venerdì 27 novembre 2020

53 - "Sangue sul Monte Bianco" ("The Ice Axe Murders", 1958) di Glyn Carr

Copertina dell'edizione pubblicata
da Mulatero Editore

Ci siamo, ormai stiamo per addentrarci nel periodo dell'anno che preferisco: quello delle feste natalizie, che intercorre tra fine novembre-inizio dicembre e circa metà gennaio. Finalmente, aggiungerei. Soprattutto in questo maledetto 2020, infatti, nonostante percepisca meno lo spirito del Natale rispetto alle altre volte, sento impellente la voglia di calarmi in letture che sappiano rilassarmi ancor più del solito. Già mi immagino, seduto accanto alla stufa, mentre il fuoco arde e fuori dalla finestra soffia il vento (o magari nevica, chi può dirlo in quest'anno così strano?), con un libro fresco di stampa e pronto a tuffarmici dentro da sotto una calda coperta. Le preoccupazioni saranno messe da parte, la frenesia dei regali da comprare quasi del tutto scomparsa, di fronte alle restrizioni che presumo ci impediranno di fare resse alle casse e nei negozi. E per lenire le delusioni, cosa c'è di meglio di un buon romanzo che sappia sottrarci alla realtà un po' deprimente dei nostri giorni; meglio ancora se ambientato durante le feste o in inverno, quando un po' tutti ci lasciamo affascinare e suggestionare? Anche un bel film, come "La Vita è Meravigliosa" di Frank Capra, può andare bene, per carità; ma siccome questo blog si concentra sulla narrativa del mistero, da parte mia punterò su quelle letture che in qualche modo coccolano il lettore. In particolare, da appassionato di classica crime story, tornerò prepotentemente al giallo con la neve a fare da scenario, a quel "Christmas Murder Mystery" di cui ho già parlato l'anno scorso, dove non deve necessariamente essere presente qualche tipo di festività; ma di sicuro ciò può costituire un'aggiunta utile a dare fascino al tutto. In questo sottogenere, dove si mescolano affetto e brutalità violenta, sorrisi e coltellate alla schiena (spesso in senso letterale), si dà vita a qualcosa di perversamente gradevole, che vanta un enorme successo in tutto il mondo e affonda le proprie radici molto indietro nel tempo. Magioni o capanne isolate nel biancore accecante e a volte letale, nuclei familiari dove serpeggia il malcontento ma nessuno può ribellarsi al comportamento fin troppo civile che bisogna mantenere in riunioni con i congiunti, stili caratterizzati da toni a volte tanto confortanti, quanto altre taglienti come lame di rasoi affilate che lacerano l'anima: questo per me è il "vero" giallo all'inglese di carattere invernale, quello che amo di più in assoluto e su cui mi soffermerò anche quest'anno.

A partire da oggi, dunque, voglio recensire alcuni titoli a tema nevoso-festivo, sperando che apprezziate il mio intento. E lo faccio iniziando da un romanzo che, curiosamente, non doveva essere pubblicato in questo periodo, dal momento che è stato solo a causa del COVID che esso è slittato alla metà di novembre, ma è comunque risultato perfetto nella sua attuale uscita nelle librerie dettata dal Caso. Dovete sapere, infatti, che Mulatero Editore (sempre sia lodata per avermi introdotto a Glyn Carr) aveva programmato il nuovo volume della serie di Abercrombie Lewker, scritto da quest'ultimo, proprio per il mese di marzo di quest'anno, quando è scoppiata la pandemia mondiale. Poi come tutti sappiamo i piani sono stati sconvolti, i ritardi si sono accumulati l'uno sull'altro, ognuno ha visto la propria vita cambiare o comunque uscire da un percorso prestabilito e andare incontro a una serie di nuove circostanze. Ma adesso, pian piano, ogni cosa sta riprendendo i ritmi di quasi un anno fa; e anche Mulatero ha dato alle stampe "Sangue sul Monte Bianco" (2020). Si tratta dell'ennesimo mystery dell'autore a seguire i canoni che lo hanno reso celebre all'interno del genere giallo: ispirato al classico romanzo del mistero di tradizione britannica, sul sottogenere della camera chiusa, ma declinato secondo l'originale elemento di sfruttare un'ambientazione che non ha più solidi muri a fare da confini, trasportando chi legge lontano sia nel tempo sia nello spazio, in luoghi selvatici senza alcuna limitazione se non ripide pareti di roccia e il cielo delle quote più elevate. Se avete letto le altre recensioni che ho scritto sull'opera di questo autore, saprete infatti che lo scenario prediletto da Carr è quello dell'alta montagna, dove il suo investigatore dilettante, nonché capocomico e alpinista, Abercrombie Lewker, si diletta a risolvere enigmi. E questa volta, l'autore ha fatto trasferire il suo personaggio nientemeno che sul Monte Bianco, sul versante francese ai cui piedi si trova Chamonix. In questo luogo impervio e aspro, sulla cui cima si abbattono tempeste di neve pure in luglio, egli ha tratteggiato una storia in cui perfettamente si equilibrano i punti forti della sua narrativa: la descrizione della dura vita dell'individuo che intende praticare sport sui monti, e una serie di delitti che vengono spiegati e delineati seguendo un rigoroso fair play. In tal modo, Carr non si è allontanato dalla sua comfort zone che vede l'utilizzo della montagna come speciale luogo del delitto, ma non ha neppure deluso gli appassionati di crime e ha regalato loro un mystery coi fiocchi (in tutti i sensi). Ringrazio ancora Mulatero per avermi inviato una copia del romanzo affinché lo possa recensire: questo è di sicuro il migliore finora pubblicato, e come dicevo si adatta perfettamente ad introdurre il periodo invernale che stiamo per affrontare.

Una foto del Monte Bianco visto dal versante di Chamonix
La storia, infatti, nonostante si svolga nel mese di luglio, vede ben presto l'abbattersi di una furiosa bufera di neve sulla vetta del Monte Bianco, la quale muta l'atmosfera radicalmente e coinvolge nel profondo i personaggi. Ma andiamo con ordine. Tutto inizia sul treno che sta conducendo Jim Osborne, giornalista di "Feature", a Chamonix, località famosa in tutto il mondo come meta sciistica e che, in questo particolare frangente, sta per diventare celebre pure in ambito cinematografico. Il giovanotto, in effetti, ha intenzione di raggiungere il regista Leo Perren e il suo rissoso e scorbutico protagonista, Grieg Osborne, per scrivere un lungo articolo sul film che i due sono in procinto di mettere in lavorazione. Si tratterà di una storia vera trasposta su pellicola, la quale racconterà della prima ascesa sul Monte Bianco da parte di Paccard e Balmat, e lui ha tutte le intenzioni di ricavarne un ottimo articolo che gli permetta di fare carriera. Tuttavia, prima di giungere sul posto, è costretto ad ammazzare il tempo e non è che ci siano chissà quali alternative tra cui scegliere: potrebbe tentare di avviare una conversazione con Abercrombie Lewkre, il celebre attore teatrale che sta viaggiando sul suo stesso treno, assieme a sua moglie Georgie e a una coppia formata da una modesta ma bellissima attrice, Dagmar Lewis, e il suo tutore, il colonnello Pound; oppure trascorrere ore ed ore nello scompartimento che divide con due zitelle, miss Harriet Bristow e miss Elsie Semple. Però entrambe le alternative paiono sconfortanti: Lewker lo ha accusato di essere alla ricerca di un pretesto per strappargli un'intervista e lo ha allontanato, mentre Bristow è chiaramente ostile a qualsiasi tipo di interazione civile. Per fortuna, il viaggio in treno giunge al termine e tutto il gruppo si sposta verso Chamonix per sistemarsi in albergo. E in questa occasione il giovane Osborne si rende conto di come tutti quanti (compresi Perren e Grieg Osborne) siano in qualche modo legati tra loro. Le zitelle conoscono Dagmar, poiché quest'ultima è stata allieva nella scuola gestita da miss Harriet; Lewker ha instaurato alcuni rapporti legati all'esercito con Pound; e Grieg Osborne si è fidanzato nientemeno che con la giovane attrice che lo stesso Jim ammira in cuor suo.

Una bella coincidenza, non è vero? Tanto più che, la sera stessa del loro arrivo a Chamonix, tutti quanti vengono invitati a una cena per festeggiare la lieta unione tra Dagmar e Grieg. Al tavolo siedono le due zitelle, i coniugi Lewker, Pound, ovviamente i due promessi sposi, Jim, Perren, e due amici di Abercrombie e Georgie: il prefetto di polizia della cittadina, Marius Menier, e sua moglie. L'atmosfera è influenzata in senso alternato dalle chiacchiere allegre dei commensali e dall'umore turbolento e lunatico del celebre attore; ma è solo quando al cospetto del gruppo si presenta una guida alpina che la situazione, già surriscaldata, degenera. L'arrivo di Henri Cachat e il suo conseguente annuncio sull'essere pronto a portare, fin sulla vetta del Monte Bianco, miss Bristow e miss Semple il giorno dopo, scatena una discussione tra lui e Grieg Osborne, il quale sminuisce la sua esperienza come guida alpina a favore di quella di un altro individuo, Luigi Carrell. Quest'ultimo, afferma l'attore, lo porterà fin sulla cima della montagna con qualunque clima, nonostante la preoccupazione di Cachat e degli altri commensali. Ciò che consegue al litigio gela l'atmosfera, e Jim Osborne se ne va a dormire pensando a quanto sia odioso il suo omonimo. E il giorno dopo, quando tutti quanti (in cordate diverse) si accingono a salire sulla funivia che li porterà sotto ai Grands Mulets, egli è ancora dello stesso parere; condiviso per altro dai rimanenti componenti del gruppo. Nel corso dell'ascesa, infatti, Grieg si attira l'odio di ogni singolo individuo attorno a sé, e ben presto l'alta montagna fa cadere le maschere di civiltà che gli alpinisti indossano quando hanno i piedi per terra. In ogni caso, prima di raggiungere la capanna Vallot poco sotto la meta, gli incidenti di percorso che si verificano non hanno conseguenze fatali. Sarà mentre alcuni salgono fino a toccare la cima della montagna, che il tempo peggiorerà e costringerà i temerari a un rapido riparo alla Vallott... e ad assistere alla violenta caduta di una persona con un berretto rosso sul versante orientale. Con una morte sulle spalle, il gruppo si rifugia nella capanna, in attesa che il tempo migliori; quando il cadavere rispunta dalla tormenta e si scopre che la causa del decesso non è stato un semplice volo dalla cresta, ma nientemeno che una picconata sulla testa. Qualcuno deve averla sferrata, ma chi? Il sospetto si insinua nel gruppo, e nella ristretta stanza in cui sono rintanati tutti, ognuno inizia a fare ipotesi... Sarà però Abercrombie Lewker a dover risolvere il caso, prima che diventi troppo tardi e i morti aumentino.

Pianta della via per la vetta del Monte
Bianco dai Grands Mulets, disegnata da
Abercrombie Lewker

Ormai sembra una barzelletta: soltanto qualche settimana fa, recensendo "Il Picco delle Streghe", avevo affermato come a mio parere esso fosse il migliore romanzo giallo di Glyn Carr che avessi letto fino a quel punto. Ebbene, oggi mi ritrovo a smentire me stesso e a dire che è questo "Sangue sul Monte Bianco" a raggiungere la vetta di un mio ipotetico podio. E aggiungerei che, a quest punto, vedo molto difficile che l'autore riesca a superarsi con le uscite che arriveranno in futuro. Infatti, come dicevo poso sopra, l'equilibrio tra l'elemento dell'alpinismo e della vita di montagna, e quello del puro enigma da sciogliere che si trova solitamente all'interno di un classico romanzo del mistero, qui trova una manifestazione a dir poco perfetta (o almeno quanto di più simile alla perfezione ho trovato da quando ho iniziato la serie di Lewker). O meglio, si avvicina ad essere in tutto e per tutto IL romanzo giallo di Glyn Carr se teniamo da conto alcuni elementi. Infatti, pensandoci bene, "Il Picco delle Streghe" può essere considerato (contando i libri finora pubblicati) il più completo dal punto di vista dell'enigma; ovvero, è quello dove il mistero occupa la parte più estesa delle pagine e viene affrontato fin dal principio. In "Sangue sul Monte Bianco" e nei precedenti (a parte forse "Assassinio sul Cervino"), avevamo trovato più un racconto incentrato sulla vita dell'escursionista e scalatore, e di conseguenza l'indagine aveva occupato un ruolo un po' più marginale rispetto al fulcro attorno al quale si sarebbero sviluppate le vicende. D'altro canto, però, bisogna pensare pure che Carr intendeva scrivere i suoi libri non tanto per dare vita a complicati casi di omicidio, o almeno non era questa la sua principale meta da raggiungere; quanto per decantare quanto fosse bella la vita dell'appassionato di sport alpini e della vita all'aria aperta. Ecco perché, a mio parere, nonostante in "Sangue sul Monte Bianco" sia tornato a dare risalto ai paesaggi mozzafiato e alle tecniche per arrampicare spuntoni di roccia, questo romanzo è forse il migliore di quelli scritti dall'autore: per il fatto di essere riuscito a mostrare quanto più realmente cosa si prova a salire una via normale sul Monte Bianco, e allo stesso tempo imbastire un caso adeguato al tenore del libro, capace di dare soddisfazione al lettore ma senza usurpare il ruolo di fulcro di tutto alla descrizione della montagna. Forse la differenza si può trovare nel fatto che il titolo recensito oggi sia composto da un numero di pagine più numeroso dei precedenti: avendo a disposizione uno spazio più esteso, Carr ha potuto dare libero sfogo alla sua eloquenza sull'alpinismo, pur riuscendo a tratteggiare gli assassinii in modo esaustivo, ed equilibrando ogni cosa con maestria.

