'amore con alti e bassi. E altri due delitti efferati. Dalle recensioni che ho letto in rete, sembra proprio che questo sia un classico giallo degli anni '30: abbiamo alcuni decessi sospetti e inesplicabili, un investigatore che affianca la polizia nel trovare la soluzione del mistero, una serie ci colpi di scena che spiazzano il lettore... Eppure, nei conti fatti, sembra che la spiegazione finale non sia del tutto degna dell'enigma che l'ha preceduta. Da parte mia, voglio proprio leggere questo romanzo per capire se le cose stanno così oppure si tratti di una lettura più che meritevole della nostra attenzione. Vi consiglio di fare lo stesso.

Copertina di "Sherlock Holmes e il
Segreto del Monte Bianco" pubblicato
da Mulatero Editore
Infine, per le letture in lingua italiana, vi segnalo un paio di titoli in arrivo per i tipi di Mulatero Editore. Essi, dopo aver portato in Italia parte dell'opera di Glyn Carr e il suo Abercrombie Lewker (e stiano continuando a proporre nuovi titoli), hanno aggiunto alcuni gialli esterni a quest'ultima saga che possiamo classificare come apocrifi dedicati a Sherlock Holmes, simili a "Uno Studio in Nero" poco sopra menzionato, ma ambientati in montagna. In "Sherlock Holmes e il Segreto del Monte Bianco", di Pierre Charmoz e Jean-Louis Lejonc, troviamo l'investigatore di Baker Street in trasferta a Chamonix, presso un invecchiato Edward Whymper, il quale nutre per l'altro un affetto quasi da zio acquisito. Il motivo per cui ha desiderato avere al proprio fianco il segugio non è però legato agli affetti: egli desidera che quello lo aiuti a trovare un documento che possa segnare la nascita dell'alpinismo. Si tratta del manoscritto di Jacques Paccard, nel quale egli ha raccontato la propria versione della storia ascesa al Monte Bianco nel 1786. Riuscirà Holmes a rinvenire quello che stuoli di studiosi hanno cercato per tanti anni ma non sono mai stati capaci di recuperare? Dovrà stare molto in guardia, visto che una strana donna dagli occhi verdi e alcuni agenti prussiani lo stanno tenendo d'occhio... In "Sherlock Holmes e il Tesoro delle Dolomiti" di Riccardo Decarli e Fabrizio Torchio, invece, l'investigatore si trova a Londra in piena estate, quando assieme al dottor Watson viene coinvolto nello strano caso del furto degli zaini di due alpinisti. Un fatto tanto banale non potrà generare grandi ripercussioni, vero? E invece la pista da seguire per recuperare il maltolto porterà la coppia Holmes-Watson fino a fatti accaduti in India, tra il British Museum e indipendentisti oppositori dell'Impero asburgico, fino alle Alpi italiane. Sarà in Trentino, dopo mille peripezie, che i due riusciranno a scoprire qualche indizio utile per la soluzione; ma la verità p ancora lontana... Non si tratta di gialli puri come per i romanzi di Glyn Carr finora tradotti, ma sono pur sempre libri che posso andare bene per un pubblico meno esigente dell'appassionato lettore esperto, per cui ve li ho comunque presentati.

