venerdì 28 febbraio 2020

26 - "La Rossa Mano Destra" ("The Red Right Hand", 1945) di Joel Townsley Rogers

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Se ricordate, nell'introduzione alla recensione di "Presagio di Morte" di Patrick Quentin, mi ero soffermato sul fatto che la classica crime story, soprattutto di stampo britannico, viene da sempre considerata come qualcosa di prevedibile e confortevole al limite del nauseante, mescolato a un'altezzosità che rasenta lo snobismo. Tra le altre cose, le è stato imputato di mostrarsi distante dalla realtà odierna, di narrare vicende noiose e soporifere e di sfruttare stereotipi stantii, con toni pedanti al limite della pignoleria e attraverso temi insulsi; soprattutto in Italia, forse a causa dalla grande popolarità che, all'interno del genere, ha indirettamente ottenuto Agatha Christie rispetto al resto dei suoi colleghi: i suoi romanzi, infatti, spesso si concentrano sullo sfruttamento di luoghi comuni (benché declinati in modo innovativo ed originale) e risultano ambientati in classici scenari come villaggi di campagna e case signorili, in cui vivono famiglie perlomeno agiate, con il conseguente risultato che il lettore occasionale si fa l'idea che tutta la letteratura di questo tipo ruoti attorno a tali elementi. Eppure, una simile considerazione della crime story della Golden Age non può essere accettata dal lettore appassionato e consapevole: anzi, benché fino a poco tempo fa anche fuori dal nostro Paese il "giallo" venisse considerato come qualcosa di estremamente convenzionale (in Inghilterra, ad esempio, erano soprattutto le Crime Queens Dorothy L. Sayers, Margery Allingham, Ngaio Marsh e Agatha Christie a dominare la scena editoriale, grazie ai loro libri all'apparenza espressione del mystery più tradizionale, prima delle riscoperta di altre opere più ciniche, destabilizzanti e sconcertanti come quelle di Anthony Berkeley), chiunque abbia letto numerosi romanzi gialli può confermare che niente potrebbe essere più distante dalla realtà.

Il più delle volte, infatti, se si presta la dovuta attenzione, ci si rende conto che il mystery viene declinato secondo criteri inattesi, che si concentrano su aspetti cinici e poco confortevoli della vita quotidiana ma ancora attuali ai nostri giorni, introducendo elementi di rottura con le aspettative di chi legge e trattando argomenti "scomodi" e spiacevoli, i quali vanno al di là delle impressioni superficiali che ci si può fare in un primo momento. Addirittura, alcuni autori sono riusciti a dare vita a romanzi del mistero insoliti e curiosi, spesso ignorati dal largo bacino dei lettori perché troppo in anticipo sui tempi ma, senza dubbio, di grande impatto; libri "leggendari, perduti, riemersi poco a poco dalle sabbie del tempo", come recita una definizione che ho letto qualche anno fa, scritti nella prima metà del Novecento ma da considerare come indispensabili nel dare vita al thriller moderno. Abbiamo già citato Anthony Berkeley, il quale ha creato alcune delle opere più innovative di questo genere come "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati"o, sotto lo pseudonimo di Francis Iles, "L'Omicidio è un Affare Serio"; oppure Patrick Quentin e il suo "Presagio di Morte": entrambi sono tipici esempi di come storie ambientate in tipici villaggi di campagna o secondo criteri consueti, in realtà presentino caratteri che provocano disagio e turbamento molto forti. Potremmo aggiungere anche i libri di Norman Berrow, ormai introvabili pure in lingua originale; quelli di alcuni autori francesi, pubblicati una sola volta negli anni '30; quelli di alcuni autori giapponesi, i "nuovi maestri" del genere; tutte opere speciali, nate da intuizioni al limite dell'impossibile e del paranormale e talmente originali da aver creato una sorta di mito. A questa ristretta cerchia, a mio modesto parere, appartiene pure "La Rossa Mano Destra" (Polillo Editore, 2005), il secondo romanzo scritto da Joel Townsley Rogers e che verrà ripubblicato dalla Penzler Publishing nel corso dell'anno. Si tratta di un vero e proprio tour de force, uno dei quei pochi romanzi (americani e non) che a ragione possono essere definiti perfetti, in cui il giallo classico si mescola al romanzo psicologico americano per creare un ibrido che cattura l'attenzione, grazie a una scrittura fortemente ipnotica e a un impeccabile enigma di tipo tradizionale; venato tuttavia da un'atmosfera psicologica oscura e inquietante, in cui l'orrore va di pari passo con l'inspiegabile.