Nella prima parte del romanzo, fino a circa metà, si è concentrato sullo scenario e su quanto altro avesse a che fare con esso, tanto da quasi eliminare qualunque riferimento utile al tratteggio dell'indagine (anche se così non è, fate attenzione!): come in "Un Cadavere al Campo Due", ha destinato le sue osservazioni ai dettagli dei luoghi e a soffermarsi sulle piccolezze per contestualizzare l'insieme. Si percepisce l'urgenza dell'autore nel rendere vivaci i passaggi da un picco all'altro, da un lato del ghiacciaio fino a una sporgenza da intagliare con la piccozza, arrivando a delineare quali siano i movimenti e i pensieri dei personaggi, i quali si ingegnano a proseguire in un contesto di grande spessore e davvero autentico (da quanto ho potuto capire, infatti, Carr ha descritto come al solito il percorso reale per raggiungere la vetta, come era già accaduto nei precedenti gialli). Ci immergiamo negli sforzi che ognuno compie per portare il proprio corpo verso altitudini più elevate, per vincere la nausea e per assaporare ogni momento di un'esperienza unica; e lo facciamo, come dicevo, quasi dimenticando che quello che stiamo leggendo è un mystery, tanto l'elemento crime viene accantonato con sapienza. Insomma, l'impressione che ricaviamo dalla lettura di questa parte del racconto è quella di essere immersi in una sorta di sospensione temporale, dove la narrazione ci viene restituita densa e complessa. Nel resto del libro, tuttavia, è il mistero a farla da padrone: smettiamo di girovagare per creste e pendii ripidi a favore di una chiave di lettura focalizzata sull'indagine poliziesca. Dalla discesa dalla vetta del Monte Bianco in poi, è quest'ultima ad occupare il centro dell'attenzione; c'è un momento in cui i personaggi si allontanano dalla capanna Vallot, questo è vero, ma si tratta soltanto di un'espediente per alimentare la tensione e il terrore. Le descrizioni della vita dell'escursionista lasciano il posto a sospetti e teorie, a un'atmosfera che risente in minia parte del luogo in cui il gruppo è riunito. Ma soprattutto, in "Sangue sul Monte Bianco" troviamo una vera e propria applicazione del delitto impossibile, come mai finora era accaduto. Nelle precedenti avventure di Lewker, infatti, ci eravamo imbattuti in enigmi che, a mio parere, non erano sempre riusciti del tutto, per motivi differenti (poca cura nella costruzione, ingenuità legate all'inesperienza, ecc...); qui invece abbiamo il tratteggio di un caso investigativo dove ogni cosa è stata ponderate, approfondita, sviscerata e data in pasto al lettore, riuscendo comunque a sorprenderlo con una rivelazione finale alla quale si poteva giungere prestando attenzione ai cenni nascosti tra le righe. Più di una volta, mi sono domandato quale fosse la soluzione dell'enigma e se non ci fosse lo zampino di qualche entità demoniaca ad orchestrare il tutto; ma alla fine l'illuminazione è arrivata, poco prima che lo stesso Carr la svelasse, lasciandomi quindi una buona impressione generale. La follia si è manifestata ancora una volta, emergendo dei fiocchi bianchi che cadono furiosi sulla cresta del Monte Bianco. Sul serio, sono entusiasta di come sia risultato essere "Sangue sul Monte Bianco": al suo interno sono presenti la dolce claustrofobia dettata dalla bufera di neve, una serie di digressioni stupende sul paesaggio e l'alpinismo, un mistero congegnato ottimamente e una schiera di personaggi capaci di affrancarsi dagli stereotipi quanto basta per restare impressi. Dire che sono rimasto affascinato è poca cosa.

Frank Showell Styles (alias Glyn Carr)
nato nel 1908 e morto nel 2005
Ma chi fu Frank Showell Styles, vero nome di Glyn Carr, ovvero l'autore di questo straordinario libro? Nato a Birmingham nel 1908, dopo la scuola egli lavorò in banca per una decina d'anni, finché decise di mollare questo impiego che non lo soddisfaceva. Partì quindi per un lungo viaggio in giro per l'Europa, che dovette tuttavia interrompere allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Arruolatosi nella Royal Navy come artigliere, durante il conflitto riuscì a salire di grado fino a giungere a quello di comandante. Tornata la pace, Styles decise di rinunciare a tornare a lavorare nel mondo della finanza e si trasferì in Galles, dove trascorse il tempo ad arrampicare (fu da sempre la sua passione più grande), a dedicarsi al teatro e a progettare la sua nuova carriera di scrittore. Nel 1947, infatti, diede alle stampe il suo primo romanzo, "Traitor's Mountain", una spy story che mescolava il genere a quello umoristico, e il successo di quest'ultimo lo spinse a dare il via a una serie più convenzionale, sotto pseudonimo e con protagonista un divertente capocomico un po' sovrappeso e dalla citazione facile che si ritrova ad indagare su casi misteriosi ambientati in alta montagna. In realtà, già durante una scalata del Milestone Buttress gli balzò in mente come "fosse facile progettare un omicidio perfetto in quel luogo"; pertanto decise di "ideare un sistema [adatto] e costruirci attorno una trama adeguata". In questo modo, come Glyn Carr firmò "Morte Dietro la Cresta" (primo di quindici gialli classici, tra cui vanno ricordati "Assassinio sul Cervino" e "C'è un Cadavere al Campo Due") e Abercrombie Lewker fece il proprio ingresso nella letteratura del mistero, dopo tre romanzi più avventurosi. La serie fu accolta favorevolmente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, soprattutto per la capacità dell'autore di descrivere con doverosa attenzione le scene di arrampicata e i luoghi in cui esse si svolgevano. Dopo "Fat Man Agony" (1969), Styles concluse le avventure di Lewker per dare il via a un'altra serie, il cui protagonista divenne un ufficiale della marina britannica al tempo delle guerre napoleoniche; nel frattempo, tuttavia, continuò a scalare e a fare escursioni, oltre a scrivere una quantità enorme di guide, manuali e racconti sulla montagna (in totale furono circa 160), finché non morì nel 2005.

I romanzi di Abercrombie Lewker (in parte ripubblicati dalla Rue Morgue Press, secondo la quale pare esista un romanzo inedito andato perduto) sono libri dove regna l'ironia e a volte gli stereotipi tendono ad abbondare, soprattutto nella delineazione dei personaggi. Eppure, come dicevo sopra, in "Sangue sul Monte Bianco" ho notato come questi ultimi siano risultati meno "prevedibili" di quanto fosse finora successo nelle altre storie (a parte "Il Picco delle Streghe"). Certo, restano tutti gli elementi che hanno caratterizzato i precedenti titoli della serie di Abercrombie Lewker: il gruppo di escursionisti che vengono in qualche modo riuniti/isolati in qualche luogo lontano dalla civiltà, sullo stile del circolo di sospettati che ha reso famosa nel mondo Agatha Christie; l'uso dell'ambientazione come elemento principale della storia per dare vivacità e realtà ai fatti raccontati, quasi paradisiaca nel suo essere incontaminata e indomabile, ma aspra e ostile nelle salite per i pendii ghiacciati e nelle frugali sistemazioni per la notte; il coesistere di momenti drammatici e terrorizzanti, alternati a scenette allegre e divertenti dove il protagonista è spesso Lewker. Nonostante qualche piccolo stereotipo sia duro a morire (penso al rapporto amoroso a triangolo), però, trovo che "Sangue sul Monte Bianco" sia stato assolutamente stupendo, e bisogna darne atto a Glyn Carr. Inoltre, trovo che siano sempre più coinvolgenti e meno "fuori posto" tutte le digressioni che l'autore fa a riguardo dell'alpinismo e dell'escursionismo, tanto da inserirle all'interno della storia così che esse giochino un ruolo importante nel mistero e nel tratteggiare la stessa psicologia dei personaggi, la quale si "riflette" in esse (pp. 16-17, 19-20, 26-27, 30-31, 38-40, 46-48, 50, 57, 60-61, 65-67, capp. 4-5-6-7-8, pp. 164-165, 171, 173, 211-214). La stessa ambientazione, tutto sommato, compie un'operazione del genere, facendo cadere le maschere degli attori sulla scena (pp. 25-28, 30-32, 81-82, 86, 113, 116...): abbiamo scenari indomabili e ancestrali, pur familiari per chi (come me e lo stesso Carr) abbia vissuto in montagna o alle sue pendici, nei quali ci caliamo con piacere per evadere dalla noiosa quotidianità o dal deprimente isolamento dovuto alla situazione sanitaria mondiale. Essi danno originalità agli assassinii inventati dall'autore, e ci fanno provare quel senso di inferiorità tanto familiare all'appassionato di sport estremi all'aperto; oltre a restare vividi ai nostri occhi, come se stessimo sfogliando una guida turistica in cui essi vengono descritti. L'attinenza alla realtà gioca un ruolo importante nel sottolineare i movimenti dei personaggi e nel farceli comprendere con maggiore chiarezza.

Infine, proprio sugli attori del dramma voglio soffermarmi (pp. 160-161). Si tratta di individui che spiccano grazie alla loro anima, che non restano imbrigliati dalle parole ma trovano una ragione d'essere. Ho notato un progressivo miglioramento in questa capacità dell'autore, da "Morte Dietro la Cresta" al titolo preso in esame oggi, e tra i protagonisti del primo e del secondo c'è una grossa differenza, a mio parere. Il narratore, Jim Osborne, è forse il più caratterizzato, dal momento che vediamo tutta la faccenda dal suo punto di vista e, di conseguenza, è sempre sulla scena: percepiamo le sue emozioni, osserviamo cosa pensa degli altri seguendo i suoi ragionamenti, ci immedesimiamo in lui e filtriamo gli eventi attraverso il suo sguardo acuto di giornalista. Il suo omonimo, Grieg Osborne, riesce a suscitare la nostra antipatia dall'inizio alla fine, oserei dire addirittura prima di entrare in scena; niente male! Incarna lo stereotipo dell'attore viziato ed egocentrico, che non si piega ad alcun compromesso e pretende di essere sempre al centro dell'attenzione; trasuda arroganza e qualcosa di velatamente violento. Sarebbe il cattivo ideale in un melodramma shakespeariano, con una paio di calzamaglia addossi e una gorgiera. Dagmar Lewis, al contrario, non impersona il ruolo dell'attricetta novellina dall'aria svanita e fatua, ma è una ragazza sveglia e per nulla spaventata dallo sforzo fisico, nonostante abbia ancora un'animo nobile che le impedisce di ribellarsi alle convenzioni della società. Suo zio, il colonnello Pound, appare quanto più simile a un soldato della vecchia guardia, ma lascia presagire come sotto sotto sia astuto e niente affatto sciocco come può sembrare a prima vista. Le zitelle Bristow e Semple, da parte loro, impersonano il ruolo assegnato loro con grande entusiasmo e, pur nella loro relativa prevedibilità, lasciano intravvedere una forza interiore che la "solita" signorina di un tempo per antonomasia non avrebbe. Pure miss Elsie, la quale viene angariata da miss Harriet, rivela una fibra robusta nei silenziosi sguardi inceneritori che indirizza all'amica. Marium Menier, invece, è il tipico poliziotto un po' ottuso che ragiona soltanto seguendo la logica ed è incapace di contemplare soluzioni fantasiose in base ai fatti di cui dispone. Però non bisogna pensare che sia uno sprovveduto. Henri Cachat e Luigi Carrell, le guide alpine, sono tanto simili nel ruolo quanto differenti nella personalità: il primo è integro, coscienzioso e realista, l'altro vanesio e corrotto. Persino Leo Perren, il quale appare nella vicenda soltanto fino a un certo punto, è stato caratterizzato con originalità. Tutti questi individui, insomma, hanno un'anima che li rende imprevedibili, sospetti e molte volte simpatici. A dominare, tuttavia, è sempre lui: Abercrombie Lewker, istrionico e padrone del palcoscenico fuori e dentro la finzione.