Copertina di "Death in the Grand Manor"
pubblicato da Dean Street Press
Passiamo ora alle opere in lingua inglese. Innanzitutto, bisogna sottolineare come Dean Street Press abbia dato alle stampe una nuova serie di mysteries all'interno della sua produzione. Questa volta è toccato ad Anne Morice, una scrittrice che finora non avevo mai sentito nominare. Nata nel Kent nel 1916 col nome di Felicity Shaw, Morice lavorò per un certo tempo nell'ufficio della GPO Film Unit, una casa di produzione celebre al tempo. Lì incontrò il documentarista Alexander Shaw, che sposò e le diede tre figli. Nel corso degli anni la famiglia si spostò in lungo e in largo, mentre Morice intraprendeva la carriera di scrittrice; la quale, tuttavia, in un primo momento non diede i frutti sperati. Infatti, nonostante avesse scritto due romanzi ben accolti negli anni '50, Felicity non dovette essere soddisfatta e decise di fermare la produzione per circa vent'anni, quando tornò sulla scena con un serie di romanzi gialli di successo su una ragazza di nome Tessa Crichton, la quale investiga sulla falsariga della neozelandese Miss Phryne Fisher di Kerry Greenwood. I suoi sono romanzi gialli molto leggeri, dove contano molto le descrizioni della buona società del tempo, i rapporti tra i personaggi, lo stile sbarazzino e una vena misteriosa che si mescola spesso ad altri temi che si discostano un po' dal delitto. Finora Dean Street Press ha dato alle stampe: 
  • "Death in the Grand Manor"
  • "Murder in Married Life"
  • "Death of a Gay Dog"
  • "Murder on French Leave"
  • "Death and the Dutiful Daughter"
  • "Death of a Heavenly Twin"
  • "Killing with Kindness"
  • "Nursery Tea and Poison"
  • "Death of a Wedding Guest"
  • "Murder in Mimicry"
Se cercate qualche lettura un po' più leggera, sono sicuro che questa serie possa fare al caso vostro.

Copertina di "The Chianti Flask"
pubblicato dalla British Library Crime
Classics
Passiamo poi al consueto volume della British Library Crime Classics, curata da Martin Edwards e fonte continua di titoli interessantissimi. Per questo mese di maggio ci viene presentato "The Chianti Flask" di Marie Belloc Lowndes, autrice conosciuta in Italia soprattutto per "Il Pensionante", storia fittizia ispirata alla vicenda di Jack Lo Squartatore, e per "Luna di Miele da Incubo" pubblicato da Le Assassine. In questo caso, l'indagine ruota attorno alla figura di Laura Dousland, una giovane donna che è stata accusata di aver avvelenato l'anziano marito Fordish. Nell'aula del tribunale dove si svolge il processo inizia il racconto, mentre lei si difende dalle accuse e il servo italiano della coppia, Angelo Terugi, a sua volta sospettato del delitto, sostiene dall'alto del podio dell'interrogato la sua colpevolezza. Tutto quanto è focalizzato su una fiaschetta di Chianti che quasi certamente ha contenuto il vino avvelenato che ha ammazzato Fordish; ma il punto è: chi glielo ha somministrato? E che fine ha fatto questo oggetto tanto accusatorio e definitivo? Nessuno finora è riuscito a rintracciarlo. La giuria si trova costretta ad emettere un giudizio influenzato da questa grave mancanza, ma non crediate che i colpi di scena siano finiti qui. Questo è soltanto l'inizio del romanzo di Belloc Lowndes, nel quale vengono affrontati molti temi importanti come lo studio psicologico degli effetti deleteri dell'omicidio, con le conseguenze sulla persona accusata e su coloro i quali le sono vicini, nel bene e nel male. Forse Laura è davvero colpevole... Soltanto alla fine, nelle ultime pagine, si scoprirà la verità sul delitto di Fordish Dousland. Per scoprire qual è, dovete procurarvi una copia di "The Chianti Flask".