"Dove Cottage, Grasmere" di Norman Wilkinson
(1878-1971), simile alla vista sullo studio di Adam
MacComerou
Siamo in America, sulle colline a nord del Connecticut, a un centinaio di miglia da New York. L'ambientazione è quella di una casa di montagna, modesta e immersa nella notte più profonda, all'interno della quale un giovane medico chirurgo, il dottor Riddle, sta provando a schiarirsi le idee riguardo alcuni strani fatti di cui è stato testimone o, per meglio dire, non è stato testimone. Infatti, come spiega fin dalle prime righe, l'auto con a bordo un piccolo demonio dagli occhi di fuoco e un passeggero dall'aria moribonda deve essergli passata accanto, mentre si trovava fermo lungo l'isolata Swamp Road, con l'auto in panne. Eppure il dottore, un uomo con i piedi ben piantati a terra, non ha visto niente del genere. Com'è possibile? Mentre malediceva la propria disponibilità a riportare un'automobile noleggiata in città e armeggiava con il motore ingolfato, egli aveva assistito al passaggio di un uomo a piedi, un individuo che gli aveva ricordato quegli spiriti indiani tanto famosi nell'immaginario della gente in America, e lo aveva visto svoltare a un bivio in direzione di un vicolo cieco; questo è sicuro. Ma di automobili lanciate a folle velocità non se ne parla. Tuttavia, è difficile (per non dire impossibile) che quasi dieci persone stiano mentendo oppure siano state vittime di un fenomeno di allucinazione collettiva, tra le quali si contano lo stimato professore di psicologia criminale Adam MacComerou, una ragazza spaventata ed emersa dai boschi di nome Elinor, una famiglia riunita attorno a un cane morente, il surrealista mezzo matto Grigori Unistaire e il direttore dell'ufficio postale della vicina cittadina Quelch. Tutti costoro hanno visto distintamente il corpo forse già privo di vita dell'inerme e mite S. Inis St. Erme sporgersi dal finestrino, e subìto la furia della corsa spericolata della macchina guidata dal piccolo "Doc" Cavaturaccioli, l'omino con le gambe corte e storte, lo sguardo omicida, il cappello a falda dentellata e il linguaggio forbito ma osceno; insomma, non c'è alcun alcun dubbio sul fatto che l'automobile dai sedili di pelle rossa e la carrozzeria chiara sia reale.

Ma il dottor Riddle, il nostro Doc, è consapevole che da qualche parte, all'interno dei fatti accaduti quella stessa notte, la quale non è ancora terminata e sembra ritardare a congedarsi, ci sia la risposta alla contraddizione che lo tormenta, qualcosa che non quadra nella ricostruzione della polizia e dei testimoni coinvolti. In questo modo, mentre la polizia batte i dintorni della casa in cui si trova e i luoghi dei delitti che hanno costellato le ultime ore, decide di trascrivere tutto quanto è successo dal momento in cui Inis St. Erme, assieme alla sua promessa sposa Elinor, ha deciso di sposarsi e di fuggire insieme a lei. Il nostro narratore, intervallando il proprio resoconto con osservazioni personali e la trascrizione di tutti gli elementi e indizi del caso, riassume il loro viaggio, come abbiano incontrato il dotto Cavaturaccioli, come siano stati aggrediti e come egli stesso sia entrato nelle terribili vicende che intende riassumere; in che modo si sia dovuto fermare alla casa del professor MacComerou e come, insieme a lui, abbia scoperto il primo di una lunga serie di cadaveri, l'ultimo dei quali addirittura senza la mano destra. Un dettaglio che lo tormenta, questo, assieme al fatto che il corpo sia stato sfigurato con i suoi attrezzi da chirurgo. Mentre siede nello studio di MacComerou a sondare i propri pensieri, raccontando i fatti nel pieno di un flusso di coscienza all'apparenza inarrestabile, Riddle si domanda come abbia fatto il misterioso assassino ad eludere i tentativi messi in atto per catturarlo: quest'ultimo appare sempre più come un misterioso fantasma, un'entità che si manifesta a tratti, che appare e scompare proprio come in un incubo. Deve essere reale, per aver investito il povero John Flail, il giardiniere di MacComerou che si stava dirigendo a casa per accogliere il fratello. Eppure, pian piano, rivangando tutti i dettagli più piccoli delle vicende di cui è stato protagonista suo malgrado e sistemandoli in modo giusto, ecco che il dottore inizia a intravedere la verità; una verità che è sempre stata sotto agli occhi di tutti, non solo i suoi, che nessuno si sarebbe aspettato ma che mette d'accordo tutti gli elementi del caso. Compreso l'impossibile passaggio di un auto a tutta velocità proprio lungo il bivio in cui Doc Riddle si era fermato, in quella Swamp Road che sembra appartenere sempre più a un sogno ad occhi aperti.