Originale, brillante, ironico, creativo, fantasioso, il capocomico incarna la figura del Grande Detective dedito alla cultura e all'arte (dal momento che cita Shakespeare a ogni piè sospinto, come alle pp. 23-25), ma allo stesso tempo non ha paura di mettere in moto il proprio fisico per cercare prove atte ad incastrare il colpevole. Pomposo e carismatico, ma capace di provare pietà, egli è consapevole del proprio personaggio e agisce come se si trovasse in una delle tragedie che è abituato a portare sulle scene dei teatri più importanti d'Inghilterra. Si lancia nell'indagine con il piglio del dilettante, ma è pure capace di comprendere quando la situazione si sta facendo seria. Insomma, si comporta come ci si aspetterebbe da un segugio da romanzo giallo, e di conseguenza il suo autore lo fa agire seguendo i passi che un tale personaggio dovrebbe compiere. Ma Lewker non si limita ad incarnare uno stereotipo; lo rifuggire allo stesso tempo. Infatti, se da un lato possiede il tipico carattere eccentrico del dilettante e abbraccia i metodi d'indagine più tradizionali, dall'altro ama intrattenersi con attività straordinarie rispetto ai soliti svaghi dei segugi del giallo: condivide con il suo autore la passione per la vita di montagna e per ciò che si può fare quando ci si trova all'aria aperta, ai piedi di una catena alpina. La vita dell'escursionista, presentata in un modo vivido e romanzato sul quale viene modellata la trama, si fa telo su cui proiettare il delitto fittizio, in un contesto in cui vengono inserite nozioni dettagliate, tra aneddoti sull'arrampicata, buone norme da seguire quando si scala una vetta oppure si intraprende un'escursione, piccoli dettagli sulla vita di montagna, accorgimenti e abitudini che gli alpinisti devono adottare e buone norme da seguire quando si decide di scalare una parete rocciosa. Se inseriamo tutto ciò in una narrazione dallo stile ironico, estesa ma coinvolgente, introspettiva in modo tale da approfondire numerosi temi ed argomenti e segnata da una gran quantità di dialogo, ricaviamo un romanzo stupendo e divertente che non ha nulla da invidiare a uno scritto da autori più celebrati. In modo simile alle precedenti avventure di Lewker, esso ci trasporta in un mondo quasi onirico, in un momento in cui non possiamo spostarci: continuerò a ribadire il fatto che leggere Glyn Carr durante la pandemia può essere il passatempo perfetto per trovare un po' di sollievo e svagarsi. Grazie Mulatero, adesso aspetto solo la prossima indagine di Abercrombie.


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venerdì 20 novembre 2020

52 - "Uno dopo l'Altro" ("The Silent Murders", 1929) di A.G. Macdonell/Neil Gordon

Copertina dell'edizione pubblicata da
Polillo Editore/Rusconi

Come annunciato nella recensione di "Il Capanno sulla Spiaggia" della scorsa settimana, oggi tocca a quella sull'altro bel romanzo giallo che Polillo, per mezzo di Rusconi, ha dato alle stampe di recente, in seguito alla lunga pausa che l'ha caratterizzata dopo la morte del suo fondatore, Marco Polillo. Infatti, chi si fosse perso qualche passaggio sappia che era dalla pubblicazione di "Il Mistero della Candela Ritorta", risalente al luglio del 2019, che questa casa editrice amatissima dagli appassionati di classica crime story aveva interrotto qualunque tipo di uscita, dopo aver già ridotto al minimo i titoli in procinto di essere editi. La causa principale è stata, come dicevo, la morte dello stesso Polillo, il quale se ne è andato alcuni mesi dopo la pubblicazione del mystery di Wallace, lasciandoci smarriti e sconcertati di fronte alla perdita di un grande esperto e generoso complice nel perpetuare la bellezza del tradizionale giallo anglosassone, oltre che seriamente preoccupati per il destino dei suoi lodevoli Bassotti. Tuttavia, per fortuna, le cose sono andate molto bene, per noi fan del genere letterario e della collana di questi libri dalla caratteristica copertina arancione, così strana dopo il monopolio del colore giallo imposto da Mondadori un secolo fa: infatti l'editore Rusconi, già addentro nel campo del romanzo del mistero, è subentrato nella gestione della Polillo assimilandola al suo gruppo e ridandole nuova linfa vitale. Erano programmati ben quattro nuovi titoli, in previsione di maggio di quest'anno, quando i Bassotti sarebbero dovuti tornare in pompa magna; per cui, non vi dico la sensazione che noi appassionati abbiamo provato all'idea di ricominciare a vedere in libreria volumi nuovi di zecca della collana polilliana. Ma poi, come tutti sappiamo, ci è piombata tra capo e collo nientemeno che un pandemia globale, la quale ha fatto subìre una battuta d'arresto a qualunque tipo di attività editoriale (e non solo). Così, tutto quanto è ritardato a una data da destinarsi; fino al mese di ottobre appena finito, quando le cose si sono aggiustate e finalmente sono apparsi "Il Capanno sulla Spiaggia" di Milward Kennedy e "Uno Dopo l'Altro" di A.G. Macdonell. La settimana scorsa, pertanto, ho recensito il romanzo giallo di Kennedy. Se avete letto la mia analisi, vi sarete fatti un'idea su quale genere esso interpreti, andando a sondare temi e situazioni che si rifanno in modo molto sorprendente a quelle di alcuni thriller che vengono pubblicati oggigiorno.

Oggi, invece, passo a qualcosa di totalmente differente, con "Uno Dopo l'Altro" di Macdonell, pubblicato a suo tempo sotto lo pseudonimo di Neil Gordon (Polillo Editore/Rusconi, 2020). Infatti, vi avevo già anticipato come questi due titoli siano molto diversi tra loro; non solo nella forma stilistica e nel modo in cui certe tematiche vengono affrontate, ma pure nei temi e nell'interpretazione della psicologia dell'individuo (non necessariamente il colpevole). Se proverete a confrontarli tra loro, scoprirete che essi si approcciano al delitto come se fossero mondi agli antipodi, con pochissimi punti di contatto: il libro di Kennedy va a soffermarsi su una sorta di indagine in cui contano le cose non dette e ciò che emerge dallo scontro dialogico-ideologico tra i sospettati e i protagonisti, mettendo il luce l'incomprensione che regna sovrana tra gli esseri umani e l'impetuosa corrente sotterranea di passione, odio, violenza ed emozione che intercorre tra loro; "Uno Dopo l'Altro", invece, vuole mettere in scena come l'investigatore, sia professionista sia dilettante, affronti il proprio compito come una battaglia tra il Bene (che egli incarna) e il Male (impersonato dall'assassino), dove il caso viene analizzato in base a fatti ben definiti, a un'implacabile ricerca attiva che non conosce momenti di pausa, e a un approccio logico e del tutto schematico, senza lasciare spazio a riflessioni fantasiose che possano influenzare la Verità delle Prove Materiali. Poi certamente c'è l'elemento di casualità, di pazzia incontrollabile che influenza fin dall'inizio l'indagine di Dewar e Bone; ma è proprio il contrasto tra l'agire senza alcun tipo di regola dell'omicida, e le azioni strutturate delle forze di polizia, improntate su metodi legati alla routine e a una forte pragmaticità, a dare importanza a queste ultime. Detto così, qualcuno potrà credere che quest'ultimo tipo di giallo sia quanto mai noioso e pedante; ma non sottovalutate le capacità dei giallisti della Golden Age britannica. Se alcuni (oggi dimenticati, tra l'altro) esagerarono nel portare la tediosa quotidianità all'interno di una storia fittizia che dovrebbe intrattenere, altri riuscirono a mescolare queste cose in modo da non far rimpiangere lo scandagliare della psiche umana e le riflessioni sulle conseguenze che la perversione umana suscitano nelle persone dei grandi capolavori del tempo. La routine e la tensione suscitata dal caso in "Uno Dopo l'Altro" riescono a tenere alta e a catturare l'attenzione come altri più rinomati esempi di giallo all'inglese; provare per credere.

Case di Contadini, Eragny, Camille Pissarro, 1887
Il romanzo inizia narrando il rinvenimento del cadavere di un vagabondo e di un ricco banchiere, uccisi in modo diverso ma, allo stesso tempo, accomunati da una serie di circostanze alquanto singolari. Il barbone, conosciuto come Sam lo Spocchioso o l'Ex Signorone, ha trovato la morte a causa di una pugnalata alle spalle ed è stato gettato in un fossato lungo una delle strade più trafficate che collegano Londra con la periferia; l'altro gentiluomo, invece, porta l'illustre nome di Aloysius Skinner, presidente della Società Imperiale Cocciniglia e direttore di molte delle aziende sussidiarie di tale vasta impresa, ed è stato ammazzato mentre si trovava a bordo di un taxi, fermo nel traffico caotico e assordante davanti alla Banca d'Inghilterra. Cosa mai avranno da spartire questi due individui così differenti non solo per estrazione sociale, ma pure per conoscenze personali e percorsi esistenziali? Nulla; se non fosse che su entrambi i loro corpi è stato trovato un cartoncino con scritto un numero progressivo: "Tre" e "Quattro". Si tratta di una bella stranezza, per Scotland Yard, la quale all'inizio non dà questa grande importanza alla faccenda. Certo, l'omicidio di un personaggio conosciuto nell'alta società come Skinner non lascia indifferenti i sovrintendenti e gli Alti Commissari; però tutto farebbe pensare al fatto che essa sia in realtà legata con quella dell'Ex Signorone. Nessuno che conoscesse Sam poteva avere conoscenze sociali ai livelli di Skinner. Pertanto, i casi vengono affrontati da investigatori diversi e sfortunatamente non portano a nessun arresto. Poco tempo dopo le due morti, però, si verifica un nuovo decesso per mano violenta: Oliver Maddock, in visita al fratello Henry nella casa di campagna di quest'ultimo, Greenlawns a Enfield, viene assassinato sotto gli occhi stupefatti del gruppo di giovani radunati laggiù per un torneo di tennis dilettantistico. E il misterioso omicida, che si è nascosto tra le frasche del giardino dell'enorme casa, prima di fuggire ha urlato ad alta voce contro Maddock come lui sia il suo Numero Cinque. A questo punto, Scotland Yard capisce di trovarsi di fronte a uno squilibrato che ha tutte le intenzioni di mettere in atto un piano diabolico e sanguinario, il quale potrebbe contare ancora chissà quante vittime.

