venerdì 25 settembre 2020

47 - "Ipotesi per un Delitto" ("Let X Be the Murderer", 1947) di Clifford Witting

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore

Come ho già avuto modo di osservare nell'introdurre la recensione di "Com'è Morto il Baronetto?" di H.H. Stanners, la classica crime story non è fatta di soli capolavori di autori ampiamente riconosciuti. Infatti, accanto a nomi come quello di Agatha Christie, la cui opera è conosciuta non solo all'interno del genere giallo, ma anche tra i lettori occasionali e chi è entrato in contatto col suo nome attraverso canali extra-letterari (con serie TV, film e quant'altro); di Dorothy L. Sayers e di Anthony Berkeley (forse i più celebri tra i giallisti classici, troviamo molto spesso perle letterarie di scrittori considerati illustri sconosciuti al di fuori della cerchia di appassionati di romanzo del mistero. Proprio "Com'è Morto il Baronetto?" si è rivelato essere un perfetto esempio di questo tipo di mystery, con una storia gradevole e (forse) talmente tanti elementi "tradizionali" da apparire fin troppo stereotipato, allo stesso modo esistono pure racconti che non hanno goduto della stessa fama di altri più celebrati, ma per questo non sono meno intriganti e affascinanti. Accanto ai capolavori, si possono meritatamente collocare sporadiche prove di giallisti che magari sono stati mediocri nel resto della loro produzione: mi viene in mente, ad esempio, Joel Townsley Rogers il quale, a parte "La Rossa Mano Destra", non ha prodotto chissà quali eclatanti parti creativi; oppure J. Jefferson Farjeon che, tra una spy story e un libro avventuroso, ci ha lasciato alcune piccole gemme di genere giallo come "Sotto la Neve" e "La Casa dei Sette Cadaveri". Nella maggior parte di questi casi, i loro autori magari hanno goduto di una certa celebrità finché erano in vita e così hanno potuto continuare a scrivere fino alla fine dei loro giorni; ma poi, di punto in bianco, non appena la loro produzione è cessata, le loro opere (sia quelle meno sia quelle più pregevoli) non hanno retto il colpo e sono via via scomparse dalla scena e dalla memoria dei lettori. In questo modo, molti meritevoli romanzi gialli della Golden Age, ma non solo, sono stati dimenticati e trascurati. Chissà qual è stato il motivo di questo spiacevole oblio. Forse essi sono stati dati alle stampe nel momento sbagliato o impiegando cliché inflazionati per il loro tempo, oppure il loro autore non è riuscito a raggiungere la fama che desiderava e nonostante il buon riscontro da parte di una parte del pubblico, complice la delusione, ha smesso di scrivere. Forse si è trattato di qualcosa di semplicemente naturale: infatti, i libri di questo genere sono talmente numerosi che, se qualcuno sfugge alla nostra attenzione, non c'è poi da stupirsene.

In ogni caso, non bisogna arrendersi al fatto compiuto; si deve continuare a fare attenzione e a restare aperti a nuove dritte su romanzo gialli che possono essere passati inosservati per ridare loro ciò che meritano (tra gli altri, mi incuriosisce moltissimo l'opera di Brian Flynn, riscoperta da PuzzleDoctor nel suo blog In Search of the Classic Crime e in corso di ripubblicazione da parte di Dean Street Press: se solo avessi più dimestichezza con la lingua inglese!). Soprattutto a quelli appartenenti a serie in cui il protagonista non è il tanto decantato e carismatico dilettante, con le sue particolari caratteristiche, ma un più prosaico poliziotto. In più di un caso (vedasi proprio l'insieme dei romanzi di Flynn), infatti, con molta probabilità questa caratteristica ha contribuito alla dimenticanza di alcuni mysteries più che riusciti, proprio perché non sono riusciti a imprimere nella memoria del pubblico un particolare personaggio o elemento originale della trama. Un vero peccato, a mio parere, dal momento che un romanzo giallo è molto di più del suo protagonista oppure di un semplice trucco di prestigio da applicare all'enigma. Pertanto, su Three-a-Penny appariranno in futuro, oltre ai già presenti "Com'è Morto il Baronetto?" di Stanners e altri racconti minori del mistero che vi lascio trovare da soli, alcune tra queste opere meritevoli di essere riscoperte; e oggi voglio iniziare tale processo con "Ipotesi per un Delitto"di Clifford Witting (Polillo Editore, 2009). Questo autore, infatti, è quasi sconosciuto (tra le altre cose, la sua biografia è davvero stringata) e ha dato vita a una serie di romanzi in cui il protagonista è l'ispettore Charlton, un poliziotto la cui caratteristica più evidente è una spiccata intelligenza. Se a tutto ciò aggiungiamo il fatto che "Ipotesi per un Delitto" tratti di un tipico caso di "delitto-della-casa-di-campagna", con un certo numero di sospetti che varia dai parenti della vittima ai vicini di casa ad alcuni individui siti in villaggi poco distanti, la familiare figura dell'investigatore seriale e indizi nascosti tra le righe, potremmo avere l'impressione di trovarci di fronte a una storia abbastanza ordinaria e simile a tante altre. Eppure, non è così: in realtà l'indagine tocca temi molto interessanti (come quello della pazzia e quello del matrimonio) e il libro si distingue per uno stile scorrevole, un enigma articolato che intrattiene il lettore e suggestive descrizioni dei luoghi in cui si muovono i personaggi, producendo un risultato gradevole e affascinante.

Downs in Winter (Southdowns, Sussex), Eric Ravilious, 1935
raffigurante il paesaggio descritto in "Ipotesi per un Delitto"
La storia è ambientata nella piccola cittadina di Lulverton, sita a tre miglia di distanza da Southmouth-by-the-Sea, nei South Downs. Laggiù, in un freddo mattino di novembre, all'interno della stazione della polizia, il sergente Martin sta aspettando l'arrivo del suo superiore, l'ispettore Harry Charlton, per aggiornarlo sulle ultime novità riguardo la vigilanza del villaggio; quando all'improvviso suona il telefono. Come scoprirà Martin, all'altro capo del filo si trova qualcuno che sostiene di essere Sir Victor Warringham, in preda a un'agitazione a malapena soffocata. La voce appare confusa e spaesata, ma sostiene con forza di voler chiedere l'aiuto dei poliziotti dal momento che, quella stessa notte, un paio di mani fosforescenti hanno tentato di strangolare sua signoria nel sonno. Il sergente, scettico, tenta di cogliere qualche informazione in più e si affretta a riassicurare il mittente che presto Charlton sarà informato, in modo che egli possa decidere come meglio agire. E una volta aggiornato, l'ispettore decide di sondare il terreno e di recarsi con Martin a Elmsdale, l'enorme villa di proprietà dei Warringham. Giunti laggiù, tuttavia, i due poliziotti si scontrano con il primo problema: nonostante la palese felicità della cameriera nel veder giunti i soccorsi, la governante di casa miss Enid Winter li accoglie con una certa freddezza, tentando di minimizzare le ragioni che li hanno spinti a scomodarsi fino a giungere nella casa fuori dalla cittadina. A suo dire Sir Victor soffre di mal di cuore, ma non potrebbe mai aver deciso di punto in bianco di giocare uno scherzo del genere alla polizia; tanto più che, da qualche ora, egli si trova chiuso nella sua camera a riposare. Ovviamente sarà impossibile per Charlton e Martin incontrarlo, per cui meglio se ripassano un'altra volta. Mentre miss Winters sta rincarando la dose, tuttavia, appare il genero dell'infermo, un tale di nome Clement Harler che sostiene come Warringham sia matto da legare e pericoloso. A suo dire, la governante ha fatto finta che Sir Victor soffra di cuore per non rischiare di farlo entrare in contatto con sconosciuti e allarmarlo senza un motivo valido. Risultato: Charlton e Martin sono costretti ad andarsene. Nel farlo, però, scoprono che Warringham sta aspettando il suo avvocato, il signor Howard, per affidargli un non meglio specificato incarico. Che abbia a che fare col suo discusso testamento?

Come si informa ben presto l'ispettore, infatti, Sir Victon Warringham ha disposto delle sue ultime volontà in modo alquanto bizzarro, senza mai cambiare un documento testamentario che risale a molti anni prima. Secondo quest'ultimo, metà del patrimonio sarebbe dovuto passare alla moglie, Lady Warringham, mentre l'altra metà a Rosalie, la sua amata figlia. Tuttavia, le due donne sono decedute in un tragico incidente che aveva visto coinvolto un ordigno bellico, ai tempi della Seconda Guerra Mondiale; pertanto, la quota della moglie di Sir Victor e quella di Rosalie dovrebbero passare entrambe a Clement Harler, genero e ultimo mebro della famiglia, il quale ha dato dimostrazione di non essere un individuo alla mano non solo per il suo atteggiamento con Charlton (spingendolo praticamente fuori dalla porta e dicendo di non dare adito ai vaneggiamenti di un pazzo secondo i quali un fantasma avrebbe tentato di ammazzarlo), ma anche per il fatto di aver portato a Elmsdale un'altra donna, una femmina fatale di nome Gladys. Tutto ciò, quindi, farebbe pensare che gli Harler stiano tramando un brutto scherzo a Warringham, così da fargli perdere del tutto la ragione e internarlo per impedirgli di fare alcuna modifica al testamento, per assicurarsi il denaro. Charlton è convinto di questa teoria e, nonostante non lo abbia mai incontrato di persona, non crede che Sir Victor sia matto: a sostenere questo fatto sono gli Harler e un dottore dalla cattiva reputazione, mentre dicono il contrario Howard e le altre due persone che hanno a che fare con il malato: un bambino di dieci anni, John Campbell, nipote di miss Winters, e Tom Blackmore, affittuario di un cottage all'interno della proprietà e conoscente di vecchia data del padrone di Elmsdale. Però non può fare nulla, finché gli eventi non si saranno spalancati davanti a lui e ai suoi sottoposti. Così assiste impotente al delitto che si verifica la notte seguente proprio in casa di Sir Victor, nuova fonte di guai. Infatti, la vittima non è Warringham, come le premesse farebbero pensare, ma miss Winters. Cosa può aver innescato una donna silenziosa e astuta come quella? Forse c'entra il testamento di Sir Victor? Oppure il movente di tale crimine deve ricercarsi nel passato della donna? Starà a Charlton mettere in pratica le indagini di routine, applicare il suo metodo basato sui fatti  e svelare la verità che si cela dietro l'assassinio.

Coastline Seascape, John Glynn, 1920
circa, raffigurante la costa inglese in cui si
trova Southmouth
Da come si presenta, "Ipotesi per un Delitto" ha tutta l'aria di assomigliare a un problema matematico, come uno dei cruciverba mentali che andavano tanto di moda nei primi anni del Novecento. Fin dalla sua struttura esteriore, infatti, esso mantiene una divisione in parti che ricorda molto da vicino quei teoremi che un po' tutti noi abbiamo studiato a scuola. "Sia ABC un triangolo isoscele" si è soliti recitare come un mantra, quando si affronta la geometria matematica; e anche in questo caso ci troviamo davanti a un postulato che ricalca questa formula, dal momento che il titolo originale del romanzo è proprio "Sia X l'omicida". Inoltre, al suo interno, troviamo uno schema quadripartito, dove ogni sezione porta il nome di una parte del problema: "Teorema", "Ipotesi", "Interpretazione" (che noi chiameremmo "Tesi") e "Dimostrazione". Nella prima parte si prova a capire chi e perché voglia la morte di Sir Victor; nella seconda si sviluppa la ricerca di indizi alternativa al filone finora seguito, dal momento che l’omicidio verificatosi non coinvolge il baronetto, ma la sua governante; nella terza si scava a fondo nelle diverse piste, per scovare chi sia cosa, quando e perché; nell'ultima i nodi vengono al pettine e si scopre chi ha commesso il crimine e il suo movente. In aggiunta a ciò, inoltre, abbiamo tutta una serie di elementi che a primo acchito rimanda a una trattazione del caso in modo alquanto asettico, tradizionale e quasi pedante. Ad esempio, le premesse dell'omicidio (ed esso stesso) ricalcano il classico schema secondo cui tutti gli eventi danno ad intendere che stia per accadere una disgrazia, ma l'investigatore non può far altro che aspettare che si verifichi il decesso della vittima designata, prima di poter raccogliere abbastanza prove materiali per inchiodare l'assassino; oppure la presenza di pochi personaggi, presentati come simili a incognite di un'equazione matematica e caratterizzati da una certa sgradevolezza e aridità, la maggior parte dei quali viene descritta attraverso un complicato schema genealogico. Lo stesso Charlton, a differenza del sornione Poirot, del faceto Lord Peter e del cinico Roger Sheringham, appare freddo per la maggior parte del tempo e intenzionato a catturare il colpevole senza lasciarsi troppo trasportare da distrazioni come le emozioni e le opinioni personali. Legato a ciò, in "Ipotesi per un Delitto" troviamo un metodo di indagine completamente differente da quello che potrebbero mettere in pratica gli investigatori dilettanti: qui ci troviamo di fronte alla solida e inossidabile routine della polizia, la quale deve compiere passi necessari per assicurare un corretto svolgimento del proprio compito verso i cittadini e rispettare una prassi ben precisa, dove non esistono sgarri e iniziative personali da parte degli agenti. Inoltre, uno dei temi principali affrontati nel corso del romanzo è quello della legge, legato alla complicata faccenda del testamento di Sir Victor Warringham; tutto è molto dogmatico e strutturato, i cavilli legali del passaggio delle quote ereditate vengono passati al microscopio più di una volta e i sospetti variano in continuazione proprio in base alla lettura che viene data di ogni nuovo indizio (spesso materiale e non psicologico), tenendo in considerazione le conseguenze che possono derivare dalle scoperte sulla morte di miss Winters (pp. 43-44, 81-84, 114-116, 125-126, 131-133, 136, 156-158, 179-187, 248-250, 256-259, 290-292, 295-305, 311-313).