Copertina dell'edizione in uscita per i
tipi di Penzler Publishing
Spero che la trama, tratteggiata in questo modo, vi abbia suscitato ben più di una semplice curiosità (io ho fatto del mio meglio!). Comunque, se ancora non lo aveste capito, sarò più chiaro: questo giallo straordinario merita tutta la vostra attenzione. All'interno della mia classifica personale di gradimento, ben pochi mysteries possono vantare un posto al di sopra di questo; e probabilmente in fatto di sorpresa, terrore mescolato a mistero, scrittura ipnotica e sensazioni generate dalla soluzione dell'enigma, "La Rossa Mano Destra" occupa in assoluto lo scalino più alto. Eppure, è doveroso un avvertimento: come quasi tutte le più grandi crime novels, del tipo di "Il Segreto delle Campane" di Dorothy L. Sayers, questo libro può risultare talmente "solido" da sfiorare la pesantezza, in quanto a scrittura e a vicende narrate; è inutile nasconderlo. Si tratta, in qualche modo, della diretta antitesi della narrazione "alla Agatha Christie", agile e fulminea, e sfido chiunque ad iniziarlo (nonostante l'incipit elettrizzante) e a sentirsi fin da subito disposto ad arrivare alla fine del lungo, lunghissimo flusso di coscienza che caratterizza la storia, visto che non esistono capitoli veri e propri, e a voler districarsi nei continui flashback e nella miriade di dettagli che il buon (?) dottor Riddle si appresta ad enunciare a voi lettori. Però (e questa è la caratteristica che è riuscita a trasformare opere prolisse come il romanzo di Sayers sopra citato e lo stesso "La Rossa Mano Destra" in racconti godibilissimi) ben presto accade qualcosa che non ci saremmo aspettati: ci rendiamo conto di non riuscire più ad allontanare lo sguardo dalla pagina, perché il caso ci ha completamente rapito, come se fossimo stati ipnotizzati dalle parole dell'autore. Sulle copertine del Giallo Mondadori, un tempo, si era soliti ripetere a mo' di mantra: "Questo giallo non vi farà dormire!" oppure "La soluzione vi farà impazzire!". Ecco, possiamo prendere in prestito questo slogan e applicarlo anche al romanzo di Rogers, capace di attaccare il lettore alla sedia, tanto esso assomiglia a uno di quei suggestivi radiodrammi che un tempo venivano trasmessi dalle radio, che la gente irretita ascoltava mentre era seduta in poltrona o accanto alla stufa a preparare da mangiare, lasciandosi cullare dalle parole e trasportare in un mondo parallelo.

In ogni caso, non dovete pensare che sia tutto qui e che questo sia soltanto un racconto del terrore o una semplice storia adatta a distrarvi e a tenervi compagnia durante gli sconfortanti tempi che corrono. Quella che ci viene dipinta, infatti, è una vicenda ben più complessa, una sorta di incubo ad occhi aperti calato nella realtà allucinata di tutti i giorni, dove le apparenze contano fino a un certo punto e si deve scavare a fondo nella trama e nei suoi aspetti più reconditi per riuscire a comprendere la sua grandezza. A ragione, "La Rossa Mano Destra" è stato definito un'opera superba, un racconto che confonde, oscuro, terrificante e sempre pronto a stupire con un colpo di scena, calato in un miscuglio di generi che non si limita a comprendere il romanzo hard-boiled americano della prima metà del Novecento e il giallo tradizionale alla maniera inglese. Esso tocca una quantità incredibile di temi diversi, trattandoli con uno stile impressionante e sconcertante che, attraverso la voce narrante del nostro Doc, sembra portare in vita gli eventi che si verificano e mantenerli pregni di suspense e avvincenti fino alla fine. La desolazione e un certo cinismo, mischiati a uno strano tono sognante, pervadono qualunque riga del libro, conferendo un risvolto poetico ai terribili e sconvolgenti accadimenti della lunga notte estiva in cui l'opera è ambientata, e dando vita a un romanzo giallo indimenticabile, eccentrico, che combina qualcosa di complesso e meraviglioso allo stesso tempo, simile a "una cavalcata da brivido che farà impallidire i thriller moderni". E proprio al thriller moderno è stato accostato "La Rossa Mano Destra", poiché ne è stato antesignano e precursore forse ancora più dell'opera di Berkeley/Iles: è stato capace di giocare con le regole del mystery della Golden Age, benché si sia addentrato in un territorio allora inesplorato che metteva insieme caratteristiche all'apparenza inconciliabili, mettendo così d'accordo sia i cultori del giallo classico e quelli del romanzo più violento.