Il giovane ispettore Dewar, coadiuvato dal sovrintendente Bone, viene quindi incaricato di svolgere le doverose indagini sul caso di questo atipico serial killer; e ciò che emerge dai suoi ragionamenti e da quelli del suo superiore è qualcosa di sconcertante: probabilmente, ad essere stato ucciso è stato il Maddock sbagliato. Infatti, tanto Oliver è stato un tizio tranquillo, dedito all'insegnamento e in seguito ritiratosi a vita privata per studiare antichi tomi in una sorta di roccaforte scozzese, quanto suo fratello Henry ha avuto una vita segnata dalla disonestà e dalla violenza. Quest'ultimo, col suo carattere arrogante e modi bruschi al limite del manesco, si è attirato l'antipatia di chiunque gli stia attorno, a parte forse i figli; per cui, agli agenti appare chiaro come sia molto probabile che l'assalitore abbia sbagliato mira e colpito la vittima errata. A convincerli di questa cosa, inoltre, gioca un ruolo importante il fatto che, a collegare Skinner e Henry, ci sia il Sudafrica. Sia l'uno che l'altro, infatti, hanno intrattenuto dei rapporti d'affari in tale continente, prima di fare ritorno in Inghilterra. Sembra proprio che la chiave dell'enigma si trovi laggiù, e così Dewar inizia una serrata caccia all'uomo che coinvolge non solo le forze dell'ordine di tutta Europa, ma pure polverosi archivi, sornioni presidenti di banche e di società londinesi, ricordi di vecchi soldati e qualunque pista gli si venga presentata, spostandosi in tutta l'isola britannica e seguendo la buona ed infallibile routine. In tutto ciò, però, i passi avanti si fanno attendere: la quantità di indizi non manca, quello è sicuro; ma il fatto che nessuno di loro riesca ad incastrarsi con gli altri esaspera e frustra gli sforzi di Scotland Yard. Forse stanno sbagliando qualcosa? E se fosse così, cosa? E dove sono le vittime "Uno" e "Due"? Un ulteriore tentativo di uccidere il Maddock sopravvissuto rafforza le convinzioni degli agenti, e il reo confesso ha tutta l'aria di essere la persona giusta a cui addossare gli omicidi del famigerato killer. Tuttavia Dewar, che non segue mai le proprie fantasiose teorie per disciplina impartita, sente che Henry nasconde qualcosa e, facendo pressione su Bone, riesce ad ottenere un mandato per scavare nel giardino di Greenlawns, trovando... Se pensate che ci siano fin troppe sorprese a questo punto, sappiate che ancora dovete scoprire il bello; in questa storia che non lascia un attimo di respiro ma, al contempo, ha il potere di rilassare il lettore grazie al lento lavorio della polizia e il suo incedere implacabile verso un assassino che non si lascerà vincere facilmente.

Copertina dell'edizione originale di "Uno Dopo l'Altro"
Tengo subito a dire come a me "Uno Dopo l'Altro" sia proprio piaciuto. E pensare che, nelle premesse, temevo di trovarlo tutto sommato lontano dal tipo di mystery che prediligo, e fin troppo convenzionale a causa di qualche elemento al suo interno ancora legato alla letteratura di fine Ottocento, che mi aveva un po' messo in allarme. Fin dalle prime righe, infatti, ci troviamo di fronte a uno stile molto schematico, il quale si traduce in un modo di esporre i fatti come una sorta di resoconto, rimandante ai rapporti che i poliziotti devono scrivere in merito ai casi su cui indagano: ogni cosa è riportata fin nei minimi dettagli, all'interno di una narrazione asciutta e senza fronzoli, dove i punti salienti vengono affrontati punto dopo punto in modo da ricordare una tabella mentale oppure una scaletta. Quando veniamo introdotti ai personaggi, essi ci vengono descritti fin da subito come individui che non si perdono in chiacchiere inutili, che affrontano i problemi di petto e sono abituati ad avere risposte pronte o comunque veloci da tradurre in azioni concrete. Non esistono piacevoli intrattenimenti come cerimonie del tè o divertenti facezie: il Cittadino richiede a gran voce una soluzione e non c'è tempo da perdere per trovarla. Inoltre, in un romanzo dove al centro di tutto stanno le forze dell'ordine, non ci si può aspettare che il lavorio mentale sia molto accentuato. Con questo non voglio affatto dire che gli agenti siano degli stupidi; anzi, al contrario, essi dimostrano di possedere l'importante caratteristica di saper prendere una decisione in fretta e di tramutarla in un'azione pragmatica. Di conseguenza, però, quest'opera di attività materiale viene a sostituirsi a quella psicologica del giallo "alla Agatha Christie" a cui gli appassionati sono di solito più legati, più affascinante di quella dei primi anni del secolo scorso, introducendo una narrazione dove non conta molto l'introspezione e la scena del crimine torna ad essere quella delle origini, con i rilevamenti scientifici e tutto quello che ne consegue. In terzo luogo, poi, mi intimoriva il fatto che "Uno Dopo l'Altro" potesse scadere troppo nel genere avventuroso, tipico del romanzo vittoriano. Macdonell, infatti, è conosciuto dai fan del romanzo del mistero per essere la "metà nascosta" del duo di scrittori che diede alle stampe "Il Mistero del Diario", l'opera prima di Milward Kennedy (il quale firmò il volume solo col suo nome) che non brilla certo per straordinari colpi di genio. A pensarci bene, c'è dell'ironia nel fatto che proprio con questo titolo di Macdonell sia stato ristampato pure "Il Capanno sulla Spiaggia". Ma bando alle ciance; l'importante è che temevo che l'autore fosse di quelli nostalgici e fin troppo legati a una letteratura il cui focus era ancora improntato all'intrattenimento puro e semplice dell'enigma "da cruciverba". Insomma, che questo fosse un tipo di libro diverso da quello inteso come giallo della Golden Age, dove il contorno è un'importante aspetto nella riuscita finale. Abbiamo la presenza del Sudafrica, zona che apparteneva all'Impero Britannico da molti anni e veniva tratteggiata come se fosse un paese all'altro capo del mondo, esotico e irraggiungibile; una serie di scenari che cambiano in continuazione, dalla periferia di Londra all'aperta campagna, dai sobborghi della metropoli a polverosi archivi di villaggi sperduti, dalle case di campagna a cittadine sul mare, i quali però non sono mai del tutto identificati dal lettore poiché l'azione si sposta velocemente da una parte all'altra; la presenza di personaggi legati a stereotipi, quali l'ex-galeotto oppure l'uomo-che-si-è-fatto-da-solo cinico e pieno di nemici pronti a tagliargli la gola, oltre al poliziotto testardo e incapace di formulare una teoria fantasiosa. Oltre ad essere dei cliché pericolosi da maneggiare, questi elementi lasciano trasparire una sorta di povertà di idee e mancanza di originalità che fanno seriamente temere per il risultato finale del romanzo.

Copertina dell'edizione più recente di
"Uno Dopo l'Altro" in lingua originale

Soprattutto, però, mi lasciava molto freddo l'idea che il caso fosse seguito da Scotland Yard nella sua interezza; quindi non solo dal punto di vista del protagonista (che è un ispettore di professione), ma pure con l'intervento nel caso da parte di fotografi, analisti di laboratorio, sovrintendenti e quante altre figure si trovano in un'istituzione complessa e articolata come la polizia metropolitana londinese, le quali di solito finiscono per togliere a mio avviso qualunque brio alla trama. Capirete, quindi, che non avessi chissà quali grandi aspettative da "Uno Dopo l'Altro". E invece, come dicevo, mi sono divertito a leggere questo romanzo giallo, trovandomi di fronte all'ennesima conferma del fatto che selezionare le nostre letture secondo pregiudizi legati alla preferenza spesso sia una stupidaggine. Può essere benissimo che, nonostante le apparenze, qualcosa che temiamo ci deluderà si possa rivelare una grande sorpresa. E nel caso di questo romanzo, è stato proprio il suo essere popolato da un mondo tanto strutturato quanto dinamico, e in qualche modo normale e privo di quelle trovate particolarmente originali che si trovano a ogni piè sospinto in un mystery classico, ad affascinarmi e a stupirmi, pur giocando in fatto di enigma su una variante interessante del delitto da serial killing. Ho trovato riposante seguire le vicende narrate da Macdonell; vicende che, tutto sommato, non sono caratterizzate da scoperte sensazionali (a parte un paio di colpi di scena abbastanza sorprendenti legati all'enigma) oppure da un ritmo serrato come se ad indagare fosse un segugio libero da vincoli burocratici. Però il ritmo solido e scorrevole ha conferito alla narrazione un perfetto equilibrio tra azione e riflessione, tra eccitamento per le scoperte che pian piano venivano alla luce e il placido incedere in questo percorso verso la verità. Credo sia questa la causa principale che mi ha spinto ad amare "Uno Dopo l'Altro" e che, già in precedenza, aveva influenzato il mio giudizio positivo di "Ipotesi per un Delitto" di Clifford Witting (ricordate che anche allora avevamo Charlton che interagiva con il suo sergente?). Pure qui ho semplicemente sorriso nell'immaginare i battibecchi tra Dewar e Bone, giocati sulla regione di provenienza del primo e sul fatto che il secondo, nonostante ricopra una carica importantissima all'interno di Scotland Yard, sia prima messo in difficoltà dalle pressioni che i suoi superiori gli fanno, e poi corretto in più occasioni dal suo sottoposto. Allo stesso tempo, però, l'incedere inesorabile della macchina della giustizia che mi ha guidato nel percorso fino alla verità, attraverso ricerche sfibranti e frustranti in tantissimi luoghi diversi, mettendo in luce quanto sia difficile per il tanto criticato poliziotto svolgere il proprio compito, mi ha dimostrato come il police procedural non abbia nulla da invidiare al più tradizionale mystery incentrato sul segugio dilettante (pp. 19-23, 30-35, 46-50, 52-53, 55-56, 59-63, 67-69, 72-75...).

La routine si è trasformata in una serie di passaggi i quali, al posto della prosaica descrizione che ci viene propinata di solito, hanno assunto la forma di esaltanti cacce all'uomo o al documento, di ricognizioni su scene del crimine, di interrogatori dove i sospettati si trasformano in sfingi a cui l'agente deve cavare le informazioni con le tenaglie. La visione di Scotland Yard che emerge da "Uno Dopo l'Altro" è quella di un'organizzazione in cui ognuno gioca un ruolo minore per il bene della comunità: non esistono capi, nonostante al suo interno ci sia una gerarchia effettiva, perché ognuno potrebbe essere quel "qualcuno" che serve nel momento del bisogno. Ad indagare sono esseri umani, con tutte le loro afflizioni ed emozioni e pressioni sociali, decisi più che mai ad aiutarsi l'un l'altro, a condividere esperienze comuni. Il rapporto che nella tradizione viene incarnato da un paio di individui come il protagonista investigatore e la sua spalla (pensate ad esempio a Poirot e Hastings), qui viene tratteggiato su scala più larga a includere personaggi che magari fanno un'apparizione fugace in un paio di scene e poi svaniscono, ma non significa che esso sia meno importante di quello tra due persone; anzi, se possibile viene sottolineato quanta importanza esso incarni per riuscire ad arrivare a una degna conclusione. Tutto ciò, almeno all'apparenza, sembra sia lontano anni luce da quanto troviamo di solito dentro un romanzo giallo; e invece dimostra quanti elementi comuni siano alla base di questo genere letterario capace di ramificarsi e dare vita a molteplici sottogeneri. E tutte quelle critiche che in un primo momento uno vorrebbe fare a libri come "Uno Dopo l'Altro" si dissolvono quasi del tutto. Lo schematismo che potrebbe intimidire e scoraggiare la lettura si trasforma in un elemento che va a sostegno di uno stile narrativo in cui è essenziale la logica; anzi, conferisce maggiore chiarezza al tutto. Predomina l'azione sul lavorio mentale, questo è vero; ma allo stesso tempo essa ci impedisce di annoiarci e, almeno in questo caso specifico, fa da contraltare in modo eccellente a quel poco di psicologia che viene sondato. L'uso della polizia come organizzazione che indaga, l'ho detto sopra, trova un'applicazione che restituisce le stesse sensazioni che avremmo se il caso fosse stato conferito a un dilettante e al suo Watson personale, dal momento che essa affronta di base la stessa missione contro il Male impersonato dall'assassino. Insomma, nonostante personalmente continui a preferire il giallo che si basa sullo studio della psicologia, come quelli di Berkeley e Christie, o quello che tratta un racconto di costume e approfondisce temi sociali quale quello di Sayers, inizio a nutrire un sincero rispetto per il mystery puro e incentrato sull'indagine logica vera e propria, introdotto da Arthur Conan Doyle e il suo Sherlock Holmes. Dopotutto, Macdonell non ha fatto altro che applicare l'approccio del segugio di Baker Street al punto di vista della polizia metropolitana di Londra, senza farci rimpiangere il romanzo più classico improntato sull'interpretazione dei comportamenti dei sospettati e delle loro passioni, rispetto a questa valida variazione del genere in cui sono i fatti pragmatici ad avere l'ultima parola.