In sintesi, dunque, tutti questi elementi tendono a dipingere "Ipotesi per un Delitto" come se esso fosse uno di quei fin troppo classici romanzi del mistero che trattano di un delitto in un'antica villa signorile, farcito con la consueta famiglia di parenti-serpenti corredata di conoscenti e amici della stessa natura, una lunga serie di indizi da trovare ed interpretare, un detective che si preoccupa di analizzare questi ultimi per trovare una soluzione, atta ad incriminare un individuo e a portarlo di fronte a una corte di giustizia senza indugio, e una generale aria ironica e un po' retrò a fare da sfondo alle vicende. Insomma, una storia ordinaria che non colpisce e che potremmo scambiare con tante altre. E in parte è così, non si può negare l'evidenza. Dopotutto, sfido chiunque a confutare le affermazioni che ho fatto qui sopra e ad ignorare alcuni commenti che si trovano in rete a riguardo, tra i quali spiccano "[il giallo] è di quelli che definisco "piatti" e poco movimentati, [con una] vicenda [che] non si fa mai molto interessante", "un romanzo abbastanza banale e prevedibile, nonostante le rivelazioni finali. [...] non aggiunge nulla di nuovo ai numerosi romanzi usciti negli anni precedenti. Forse può sorprendere il lettore occasionale di gialli, ma le tematiche e lo svolgimento della trama sono tutti ben noti a chi conosce i romanzi di genere" e "un libro minore". Tuttavia, quello che si fatica a cogliere, a mio parere, è che la storia narrata da Witting non si ferma a questa semplicistica analisi superficiale. In ognuno degli aspetti che ho preso in considerazione, possiamo trovare qualcosa che mette in mostra come l'autore abbia voluto fare un passo in avanti e dare un'interpretazione in qualche modo svecchiata. Lo schema familiare dei Warringham e dei loro conoscenti, ad esempio, è sì incentrato su un complesso sistema che tende a restituire una schematizzazione geometrica dei rapporti tra gli individui, ma in realtà è confuso e sottintende una mancanza di chiarezza che si allontana proprio dall'idea iniziale della struttura ben definita. La incognite che coinvolgono la storia familiare e la questione dell'eredità sono piene di intrighi, bugie e inganni, e rispecchiano una certa imprecisione che stride con l'apparente simmetria del romanzo. Lo stesso schema dell'indagine, che sembra tanto attinente alla tradizione, mostra un'evoluzione che ricalca il parte quella di "Il Pericolo Senza Nome" di Agatha Christie, una tra le più innovative gialliste di sempre. I personaggi, dal canto loro, appaiono sia come figure sgradevoli che ripugnano e che tendono ad essere identificate in incognite geometriche, sia quali attori a tutto tondo (almeno riferendosi ai protagonisti principali delle vicende), i quali danno prova di avere spessore e profondità: infidi come serpenti oppure emotivi, ma pur sempre lontani da macchiette stereotipate. E questo vale pure per Charlton, il quale in un paio di occasioni abbandona l'atteggiamento gelido per mettere in luce una certa compassione per John Campbell e Sir Victor, oltre a lasciar trasparire come non sia così malvagio quando entra in contatto con i suoi sottoposti.

In aggiunta, la legge e il testamento, così importanti all'interno del racconto di "Ipotesi per un Delitto", lasciano intravedere quanto dietro al dogmatismo si celi una grande confusione: non si è mai sicuri di nulla, perché i fatti potrebbero essere capovolti da un nuovo indizio, e i risvolti che scaturiscono da essi sono spesso inaspettati. Il metodo della polizia (pp. 109-110), tanto improntato a seguire una prassi ineluttabile e persino noiosa, mette in luce quanto sia importante l'elemento umano perché esso possa funzionare al meglio: l'interazione tra gli individui è importantissima, a dimostrazione di quanto non sia un'indagine individualista come quella dell'investigatore dilettante, tutt'al più coadiuvato da una "spalla", ed esprime un'aria di cameratismo che è il vero segreto del suo successo (pp. 10-14, 17-18, 25-26, 44-45, 77-79, 81, 86, 95-100, 144-145, 153-170, 207-210, 240-246, 268-270, 279-281); si manifesta grazie alle prove che riesce a portare alla luce, ma viene messa in pratica con un'astuzia e una certa faccia tosta che non possono essere imprigionate e catalogate. Gli stessi indizi, infine, si suddividono tra fisici (in realtà è la mancanza di alcune prove a mettere sull'avviso Charlton) e psicologici; anzi, direi che il fattore della psicologia gioca un ruolo di maggior rilievo, allo stesso modo che nei romanzi gialli di Christie. Insomma, nonostante sia inconfutabile il fatto che "Ipotesi per un Delitto" ricalchi un qualche modo quel tipo di mystery pragmatico che fece fortuna nei primi anni del Novecento, basato su aspetti molto tradizionali e incentrato su di un'indagine che vedeva protagonista la polizia al posto del segugio dilettante, secondo me è sbagliato catalogare senza indugio questo libro in tale definizione. Al suo interno c'è molto di più di quanto sembri: non solo abbastanza elementi per confutare in parte le critiche da esso rivolte, ma pure un'attenzione volta a trattare alcuni temi con particolare cognizione, come quello della pazzia e quello del matrimonio.

Rara immagine di Clifford Witting, nato nel
1907 e morto nel 1968, mentre è al lavoro

Proprio per questo motivo è un vero peccato che l'opera di Clifford Witting non sia conosciuta più di tanto e nemmeno tenuta in particolare considerazione. Della sua vita, come dicevo nell'introduzione, non si sa poi molto; forse anche per questo egli non è riuscito a conservare la fama che merita all'interno del genere e a veder perdurare la sua produzione nel tempo. Della sua biografia stringata, si sa che nacque nel 1907 nel distretto di Lewisham, a Londra, e che dopo gli studi all'Eltham College della città, tra il 1916 e il 1924, divenne impiegato alla Lloyd Bank, dove lavorò fino al 1942. Si sposò nel 1934 con Ellen Marjorie Steward, dalla quale ebbe una figlia di nome Clerk, e durante la Seconda Guerra Mondiale prestò servizio come sottufficiale d'artiglieria nei Royal Artillery and Ordinance Corps, da cui si congedò col grado di maresciallo. Prima di allora tuttavia, aveva già dato alle stampe alcuni romanzi gialli, a partire dal 1937 quando pubblicò "Murder in Blue", il quale vede un'indagine sulla morte di un poliziotto. Fin dal suo esordio, il personaggio principale delle sue storie fu l'ispettore Harry Charlton della polizia di Lulverton, un villaggio che si trova nei South Downs a poche miglia dalla costa inglese, assieme ai suoi assistenti: i sergenti Martin e Bardfield, quest'ultimo in seguito promosso a ispettore. Per il resto, sulla vita di Witting si sa che nel 1947 egli fu nominato direttore onorario dell'Old Elthamian, il giornale del suo vecchio college, e che entrò a far parte del Detection Club nel 1958, appena dieci anni prima della sua morte. Questa fu una delle tante stranezze che videro l'autore protagonista: come mai l'invito gli venne esteso soltanto così tanto tardi? E perché è così dimenticato, nonostante abbia dato vita a una produzione narrativa non indifferente? Per quel momento, infatti, aveva già pubblicato per l'editore Hodder & Stoughton ben dodici dei sedici mysteries che firmò a suo nome, i più importanti dei quali furono "Measure for Murder", "Subject: Murder", "Ipotesi per un Delitto", "A Bullet for Rhino" e "There Was a Crooked Man". Oltretutto, Witting ha ottenuto grandi elogi dai critici Barzun & Taylor nel loro "A Catalogue of Crime", al punto che la sua intera produzione è stata inserita in quella guida fondamentale alla letteratura del mistero e la sua abilità definita come debole in partenza, ma poi caratterizzata da una competenza sempre più alta; a dimostrazione di quanto egli avesse una spiccata capacità nel tratteggiare personaggi e situazioni, oltre a saper tenere alto l'interesse del lettore nei confronti del mistero. Anche il critico Nick Fuller ha espresso parole di stima per Witting: "La sua indagine è genuinamente avvincente, e il suo stile ironico anche se poche volte scherzoso. Lui poteva creare molte bene le ambientazioni, come quella dell'esercito in "Subject: Murder". I suoi libri hanno la genuina attrazione del giallo classico. Lui può mettere con abilità il lettore su una falsa pista ("Midsummer Murder") o inventare un genuinamente astuto e semplice metodo per uccidere ("Dead on Time"). Sperimentò con la forma: la vittima a sorpresa di "Measure for Murder" o, nonostante il resto sia debole, la maestria nell'orchestrare l'inverted story in "Michaelmas Goose". In breve, ha sempre offerto qualcosa al lettore e trovato originali idee all'interno delle convenzioni del giallo".

Eppure, come dicevo all'inizio, a parte questi pareri entusiasti e pochissime altre menzioni, l'autore è stato del tutto trascurato. Un vero peccato, se si pensa a quanto sia una buono "Ipotesi per un Delitto". Infatti, sebbene Witting non sia considerato come particolarmente brillante e la sua penna poco abile nell'avvolgere ogni cosa di mistero, da parte mia penso che i suoi siano romanzi gialli meritevoli tanto come polizieschi attinenti alla tradizione quanto come espressione di un genere in evoluzione. Nello specifico del libro di oggi, oltre agli aspetti di cui ho parlato sopra, trovo che le ambientazioni siano molto affascinanti, sappiano calare il lettore nelle vicende con pari calore e glaciale dramma in base alle necessità e costituiscano uno dei punti più alti dello stile dell'autore (pp. 12-15, 18, 28, 37, 67-71, 87, 89, 96-99, 110, 215, 230-233, 261-262, 273, 276, 279-280, 292-294). A questo proposito, mi è sembrato che la narrativa di Witting sia vicina a quella di Herbert Adams, giallista che spesso aggiunge una sorta di sottotrama suggestiva popolata di personaggi minori ma vividi, i quali tendono ad occupare la prima linea della scena mettendo sullo sfondo l'indagine; cosa che va bene solo se utilizzata a piccole dosi, e questo è il caso del romanzo che recensisco oggi, dove fascino e arguzia abbondano e contrastano la violenza (es. pp. 67-71 e 87-90). Molti temi vengono affrontati in modo interessante, dimostrando probabilmente quali fossero le idee dell'autore a riguardo. La pazzia, innanzitutto, vista come qualcosa che non è per niente facile da individuare: spesso la si fa facile, dicendo che chi è malato di mente ce l'ha scritto in faccia, ma in realtà questo tipo di disturbo si cela dietro a maschere all'apparenza quiete e tranquille. Dopotutto, i romanzi gialli e i fatti di cronaca ci insegnano ogni giorno quanto sia invece complicato scorgere i segni di un cervello disturbato; segni che si manifestano il più delle volte nelle piccole cose e nelle azioni che ognuno compie durante una giornata come tante (pp. 20-22, 42, 51-59, 63-65, 82-85, 111-117, 119-128, 159-160, 187-188, 199-200, 253, 259-260, 273-281, 286-289). La stessa scienza, altro punto importante all'interno di un mystery giocato sui fatti e sugli aspetti più pragmatici di un omicidio come "Ipotesi per un Delitto" (pp. 95, 98-100, 126-127, 129-131, 160-163, 168-169, 188-189, 194-195, 210-215, 305-307), può fallire nell'individuare qualcosa che non va in una persona con la mente instabile: a volte un ritardo può non sortire alcuna grave conseguenza, se il paziente manifesta piccole manie; ma se egli tende ad avere comportamenti ossessivi e ad assumere un comportamento violento, le cose possono cambiare in modo drastico. Insomma, c'è molto da fare prima di poter assicurare una diagnosi veritiera.