Copertina di "The Wall" pubblicato
da Penzler Publishing
Per ultimo, torniamo in America e diamo un'occhiata a "The Wall" di Mary Roberts Rinehart, dato alle stampe da Penzler Publishing. Tradotto in italiano come "I Muri Parlano", è uno dei romanzi gialli dell'autrice senza personaggio fisso, dove ella ha ancora una volta esplorato il lato "da brivido" del racconto del mistero, sottolineando la suspense in favore dell'enigma puro. Come di consueto, l'ambientazione e scenario in cui vengono calati i fatti è una villa aristocratica, Sunset House, abitata da Marcia Lloyd e suo fratello Arthur fin dall'infanzia, poiché in essa hanno trascorso ogni estate della loro vita esplorando i grandiosi saloni e i terreni che scivolavano fino alla riva del mare. Ogni cosa sembra circondata da una sorta di aura idilliaca: niente di male può accadere a Sunset House, dove il vecchio nonno ha risieduto per lunghi anni in un clima pacifico e tranquillo. Eppure, all'improvviso, l'ex moglie di Arthur, Juliette, si presenta alla porta illuminata dai raggi del tramonto per avanzare delle pretese e chiedere un contributo economico al giovanotto, il quale non è in grado di soddisfare le sue esigenze (oppure non ha intenzione di farlo). Da lì in poi iniziano i guai: allontanatasi, Juliette scompare nel nulla per qualche tempo... finché il suo cadavere non viene rinvenuto. La polizia, convocata sul posto, si trova davanti a una casa silenziosa e oscura, che sembra serbare terribili segreti al suo interno e non intende permettere che degli estranei la violino: cosa mai si celerà nelle ombre che dagli angoli delle camere si allungano col calare delle tenebre? Però Marcia, dal canto suo, intende fare il possibile per dissipare il mistero e si allea con lo sceriffo locale, Russell Shand, per trovare l'assassino della cognata prima che le cose possano peggiorare. In una lotta contro il tempo, infatti, sanno benissimo che qualcosa di diabolico si annida nei paraggi; qualcosa che deve essere fermato ad ogni costo. Carico di tensione, di mistero e di suggestioni, "The Wall" si preannuncia una lettura carica di emozione che farà correre più di un brivido lungo la schiena dei lettori.

Bene, anche per questo mese ho concluso la mia carrellata di consigli per voi lettori di Three-a-Penny. Se ci saranno ulteriori aggiornamenti importanti da fare, li inserirò qui sotto. Nel frattempo, vi auguro buone letture nel segno del giallo. A presto!

Link ai titoli consigliati su IBS
"L'assassino bussa alla porta" di Harriet Rutland;
"I morti non vedono" di Max Afford;
"Sherlock Holmes e il Segreto del Monte Bianco" di Pierre Charmoz e Jean-Louis Lejonc;
"Sherlock Holmes e il Tesoro delle Dolomiti" di Riccardo Decarli e Fabrizio Torchio.

Link ai titoli consigliati su Libraccio
"L'assassino bussa alla porta" di Harriet Rutland;
"I morti non vedono" di Max Afford;
"Sherlock Holmes e il Segreto del Monte Bianco" di Pierre Charmoz e Jean-Louis Lejonc;
"Sherlock Holmes e il Tesoro delle Dolomiti" di Riccardo Decarli e Fabrizio Torchio.

Link ai titoli consigliati su Amazon
"Complotto all'ambasciata" di Ngaio Marsh (solo ebook);
"Uno studio in nero" di Ellery Queen (solo ebook);
"L'assassino bussa alla porta" di Harriet Rutland;
"I morti non vedono" di Max Afford;
"Sherlock Holmes e il Segreto del Monte Bianco" di Pierre Charmoz e Jean-Louis Lejonc;
"Sherlock Holmes e il Tesoro delle Dolomiti" di Riccardo Decarli e Fabrizio Torchio;
"Death in the Grand Manor" di Anne Morice;
"Murder in Married Life" di Anne Morice;
"Death of a Gay Dog" di Anne Morice;
"Murder on French Leave" di Anne Morice;
"Death and the Dutiful Daughter" di Anne Morice;
"Death of a Heavenly Twin" di Anne Morice;
"Killing with Kindness" di Anne Morice;
"Nursery Tea and Poison" di Anne Morice;
"Death of a Wedding Guest" di Anne Morice;
"Murder in Mimicry" di Anne Morice;
"The Chianti flask" di Marie Belloc Lowndes;
"The Wall" di Mary Roberts Rinehart.