Archibald Gordon Macdonell, nato
nel 1985 e morto nel 1941
A mio parere, "Uno Dopo l'Altro" rispecchia al meglio quale sia stata la formazione letteraria di Archibald Gordon Macdonell. Nato a Poona in India, nel 1985, lui fu figlio di un facoltoso mercante di Bombay il quale, tuttavia, quando il bambino aveva soltanto un anno, si trasferì col resto della famiglia in Scozia. Fu quindi in questo Paese che Archie compì gli studi, forte di un solido background che non gli fece mancare nulla. Nonostante ciò, la sua esistenza non fu tutta rose e fiori; a partire dall'ombra oscura costituita dalla Prima Guerra Mondiale che andava profilandosi dietro l'angolo. Macdonell, infatti, dal 1916 entrò a far parte assieme ai suoi coetanei della 51° divisione delle Highland nella Royal Field Artillery, ovvero quella sezione dell'esercito che i tedeschi soprannominarono "le signore dell'inferno" poiché i suoi soldati combattevano indossando il kilt. Si trattava di una formazione militare molto temuta e conosciuta, la quale diede all'autore motivo di orgoglio; ma sfortunatamente proprio a causa di ciò essa veniva spesso impiegata in operazioni rischiose che la decimarono e misero a dura prova. Di conseguenza, i suoi componenti soffrirono gravi traumi e lo stesso Archie fu costretto a tornare a casa con una diagnosi di PPT (sindrome da Stress Post-Traumatico), cosa che lo perseguitò per il resto della sua vita. In ogni caso, questo non gli impedì di farsi una famiglia: nel 1926 sposò Mona Sabine Mann e con lei ebbe una figlia, Jennifer. Inoltre, nel 1928 riuscì a dare alle stampe la sua prima fatica letteraria in fatto di crime story, quel "Il Mistero del Diario" che spiritualmente firmò in coppia con l'amico Milward Kennedy ma costui soltanto mise il proprio nome sulla copertina. Ancora mi domando come mai sia successo ciò; se Kennedy giocò un brutto tiro a Macdonell, oppure quest'ultimo rinunciò all'onore per il semplice fatto di aver messo poco di sé all'interno di quella specifica storia. Forse, però, la spiegazione è che Archie non era ancora interessato a seguire questa strada, dal momento che il suo interesse prevalente fu per la critica teatrale, campo in cui si distinse grazie ai suoi scritti per il "London Mercury", giornale che contribuì a fondare e del quale era direttore una altro suo grande amico, John Collings. Oltre a ciò, Macdonell è inoltre celebrato per essere stato uno scrittore satirico e per il suo "England, Their England", una sferzante critica sugli usi e costumi della società inglese che gli valse il premio James Tait Black Award. Gli appassionati di giallo, tuttavia, lo ricordano per ciò che produsse sotto gli pseudonimi di Neil Gordon e John Cameron: sei più due titoli nel solco della tradizione più classica, dove non manca l'ironia e un a forte dose di avventura sapientemente mescolata ad enigmi sorprendenti. Tra questi, vanno ricordati "The Professor's Poison", "Seven Stabs", "Body Found Stabbed" e "The Shakespeare Murders"; quest'ultimo a conclusione di una carriera che poteva dare molto di più, ma trovò un brutto arresto quando Macdonell, dopo essersi separato dalla prima moglie che lo accusava di adulterio ed essere convolato a seconde nozze con la viennese Rose Paul-Schiff, nel 1941 morì improvvisamente a Oxford, in seguito a un arresto cardiaco suscitato dalla sua debilitante esperienza di soldato.

La sua fu comunque un'esistenza piena di soddisfazioni, la quale influì sul suo modo di scrivere; e "Uno Dopo l'Altro" riflette proprio questo aspetto. Si tratta infatti di un libro ironico, come solo un grande della satira come lui poteva produrre, con i numerosi momenti in cui i personaggi vengono messi in ridicolo e una sottile vena critica verso i loro comportamenti più comici; dove non manca una buona dose di azione ma senza che questo aspetto prenda troppo il sopravvento, e nel quale l'enigma trova uno sviluppo che al tempo dovette sorprendere più di una persona, nonostante un piccolo intoppo causato dal Fato avverso. Dovete sapere, infatti, che agli inizi del Novecento il giallo sul serial killing, di cui questo "Uno Dopo l'Altro" è uno straordinario esempio, non era così diffuso come lo è ai giorni nostri. Nella nostra epoca, ormai, questo sottogenere è stato del tutto sdoganato, forse fin troppo; ma allora romanzi del mistero di questo tipo si contavano sulle dita di una mano. Come riporta Martin Edwards nel suo "The Story of Classic Crime in 100 Books", i delitti di Whitechapel attribuiti a Jack lo Squartatore (peraltro citati alle pp. 86 e 146) e gli omicidi di Ratcliffe Highway (per non parlare della vicenda del dottor Palmer) avevano già posto l'attenzione sul cosiddetto assassino seriale, pur non chiamando costui in tale modo, e spinto la letteratura fittizia ad occuparsi di uccisioni di massa indiscriminate ben prima dell'avvento della Golden Age; però era pur vero che in pochi avevano compreso la potenzialità di questo sottogenere del giallo. Giocare sul dilemma se la psicologia dell'assassino fosse del tutto preda di istinti selvaggi, oppure governata da un movente razionale, non si poteva ancora fare al meglio. Pertanto, come dicevo, i pochi che provarono ad esplorare questo tipo di giallo seguirono necessariamente strade simili; e alla fine si verificò proprio quello che gli scrittori temevano: due di loro si ritrovarono ad aver sfruttato lo stesso aspetto peculiare per spiegare il movente del loro omicida. Cosa che, come penso avrete capito, coinvolse Macdonell, il quale scoprì con disappunto come John Rhode, appena una anno prima, gli avesse soffiato l'idea senza volerlo. Se confrontiamo "Uno Dopo l'Altro" con XXXXX (non farò il nome per non rovinare la lettura a chi avesse già affrontato Rhode), infatti ci rendiamo conto di quanto entrambi giochino su una svolta caratteristica della trama, pur distanziandosi l'uno dall'altro nella resa complessiva. Detto ciò, non intendo affatto sminuire quanto sia comunque affascinante il romanzo di Macdonell: esso gareggia in modo eccellente proprio col libro di Rhode e i due ne escono alla pari, un po' al di sotto di "La Morte Cammina per Eastrepps" all'interno del sottogenere del serial killing ma con dignità.

Waterloo Place, London, 1899 (foto di Leonard Misonne)
Tutti e due, ad esempio, sono magnetici nel tenere incollato il lettore alle vicende che narrano; avvincono e permettono di esplorare, pur con alcuni limiti legati al ristretto spazio dedicato alla psicologia, la mente dell'assassino per scoprire quale sia stata la causa del suo malsano intento vendicativo, e tratteggiano la partita personale di quest'ultimo contro la polizia e l'ordine costituito continuamente messi alla prova e sfidati. Uno degli elementi dominanti nelle loro trame, inoltre, riguarda i metodi attraverso i quali le vittime trovano la morte, ed entrambe le storie spiegano in modo mirabile fin dove possa spingersi la follia sconclusionata e tutt'altro che ordinaria di un pazzo, nascondendo questa sua condizione sotto un'apparenza di civiltà che turba le coscienze. Tornando a concentrarci solo su "Uno Dopo l'Altro", però, troviamo invece alcune peculiarità nella trama. Innanzitutto essa è stratificata più di quanto uno si aspetterebbe, con un colpo di scena a metà della storia che rimescola tutte le carte e, nonostante una conclusione affrettata e un po' troppo precipitosa, apre a nuovi scenari come pochi altri sono riusciti a fare. Anche se la scienza non occupa uno spazio più di tanto preponderante nel racconto, il necessario tecnico per poter comprendere la logica delle uccisioni e ciò che ne consegue viene fornito a chi legge (penso alla balistica per stabilire se alcuni colpi di pistola sono stati sparati da una stessa arma. L'ironia, come ho detto, è molto più presente nel giallo di Macdonell rispetto a quello di Rhode, dove tutto è serio come ci si aspetterebbe da una storia raccontata da un signore tutto d'un pezzo come lui. Ci sono più digressioni in "Uno Dopo l'Altro", le quali tuttavia restano confinate in brevi paragrafi per essere adeguate al ritmo del romanzo: sui brevi incontri che Dewar fa con le persone che possono aiutarlo ad avanzare verso la scoperta della verità, sui luoghi che egli visita, su moltissimi aspetti dello stesso caso investigativo di cui egli si occupa. Personalmente, mi è rimasto impresso tra gli altri il buffo scambio di battute tra l'ispettore e l'agente esperto degli scavi geologici, come pure la gita a Petworth del poliziotto (pp. 69-70, 87, 91, capp 13-14...). I cliché abbondano, sfortunatamente, dal momento che sono peculiari nello stile di Macdonell assieme al carattere avventuroso del racconto; questi sono il punto dolente dell'intera indagine, basata forse troppo su di essi per potersi dire davvero "da Golden Age". Infine, a differenza di quanto accade negli altri libri di questo genere che ho preso in considerazione, il carattere da police procedural è molto accentuato. Ma questa non è una novità per voi che leggete questa recensione.

Una cosa, tuttavia, mi preme sottolineare per concludere: si tratta del tratteggio dei personaggi, legato proprio a questo elemento poliziesco. Nonostante siano un po' tutti quanti ritratti come macchiette sarcastiche o individui a volte poco, a volte troppo originali per essere del tutto credibili, nelle loro azioni i membri di Scotland Yard, in particolare, assumono un ruolo totalmente diverso. Le caratterizzazioni dimostrano lo sforzo che Macdonell fece per infondere loro una minima parvenza di vitalità: fece esprimere loro gioie e dolori, frustrazione e delusione per essersi fatti gabbare dall'assassino, dinamismo nello svolgere il proprio gravoso compito, ligi al dovere, sicuri di sé davanti ai superiori ma segretamente dubbiosi. Sono esseri umani in carne ed ossa, i quali si sforzano per aiutarsi tra colleghi e battibeccano coi i capi, sentono la pressione della stampa sulle loro spalle e si impegnano a rispettare i protocolli senza abusare del proprio potere, e soprattutto agiscono come un sol uomo. Mi è piaciuto che l'autore abbia compiuto un'azione del genere, poiché avvicina il lettore alle difficoltà del poliziotto e gli fa comprendere come la sua non sia una figura da schernire, quanto da compatire. Nonostante abbiano prodotto romanzi più riusciti dal punto di vista dell'enigma, J.J. Connington e Clifford Witting (coi loro Sir Clinton Driffield e ispettore Charlton) non sono riusciti a rendere tanto bene quanto Macdonell come la macchina della giustizia di Scotland Yard sia composta da tanti ingranaggi che si muovono tutti assieme. Infatti, sulla carta il protagonista è Dewar (pp. 45-46, 68, 83-84, 91-92, 111-112, 121-123...), ma in realtà non c'è mai un battitore libero che orchestra gli sforzi degli altri agenti per catturare il colpevole (nemmeno Bone ci riesce): finora la polizia era stata incarnata da un deus ex machina capace di catalizzare su di sé l'attenzione e mettendo in ombra i sottoposti (vedasi i poliziotti sopra citati), invece in "Uno Dopo l'Altro" è la comunità a garantire il successo dell'impresa. Se proprio volessimo trovare qualcuno da far spiccare sul gruppo, potremmo prendere in considerazione proprio l'ispettore e i sovrintendente, antitesi l'uno dell'altro ma indispensabili tra loro per riuscire a concludere l'inchiesta. Il primo è giovane, vigoroso, rigoroso, inesperto, scozzese; il secondo saggio, sedentario, acuto, londinese e più anziano. Si prendono in giro l'uno con l'altro, si sostengono di fronte ai superiori, avanzano ipotesi diversissime e si sfidano per trovare la soluzione, in una sorta di gara dove il vincitore deve essere Dewar, dal momento che Bone è "già arrivato". Formano una coppia stupenda e una grande squadra, la quale muove tutto ciò che sta intorno e impedisce di annoiare: sono a caccia e fanno sul serio.