In secondo luogo, poi, abbiamo una curiosa tendenza da parte di Witting nel dipingere matrimoni che non funzionano per niente: non solo quello degli Harler, complici e nemici l'uno verso l'altra allo stesso tempo, ma anche quello dei genitori del piccolo John Campbell, quello della defunta Rosalie con l'infido Clement e quello tra Tom Blackmore e la sua (ex)compagna infedele (pp. 47-51, 62-63, 70, 81-83, 137-139, 216-217, 297-305). Forse questo aspetto, ripetuto più volte all'interno di uno stesso romanzo, può gettare la luce sulla relazione tra l'autore e sua moglie? Non avendo letto altro di suo, mi riservo di sospendere il giudizio; però è curioso come il rapporto tra uomo e donna sia dipinto in modo tanto negativo. Anche la presenza di un bambino come personaggio chiave della storia è una scelta compiuta da Witting che trova ben pochi altri riscontri all'interno del genere (pp. 28-33, 61-63, 71-76, 79, 116-117, 141-147, 200-203, 237-240, 253-259, 273-278). Ad esempio, a me viene in mente solo "È un Problema" di Agatha Christie, in cui una bambina viene sballottata di qua e di là da individui senza scrupoli, come lo stesso John, e gioca un ruolo di primo piano dentro un poliziesco. Per quanto riguarda gli altri protagonisti principali, invece, ci sono più o meno le solite figure, caratterizzate però a tutto tondo e soprattutto da un forte grado di repulsione. Soltanto John Campbell riesce a mantenere un atteggiamento di ingenuità e tenerezza pressoché per tutto il racconto (nonostante nutra fugaci pensieri letali contro Harler, quando quest'ultimo gli sequestra la pistola giocattolo); gli altri figurano come sgradevoli individui decisi ad accaparrarsi un vantaggio dalla situazione a Elmsdale (presentati soprattutto nella prima parte, oltre alle pp. 148-152, 171-179, 193-196, 216-224, 226-230, 247-250, 264). Al contrario, le figure secondarie come Bardfield, Martin, la signora Gulliver e la giovane Lily Higgins (rispettivamente cuoca e sguattera in casa Warringham) vengono dipinte come gradevoli persone, un po' ingenue ma proprio per questo lontane dai desideri e dalle passioni che divorano i signori aristocratici e snob, e ne decretano la rovina. Ecco, forse solo il dottor Stamford gioca un ruolo dalle apparenze negative tra le comparse; assieme a Gladys Harler, la quale purtroppo compie soltanto fugaci apparizioni e scompare nella seconda metà della storia (peccato, magari poteva interpretare un ruolo di maggior peso negli eventi).

Infine, vorrei spezzare una lancia a favore dell'enigma contenuto in "Ipotesi per un Delitto". Nonostante il fatto che, senza dubbio, al suo interno ci siano delle carenze (la cerchia di sospettati molto ristretta, il continuo spostamento delle luci della ribalta sui sospettati che porta a una graduale eliminazione degli stessi e una certa aridità nell'enunciazione, rispetto a quanto accade in altri romanzi gialli), non me la sento di bocciarlo in pieno. Una persona che conosco e che se ne intende di crime novels ha affermato che il mistero contenuto in questo libro non ha nulla di meno di uno di quelli che si trovano in un romanzo di Christie: forse l'affermazione è un po' eccessiva, ma a grandi linee sono d'accordo. In fondo, quello che richiede un buon mystery è una vicenda che sappia coinvolgere il lettore al punto da catturare la sua attenzione e riesca a mantenere alta la tensione e la curiosità fino alle ultime pagine. Ed io ho ritrovato proprio ciò in "Ipotesi per un Delitto". Qualche colpo di scena non è stato celato proprio benissimo, se si è accaniti divoratori di storie del mistero, ma tutto sommato la vicenda riserva più di una sorpresa per chiunque si appresti a leggerla. Il fair play, inoltre, viene rispettato fino a un certo punto, dal momento che è la mancanza di indizi che, in qualche modo, può suscitare nel lettore alcuni sospetti su chi sia il colpevole. Detto ciò, sento di potermi dire più che soddisfatto della lettura di "Ipotesi per un Delitto" e propenso a provare, nei prossimi mesi, l'altro romanzo di Witting che Polillo ha tradotto per il lettori italiani: "Il Canto di Natale". Ma adesso ho voglia di allontanarmi dall'indagine basata sulla routine della polizia e tornare a concentrarmi sulla figura dell'investigatore dilettante. Tornerò sulle imprese di Charlton quando avrò bisogno di un racconto ben costruito, gradevole e che mi riconcili che il giallo più classico.


Link a Ipotesi per un delitto su Libraccio

Link all'edizione italiana su Amazon

venerdì 18 settembre 2020

46 - "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" ("The Poisoned Chocolates Case", 1929) di Anthony Berkeley

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore
Sono sicuro che, almeno una volta nella vita, ognuno di noi ha pensato che gli sarebbe piaciuto cimentarsi nella risoluzione di un caso di omicidio. Certo, magari non uno verificatosi all'interno della propria sfera di conoscenze (a meno che la vittima non sia un nostro nemico o comunque una persona che desidereremmo veder scomparire dalla faccia della Terra); ma indagare su di un delitto che non ci tocchi nel personale, che possa metterci alla prova e testare la nostra materia grigia, potrebbe essere indubbiamente una sfida interessante da affrontare. Pensate: vi trovate davanti a un assassinio perpetrato a sangue freddo; siete incaricati di risolvere l'enigma di questa morte, di scoprire cosa abbia spinto un essere umano come voi a compiere un gesto tanto estremo, di vagliare tutte le ipotesi e di trovare un movente adatto alla personalità del colpevole, il quale ovviamente deve aver avuto l'opportunità, la forza di volontà necessaria e una coscienza abbastanza deviata e suggestionabile da non tradirsi. Intesa come una prova di abilità, dal punto di vista accademico, anche io trovo che qualcosa del genere sarebbe un utile e ingegnoso test per vagliare le nostre competenze fisico-psicologiche. D'altro canto, tuttavia, sono consapevole che l'indagine su di un crimine violento non debba essere presa alla leggera ed affidata al primo dilettante che passa per la strada: gli errori non sono ammessi, quando si deve decidere tra mille ansie se uno sia innocente oppure colpevole, e se l'inquirente fa un passo falso, ciò può perseguitarlo fino alla fine dei suoi giorni. Inoltre, bisogna avere una preparazione specialistica e soprattutto sviluppare una certa dimestichezza nel corso degli anni, prima di potersi dire qualificati a compiere un tale compito gravoso. Per cui, io preferisco dedicarmi agli omicidi fittizi che ci offre la classica crime story, entusiasmanti tanto quanto quelli della vita reale, ma senza pressioni di sorta e preoccupazioni. Infatti, come forse avrete ormai capito leggendo le mie recensioni, per quanto mi riguarda i delitti degli autori della tradizione gialla classica hanno, in fondo, molti aspetti in comune con i loro fratelli nella vita di tutti i giorni. E questo non deriva solo dal fatto che molti di essi sono stati ricalcati su assassinii verificatesi sul serio negli ultimi centocinquant'anni; dietro a questa convinzione c'è molto di più.

Ad esempio, i moventi che spingono i colpevoli letterari a macchiarsi di crimini orrendi molto spesso sono gli stessi che emergono dalle confessioni delle loro controparti in carne ed ossa. Come non accostare la figura di X, avvocato disperato e alla ricerca di un mezzo qualsiasi per tirare avanti, con Y, l'uomo di legge che da avvelenato il collega o il coniuge per ereditarne i beni? Oppure le caratteristiche psicologiche di un personaggio dei primi del Novecento, così simili a quelle del nostro vicino di casa: sono convinto che il delitto non invecchi mai e tenda a ripetersi di volta in volta, assumendo forme sempre diverse, assieme alle sue premesse e cause scatenanti; per cui, non trovo ci sia poi questa gran differenza tra i ragionamenti che potesse fare il signor Tale nel 1920, e quelli del signor Quale un secolo dopo. Soprattutto, però, ciò che avvicina il delitto fittizio a quello reale è il fatto che spesso e volentieri le cose non appaiano mai come dovrebbero essere. Nel senso che, sia in un caso che in un altro, può passare molto tempo prima che l'assassino venga identificato e catturato, e nel frattempo vengono sospettate tante altre persone. Certo, di norma nel romanzo giallo si tende a impostare fin dall'inizio una certa linea investigativa, a selezionare gli indizi e a far combaciare le deduzioni così da poter giungere a un finale soddisfacente sotto tutti i punti di vista, che rispetti le premesse. Cosa che porterà comunque a una serie di sospetti verso innocenti, piste false e fraintendimenti. Però non sempre è tutto così lineare. In alcuni casi, il bello sta proprio nel trovarsi davanti a una situazione in cui non si può sapere dove si andrà a parare, in continuo capovolgimento nel sottolineare aspetti differenti dell'omicidio, illuminati dal'autore di volta in volta, così da ritenere prima uno e poi l'altro un probabile assassino. Questa pratica, non a caso, fu messa in pratica e sfruttata nel migliore dei modi da colui il quale considerava la giustizia come qualcosa di fallace, e possedeva una grande capacità nel mettere in ridicolo il prossimo e un senso dell'ironia cinico e sarcastico "fino al punto di indecenza": Anthony Berkeley. E nel romanzo che recensisco oggi, "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" (Polillo Editore, 2002), questa particolare concezione del crimine, questo divertimento nel prendersi gioco delle convenzioni e dei metodi attraverso cui i giallisti irretiscono i loro lettori, trova un'applicazione ad oggi ineguagliata, che mette in mostra come le soluzioni di un delitto possano essere infinite, se i personaggi apprendono le informazioni di pari passo con chi legge, quando soltanto un piccolo tassello viene aggiunto al quadro generale delle prove oppure una testimonianza viene confermata o smentita. Si tratta di una sfida aperta a chiunque desideri mettersi alla prova, proprio come se fosse un caso di omicidio nella vita reale: vi sentite abbastanza abili da risolvere il mistero? Ebbene, accomodatevi e aguzzate l'ingegno.

Piccadilly Circus at night, Frederick Lawrence Tavaré
(1847-1930) che raffigura il luogo in cui è passato l'assassino
di Joan Bendix
Tutto ha inizio in una sera come tante altre, in una stanza non meglio identificata, poco dopo la metà di novembre. Attorno a una tavola imbandita, sette personaggi siedono in compagnia e godo l'un l'altro dell'allegria reciproca e del buon cibo che hanno assaporato. Sono i membri del Circolo del Crimine, un'associazione fondata dall'investigatore dilettante Roger Sheringham, la cui funzione sarebbe quella di riunire sotto a un'unico nome i migliori criminologi dell'Inghilterra (se non del mondo) e permettere loro di potersi confrontare da pari a pari, stimolando le reciproche cellule grigie. Ci sono un celebre avvocato, Sir Charles Wildman; una commediografa di successo, la signora Mabel Fielder-Flemming; una scrittrice arguta che meriterebbe più del successo che le viene attribuito, Alicia Dammers; il migliore scrittore di romanzi gialli in circolazione, Morton Harrogate Bradley; il mite avvocato Ambrose Chitterwick; lo stesso Sheringham e l'ospite d'onore della serata, nientemeno che l'ispettore capo Moresby di Scotland Yard. Quest'ultimo è il primo di una serie di ospiti che il presidente intende presentare agli altri componenti del gruppo; tutti esperti di crimine, come si addice a una congrega di tale livello, in modo da generare discussioni e, quando possibile, istruire nell'arte del delitto fittizio. In questa particolare occasione, tuttavia, Sheringham ha chiesto al suo amico Moresby di presenziare alla riunione del Circolo del Crimine anche per un altro motivo: come si affretta a spiegare con eccitazione a malapena contenuta, infatti, col benestare della polizia ha intenzione di proporre ad ognuno dei membri una sfida, legata a un fatto di cronaca recente. Pochi giorni prima, si è verificato uno strano delitto che ha visti coinvolti alcuni personaggi in vista della società inglese. Mentre si trovava al club di cui è membro, il signor Graham Bendix aveva incrociato per caso Sir Eustace Pennefather, un baronetto di mezz'età conosciuto per avere la cattiva abitudine di correre dietro alle donne, e sempre per una coincidenza quest'ultimo aveva regalato una scatola di cioccolatini all'altro, la quale era arrivata per posta come dono da parte di una fabbrica di dolciumi. Una volta giunto a casa, Bendix aveva consegnato quella stessa scatola alla moglie come pegno per una scommessa persa; e non aveva certo sospettato che i cioccolatini in essa contenuti fossero stati alterati con il nitrobenzolo, un veleno usato spesso per la preparazione di dolci di qualità scadente. Pertanto, la donna ne aveva ingoiati quasi una decina di fila, si era sentita male mentre il marito si trovava nella City ed era morta poco tempo dopo.

All'apparenza, il caso sembra essere opera di un pazzo: tutti sanno che Sir Eustace ha attirato su di sé più di un motivo per essere eliminato; non ultima, proprio la sua cattiva fama di donnaiolo. In un paese in cui l'epoca vittoriana ha lasciato pesanti strascichi e tende a restare viva nelle menti degli abitanti, in pochi si stupirebbero se venissero a sapere che qualche amante delusa avesse deciso di togliere di mezzo un parassita tale e quale Pennefather, vizioso e alla continua ricerca di mezzi economici per sovvenzionare i propri peccati. Pure la polizia, dopo aver fatto le dovute indagini di routine, si è convinta che la soluzione debba essere di questo tipo; anche perché gli indizi materiali, a parte la scatola coi cioccolatini, la carta che la avvolgeva e una lettera di accompagnamento del tutto anonima, scarseggiano. Eppure, Roger Sheringham è alla continua ricerca di qualcosa che possa alimentare le discussioni e il confronto nel suo Circolo del Crimine; per cui, perché non provare a risolvere il delitto? Scotland Yard ha archiviato le indagini al riguardo, e Moresby (nonostante qualche riserva sul successo che possa derivare da una simile iniziativa) è d'accordo nell'accordare il permesso a che alcuni sconosciuti si cimentino nell'impresa. Così, tra il generale entusiasmo e qualche piccola titubanza da parte del mite e gentile Chitterwick, ognuno dei membri dell'associazione intraprende una pista differente, partendo dalle stesse premesse ma giungendo a una soluzione ogni volta diversa. E il bello è che tutti quanti riescono a sostenere una teoria che, pur in qualche modo confutata dalle critiche degli altri, potrebbe rivelarsi esatta. Quindi, ci sono ben sei soluzioni al caso sull'omicidio di Joan Bendix: quale sarà quella giusta? Soltanto alla fine tutte le carte saranno messe in tavola...