Insomma, per tirare le fila del discorso e mettere un punto a questo lungo flusso di coscienza. "Uno Dopo l'Altro" soffre di sicuro di alcuni difetti che impediscono di collocarlo tra i capolavori del genere giallo. Come dicevo, i cliché e la vena avventurosa forse un po' troppo calcata allontanano il romanzo da quella perfezione a cui ci hanno abituato i Grandi Autori della Golden Age. Inoltre, il cardine della storia non è originale per la "questione Rhode" e la storia non si sofferma molto sull'indagine interiore del lato psicologico del delitto, come all'assassino non viene data quella profondità caratteristica dei colpevoli più diabolici e astuti. Però non mi sento di condannare l'approccio con cui il caso è stato intrapreso. Su Internet mi è capitato di leggere che quest'ultimo è stato paragonato a quelli delineati da Freeman Wills Crofts, il quale è rimasto famoso nel tempo per la cura nei dettagli e per l'ossessiva strutturazione delle indagini che inventava; ecco, in un certo senso anche Macdonell ha compiuto un'operazione del genere. C'è del metodo nella ricerca di un modo per collegare la morte di tante persone così diverse tra loro, nello sfruttamento delle complete forze di polizia e nel far quadrare una certa svolta del caso fino a metà del racconto. "Uno Dopo l'Altro", alla fin fine, è un romanzo solido e leggibile, che intrattiene e fa passare il tempo molto velocemente, tanto che io stesso mi sono stupito della rapidità con con l'ho portato a termine. Bisogna considerarlo più come la narrazione di un processo fluido, in cui accadono atti casuali e commessi da un pazzo il cui movente non è da ricondursi a cause strabilianti e particolarmente profonde, rispetto a un giallo dove gli indizi vengono forniti di fair play. Questo è il segreto per poterlo apprezzare al meglio. Da parte mia, ribadisco come abbia apprezzato comunque il risultato finale: emozionante, ironico e arguto. E condivido il giudizio che i critici Barzun & Taylor diedero a "Uno Dopo l'Altro": "Un primo e impressionante esempio di routine poliziesca, pieno di legittima azione e completo di contrasto tra superiore e subordinato. La varietà e la sorpresa negli incidenti mantengono un alti grado di tensione e l'individuazione è solida quanto la spiegazione, che viene in mente al lettore pochi secondo prima dell'ispettore scozzese Dewar. Quando arriva, essa costituisce quello che è probabilmente un primo esempio del suo utilizzo [NB. non è così]: nel complesso un libro da amare per il suo valore e il suo ingegno".

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venerdì 13 novembre 2020

51 - "Il Capanno sulla Spiaggia" ("I'll Be Judge, I'll Be Jury", 1937) di Milward Kennedy

Copertina dell'edizione pubblicata da
Polillo Editore/Rusconi

Questo è un grande giorno per Three-a-Penny e per il sottoscritto. Con il post di oggi, infatti, raggiungo un traguardo che mi ero prefissato da moltissimo tempo: collaborare (pur molto alla lontana) con Polillo Editore, rilevato da Rusconi appena un anno fa. Se ben ricordate, infatti, le vicissitudini che questa casa editrice ha dovuto affrontare non sono state poche e semplici: ha subìto un primo stop quasi dieci anni fa, poi una ripresa nel 2016 che era coincisa con l'agognata pubblicazione di "Morte in Ascensore" di Alan Thomas, una delle camere chiuse più celebrate della classica crime story; poi ancora una nuova brusca fermata in concomitanza con l'uscita di "Il Mistero della Candela Ritorta" di Edgar Wallace, alla quale era purtroppo seguita la morte del patron dei Bassotti, Marco Polillo. A questo punto, devo ammettere che avevo un po' perso la speranza che la collana sarebbe stata ripresa in mano da qualcuno; e invece, per fortuna, è subentrata Rusconi e sono stati annunciati nuovi titoli molto interessanti. Eppure, i guai non erano finiti: come se tutto ciò non fosse bastato, infatti, ci si è messa di mezzo la pandemia di Coronavirus, a ritardare ulteriormente la pubblicazione di "Il Capanno sulla Spiaggia" di Milward Kennedy e qualche altro romanzo giallo, in procinto di uscire nelle librerie. Ma ora ci siamo sul serio: alla fine di ottobre l'editore mi ha gentilmente spedito un paio di mysteries nuovi di zecca (con una brossura forse migliore di quella già ottima di qualche anno fa) e mi sto apprestando a recensirli, dopo averli letteralmente divorati entrambi nell'arco di una settimana. Si tratta, come dicevo, di un traguardo che sento di aver toccato con notevole sforzo: fin da quando ho iniziato a studiare il classico romanzo giallo, infatti, mi ero prefisso l'obiettivo di fare qualcosa di concreto per sdoganare una volta per tutte questo genere letterario, tanto bistrattato in Italia e considerato con un ingiusti pregiudizio come "narrativa di serie B". Polillo è stata e resta tutt'ora la fonte primaria da cui ho attinto e attingo per le recensioni su Three-a-Penny e per le mie letture a tema, e sono convinto che tutti dovrebbero capire quanto sia stata difficile la sfida che ha dovuto affrontare per affermarsi nella cerchia di appassionati di giallo della Golden Age. Pertanto, erano anni che avevo l'intenzione di contattare chi dirigeva la casa editrice per proporre il mio sostegno e "fare qualcosa" di concreto per questo tipo di romanzo.

Fino a quest'anno, tuttavia, non sono mai riuscito a trovare un mezzo adatto per fare ciò. Finché Marco Polillo era in vita, una volta ho provato a farmi avanti; ma probabilmente si trattava già di un periodo in cui lui non stava bene e, quindi, non penso fosse interessato a dare vita a nuove collaborazioni, quando aveva cose decisamente più importanti a cui pensare. Inoltre, il fatto che il destino della casa editrice fosse precario e che essa stessa occupasse un posto molto ristretto nell'ampio campo dell'editoria, credo che abbiano influito sul mio insuccesso. Ma ora, per fortuna, questi ostacoli sono caduti e, come dicevo, eccomi pronto a recensire per voi i due titoli che Rusconi ha dato alle stampe il mese scorso; fin da oggi, comunque, vi posso anticipare che sono previsti altri volumi in procinto di pubblicazione, nonostante le date siano ancora incerte a causa della pandemia e siano in gioco altri fattori tecnici. Dunque, ecco quale strada seguirò per affrontare il mio compito: l'analisi di "Uno Dopo l'Altro" di A.G. Macdonell arriverà la settimana prossima, e quella di "Il Capanno sulla Spiaggia" di Milward Kennedy (Polillo Editore/Rusconi, 2020) sarà l'oggetto della discussione di questo post. Prima di entrare nei dettagli di tale romanzo, tuttavia, voglio spendere qualche parola sul fatto che questi due siano molto diversi tra loro: sicuramente ve ne accorgerete voi stessi, se avrete la bontà di leggere le mie recensioni a riguardo oppure deciderete di leggerli per conto vostro, ma sappiate che trattano misteri del tutto differenti, con elementi agli opposti i quali vengono declinati seguendo sottogeneri che hanno pochissimi punti di contatto: infatti, se il libro di Macdonell è strutturato in modo da dare risalto alle forze di polizia, ai loro metodi e a un'indagine imperniata sulla routine e del tipo "pragmatico", quello di Kennedy affonda le proprie radici nello scandagliare la psiche umana e sulle conseguenze che la pazzia e la perversione umana suscitano nelle persone. Nonostante in "Uno Dopo l'Altro" l'antagonista sia un pazzo, infatti, gli approcci alla sua figura, alla decifrazione della sua mente contorta e ai metodi attraverso i quali si deve passare per sconfiggerlo sono davvero diversi. In "Il Capanno sulla Spiaggia" non contano tanto i contorni, le digressioni, gli scenari e il processo che condurrà alla cattura del colpevole, quanto ciò che scaturisce dai personaggi e dalla corruzione morale che essi incarnano, nonostante ci sia un tentativo di riscatto da parte loro.

Bathing Machines (Aldeburgh, Suffolk), Eric Ravilious,
1938, il quale raffigura una spiaggia simile a quella di Vinery
La storia si svolge nello scenario di una striscia di terra costiera dell'Inghilterra, tra le cittadine di Bury, Bury-on-Sea e Vinery. In un punto all'interno di questo triangolo, proprio davanti alla spiaggia che dà sul mare, si trova il capanno sulla spiaggia del titolo italiano, che in realtà è un grosso padiglione per le vacanze di proprietà di Hilary Stephens. Costui è un giovane inglese dall'aspetto distinto, il quale si occupa dell'amministrazione del patrimonio che alcuni amici tristemente deceduti hanno lasciato alla loro unica figlia, Mary Dallas, la quale in quel momento di trova in vacanza da quelle parti assieme al marito John, nell'unico albergo signorile di Vinery. Stephens non ha approvato il matrimonio tra Mary e John, per cui i rapporti tra i tre non sono dei più cordiali; eppure, il giovane tutore non manca di soddisfare tutti i desideri della sua protetta, e nonostante ella abbia preferito soggiornare in un hotel invece di approfittare della sua ospitalità, le cose vanno abbastanza bene. O almeno così sembra, dal momento che, proprio all'inizio del racconto, Stephens ci viene presentato come cadavere all'interno del suo padiglione. È l'alba e, quasi contemporaneamente, Mary si sta avvicinando dalla spiaggia all'edificio: indossa solo la parte inferiore di un succinto costume e sta attendendo l'arrivo del suo amante, il gigolò George Needham. Fin da subito, appare chiaro come la ragazza sia una donna con una personalità alquanto lasciva, pronta a gettarsi tra le braccia del primo arrivato per il solo desiderio di far ingelosire il marito, il quale a sua volta dà tutta l'impressione di aver smesso di amarla e pare intenzionato a correre dietro a qualche ragazza ancora più giovane di Mary. Eppure, quando lei si intrufola nel capanno per prepararsi a ricevere George e scopre il corpo raggomitolato sul pavimento, capisce subito di essersi cacciata in un grosso guaio a causa della sua condotta riprovevole e si pente del gesto avventato. Però George, che arriva di lì a poco, non ha alcuna intenzione di farsi scaricare da Mary, e le mette in testa l'idea che, se qualcuno dicesse a John come mai lei si trovava al padiglione, non solo rischierebbe di perdere qualunque posizione di potere sul marito, ma pure di essere incriminata per l'assassinio di Hilary.

Spaventata dal precipitare degli eventi, Mary si fa convincere da Needham a spostare il cadavere in modo che la causa della morte appaia come un incidente: Stephens deve essere scivolato, battendo la testa e uccidendosi per una tragica fatalità. Inoltre, nessuno di loro due deve lasciar trapelare il fatto di sapere che il giovane tutore è arrivato a Vinery; toccherà allo sfortunato che rinverrà il suo corpo dare tutte le spiegazioni. Così, George e Mary si separano (dopo che l'uomo ha strappato alla donna disgustata la promessa di un nuovo incontro amoroso): Needham torna alla sua vita fatta di cocktail party e flirt, mentre la signora Dallas torna da suo marito, col tremendo peso della scoperta di un crimine efferato come l'omicidio a gravarle sulle spalle. Sgusciata nel suo letto, nella stanza in cui dorme sola a causa dei contrasti con John, Mary si strugge al pensiero che una disgrazia del genere sia piombata sulla sua vita già frustrata da odi e insoddisfazione; e come farà a non lasciarsi sfuggire nulla sulla morte di Hilary, neppure con Dallas? Non appena l'uomo le dà il buongiorno, capisce subito che sarà durissima tenere la bocca chiusa e fingere di essere spensierata. Da parte sua, infatti, John nota immediatamente come la moglie sia sottoposta a un forte stress: trema come se un fastidioso vento gelido si stesse abbattendo sulle sue spalle, risponde a scatti e con toni molto bruschi pure per una donna arrabbiata e gelosa, e fa domande strane su Hilary. Poi, il fatto che una lettera del suo tutore sia arrivata in ritardo proprio a John sembra averla sconvolta oltre ogni dire... E il motivo, il lettore, lo capisce ben presto: Mary teme che John sappia già cosa è accaduto a Hilary, dal momento che è lui il suo assassino. Più di una volta, riflette la ragazza, la sua "dolce" metà ha manifestato il desiderio di chiedere a Stephens una grossa quantità di denaro, e adesso che lui è morto l'eredità cadrà nelle mani sue e in quelle della moglie. Possibile che John abbia compiuto un atto degenere come quello? E ora, sarà capace di fermarsi o anche lei diventerà una vittima da sacrificare all'altare del Dio Denaro? In un crescendo di nuove scoperte e di sospetti che si alimentano sempre più, Mary e John (ma pure George e la nuova fiamma di Dallas, Kitty Harvey) inizieranno a sospettare il peggio l'una dell'altro, in un crescendo di incomprensioni e gelosie che includeranno un tentativo di assassinio; e culmineranno sì nella scoperta del colpevole, ma dando al lettore uno scossone che non dimenticherà facilmente.