Christiana Edmunds, nata nel 1828 e morta
nel 1907, nota come "L'Avvelenatrice dei
Cremini al Cioccolato"

"Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" si presenta dunque come una prova d'abilità: per i protagonisti, sottoposti a una sfida che li costringerà a mettere in pratica una serrata indagine di tipo induttivo, deduttivo o misto; per il lettore, il quale si calerà nei personaggi e svilupperà di volta in volta teorie differenti; per lo stesso autore, che si è sforzato di dare vita a una storia affascinante, capace di sconcertare e sorprendere con i suoi innovativi guizzi d'ingegno. Cosa che, tra l'altro, egli è riuscito a fare benissimo. Non che ci fossero poi chissà quali dubbi, visto che Anthony Berkeley è uno tra i più grandi scrittori di crime novels di tutti i tempi. Fu grazie a lui e alla sua fantasia sterminata (forse fin troppo, per certi versi) che il romanzo giallo anglosassone riuscì ad attingere nuova linfa dalla società del primo Novecento e continuò a prosperare per tantissimo tempo, dal momento che lui per primo ipotizzò un prototipo del giallo psicologico come lo intendiamo noi oggi, grazie ai libri che firmò come Francis Iles. E se questa carica di novità si poteva già scorgere in carattere embrionale in "Dov'è Cicely?", oppure nei libri precedenti della serie di Sheringham come "Uno Sparo in Biblioteca", nel romanzo di oggi essa emerge splendidamente, dal momento che non solo l'autore riuscì a capovolgere ancora una volta le regole della partita all'interno del racconto, ma anche a prendersi gioco delle strutture del mystery classico; nonostante ancora non avesse l'intenzione di spazzare via ogni limite e toccare la perfezione come in "L'Omicidio è un'Affare Serio" a firma Iles. Infatti "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati", pur presentando delle caratteristiche ancora legate alla tradizione, mette in mostra una concezione del romanzo del mistero che sta allontanandosi da quella di Christie e Sayers, per citare due nomi a caso. Nonostante l'uso di cioccolatini come mezzo di morte (derivato dal caso di Christiana Edmunds), il cliché secondo cui i dilettanti si interessano di un caso "ufficialmente" delegato alla polizia, e il fatto che la storia venga presentata come una sorta di gioco di abilità per il lettore (pp. 12-15, 41-42, 46-47, 102-103, 143-144, 163-164, 215-219), per la prima volta qui non viene messa in discussione soltanto l'infallibilità dell'investigatore (tema già trattato fin dal primo libro della serie di Sheringham), ma pure la certezza di quanto emerge nella costruzione delle vicende e sull'onnipotenza degli autori. Fino ad allora, tutti gli scrittori che avevano deciso di cimentarsi nella stesura di un libro di questo genere avevano fatto in modo di sottolineare il fatto che le conclusioni a cui i loro detective erano giunti fossero inoppugnabili: se un dato indizio sembrava suggerire che qualcosa fosse accaduto in un certo modo, allora di sicuro quella cosa doveva essersi verificata secondo la teoria avanzata dall'ideatore degli eventi raccontati, per bocca degli inquirenti. I ragionevoli dubbi che una persona poteva nutrire nella propria mente dovevano essere tralasciati: se da un fatto era stata tratta una deduzione, quella stessa era invariabilmente giusta, qualunque cosa accadesse, poiché l'investigatore era in qualche modo onnisciente.

Si trattava di un sotterfugio che prevedeva una fortuna piuttosto sfacciata, secondo Berkeley; e tutti dovrebbero sapere che i protagonisti di romanzi gialli classici possono essere tante cose, ma mai tanto baciati dalla Buona Sorte da vedersi piombare il colpevole tra le braccia aperte, senza dover prima incastrarlo. Pertanto, egli decise di fare qualcosa per scacciare questo spettrale fantasma dalle coscienze dei giallisti, intimoriti dalle accuse che potevano essere rivolte loro in tal senso, e dei lettori più critici: ovvero, letteralmente fece "esplodere il poliziesco di classe esponendo i limiti dei trucchi che gli scrittori di genere giocavano ai lettori" (come sottolinea Martin Edwards) e provò ad ideare una storia in cui nessuno, all'apparenza nemmeno l'autore in persona, sapesse chi era il colpevole. Egli, infatti, avrebbe dovuto dimostrare al suo pubblico esigente e interessato quanto fosse impossibile riuscire a mantenere i sospetti su si una data persona per più di qualche capitolo. Così, Berkeley decise di mettere alla prova la sua abilità, e presumo si sia domandato come avrebbe potuto trasformare la sua idea in qualcosa di reale. Forse proprio il riferimento alla realtà gli diede la risposta che cercava: infatti, forse non ve ne siete resi conto, ma ogni giorno esistono delitti reali che restano senza un colpevole. Magari c'è questo signore distinto e gentile, che secondo i vicini di casa si comporta sempre correttamente e non fa male a una mosca, il quale di punto in bianco si rende conto di odiare a morte qualcuno. Il signor X, che teme le conseguenze delle azioni di un pericolo pubblico come il suo fantomatico nemico, si ingegna e gli spedisce una scatola di cioccolatini avvelenati (oppure un libro con le pagine impregnate di veleno, una bottiglia di succo alterata con il detersivo, un pacchetto con all'interno un meccanismo che lo farà esplodere...) per metterlo a tacere per sempre. Il piano, accurato fin nei minimi dettagli, riesce e non esistono prove per incastrarlo. Pertanto, il nostro X torna alla vita di prima, sorridendo alla gente che incontra per strada e in pace con la propria coscienza, dal momento che ha fatto un favore all'umanità. Detto così, potrà sembrarvi fantascientifico; però vi assicuro che tutto ciò accade più di quanto crediamo. Perché allora, avrà pensato Berkeley, non sfruttare un caso del genere per il proprio delitto? Ognuno può fare le congetture che gli sembrano opportune, montando l'accusa in base agli indizi disponibili e a quelli che riesce a raccogliere per conto suo: il risultato probabilmente con cambierà e l'assassino rimarrà libero. In questo modo, egli ha costruito un delitto dove gli indizi materiali fossero ridotti all'essenziale (ma solo alla partenza, poi se ne sarebbero potuti aggiungere all'occorrenza) e le stesse considerazioni da farsi nella ricerca della risoluzione fossero infinite. Oltretutto, questa trama sarebbe risultata adatta a sviluppare alcuni aspetti-chiave cari alla narrativa di Berkeley: gli avrebbe permesso di criticare la giustizia e mettere in luce quanto essa fosse fallace, di prendersi gioco dei metodi di scrittura dei suoi colleghi, tanto presi nel loro ruolo da non vedere i limiti che si auto-imponevano, e di fare quei commenti al vetriolo che la sua vena sarcastica bramava e mettere in luce la propria intelligenza. Probabilmente nessuno sarebbe riuscito a dare vita a un romanzo giallo tanto astuto e machiavellico; e infatti ancora oggi "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" resta un magistrale tour de force ineguagliato.

Anthony Berkeley Cox, nato nel
1893 e morto nel 1971

Questo capolavoro del romanzo giallo classico, oltre a rispecchiare molto bene la concezione di romanzo giallo che aveva l'autore, ci mostra 
chi fosse veramente Anthony Berkeley Cox (nonostante non ci troviamo ancora ai livelli di "L'Omicidio è un Affare Serio", dove egli anticipò i tempi e cambiò le regole della tradizionale partita tra lettore e autore di gialli). Nato nel 1893 come la sua controparte femminile Dorothy L. Sayers, Berkeley fu un personaggio talmente complesso che probabilmente nessuno riuscirà mai a comprenderlo appieno, anche se più di una persona ha tentato di decifrare il mistero della sua esistenza. Tra le altre cose, vi consiglio di leggere "The Golden Age of Murder" di Martin Edwards, in cui quest'ultimo fa molte interessanti riflessioni su quanto le vicende fittizie e la personalità e mentalità dei personaggi stessi siano state modellate sulla vita reale dell'autore, passandole come al microscopio. Problematico, affetto da un fortissimo complesso di inferiorità nei confronti delle donne (probabilmente dovuto al fatto di essere sempre stato considerato, dalla madre autoritaria, più "tardo" rispetto al fratello Stephen e alla sorella Cynthia), inguaribile donnaiolo, misantropo e affettuoso di volta in volta, ma allo stesso tempo geniale innovatore della crime story britannica, questo strano individuo era capace di spiazzare gli interlocutori con i suoi repentini cambi di umore e idee. Probabilmente fu la guerra a dare il colpo di grazia al suo fragile equilibrio mentale: ritornato dai campi di battaglia, la sua salute fisica e psichica si aggravò e mise in luce quanto il conflitto l'avesse indebolita, tanto quanto l'intelligenza e la creatività erano invece solide. Aveva trascorso un'infanzia segnata dall'infelicità, tra fratelli considerati molto più dotati di lui e genitori non propriamente affettuosi, e la somma dei suoi traumi finì per generare in lui un atteggiamento schizofrenico, che si abbatteva sul prossimo di continuo, soprattutto quando interagiva con esponenti del sesso femminile, e che egli stesso tentò di esorcizzare attraverso la scrittura. Rinchiuso nelle sue proprietà di Monmouth House e The Platts, trascorreva le proprie giornate a riflettere su un'esistenza travagliata e a riversare fin dal principio nei romanzi gialli (già in "Dov'è Cicely?", del 1927, e nel primo volume della serie con protagonista lo scostante Roger Sheringham, "Uno Sparo in Biblioteca" del 1925, si possono rilevare alcune idee innovative sull'enigma e sulla concezione che aveva del genere letterario) le proprie frustrazioni, generando un'aura di mistero attorno a sé e alimentando la propria insoddisfazione.

Si prendeva gioco della giustizia, considerandola fallace e inutile per dirimere le questioni vitali degli uomini; intrecciava relazioni e flirt illudendosi di aver trovato l'anima gemella e finendo sempre per rendersi conto di essersi sbagliato; si lamentava del Governo e degli addetti statali dopo un'infelice esperienza lavorativa in un ufficio governativo: riuscì a fare tutto questo mentre ideava misteri strabilianti, dando nuova linfa al giallo all'inglese, tratteggiando con tono cinico i personaggi e le loro debolezze e mettendo in ridicolo le convinzioni più radicate della sua epoca. "I giorni del vecchio enigma poliziesco, basato interamente sulla trama e senza connotazione dei personaggi e concessioni allo stile e allo humor, sono, se non contati, in ogni caso nelle mani del pubblico" sostenne nella prefazione di "Gioco Mortale", il suo secondo romanzo, aggiungendo che "il romanzo giallo si sta sviluppando in un genere narrativo con un interesse più accentuato sul crimine, che tiene avvinto il lettore facendo leva non tanto sugli elementi matematici quanto su quelli psicologici". Tale convinzione, pertanto, non poté che indurlo a compiere l'ennesima pazzia: per il gusto di cambiare le solite regole noiose, infatti, arrivò a rovesciare completamente i canoni del giallo all'inglese, inducendo gli assassini a diventare le vittime, gli assassinati crudeli aguzzini, giudici dall'aria paterna figure lugubri e molto altro. Tuttavia, il suo gusto per il mistero finì ancora una volta per toccare l'esagerazione, tanto da indurlo a non rivelare mai niente di sé senza sotterfugi: non concedette interviste né autografi gratuiti e si divertì a confondere anche gli amici fornendo opinioni che cozzavano spesso tra loro, godendo nel mantenere uno stretto riserbo sulla sua vita privata al punto che solo di recente alcuni fatti della sua vita sono venuti alla luce.

In ogni caso, l'utilizzo della narrativa del mistero come mezzo per andare incontro e mettere freno alle proprie manie non dovette andare del tutto a buon fine, visto che il suo atteggiamento non mutò in meglio; anzi, con il passare degli anni purtroppo peggiorò e la sua mente divenne sempre più instabile, tanto che Julian Symons raccontò di averlo incontrato in un paio di occasioni e, in entrambe, si verificarono strane circostanze: una volta, un chiodo arrugginito sbucò dal suo piatto di minestra (lo aveva lasciato cadere qualcuno per sbaglio o lo aveva infilato lì lui stesso?) e un'altra interruppe addirittura la conversazione, mettendosi una maschera sulla faccia, gonfiando una pallina di gomma e facendo profondi respiri. Ma, in fondo, Anthony Berkeley non era quel mostro che fin qui può esservi parso: era un compagno che, per quanto un po' inquietante, si dimostrò insolito e sorprendente. Brillante romanziere, capace di creare atmosfere ricche di sfumature misteriose e trame complesse, oltre ad innovare il romanzo giallo con le sue trame in anticipo sui tempi, riuscì a rivoluzionare anche la concezione del detective tradizionale con l'introduzione, in "Uno Sparo in Biblioteca", di Roger Sheringham, un individuo scontroso, maleducato, fallace e abbastanza sconveniente il quale, prima di arrivare alla soluzione, finisce per sospettare di quasi tutti. Berkeley era uno che avrebbe potuto vantare e strombazzare una personalità fuori dal comune, però decise di non farlo. Amava indossare i panni di personaggi curiosi, spesso misogini e burberi, come se fosse sempre sul palcoscenico; a volte litigava con foga con alcuni membri del Detection Club, che contribuì a fondare fin dai primi giorni (una volta mi sarebbe piaciuto assistere a un suo incontro-scontro con Dorothy L. Sayers), ma in molti affermarono con convinzione che sotto sotto amava incoraggiare i giovani scrittori e, cosa da non dimenticare, possedeva una percezione della realtà fuori dal comune. La stessa identità di Francis Iles, con cui firmò "L'Omicidio è un Affare Serio", "Il Sospetto" (da cui Hitchcock trasse un film che, per quanto ben fatto, non riesce a rendere l'idea della grandezza del libro da cui è stato tratto) e "As For the Woman" rimase un incognita che venne svelata solo dopo la sua morte; una maschera che amava portare più di ogni altra, poiché era nata dal ricordo di un vecchio antenato, un contrabbandiere che veniva considerato una pecora nera dalla famiglia. Proprio il tipo che lui avrebbe preso in simpatia fin da subito e al quale avrebbe accordato la disponibilità per combinare qualche astuto ed eclatante scherzo.

Copertina di "The Poisoned Chocolates
Case" pubblicato dalla British Library
Crime Classics

Fatta questa premessa, credo che chiunque abbia letto "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" potrà 
riscontrare molte somiglianze tra le vicende raccontate nel romanzo e la narrativa di Berkeley. A parte alcuni dettagli, infatti, come negli altri mysteries dell'autore troviamo una sorta di "marchio", un concentrato di novità e audacia che si mescola a cenni biografici e convinzioni personali, tra temi trattati e personaggi simili a individui che ebbero un forte legame con la sua persona. Prendiamo in considerazione ogni punto, con ordine. Innanzitutto, è chiaro che Berkeley ha attinto alla propria esperienza di vita, ispirandosi a un primitivo Detection Club per dare vita al Circolo del Crimine che raduna i protagonisti della storia (pp. 7-13, 102-103, 106-107, 178, 184-186). Prima di diventare un'associazione vera e propria, infatti, il Club consisteva in una serie di riunioni-cene a cui partecipavano i membri proprio a casa dell'autore di questo libro. Si trattava di occasioni informali, dove si tendeva a mangiare assieme e a discutere una volta terminato il pasto; in qualche modo, proprio come accade in "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati". Inoltre, la caratteristica di invitare ospiti illustri per trattare argomenti di comune interesse (come nel caso di Moresby all'interno del racconto fittizio) è un altro cenno all'abitudine sviluppata dal circolo di convocare di volta in volta qualcuno che potesse contribuire a generare discussione utile per far interagire gli invitati. Per non parlare della varietà di personalità di cui era composto il Detection Club e del carattere elitario di questi incontri, ai quali potevano partecipare soltanto i migliori esperti di criminologia dell'Inghilterra (a parte pochissime eccezioni): nel romanzo, solo sei persone hanno superato la durissima prova per potersi unire a Sheringham e i suoi compagni. Infine, vorrei sottolineare una curiosità: ho notato come i personaggi di "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" presentino alcune somiglianze fisiche e caratteriali con alcuni tra i reali membri fondatori del Club londinese. Sir Charles Wildman è un signore austero, solenne, che affronta l'indagine da un punto di vista un po' antico e porta un paio di occhiali legati a un filo nero... proprio come usava fare G.K. Chesterton, il primo Presidente dell'associazione. La signora Mabel Fielder Flemming, al contrario, è una donna robusta, che ama portare cappellini stravaganti e ha l'aria di una cuoca, oltre a prediligere un approccio al crimine che abbia a che fare con il melodramma e che esercita una sorta di amore-odio per il sentimento... come Dorothy L. Sayers, la nemica-amica di Berkeley. Morton Harrogate Bradley presenta alcune delle caratteristiche dell'autore stesso, ma sembra lasciarsi mettere nel sacco un po' troppo per essere un ritratto spiccicato di quest'ultimo; e poi quel riferimento (pp. 64-65) al rischio di un'accusa per diffamazione, così caratteristico del modo di comportarsi di Milward Kennedy, in seguito accusato e portato in tribunale per tale motivo, mette la pulce nell'orecchio... Alicia Dammers, all'inizio, mi ha dato da pensare. Credevo fosse stata ispirata da Sayers, con la sua freddezza e il disprezzo radicato contro gli uomini; ma poi, quando ho letto delle sue critiche alla teoria di Sheringham, ho capito che molto probabilmente ella è stata ricalcata su E.M. Delafield, la sola donna che riuscì a mettere davvero in difficoltà Anthony Berkeley. Le caratteristiche c'erano tutte (pp. 187-188, 231-232). Poi, com'è ovvio, Sheringham è Berkeley: burbero, ironico fino ad essere cinico, critico verso la giustizia, interessato di criminologia e di psicologia, entusiasta di essere il Presidente del Circolo del Crimine ma non all'altezza per gestirlo; in fatto di caratteristiche fisiche e psicologiche i due sono identici. Infine Ambrose Chitterwick, che non sono riuscito a far combaciare con nessuno. Ecco, forse poteva assomigliare ad Agatha Christie in fatto di timidezza e astuzia nascosta. In ogni caso, sono convinto che per la creazione dei protagonisti di "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati", Berkeley prese ispirazione da persone con cui era in qualche modo in contatto (pp. 8, 11, 13, 15, 42-43, 56-57, 64-68, 79-81, 84-88, 91-99, 109, 112-113, 121, 123, 126-127, 135, 143-145, 162, 166, 175-176, 187-188).

In secondo luogo, nello stile tipico dell'autore, in questo straordinario romanzo del mistero il true crime, grande passione di Berkeley, occupa un ruolo molto importante (pp. 39, 53, 69, 82-83, 126-137, 143, 146-147, 164, 179, 209). A suffragio delle teorie di ognuno dei partecipanti alla sfida lanciata da Sheringham, i personaggi si sforzano di trovare corrispondenze reali con le loro ipotesi di soluzione: vengono citati, tra l'altro, il caso di Christiana Edmunds, l'"Avvelenatrice dei Cremini al Cioccolato" che avvelenò un mucchio di persone prima di essere fermata proprio grazie a dolci che comprava, alterava con la stricnina e poi riportava in negozio senza essere scoperta; il caso di Marie Lafarge, accusata di aver ucciso il marito con l'arsenico; il caso Horwood-Tatam, in cui un pazzo ha inviato una scatola di cioccolatini avvelenati a un commissario di polizia per ucciderlo; insieme a molti altri. Inoltre, in "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" si può trovare un tema molto caro a Berkeley: la fallibilità nelle sue molteplici declinazioni. Ad esempio, la figura del detective non è più quella onnisciente "alla Poirot", dove le conclusioni a cui egli giunge dettano legge, ma spesso e volentieri l'investigatore si scontra con teorie errate e segue false piste, con la conseguenza di risultare un po' ridicolo. In questo caso specifico addirittura tale segno distintivo viene portato all'esasperazione, dato che ben cinque criminologi sbagliano nel trovare la soluzione del mistero: non solo Sheringham, quindi, si trova a cadere in errore, ma pure altri quattro illustri rappresentanti del mondo della criminologia migliore. È questo continuo cambio di bersaglio l'ennesimo segno del segreto divertimento di Berkeley nel tormentare giocosamente e prendere in giro il prossimo. Ma non solo: Berkeley ha fatto in modo di includere la maggior parte di approcci al mistero, passando da quello induttivo a quello deduttivo, per poi mescolarli insieme, stravolgerli, farli a pezzi e ricomporli. Per ognuna delle forze della legge che agiscono (non solo dei personaggi) ha modellato un metodo specifico, che potesse rispecchiare i pregi e i difetti di ognuno:
  • Polizia: metodo (pp. 30-33), scoperte (pp. 31-32, 34, 36-37), teoria (pp. 35, 38-39), critica (p. 41)
  • Sir Charles Wildman: metodo (pp. 55-64), teoria (pp. 61-64, 70-73), critica (pp. 73-78)
  • Mabel Fielder-Flemming: metodo (pp. 80-84, 86-89, 92-95), teoria (pp. 96-100), critica (pp. 104-106)
  • Morton Harrogate Bradley: metodo (pp. 122-123, 130-131, teoria (pp. 128- 130, 133-135, 138-151), critica (pp. 143-144, 151-152)
  • Roger Sheringham (modellato sulla soluzione fornita dal racconto "Il Caso Vendicatore", da cui è tratto "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati"): metodo (pp. 153-154, 157-161, 165-171), teoria (pp. 171-189), critica (pp. 182-184)
  • Alicia Dammers: metodo (pp. 188-195), teoria (pp. 195-199, 201-211), critica (pp. 215-221)
  • Ambrose Chitterwick: metodo (pp. 223-224), teoria (pp. 225-236), critica (p. 236)
E nel fare ciò, ha messo in chiaro un concetto innovativo e sconcertante: niente è al riparo da una critica che spazzi via il castello di carte costruito dall'ingegnoso investigatore. Pertanto, il risultato è che ci sarà sempre qualcosa (una testimonianza, una prova rinvenuta per caso, una coincidenza) che potrà scombinare le carte in tavola, ed esisteranno infinite soluzioni a un problema all'apparenza facile da risolvere. Pensate che questo assioma ha assunto un carattere talmente forte che Christianna Brand, autrice di gialli classici, e lo stesso Martin Edwards sono riusciti a ricavare un'ulteriore soluzione a testa (nel 1979 e nel 2016) dai dati forniti da Berkeley, segnalando un colpevole ancora diverso da quelli noti! L'incertezza regna sovrana in "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati", il quale non racconta tanto una storia sull'indagine pura, quanto sulla sua interpretazione e sulle sue variabili (non per niente si inizia a sbrogliare la soluzione del caso già dal cap. 5 e l'ambientazione, di solito importante per il tratteggio della vicenda, resta quasi sempre la stessa e non viene descritta). Di conseguenza, ciò illustra quanto la fallacia tocchi pure gli autori stessi di romanzi gialli (pp. 76-77, 93, 121-122, 128, 130-131, 133-134, cap. 11), mettendo in mostra quanto essi siano ciechi di fronte all'illusione di creare storie perfette: come dimostrato, non esistono indagini in cui si abbiano soltanto certezze, e chi non si rende conto di ciò continuerà ad ingannarsi e ad ignorare il fatto che un delitto può avere infinite risoluzioni, e sta allo scrittore decidere cosa mettere in luce e cosa nascondere.

In terzo luogo, nel fornire molteplici soluzioni per un mistero, Berkeley si dimostra erede di E.C. Bentley, l'autore di "La Vedova del Miliardario", dove si verifica un caso simile; eppure, fa un passo avanti nel mettere un finale caratterizzato da quella stessa incertezza, in contrasto con la visione convenzionale secondo cui il compimento della vicenda del mistero è nel fatto che, alla fine, l'ordine viene ripristinato. Un altro esempio dell'ironia cinica di Berkeley; assieme al suo voler continuamente mettere in ridicolo i personaggi: grazie al suo tipico umorismo inglese, irriverente e cinico, egli si divertì a girare il coltello nelle debolezze degli attori sulla scena, portando alla luce manie, ossessioni, segreti e nefandezze di tutto questo gruppo di esseri umani, ognuno caratterizzato da pregiudizi e interessi personali da portare avanti senza curarsi delle conseguenze sugli altri. Se si ispirò a membri del Detection Club, mi auguro che nessuno di loro abbia notato le stesse somiglianze che ho individuato io: li avrebbe criticati ferocemente, se fosse stato davvero come sospetto, nonostante il suo intento fosse comunque quello di sottolineare quanto in generale fossero ingenui quei giallisti convinti di creare perfetti meccanismi a prova di critiche.

Infine, come ultimo punto caratteristico della sua narrativa, Berkeley fa in modo di prendersi gioco dei valori del suo tempo. Il sentimento critico si riflette nel ritratto che viene fatto della giustizia: egli fu sempre ossessionato dal fatto che il sistema giuridico inglese non fosse all'altezza delle aspettative e, di conseguenza, riuscisse solo a condannare le vittime e a salvare i colpevoli. Ebbene, anche in questo caso (nella spiegazione final, nella scoperta del colpevole nell'ironia della sorte che gioca al gatto col topo) si nota come l'autore avesse intenzione di sviluppare questo tema, benché non abbia raggiunto i livelli di sconcerto generati in romanzi successivi come, ad esempio, "L'Ultima Tappa" (pp. 11-13, 41, 49-53, 55-56, 64-69, 86, 88, 102-106, 114-115, 143-144). Altri sono poi gli elementi che riflettono la personalità dell'autore, a partire dalla concezione con cui vengono dipinte le donne (soprattutto la figura di Alicia Dammers, così simile a Delafield da suscitare questioni troppo lunghe da affrontare qui, ma non solo, vedasi cap. 15, pp. 155-160, 173-176, 231-232), passando per l'immagine del matrimonio che emerge dal racconto, non solo nella coppia dei Bendix e in quella di Pennefather, ma pure nella dedica al fratello Stephen (della cui moglie Berkeley era innamorato), e terminando in quel senso di inferiorità che prova Sheringham mentre Dammers demolisce la sua teoria. In questo modo, "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" risulta essere non solo uno strumento attraverso il quale Berkeley, ancora una volta, prova a dare sfogo alle proprie frustrazione e a rivelare se stesso; ma anche un capolavoro che al giorno d'oggi non ha eguali in fatto di qualità. Diversamente da quanto si possa pensare, con questo romanzo l'autore non voleva dare vita a un poliziesco fine a se stesso, ma piuttosto qualcosa che stava agli antipodi e che mettesse in luce quanto il genere fosse limitato dagli stessi autori e dalle loro idee poco progressiste. Non è scovare la soluzione più originale che interessa a Berkeley (anche se essa risulta comunque sbalorditiva, come la definì Julian Symons), quanto dimostrare quanto quest'ultima possa variare in base ai più piccoli cambiamenti e convincere il lettore che il colpevole, una volta individuato, potrebbe essere quello sbagliato. Un concetto che avrebbero potuto sviluppare assieme P.G. Wodehouse e Agatha Christie, secondo Martin Edwards; che ancora oggi suscita riflessioni e discussione e che ha permesso al romanzo e al suo creatore di entrare doverosamente nell'Olimpo del giallo (oltre che nelle più importanti liste dei migliori esemplari del genere, e nelle classifiche personali di critici rinomati, vedasi qui e qui).