 Il famigerato dottor William Palmer, accusato di
aver avvelenato ben sei persone e uno degli
assassini più famosi d'Inghilterra
Una cosa che non capirò mai è perché Milward Kennedy sia tanto trascurato, come autore di romanzi gialli classici. Voglio dire, basta leggere questa trama per capire quanto "Il Capanno sulla Spiaggia" abbia tutte le carte in regola per essere un romanzo straordinario. E siccome mi sento di giudicare allo stesso modo pure "Il Caso della Zitella Acida" che ho letto e recensito pochi mesi fa, il mio disappunto si fa ancora più forte; soprattutto perché so che quest'ultimo è stato stroncato senza tanti complimenti. Eppure, come dicevo, per quanto mi riguarda sia l'uno che l'altro sono assolutamente da considerarsi grandi prove di audacia e di sperimentazione letteraria nel campo del romanzo del mistero; e se non si può dire che esse siano storie perfette, perlomeno si deve riconoscere quanto abbiano contribuito a dare uno scossone a un genere che rischiava di fossilizzarsi troppo su se stesso. Per tornare a concentrarci sul giallo recensito oggi, infatti, "Il Capanno sulla Spiaggia" è qualcosa che al giorno d'oggi riesce ancora a lasciare un segno sul lettore e a trasmettere un forte sconvolgimento interiore, nonostante non arrivi a raggiungere il livello di altri capolavori (questi sì, guarda caso!) riconosciuti. In questa storia, ci sono alcune ingenuità e non si può dire che il mistero della morte di Hilary Stephens sia tanto oscuro da risultare in un colpo di scena per il lettore navigato e appassionato di mystery classico: il "problema" più grande, infatti, è che la cerchia dei personaggi sospettati è molto ristretta, comprendendo appena Mary e John Dallas, assieme a George Needham e a Kitty Harvey. Cosa, questa, che non ci permette di fare chissà quali congetture su chi sia l'assassino/a. Inoltre, rispetto a un tradizionale giallo della Golden Age, in questo caso non troviamo affatto quelle digressioni che fecero la fortuna di Dorothy L. Sayers oppure Richard Austin Freeman, e nemmeno il tratteggio approfondito del contesto in cui questi stessi personaggi vengono immersi. Con questo non intendo dire che non esista affatto; solo, in questo aspetto Kennedy si avvicina più alla parca descrizione di Agatha Christie che alla possente logorrea dettagliata di Sayers. Credo siano queste le critiche più grandi e gravi che vengono rivolte a Kennedy, e che abbiamo ritrovato in "Il Caso della Zitella Acida" e pure in "Il Capanno sulla Spiaggia". In aggiunta, poi, se penso al tipo di crime novel più classica che un appassionato possa desiderare, mi verrebbe da imputare a questo romanzo il fatto che difetti di quel fair play al quale in tantissimi sono legati: quando arriviamo a scoprire chi è il colpevole, in qualche modo egli (o ella?) ci cade tra le braccia senza che ci siano grandi elementi da sfruttare per confermare la tesi di chi si è preso la briga di mettere in piedi una sorta di indagine. O meglio, c'è qualcosa che suggerisce senza dubbio come questa persona si sia tradita; però non si tratta del celebre mozzicone di sigaretta caro a Sherlock Holmes, oppure una prova materiale che si possa analizzare e presentare a una giuria, come quelle che sfrutta il dottor Thorndyke.

Questo elemento ha un carattere quasi psicologico; ed è proprio su questo aspetto che gioca "Il Capanno sulla Spiaggia": sulle suggestioni, sulle emozioni e sulle ipotesi che vengono alla luce nei personaggi e come conseguenze delle loro azioni. Per il lettore spassionato, che cerca un titolo capace di dargli un semplice svago e di liberargli la mente, questa può essere una nota di demerito, dal momento che si concentra sulla psicologia dell'individuo e mette in moto una serie di ragionamenti complessi e decisamente poco "riposanti". Però, come non mi stancherò mai di dire, la classica crime story anglosassone non è soltanto delitti all'ora del tè e corpi rinvenuti nelle biblioteche e negli studi delle case di campagna. Una delle cose più belle del "giallo" è proprio questa sua capacità di saper andare oltre, all'occorrenza, e non limitarsi a raccontare una storia per il nostro divertimento, ma affondare una lama di luce negli oscuri meandri che la nostra mente può generare e raccontare qualcosa che non è così immediato. "Il Capanno sulla Spiaggia" di Kennedy compie proprio un'operazione del genere, rinunciando ad appoggiarsi a un tipo di mistero più convenzionale per gettarci in faccia con una durezza, un'asprezza, una crudezza e una sconcertante verità, situazioni al limite dell'agghiacciante o comunque poco confortevoli (l'inizio è tutto fuorché tradizionale, con una donna mezza svestita e un assassino che ansima dietro una tenda mentre la osserva); proprio come avrebbe poi fatto il giallo psicologico a partire dagli anni '50 del secolo scorso (7-12, 14-15, 21-23, 25-28, 37, 43, 58-60, 79-80, 95-98, 135-136, 150-151). Il via lo aveva dato Anthony Berkeley con "L'Omicidio è un Affare Serio", a firma Francis Iles, e su quella scia aveva continuato con "Il Sospetto" (il quale viene chiaramente richiamato proprio da Kennedy in questo romanzo) e "As For the Woman"; poi la cosa era passata di grado in grado attraverso altri autori come Richard Hull e gli Ironici, fino a toccare la narrativa di Julian Symons e giungere a quel capolavoro della letteratura americana che è "Il Talento di Mr. Ripley" di Patricia Highsmith. Allo stesso modo, Kennedy si inserì in questo filone e, da stretto collega e amico di Berkeley, ne assimilò la lezione forse meglio di chiunque altro suo contemporaneo. Dopotutto, come dicevo sopra, "Il Capanno sulla Spiaggia" non è altro che un'intrigante variazione della trama di "Il Sospetto", nonostante qui Mary Dallas non sia una donna inerme come Lina Aysgarth, ma piuttosto una persona pronta a combattere fino alla fine per non soccombere. Kennedy riuscì così a descrivere la banalità superficiale di tutti noi, attraverso scene che hanno l'apparenza delle quotidianità più noiosa ma celano segrete menzogne e foschi desideri di passione e di odio; il sospetto si insinua nei discorsi dei suoi personaggi e mette in mostra come chiunque di essi abbia una coscienza sporca; l'ipocrisia regna sovrana, insieme a una fitta rete di menzogne che finisce per avvincere il bugiardo in una trappola che egli stesso ha creato e auto-convincerlo. Come non scorgere il mite e spietato dottor Bickleigh, nei personaggi di "Il Capanno sulla Spiaggia"? Ecco, a differenza di Berkeley, Kennedy lascia uno spiraglio all'amore e alla sua forza nel riuscire, con l'affetto, a guarire una persona dalla malvagità in cui essa è calata; ma non sempre le cose vanno per il verso giusto e bisogna mettere in conto che non esiste un automatico lieto fine per tutti. È per tutti questi motivi che mi domando come mai Milward Kennedy non riesca ancora ad essere ampiamente  considerato come uno dei Grandi. A mio parere, ha fatto un grosso lavoro nel far compiere un passo avanti al genere giallo, sperimentando con i mezzi che aveva a disposizione, e nonostante alcune ingenuità è riuscito in una vera e propria impresa. Chiunque ora sia appassionato di thriller, dovrebbe ringraziarlo per essere uscito dalla strada battuta in favore di una lunga serie di tentativi per cambiare lo stato delle cose.

Milward Rodon Kennedy Burge,
nato nel 1894 e morto nel 1968

Con un risvolto amaramente ironico, tuttavia, questa fortissima voglia di far in qualche modo evolvere la classica crime story in un genere più moderno e strabiliante causò non pochi guai a Milward Rodon Kennedy Burge, il quale si trovò a dover far fronte agli strani giochi del Destino che lo condannò ad assaggiare la stessa amara medicina che lui stesso somministrò coi suoi romanzi sarcastici: ovvero, il mettere ferocemente in discussione il prossimo. Nato nel 1894, egli studiò al Winchester College e al New College di Oxford, prima di servire nel Military Intelligence Directorate of the War Office e ottenere una Croce di Guerra. In seguito, lavorò al Cairo per il Ministero delle Finanze e a Ginevra per l'International Labour Office; organizzazione per la quale diresse per qualche tempo la sede londinese fino al 1945, con una sola pausa per recarsi ad Ottawa al Servizio Informazioni Militari. Nel frattempo, a partire dal 1928, su esempio di altri illustri colleghi come John Rhode, Christopher Bush e Henry Wade, aveva iniziato a perseguire la carriera di giallista e ad interessarsi alle pratiche giuridiche (cosa che gli tornò utile quando, nel secondo dopoguerra, curò il repertorio giuridico dell'"Empire Digest"), pubblicando un romanzo che fondeva avventura e mistero scritto assieme a Neil Gordon, pseudonimo dello scrittore scozzese A.G. MacDonell, anch'esso appassionato di letteratura crime. "Il Mistero del Diario", tuttavia, recò in definitiva solo il suo nome sulla copertina. Ad esso, fecero seguito altri diciannove romanzi di genere, alcuni scritti sotto pseudonimo (Evelyn Elder, E. Grubb, Gasko), tra i quali vanno ricordati "The Murderer of Sleep", "Murder in Black and White" (il quale figura sotto la produzione di Elder e ha una struttura quadripartita, con tanto di sfida al lettore e una serie di immagini sul genere di "The Norwich Victims" di Francis Beeding), "Bull's Eye" e "Corpse in Cold Storage", questi ultimi due incentrati sulla figura di Sir George Bull, un investigatore privato di origini aristocratiche. I più importanti in assoluto, tuttavia, furono quei tre che ebbero in qualche modo a che fare con la disavventura che mise fine alla sua carriera di giallista: "Il Caso della Zitella Acida", "Il Capanno sulla Spiaggia" e "Death to the Rescue", dedicato ad Anthony Berkeley.

A causa di quest'ultimo romanzo, infatti, nel 1937 Kennedy venne citato in giudizio e processato per diffamazione. Come saprete se avete letto la recensione di "Il Caso della Zitella Acida", l'autore era fin troppo puntiglioso nel riportare nella finzione casi reali; ebbene, in questa occasione Philip Yale Drew, processato per omicidio, assolto e rovinato per il resto della propria vita dall'accusa che continuava a pendere sulla sua testa, lamentò con tanta forza il fatto che l'assassino di "Death to the Rescue" gli assomigliasse fin troppo, al punto da recare un danno alla propria immagine, che l'audacia dell'autore risultò andare troppo oltre. A nulla valsero le scuse di Kennedy e l'editore Gollancz: lo scrittore perse la causa, e ciò risultò in un duro colpo alla propria vena creativa, la quale si estinse ben presto (non dopo una certa rivalsa grazie a "Il Capanno sulla Spiaggia") e lo costrinse a un graduale abbandono delle scene, fino alla morte avvenuta nel 1968. Per quell'anno, tuttavia, lui era riuscito a lasciare un'eredità importante nel campo della letteratura del mistero: sia per conto proprio, come recensore per il "Sunday Times", sia quale membro del Detection Club. Kennedy, infatti, fu il più giovane membro maschile a partecipare alla fondazione dell'associazione; fu giudice nelle iscrizioni che i lettori inviarono per gareggiare nella scoperta della soluzione di "Il Paravento"; contribuì alla creazione di "L'Ammiraglio alla Deriva" e "Chi è il Colpevole?", i romanzi collettivi scritti coi colleghi del Club; scrisse un testo per "Great Unsolved Crimes", una raccolta di saggi che riesaminavano casi reali assieme ai suoi compagni; fu una delle tredici persone che parteciparono al "Trent Dinner", l'occasione che festeggiò il ritorno sulle scene del protagonista dell'innovativo "La Vedova del Miliardario" di E.C. Bentley. Oltre tutto, Kennedy è riuscito ad affrontare la sfida di autore di romanzi del mistero in modo da innovare il genere; non ai livelli di illustri colleghi come Sayers, Christie e Berkeley, ma sviluppando nuove idee che lasciano tutt'oggi sorpresi. L'immagine che ci resta di lui, un tipo dall'aspetto serio e occhialuto, può trarre in inganno: in realtà fu determinato, audace e dedicò molte energie sulla riflessione dello sviluppo migliore del genere giallo.