Link all'edizione in lingua originale su Amazon

venerdì 11 settembre 2020

45 - "Arsenico" ("As a Thief in the Night", 1928) di Richard Austin Freeman

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore

Come forse avrete capito, se tenete d'occhio le recensioni che pubblico su Three-a-Penny, la mia esperienza di lettore di romanzi gialli classici segue una sorta di schema abbastanza definito, regolato sì dall'arbitraria voglia di leggere un dato titolo, ma soprattutto dalle stagioni meteorologiche che si alternano nel corso dell'anno. Non che questa sia una prerogativa esclusiva del sottoscritto: da quanto riesco a capire, leggendo di qua e di là sul web, siamo in tantissimi a mettere in atto questa pratica, facendo le nostre scelte un po' in un senso e un po' in un altro. Da parte mia, io mi sforzo di rispettare questa suddivisione per periodi nel modo più rigoroso possibile; non fosse solo per riuscire a calarmi nelle storie che leggo con maggiore facilità. Pertanto, con la fine dell'estate, ho accantonato le storie ambientate in luoghi esotici e vacanzieri, dove i viaggi di piacere e gli alberghi di lusso abbondano, per tornare a quello che forse è il mio amore più grande: i racconti in cui dominano il senso del gotico e le atmosfere si fanno più minacciose, oppure dove si trova uno spiccato contrasto tra il clima confortevole dei salotti riscaldati dalle luci soffuse, e quello terrorizzante al di là delle finestre sbarrate contro la notte. Le foreste scosse dalla pioggia e dal vento, i promontori sul mare in tempesta, le città nebbiose e misteriose, per non parlare delle bufere di neve che isolano avite dimore di campagna (ma questo è più indicato per i mesi di novembre e dicembre); tutto ciò, a mio parere, riesce a dare una marcia in più, a sottolineare la drammaticità delle tragedie che si verificano nella tradizionale crime story, e a infondere nel lettore quel brivido caratteristico nel giallo di stampo anglosassone, mentre egli siede accanto al fuoco e ascolta le gocce picchiettare sui vetri. Forse anche per questo motivo, da molti anni a questa parte, settembre è diventato uno dei mesi che preferisco in assoluto e questo genere di storie mi affascina in modo particolare. Immaginate un corridoio oscuro, in cui si deve farsi strada grazie alla luce di una candela, intermittente e generatrice di ombre mobili su muri e curve ad angolo; oppure di avanzare a tentoni in mezzo a un banco di nebbia all'apparenza solida e impenetrabile, o sotto scrosci battenti che impediscono di orientarsi con chiarezza: nonostante siano classificate come piene di cliché, tali situazioni riescono ancora a suscitare in me grande emozione.

Si possono fare tanti esempi su questo tipo di romanzo del mistero: nel genere metropolitano, mi viene in mente "L'Arte di Uccidere" di John Dickson Carr, in cui il giudice istruttore Henri Bencolin si trova coinvolto in un mistero che vede svolgersi la maggior parte delle indagini all'interno di un edificio terrorizzante, calato in una Londra spettrale; "Svanita nel Nulla" e "Qualcuno ti Osserva", esemplari tipici della narrativa di Ethel Lina White, mettono in scena ossessioni che spaziano da caseggiati a dimore isolate, in cui i personaggi sono perseguitati e devono mettersi in salvo; "Poirot e la Strage degli Innocenti" di Agatha Christie e "Notti di Halloween" di Leo Bruce sfruttano le caratteristiche della festa di Ognissanti (zucche intagliate e ghignanti, maschere paurose, armi giocattolo, visite a cimiteri e in generale l'atmosfera di terrore) per esaltare le loro storie in villaggi rurali; "Come in uno Specchio" di Helen McCloy prende in prestito elementi del folklore e della tradizione dei tempi bui, per proiettare spettri in una scuola femminile del presente e dare vita a una vicenda in cui non si distinguono più finzione e realtà. Ognuno di questi libri, a modo suo, traccia una rappresentazione della società e del mondo che ci circonda, e lo fa dipingendo situazioni dove non mancano i brividi sul piano delle emozioni forti. Tuttavia, come dicevo sopra, non di solo terrore si va avanti. Anche il contrasto tra ciò che è confortevole e ciò che mette disagio gioca spesso un ruolo di primo piano all'interno di un romanzo del mistero. Questo è un carattere che molte volte ho trovato nella narrativa di un autore in particolare: Richard Austin Freeman. Con il suo stile un po' antico ma melodrammatico, egli è riuscito a tratteggiare momenti pregni di drammaticità, infondendo un forte senso della realtà a situazioni che dovevano apparire fantascientifiche agli occhi dei suoi lettori di inizio Novecento, ma senza per questo rinunciare a inserire una dose di ironia o leggerezza per stemperare l'atmosfera o descrivere passaggi dove il sentimento, scollato dalla sua componente intimidatoria, attira tutta l'attenzione sul proprio lato romantico. In "L'Occhio di Osiride" avevo fatto un discorso simile, e anche col romanzo di oggi, "Arsenico" (Polillo Editore, 2016), ritenuto come un altro tra i suoi capolavori, ripeto questo concetto. Nell'indagine sull'efferato omicidio di un malato cronico, infatti, si alternano passaggi dove emerge la malvagità dell'assassino e la ragione pare lasciare il posto a un'anarchia di paura e sospetto, con altri in cui si nota quanto sia ingiusto considerare i personaggi e gli scenari domestici creati dall'autore come incapaci di trasmettere emozioni. Non di sole scienza e inchiesta è piena l'opera di Freeman: pure la parte meno materialista, quella legata alla sfera del sentimento, spicca per restituire al lettore un ritratto a tutto tondo del delitto e dei suoi protagonisti.

King's Bench Walk, Londra, strada in
cui abita il professor Thorndyke,
ritratta in una cartolina d'epoca

Tutto inizia quando il reverendo Amos Monkhouse, in viaggio dalla lontana parrocchia in cui risiede, si reca in visita al fratello nella sua grande casa di Londra. Quest'ultimo, Harold, ha sempre sofferto di salute cagionevole, ma negli ultimi tempi pare patire più del solito a causa di una malattia incapace da identificarsi con sicurezza. Come si scoprirà una volta consultato il medico, il dottor Dimsdale, tra i sintomi vi sono difficoltà respiratorie, un'insofferenza cardiaca che gli impedisce addirittura di alzarsi dal letto, e tutta una serie di altri piccoli disturbi che, sommati insieme, lasciano il malato impotente pur non essendo da imputare a un malessere preciso e definito. Resosi conto della situazione, Monkhouse non è per nulla tranquillo; non solo per la brutta cera di Harold, ma soprattutto perché in casa, al momento del suo arrivo, ha trovato con immenso sconcerto soltanto un amico di famiglia, Rupert Mayfield, e alcune domestiche; mentre la moglie di suo fratello si è recata nel Kent per sostenere la causa delle suffragette in cui milita, la nipote acquisita Madeline insegna a scuola e il segretario Wallingford è in giro per la città per affari. Come è possibile assicurare un'adeguata cura per il malato, se nessuno sembra volersi preoccupare di lui? Così, assecondato da Dimsdale e Mayfield (il quale funge da narratore della storia), Monkhouse si affretta a consultare uno specialista affinché trovi un rimedio per il fratello. A questo punto, Mayfield intraprende un viaggio di lavoro e si allontana da Londra, augurandosi che tutto possa risolversi per il meglio nonostante serbi nel cuore un certo timore... Timore che, non appena torna a casa, si rivela fondato: proprio la sera prima del suo rientro, Harold Monkhouse viene a mancare nella sua camera da letto, mentre legge un libro a lume di candela per non disturbare gli altri abitanti dell'edificio. Pure Barbara, la moglie del morto, ha fatto ritorno proprio quella mattina, senza riuscire a dare l'ultimo saluto al consorte; pertanto Mayfield, da amico di famiglia ed esecutore testamentario, decide di sollevare dall'amica le responsabilità aggravate dal lutto, prende in mano la faccenda e si fa portavoce per gli abitanti della casa, organizzando ogni cosa per assicurare un funerale degno per Harold. In fondo, tutti sono troppo sconvolti per riuscire a far fronte agli impegni e lui è lieto di potersi rendere utile, soprattutto grazie al proprio ruolo di avvocato.

Sfortunatamente, però, il giorno della cerimonia si presenta alla porta di casa un poliziotto che convoca i residenti a un'inchiesta che si terrà due giorni dopo, affermando che ogni altro impegno in vista della sepoltura è stato rinviato a una data da stabilirsi. Cosa può essere successo di tanto grave? Ebbene, come scopriranno ben presto i residenti di casa Monkhouse, Harold è stato ucciso freddamente grazie alla ripetuta somministrazione di arsenico, con molta probabilità sfruttando il cibo o la medicina ingeriti di volta in volta ogni giorno. Così, di punto in bianco Barbara, Madeline, Wallingford, le domestiche e lo stesso Mayfield vengono sospettati di essere assassini, piombando in un incubo ad occhi aperti che li vede piegarsi a fastidiosi interrogatori e perquisizioni da parte della polizia. Come risolvere la situazione facendo meno danni possibili? Per fortuna, Mayfield conosce l'uomo giusto per occuparsi del caso in fretta e senza suscitare scandali: il professor Evelyn Thorndyke, anatomopatologo e medico legale, il quale una volta interpellato si dice lieto di poter dare una mano al suo amico di lunga data. Così, l'investigatore si mette all'opera e, grazie al proprio ingegno di carattere matematico e alle apparecchiature di cui dispone, inizia a sondare il mistero della morte di Harold Monkhouse con metodo e criterio. L'unico problema è che, a suo dire, la soluzione del caso si trova nel passato, dove la scienza e i mezzi di cui dispone faticano a farsi strada. È forse possibile aggirare tale scoglio? Grazie a una serie di fortuite coincidenze e all'infaticabile ingegno di cui dispone, capace di selezionare la verità dalla menzogna e gli indizi vitali da ciò che li nasconde all'occhio inesperto degli altri, Thorndyke riuscirà a istruire un'accusa fondata e inattaccabile contro un insospettabile colpevole; anche se, per farlo, dovrà recare un grosso dolore al suo amico avvocato, legato a molti degli abitanti di casa Monkhouse da un sincero affetto.

Suggestiva copertina di un'edizione in
lingua originale di "Arsenico"

Come era stato con "L'Occhio di Osiride", anche nel caso di "Arsenico" ci troviamo di fronte a un romanzo giallo che risente ancora di una tradizione posteriore a quella della Golden Age della classica crime story, nonostante esso sia stato scritto nel 1928 (lo stesso anno, per fare un paragone, furono dati alle stampe "Bellona Club" di Dorothy L. Sayers e "Delitti di Seta" di Anthony Berkeley). Questo, tuttavia, non vuol significare che le vicende raccontate siano noiose. Anzi, nello stile tipico di Freeman, in questo libro troviamo una narrazione differente da quella dei titoli sopra citati, in cui spiccano in modo chiaro la capacità e l'intenzione dell'autore di voler evocare il mondo affascinante e suggestivo (nonché imperfetto) della fine dell'età Vittoriana, attraverso piccoli scorci sulla quotidianità del tempo e sulle vite di persone che ormai sono morte e sepolte da moltissimo tempo, ma allo stesso tempo, come imprigionate nell'ambra, ancora reali e tangibili agli occhi del lettore. Al di là dell'enigma puro, ciò che importa a Freeman è il tratteggio della società e della realtà dell'Inghilterra del suo tempo, restituito non come qualcosa di relegato a un passato freddo e asettico "da libro di storia", ma vivo nei ricordi di chi lo ha vissuto in prima persona: in sintesi, qui non sono i Grandi Avvenimenti a dominare la scena, con la loro pomposità, ma piuttosto azioni come la compilazione di un diario giorno per giorno, oppure il rapporto tra conoscenti e innamorati, tra gentiluomini e garbate signorine, fatto di inchini formali e toni lirici, ritratti di vie scomparse assieme ai loro abitanti nati e stabilitasi proprio lì da tempi immemori, descrizioni di dimore signorili e di quartieri ormai evolutesi in qualcosa di più moderno; tutte cose le quali possono essere rievocate dal lettore comune e assaporate con un pizzico di nostalgia e di tenerezza. Esse ci parlano di un'epoca passata e ormai cancellata dal progresso, che riesce ancora a vivere davanti ai nostri occhi, all'interno di queste ignare "biografie civiche" dell'autore, il quale ha destinato al futuro un'eredità preziosissima di frammenti che compongono un mosaico sulla tradizione, tanto rigoroso non solo da soddisfare la mera curiosità ma addirittura da restituire un ritratto veritiero dell'evoluzione della società, senza tralasciare fatti che altrimenti sarebbero andati perduti nelle pieghe del tempo. Il tutto, tra l'altro, in un modo che è riuscito a resistere alla prova del tempo, conservando un certo fascino e mescolando enigmi innovativi e una narrazione suggestiva che dimostrano chiaramente come il genere giallo riesca ancora a resistere a più di un secolo dalla sua nascita.