Anchor and Boats (Rye Harbour, East Sussex), Eric Ravilious,
1938, che raffigura una spiaggia come quella di Vinery
Nelle dediche ai suoi romanzi più famosi, "Death to the Rescue" e "Il Caso della Zitella Acida", fece riferimento alle conversazioni che ebbe con Berkeley e Sayers, sfidandoli a trovare una via per portare il mystery su un nuovo piano, e non risparmiò critiche ai detrattori. Lui stesso si impegnò nell'introdurre elementi di rottura col passato nei propri libri, come testimonia il romanzo che ho recensito oggi: in esso, gli elementi più classici della fiction del giallo non vengono esaltati (penso all'ambientazione oppure al mistero inteso in modo tradizionale) per dare più importanza a una storia dove a dominare è la psicologia e gli aspetti derivati dal caso. Sono i moventi, la rispettabilità e un forte senso di doppiezza e segretezza, ad orchestrare le vicende dell'inchiesta sulla morte di Hilary Stephens. L'atmosfera generale della storia è spesso caratterizzata da un tono di sgradevolezza, da un'aura pesante come una cappa che viene acuita dal sospetto e dall'incomprensione che si manifesta tra i personaggi, i quali sono raffigurati come vittime e carnefici in un sistema malato. Nonostante in questo caso la trama non si ispiri a un caso di true crime (a meno di considerare quello che vide accusato a condannato il dottor Palmer, il quale fece da spunto per "Il Sospetto" di Francis Iles"), anche in "Il Capanno sulla Spiaggia", man mano che la storia si snoda davanti ai nostri occhi, ci rendiamo conto di come sul fondo si stagli sempre più un'ombra di malsana ambiguità. Penso che la batosta subìta per colpa di Drew avesse scottato Kennedy e per questo non si sia spinto troppo in là nel raccontare una vicenda reale (mise una clausola contro la diffamazione proprio in apertura di "Il Capanno sulla Spiaggia"); ma questo non significa affatto che questo suo ultimo grande romanzo giallo sia scadente. In esso è riuscito a dare una variazione straordinaria al caso di Palmer, come solo gli autori della Golden Age tanto appassionati di storia del crimine avrebbero potuto fare. In secondo luogo, inoltre, l'autore ha sfruttato quella vicenda vera per compiere un'azione molto simile a quella di Berkeley: ha messo in scena, infatti, una feroce critica alla giustizia e al senso della verità che si manifesta attraverso il sentimento (dis)umano degli individui. A discapito degli indizi materiali, ciò che interessò Berkeley e Kennedy furono la psicologia e ciò che si cela dietro la maschera della rispettabilità: quel groviglio di passioni ed emozioni che riesce a dare vita non solo al mistero sulla carta, ma ad evocare in tre dimensioni la figura dell'assassino. Gli effetti della colpa, come essa agisce nella coscienza, cosa spinge un essere umano a diventare un mostro hanno affascinato schiere di giallisti del Novecento, spingendoli ad escogitare nuove forme per esprimere la follia del colpevole, attingendo a volte, come si è visto, da omicidi reali ed interpretandoli a modo loro. Kennedy, su esempio di Berkeley, concentrò la propria attenzione sull'individuo come tassello del puzzle, e attraverso esso capì come fosse possibile mandare un messaggio forte e chiaro, per accusare con tono sarcastico e cinico alcuni comportamenti erronei e controversi della natura umana e della società che ne è espressione. E per farlo, decise di rappresentare al meglio come l'insieme degli uomini e delle donne sia composto, in una concezione estremamente misantropa, da individui maligni e fondamentalmente cattivi.

Secondo quanto emerge dalle vicende ambientate a Vinery, non solo l'uccisione di Stephens denota un forte disagio nella mente dell'assassino, ma anche nella trattazione dell'indagine e nei suoi sviluppi emerge quanto sia sbagliato l'approccio ad esso. La polizia, ad esempio, gioca un ruolo del tutto marginale nella scoperta dell'assassino; anzi, ciò che ho ricavato dalle mie conclusioni finali, essa ha archiviato il caso come irrisolto senza aver fatto nulla di concreto! Inoltre, la vittima non viene lasciata riposare in pace, poiché la malevolenza del popolino ha sollevato pettegolezzi che contribuiscono ad esasperare le parti coinvolte e a far precipitare gli eventi fino allo sconvolgente finale. Non c'è riguardo per chi sarà sospettato di aver compiuto crimini orrendi; la gente se ne infischia di quale questione spinosa potrebbe sollevare il proprio comportamento (pp. 47-48, 58-60, 126, 128-129, 162-164, 166-167). Questo rimestare nel torbido con morbosità è un carattere che si è trasmesso fino ai giorni nostri, e sembra proprio che agli inizi del Novecento ciò fosse già una pratica diffusa. Ciò fa riflettere sul potere intrinseco dell'opinione pubblica, la quale può diventare uno strumento pericoloso nelle mani di individui senza scrupoli (come in "La Morte Cammina per Eastrepps") o di gente incapace di controllarla; e penso che questo sia un valore aggiunto alla qualità di "Il Capanno sulla Spiaggia" e sulla narrativa di Kennedy, da molti sottovalutata. Ma gli stessi sospettati sono rovina per il loro destino, dal momento che inconsapevolmente alimentano queste voci e danno l'impressione, a chi li circonda, di avere la coscienza sporca. Penso a Mary Dallas, la quale si divide nell'incarnazione di una figura tragica, sommersa dagli eventi e incapace di far loro fronte, destinata a un passivo subìre i pericoli in cui incappa, e di una sorta di odiosa e terribile vendicatrice, la quale non ha pietà di nessuno ed escogita sotterfugi per salvaguardare se stessa (pp. 9-11, 13, 16-18, 21-22, 25-26, 31-43, 45-46...); oppure suo marito John (pp. 38-43, 45-52-58,60...), il quale in un primo momento dà l'impressione di essere un incallito dongiovanni, attento soltanto alla soddisfazione dei piaceri, vanesio e avido come non mai, mentre il seguito si dimostra attaccato alla moglie, innamorato e più che mai deciso ad aiutarla ad uscire dalla difficile situazione in cui ella si trova (ma è proprio così? Oppure vuole sfruttare la propria posizione di salvatore per avere qualcosa in mano con cui controllare Mary?). George Needham, al contrario, è un personaggio malvagio a tutto tondo, dedito ad intrattenimenti luridi e a relazioni mordi-e-fuggi, spietato con Mary e per nulla impietosito (pp. 13-16, 18-19, 21-28, 69-76, 134); mentre Kitty Harvey è la tipica ragazza svanita e abbronzata che il cliché vuole essere l'amante giovane, stupida e carina che scombussola il focolare familiare e, soprattutto, non si cura di provocare danni. Ogni personaggio insomma, indica in qualche modo come la società non sia esente da cattiveria e malignità pure negli individui vittime di soprusi, suscitando la questione se sia lecito che i miserabili si prendano una rivincita su chi li vessa; oppure se l'essere umano sia in grado di giudicare con imparzialità e rigore. Trovo sempre affascinante questo discorso, e Kennedy lo ha trattato in lungo e in largo: forse è per questo che a me personalmente piacciono i suoi libri.

Ma l'autore non si ferma qui, e rincara la dose aggiungendo altra carne al fuoco che alimenta la mia già buonissima impressione su di lui. Tratta il tema del sospetto e della coscienza sporca, come dicevo sopra, in modo da rendere chiaro come sia facile per tutti noi cadere in errori grossolani, quando giudichiamo qualcuno nel bene e nel male. Mette in mostra fin dove si possa spingere l'incomprensione tra esseri umani (pp. 119, 123-126, 129-131, 187-191, cap 19, 20 23), narrando l'evolvere del rapporto tra Mary e John Dallas, oppure descrivendo il rinsavimento della ragazza nei confronti dello sgradevole Needham: nell'arco di una sera è impossibile arrivare a conoscere a fondo l'anima e il carattere di qualcuno, per cui è bene stare attenti a non compiere azioni affrettate per le quali finiremmo tragicamente per pentirci. Legato a questo tema, ho notato come Kennedy (a differenza di Berkeley) abbia dato una concezione perlopiù positiva dell'amore (pp. 118-119, 124-126, 130, 183-184, 191), descrivendolo come l'unica cosa in grado di sconfiggere qualunque tipo di conflitto (o quasi) tra innamorati: forse era per il fatto che non si sentiva come il suo collega, il quale aveva una concezione del rapporto a due molto traviata, ma nei discorsi tra Mary e John emerge questa forza che sembra sempre sul punto di farli riavvicinare e viene delusa dalla loro ostinazione nel non scendere a compromessi. La vigliaccheria tocca chiunque in "Il Capanno sulla Spiaggia", in un modo o nell'altro, e incarna forse la maledizione che determina la disfatta di ognuno. Infine, il tema della giustizia e la sua fallibilità fanno capolino tra le righe (pp. 241-243, 246-247, 249-258). Nella classica crime story, questo problema è stato sollevato in moltissimi modi differenti: riguardo quella che l'investigatore può elargire a propria discrezione; quella che i giurati possono esprimere, nel bene e nel male, nel loro ruolo delicato durante un processo che porterà alla forca; sulla fallibilità degli avvocati nell'esercizio delle proprie mansioni. Tra gli altri, a partire dagli anni della Seconda Guerra Mondiale, è stato discusso se esista il cosiddetto "delitto altruistico"; ovvero, la soppressione di individui che danneggiano la società e senza i quali, in sintesi, si starebbe molto meglio. In fondo, chi non vorrebbe aver visto Mussolini appeso, prima che potesse fare danni? Tuttavia, restava sempre il dilemma su quale fosse l'organo adatto a prendere decisioni serie sul diritto di vita e di morte. Alcuni giallisti ebbero una cieca fiducia nel fatto che i tribunali potessero assolvere al compito designato; altri, come Kennedy e Berkeley, capirono che a volte le cose non stavano proprio così. L'autore di "Death to the Rescue" scoprì a proprie spese come i fatti potessero essere fraintesi; cosa che forse esacerbò definitivamente la poca fiducia che aveva nella legge, già messa a dura prova dalla sua esperienza in uffici governativi e corridoi del potere inermi contro la minaccia del fascismo (come illustra il giallo "Sic Transit Gloria"). Il risultato di tutto ciò portò Kennedy ad avvicinarsi all'ottica sarcastica di Berkeley, il quale sfruttò il cinismo per mettere in ridicolo l'incapacità della giustizia nell'assolvere al proprio ruolo e i paradossi al suo interno che possono condannare gli innocenti a pagare prezzi altissimi. Ed è proprio ciò che accade in "Il Capanno sulla Spiaggia", dove le persone di ergono a giudici, giurie ed esecutori materiali (per ricalcare il titolo originale del romanzo). Questa è una visione terribile della realtà, ma a volte essa si adatta perfettamente al contesto: forse stiamo superando il limite e dovremmo farci qualche domanda.

Insomma, attraverso l'enigma del romanzo Kennedy volle dimostrare come la giustizia, esercitata o meno con fini positivi, da un singolo individuo oppure da un tribunale intero, sia guidata da una forza fatale governata dal Destino. In una sorta di omaggio all'opera di Iles/Berkeley, egli diede vita a un mistero dai risvolti inaspettati, sebbene come dicevo questo sia un romanzo con i suoi difetti indiscutibili, per far riflettere il lettore se esista una sorta di benevola coscienza, oppure tutti noi siamo governati dal Destino. Questioni intriganti, con parziali risposte altrettanto affascinanti per i miei gusti, nonché mescolate a un tono da tragedia incombente che toglie il respiro: ecco di cosa è composto "Il Capanno sulla Spiaggia". Questo è stato un romanzo duro come un pugno nello stomaco, in cui non si trova proprio niente di quel carattere cosy a cui spesso è affiancato per pregiudizio il giallo classico. Dall'inizio alla fine, ogni cosa lascia intendere come la faccenda finirà male e il pessimismo non lascerà scampo, mentre osserviamo i disperati tentativi dei personaggi di mutare un Fato che per loro è già stato scritto e che giocherà con loro fino all'ultima riga. Non si possono tralasciare i fatti che indicano come Kennedy non sia Berkeley; però a mio parere sarebbe giusto riconoscere il coraggio dell'autore nel perseguire le sue idee originali e avanti nel tempo, imparando a non giudicare soltanto in base alla riuscita di un enigma o meno. Mi sarebbe piaciuto che avesse continuato a scrivere in questo modo, dopo "Il Capanno sulla Spiaggia", ma esagerò e pagò le conseguenze della sua audacia. Dopotutto, il Destino forse lo stava aspettando da tempo, e non gli avrebbe permesso di continuare su questa strada ancora per molto.


P.S. Grazie a Martin Edwards, col quale ho intrattenuto una breve discussione su questo romanzo e la possibilità che esso fosse stato ispirato da un caso di true crime. Per me è sempre un piacere ricevere consigli da parte sua.


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