Pertanto, detto ciò, nonostante il fatto che Richard Austin Freeman appartenga a una generazione anagrafica posteriore a quella degli esponenti della Golden Age del giallo anglosassone, io non trovo che questo autore abbia qualcosa da invidiare ai suoi colleghi più giovani. Voglio dire, se la sua opera può suggerire un carattere improntato su uno stile e una caratterizzazione dei personaggi un po' datati, ciò non significa che il risultato finale sia meno interessante di quanto si potrebbe sperare, nel momento in cui ci avviciniamo a essa. Si è visto in "L'Occhio di Osiride", ma ciò appare chiaro pure in "Arsenico", il quale può essere incluso in quei romanzi gialli che definisco "antiquati" in senso positivo; non superati e vetusti da apparire fin troppo macchinosi e complicati da digerire, quanto capaci di sfruttare la tradizione in modo da accrescere il proprio valore intrinseco. Nell'altro romanzo di Freeman che avevo recensito, li avevo paragonati a scrivanie d'epoca accostate a tavoli dal design moderno, e oggi ribadisco il concetto: magari a prima vista le prime possono apparire un po' fuori luogo rispetto ai secondi e non reggere il confronto, ma non si può negare il fatto che i gialli di Freeman (le scrivanie), allo stesso modo di quelli di J. Jefferson Farjeon, riescano ad esercitare un'attrazione irresistibile per i lettori nostalgici (i compratori di mobili d'epoca) e costituiscano piacevoli esempi di period novel, ovvero quei romanzi dove, attraverso uno stile onirico che pare attraversare le nebbie del tempo, viene ritratto un certo stile di vita, con i suoi pregi e i suoi difetti. Ecco, "Arsenico" intrattiene con una sorta di semplicità apparente, dal momento che, in realtà, ci troviamo di fronte a complesse opere dove i dettagli contano e ogni cosa (ambientazione, caratterizzazione dei personaggi, stile, mistero) viene tenuta insieme da un collante "alla Dickens", solida contro lo scorrere del tempo e la fugacità delle mode. Se prestiamo attenzione, infatti, nel romanzo che recensisco oggi troviamo gli stessi elementi che risaltano all'interno delle altre opere di Freeman e gli hanno permesso di sopravvivere tanto a lungo: una scrittura improntata su un linguaggio specialistico, ma che non rinuncia a un pizzico di ironia e a un tono nostalgico e mai banale, attenta e coinvolgente a modo suo; una grande attenzione al rapporto instaurato tra i personaggi, fatto di interazioni numerose che si inseriscono in modo perfetto a spezzare i momenti più seriosi dell'indagine e infonde nei protagonisti una certa umanità; un enigma in grado di soddisfare i lettori più esigenti, dal momento che è imperniato su un metodo d'indagine scientifico ma non per questo soporifero e poco appassionante; un abile uso delle descrizioni degli ambienti che fanno da sfondo alle vicende raccontate, capaci di proiettare chi legge direttamente dentro le pagine e di dare uno spessore alle azioni che si svolgono sulla scena. E nonostante si tenda a criticare l'autore (e il suo investigatore Thorndyke) per un certo atteggiamento gelido e fin troppo tecnico (giustificato se ci si sofferma soltanto sull'esposizione del mistero in sé), bisognerebbe sottolineare quanto un simile giudizio sia riduttivo quando si prende in considerazione ciò che circonda il caso stesso di cui uno è creatore e l'altro risolutore: il buon professore sarà anche il prototipo del detective declinato sulla figura del medico legale, come il suo inventore, ma non bisogna dimenticare che egli riesce a dare prova di possedere un cuore sensibile a sentimenti come l'amore e la fedeltà. E che Freeman, nel dipingere le allegre vie della città, nel tratteggio dei dialoghi brillanti, nel toccare alcuni temi in particolare e nel descrivere il complesso ed emozionante rapporto tra individui, non è da meno.

Grafico tecnico-scientifico tracciato da Thorndyke sul
caso di Monkhouse (non ho messo la didascalia che
spiegava per non incorrere in spoiler)

Con questo discorso, però, non voglio far passare in alcun modo il messaggio che i mysteries di Freeman siano tutti uguali. Ho citato in parte "L'Occhio di Osiride" per sostenere le mie argomentazioni, non tanto per evidenziare come certi aspetti siano stati copiati tali e quali in "Arsenico". L'opera dell'autore, in realtà, è sì fondata sui quattro aspetti che ho menzionato qui sopra, ma di volta in volta sembra concentrarsi più su uno di essi che sempre sugli stessi. "L'Occhio di Osiride", infatti, a mio parere tende a mettere in luce soprattutto il rapporto sentimentale tra il dottor Berkeley e Ruth Bellingham (pur senza minimizzare la parte sull'enigma, sia chiaro); mentre il romanzo che recensisco oggi pone l'accento sui caratteri scientifici del delitto e sulle varianti che costituiscono le sue possibili soluzioni. Non per niente, Freeman si rifece a un caso reale per ispirarsi nella creazione della trama di "Arsenico", la quale risulta più articolata e complessa di quella sull'omicidio di Bellingham. In particolare, sfruttò il classico enigma di epoca Vittoriana che vide come protagonista la giovane Florence Maybrick. Nata Chandler, in Alabama, questa diciannovenne bellezza del sud, con i riccioli dorati e gli occhi dal color delle viole, si era innamorata e sposata con un uomo inglese di ventitré anni più vecchio di lei, James Maybrick. Costui, un omone che aveva fatto fortuna come agente del cotone, l'aveva condotta in Inghilterra e insieme si erano stabiliti a Battlecrease House, a Liverpool, dove lei aveva dato alla luce un figlio e una figlia. Tutto era andato bene, fino a quel momento; poi, con grande sconcerto, Florence aveva scoperto che lui si era fatto numerose amanti e che una di esse gli aveva dato addirittura cinque pargoli. Una faccenda a dir poco traumatizzante; aggravata dal fatto che, mentre la mentalità del tempo concedeva all'uomo qualche scappatella, alle donne ciò non era permesso nel modo più categorico. Florence aveva provato a ad imitare il marito, per trovare un po' di conforto, ma ciò che aveva ricevuto in cambio era stato un vestito strappato e un occhio nero. Pertanto, immaginate quale dovesse essere l'atmosfera a Battlecrease House; una casa dove il focolare domestico era influenzato da bugie e sinistri sospetti, e tutti quanti erano in qualche modo ostili verso la giovane intrusa americana. Quest'ultima, alla fine, sembrò decidersi a compiere un gesto drastico: nonostante gli occhi di tutti puntati addosso, comprò alcuni fogli di carta moschicida e, dopo averli immersi nell'acqua, ne estrasse l'arsenico per farsene a suo dire una crema facciale. La conseguenza, però, fu che da quel momento Maybrick iniziò a soffrire di una strana gastrite, e poco dopo vennero scoperte, da parte del fratello dell'uomo, alcune lettere compromettenti scritte da Florence a un amante segreto. Il giorno seguente tale rivelazione, la ragazza fu vista maneggiare una bottiglia di estratto di manzo nella stanza del marito; e nel giro di ventiquattr'ore, Maybrick morì misteriosamente. La cosa, com'è ovvio, suscitò un gran clamore e Florence venne accusata di essere un'assassina, nonostante non ci fossero prove materiali del fatto che l'arsenico fosse la causa del decesso di Maybrick. Il processo fu una prova durissima per la ragazza, sbeffeggiata dalla stampa e ingiuriata da un giudice che qualche tempo dopo venne rinchiuso in un manicomio; ma il momento peggiore fu sapere di essere condannata a morte e ascoltare ogni giorno gli operai intenti alla costruzione del proprio patibolo... Patibolo che, alla fine, restò inutilizzato. Già, perché la condanna di Florence venne commutata in una sentenza di reclusione a vita per un'accusa che non le venne mai imputata: la somministrazione dell'arsenico. Per quindici anni dovette attendere che la "giustizia" facesse il proprio corso, prima di vedersi libera di tornare in Connceticut, dove sembra si sia ritirata fino alla fine dei suoi giorni, terrorizzata che la gente di Battlecrease House potesse rintracciarla.

Considerata questa premessa, penso si capisca benissimo in cosa "Arsenico" sia diverso da "L'Occhio di Osiride". Se in quest'ultimo caso l'idea per la creazione dell'enigma derivò soltanto in modo marginale dal caso di true crime di Parkman-Webster, e l'interesse attorno al quale si sviluppa l'indagine riguarda soprattutto il sentimento nato tra Berkeley e Ruth Bellingham e le sue conseguenze in relazione al mistero, nel romanzo recensito oggi il parallelo con la triste vicenda di Florence Maybrick, assieme all'azione sulla scena del delitto, le inchieste volte alla scoperta del colpevole, gli esperimenti di Thorndyke e tutto ciò che deriva e ha a che fare con esso (legge, medicina, scienza, meccanica) occupano un ruolo decisamente più importante. Certamente, come ho detto, ci sono molte affinità tra i due titoli, come lo schema ripetitivo del "protagonista giovane e innamorato di una ragazza bisognosa di comprensione", gli ostacoli all'apparenza insormontabili tra loro, il sospetto che si insinua nella relazione; per non parlare di quegli aspetti legati alla forma, come le dettagliate descrizioni degli ambienti, lo stile pieno di digressioni di Freeman (pp. 7-9, 14-15, 21-23, 29, 41, 66-69, 75, 89, 93-94, 101-102, 109-110, \120-126, 129-130, 133, 140-141, 143-146, 168-169, 175-176, 183, 187-188, 100-202, 212-216, 219, 253) e le frequenti osservazioni di carattere legale, medico e scientifico (pp. 147-160, 178-179, 181-185, 204-207, 234-249, 255-258). Tutto ciò, tuttavia, in "Arsenico" sembra fare "da contorno" alle indagini vere e proprie di Thorndyke, dove si pone grande importanza riguardo la somministrazione del veleno, le azioni che ognuno dei personaggi potrebbe aver messo in atto per alterare il cibo oppure la medicina del malato, all'opportunità e al movente che ognuno dei sospettati poteva avere per giustificare un assassinio. In sintesi, in "L'Occhio di Osiride" assistiamo più alla nascita dell'amore sbocciato tra il protagonista e la sua amata, che all'inchiesta della polizia e di Thorndyke snodatasi di pari passo; in "Arsenico", invece, vediamo in atto il contrario, con un caso poliziesco tanto complesso ed elaborato da mettere in secondo piano il rapporto (comunque importante ai fini della soluzione finale) tra Mayfield e Barbara Monkhouse. Sono il metodo scientifico (e quello della polizia, cap. 7), la mente analitica, di Thorndyke, gli esperimenti che egli conduce nel suo laboratorio, i processi giuridici e le procedure ministeriali, la prassi della polizia, i sopralluoghi a conferire spessore a quest'ultimo mystery; l'amore, la gelosia, l'odio e le ossessioni giocano un ruolo sì decisivo, ma pur sempre secondario. In questo Freeman si è dimostrato un degno rappresentante della scuola della Golden Age di stampo inglese: oltre a essere interessato e ad affidarsi a casi reali per la realizzazione di trame originali da impiegare nei suoi libri, come fecero i membri del Detection Club, egli ha infuso una particolare cura nel perfezionamento dei dettagli materiali dei suoi delitti fittizi; cosa che lo ha reso uno tra i più importanti ed innovatori esponenti del genere fin dai primi tempi di esistenza dell'associazione.

Richard Austin Freeman, nato nel
1862 e morto nel 1943

A questo proposito, sorprende molto venire a sapere che Richard Austin Freeman fu forse il primo "vero" scrittore di romanzi gialli, intesi come un misto tra cruciverba mentale e strumento di descrizione sociale. E fa ancor più sensazione il fatto che, considerando la mole di romanzi e racconti che egli pubblicò nella sua lunga vita, la sua passione per la scrittura ebbe inizio non dalla semplice vocazione, quanto piuttosto da un forte senso di disperazione. L'autore, infatti, nato a Londra nel 1862 e con un passato di medico otorinolaringoiatra, dopo un'esperienza nel servizio coloniale e il matrimonio con Annie Elizabeth Edwards si ritrovò di punto in bianco a dover affrontare una lunga malattia contratta nel continente nero, con la conseguenza di dover rimpatriare al più presto e trovare una nuova occupazione, che si adattasse ai suoi disturbi frequenti e gli permettesse di sopravvivere. La svolta arrivò con un impiego presso la prigione di Holloway, dalla quale trasse cognizioni di procedura penale e psicologia criminale, ma soprattutto con la decisione in extremis (in seguito all'abbandono definitivo della professione) di darsi alla scrittura. Dopo aver raccontato la sua esperienza africana in un volume di genere diverso, nel 1902 esordì nella narrativa gialla con una serie di avventure con protagonista una sorta di furfante gentiluomo, artista della truffa e maestro del travestimento di nome Romney Pringle, scritte in collaborazione con un amico medico. Il genere dovette riuscirgli a genio, poiché appena cinque anni dopo iniziò a sfornare gialli su gialli con protagonista John Evelyn Thorndyke, il primo investigatore scientifico della storia dopo Sherlock Holmes, entrando prepotentemente nella storia della crime novel. Con il suo esordio dal titolo "L'Impronta Scarlatta" (1907), infatti, fondò il cosiddetto "giallo scientifico", in cui contano soprattutto le prove ricavate dalle analisi di laboratorio e da ricerche sulle prove materiali, senza affidarsi allo studio della psicologia. Thorndyke, uomo di grande avvenenza (al contrario dei "mostri di bruttezza" partoriti dalla mente dei colleghi del suo inventore), istruito in una quantità incredibile di materie e sempre padrone di sé permetterà a Freeman di dominare per quasi venticinque anni la scena del giallo classico, apparendo in ben 21 romanzi e 42 racconti, tra i quali vanno citati "L'Occhio di Osiride", "Il Testimone Muto", "L'Affare D'Arblay" insieme ai brevi "Il Caso Oscar Brodski" e "The Singing Bone"; quest'ultimo per un motivo ben preciso. Con questa storia, infatti, il medico prestato alla letteratura diede il proprio secondo contributo alla storia del mystery classico creando l'inverted story; ovvero, quella tecnica secondo cui il colpevole del crimine-omicidio è già noto al lettore e il gusto del racconto non sta tanto nella scoperta di "chi-l'ha-fatto", quanto del "come-è-stato-fatto" (un po' alla maniera del Tenente Colombo). Già questo mette in luce quanto fosse importante per Freeman lo studio del metodo utilizzato dal colpevole per perpetrare il suo delitto: addirittura, egli si impegnò a sviluppare e testare numerose tecniche criminali.

Grande esperto di procedure legali e di true crime (oltre ad inserire casi reali nei suoi gialli, analizzò a fondo il mistero di Croydon), innovativo finché mori nel 1943, promotore dell'autorità della chimica e della biologia applicate alle indagini, oltre che sostenitore dell'eugenetica (al contrario di moltissimi colleghi giallisti), Richard Austin Freeman è stato un grande giallista, resta uno dei pochi autori di polizieschi dell’epoca Edoardiana ad essere letto ai giorni nostri, assieme a G.K. Chesterton ed E. C. Bentley e, cosa ancor più rara, un'esponente del giallo degli albori come di quello della Golden Age. Oltre a quelli di Chandler, il quale lo riteneva "un magnifico artista" che "non ha eguali", riuscì ad ottenere anche gli elogi di George Orwell, il quale considerava la crime story della Golden Age come troppo moderna, al contrario di quella più formale e "antiquata" da lui rappresentata: "Ricordi la nostra passione per R. Austin Freeman? Io non l'ho mai davvero dimenticata, e penso che dovrei leggere tutti i suoi libri eccetto alcuni dei suoi ultimi" osservò quest'ultimo in una lettera a un'amica nel 1949, senza contare le numerose citazioni alle opere del suo idolo che fece in altri saggi. Per quanto mi riguarda, Golden Age e giallo degli inizi non fa differenza, se si tratta di opere di valore come "Arsenico": un eccezionale romanzo che, nonostante all'inizio possa apparire troppo lento, trova i propri punti di forza non solo nell'enigma di prima qualità, ma pure nel suo essere un po' antiquato e nella gran quantità di argomenti che vengono toccati nel corso della narrazione. Già; perché Freeman non si limitò a far fare semplici affermazioni di carattere superficiale al suo Thorndyke: lo fece agire in modo molto più attivo. Scienza forense, pratica legale, meccanica, medicina sono i temi più importanti toccati nelle indagini dell'investigatore, vengono trattati con un riguardo quasi reverenziale e restituiti al lettore in un linguaggio sì specialistico, ma senza usare toni troppo altezzosi e permettendo a chiunque di comprendere i passaggi più insidiosi.

Spesso, nei mysteries contemporanei, mi sono reso conto di come la "sostanza" sia debole e fiacca, poiché mancante di una base stabile e salda per quanto riguarda il fattore stilistico e contenutistico; nel caso di questo libro, invece, mi è sembrato che l'autore sapesse molto bene di che cosa stava parlando e avesse tutte le intenzioni di renderlo noto ai suoi lettori: lo dimostrano non solo i continui riferimenti alla legge (capp. 4-5-6 sull'inchiesta e pp. 31-32, 36-40, 110-118, 157) e alla medicina (pp. 12-14, 17-18, 24, 26, 78-81, 94-98, 101-105, 135-137, 160-162, 184-185, 236-237, 243-244, 248, 251-254), i quali portarono allo sviluppo di nuove tecniche da applicare alle indagini e influenzarono autori come Dorothy L. Sayers, J.J Connington e John Rhode; ma anche le parti in cui i personaggi entrano in rapporto l'uno con l'altro, a volte leggere ed altre meno, così da mutare la pesantezza di uno stile dalle descrizioni troppo dettagliate. In particolare, la  complessa e lunga questione riguardo l'arsenico (pp. 45-55, 57-65, 68-73), in qualche modo vero protagonista delle vicende, tenderebbe a diventare fin troppo astrusa per i profani e quindi ad annoiare; pertanto, Freeman si è reso conto di dover smorzare i toni e ha fatto in modo di dare il giusto pizzico di ingenuità a Mayfield affinché Thorndyke possa fare qualche battuta su di lui (come nel caso del cavallo di Troia, cap. 10). A questa serie di argomenti utili a sostenere la propria indagine fittizia, inoltre, l'autore ha affiancato un metodo ineccepibile, forse ancora troppo "ingenuo" per ingannare al meglio i lettori più abili (la cerchia dei sospetti è molto ristretta), ma perfetto in un romanzo di questo tipo, dove le innovazioni scientifiche dovevano sembrare degne di orizzonti fantastici. Come i suoi successori, infatti, Freeman si diede da fare per creare trame basate su soluzioni verificabili in laboratorio, solide e sicure, con una forte identità; sviluppò nuovi metodi delittuosi ("Se non fosse che l'autore è un medico, si potrebbe essere inclini a dubitare che gli omicidi in questa storia avrebbero potuto essere compiuti nel modo in cui li descrive" osservò addirittura il New York Times proprio riguardo "Arsenico") e spesso ideò i suoi omicidi fittizi ispirandosi a delitti reali. Ma soprattutto era deciso a dare più importanza alle modalità di uccisione, il punto forte dei casi di Thorndyke, sempre perfettamente logico e ispirato a criteri scientifici, a discapito delle sottigliezze psicologiche della Golden Age. Per questo motivo alcuni non apprezzano appieno l'opera di Freeman; in ogni caso, nonostante ciò, da parte mia mi sento più che disposto a perdonargli qualche piccola imperfezione.

Illustrazione che rappresenta Thorndyke
con il suo aiutante e biografo Christopher
Jervis in un disegno di H.M. Brock,
pubblicato sul "Pearson's Magazine"
nel 1909

Ma non è finita qui. A rinforzo dell'enigma e della storia in sé, infatti, l'autore mise alcuni ulteriori paletti di sostegno. Ad esempio, l'unione tra ambientazione e stile narrativo, come le passeggiate infinite di Mayfield in solitaria oppure in compagnia di Barbara o Madeline, diedero vita a visioni che al momento in cui il romanzo venne pubblicato (ma non solo) potevano essere rivissute nella realtà. Le immagini evocate da questi passaggi lirici contribuirono a creare la giusta atmosfera in cui calare le vicende tratteggiate, grazie a toni pratici che le caratterizzavano con minuziosa precisione e le rendevano familiari a chi leggeva, oltre che più intime (pp. 18-19, 21, 39, 41-42, 89, 9293, 97, 99-101, 104, 110, 144-147, 149, 169, 171, 174, 179-180, 188-189, 196-197, 209-216, 220). In tono nostalgico, dove si percepisce come la guerra e il Destino fatale abbiano esercitato una pressione non indifferente, osserviamo questa società che si spiega davanti ai nostri occhi; i parchi semi-deserti del periodo autunnale e invernale quando l'aria si fa più tagliente; le grandi case signorili di una volta, gelide e illuminate da un sistema elettrico che funzionava a scatti, dove per riscaldare le stanze bisognava affidarsi ai camini e la gente trascorreva le giornate a rammendare e a studiare; le vie della città brulicanti di vita durante il giorno, mentre alla notte si aggiravano soltanto i malviventi e la gente equivoca. Tutto ciò ci aiuta a visualizzare con la mente le ambientazioni, permettendoci di visitare il Temple del primo Novecento, oppure i cimiteri deserti e desolati della periferia, e restituendoceli come se fossero ancora in quello stato, con la loro fauna caratteristica di gentiluomini inamidati, di impiegati nevrotici e di signore della borghesia medio-alta con un contegno sussiegoso e altero. Costoro danno un tocco in più alle descrizioni, ce le fanno rivivere mentre agiscono, non restituiscono immagini a due dimensioni ma scenette vivaci e suggestive, tratteggiate secondo lo stile inimitabile che solo quegli autori nati in pieno Ottocento (come Freeman) possono vantare come una propria caratteristica: solenne, quasi pesante in quanto a dettagli, eppure proprio con una marcia in più grazie a questi ultimi, i quali contribuiscono a renderlo piena di sfaccettature e a dargli profondità.

L'altro grande sostegno per la storia di "Arsenico" e per l'opera dell'autore, invece, è dato dalla caratterizzazione dei personaggi. Senza dubbio un po' datati nei comportamenti, tra inchini e atteggiamenti vittoriani sull'ostentazione dei proprio sentimenti, essi restituiscono un'immagine vagamente retrò di educato garbo, come se stessimo leggendo le memorie di una vecchia zia, e trovano il loro compimento nel rapporto ingessato degli uni verso gli altri: i costumi li costringono ad adeguarsi a un rispetto esteriore delle convenzioni, ma dalle loro parole e dai toni con cui le esprimono percepiamo come essi posseggano un'anima ben più viva di quella delle mere marionette. Hanno una personalità solida, sono ben caratterizzati, e ciò indica come Freeman non fosse l'individuo gelido che il lettore medio immagina, basandosi sul suo essere un dottore vittoriano. "Saremmo dei cattivi biologi, e dei medici ancora peggiori se sottovalutassimo l'importanza di quella che è la funzione principale della natura [...] l'importanza vitale del sesso" e del sentimentalismo, spiegò per bocca di Thorndyke in "L'Occhio di Osiride": direi che è riuscito a mettere in pratica le sue parole, soprattutto vedendo quanto il professore stesso si senta coinvolto a livello emotivo nell'indagine di cui si occupa (pp. 123, 203-204, 261-263). Ma non solo il sentimento, anche l'ironia è una componente importante nei suoi personaggi: la ritroviamo soprattutto in Thorndyke e nel suo assistente Polton, ma pure Madeline dà prova di possederne in quantità. In "Arsenico", tuttavia, a trovare maggiore spazio sono l'amore perduto e l'ossessione che ne deriva (pp. 9-10, 20-21, 22-26, 33-34, 107-109, 165-166, 170, 172-173, 217, 220-224, 228-229, 231-232): quelli di Mayfield e Barbara verso Stella Keene, quelli di Wallingford per Barbara, quelli di Mayfield verso Barbara e viceversa. Nello sviluppo delle loro relazioni, divampano le passioni in modo meno manifesto di quanto accada ai giorni nostri, ma non per questo meno violentemente. Soprattutto i personaggi femminili (pp. 35-38, 68-73, 188, 191-192) appaiono soggetti a questo sconvolgimento interiore (e il disprezzato e debole Wallingford), come se l'autore fosse ancora legato a un'immagine datata della donna e non riuscisse ad accettare l'emancipazione femminile che stava prendendo sempre più piede (vedasi i commenti sulle suffragette alle pp. 8, 10-11). Però, allo stesso tempo, egli ha ritratto la figura di Madeline come una ragazza in carriera, con una propria professione e ambiziosa, che non trascura la soddisfazione dei propri bisogni sentimentali. Forse la sua educazione vittoriana tentava di ribellarsi all'idea di questo nuovo ruolo femminile nella società. In ogni caso, i protagonisti sono attori in carne ed ossa i quali, nonostante alcune caratteristiche stereotipate, agiscono e vivono con trasporto gli eventi contenuti in "Arsenico". Essi sono una parte importante in questo romanzo basato soprattutto sull'enigma; senza le loro personalità, sono convinto che gran parte del mistero sulla morte di Harold Monkhouse avrebbe perso molto del suo fascino. E di conseguenza "Arsenico" non sarebbe risultato il grande romanzo giallo che in effetti è.

Link ad Arsenico su IBS

Link ad Arsenico su Libraccio

Link all'edizione italiana su Amazon
 

Link all'edizione in lingua originale su Amazon