Se prestiamo attenzione ai tantissimi dettagli, importanti o meno a prima vista, con cui è stato impreziosito questo libro, possiamo osservare che nulla è stato lasciato al caso: come se ci trovassimo avvolti da una nebbia penetrabile solo a tratti, immersi in un sogno dai contorni brutalmente reali e caotico, man mano che procediamo nella lettura diventiamo consapevoli che ogni cosa viene riflessa come se fossimo davanti a uno specchio, parola d'ordine per riuscire a trovare il bandolo della matassa in cui il dottor Riddle si trova invischiato. Sebbene sia impossibile cogliere tutte le sfumature della vicenda (in parte a causa della confusa e continua ricerca del protagonista e narratori di trovare un senso al caos di fronte al quale si ritrova), vorrei soffermarmi sul fatto che davvero niente è come appare; a partire dall'ambientazione (pp. 34-35, 66-69, 83-84, 87-90, 105-107, 120-124, 199-202) ambigua e lussureggiante, tratteggiata in lunghe descrizioni e tangibile, benché onirica e goticheggiante, la quale descrive la vita di campagna e in particolare i boschi (come non pensare al celebre ritornello "Chi ha ucciso Laura Palmer?") con un tratto sinistro ma vivace, seducente eppure brutale ed inattaccabile, che impedisce di essere sicuri di sapere quando quanto ci viene presentato sia reale oppure fittizio, in una spirale che mescola indizi veri e altri offuscati. Come in un incubo, inoltre, veniamo guidati nel procedere della trama da una prosa poetica che stride, ostica ma suggestiva, con una propria logica peculiare e fatta di numerosissime coincidenze, la quale ci incanta ed inebria ma allo stesso tempo vorremmo respingere per istinto, lungo un percorso di "pseudo-flusso di coscienza" senza divisione in capitoli (solo paragrafi), simile a un fiume in piena, che sembra seguire quello della nostra mente quando sogniamo: infatti, dopo averci spiazzato nelle prime pagine (1-16), le quali ci introducono nello Stadio 1 del nostro originale sonno, e aver presentato al lettore la situazione e il Grande Dilemma ("Che fine ha fatto la Mano Destra di S. Inis St. Erme?"), nelle pp. 17-101 ripercorriamo lo speranzoso viaggio dei due promessi sposi fino al suo tragico finale (Stadio 2) in base al loro punto di vista; in seguito, passiamo ad osservare la storia seguendo la persona del dottor Riddle (pp. 101-165, Stadio 3), dal momento in cui si allontana dalla casa del suo ultimo paziente fino a quello in cui incontra Elinor che fugge dal bosco e dal Mostro; per raggiungere lo Stadio 4 costituito dall'unione dei punti di vista (pp. 165-205) e dal momento di riflessione finale, ed infine la conclusione (pp. 206-257) con la scoperta e lo scontro col colpevole, culminante in una constatazione che ha il sapore amaro del risveglio. Il tutto farcito di digressioni sugli argomenti più disparati (pp. 28-30, 52-72, 75-77, 80-85, 101-105, 108-115, 142-145, 188-195), dalle assicurazioni sulla vita alle abitudini bancarie degli americani della metà del Novecento, dall'arte surrealista al lavoro di un ufficio postale di provincia, fino a giungere al tema più importante di tutti: la psicologia, declinata secondo ogni sfaccettatura e applicata alla mente umana, in forma di pazzia e di istinto di sopravvivenza, di inganno e di ossessione (pp. 20-21, 78-79, 94-99, 124-127, 147-148, 160-161, 206-212, 215-216).

A questo proposito, va segnalato che ogni personaggio di "La Rossa Mano Destra" soffre di qualche complesso: il dottor Riddle è un cinico disilluso, Inis un eterno bambinone, Elinor un'insicura, MacComerou un pessimista, Dexter un uomo fin troppo sognatore e incapace di adattarsi alla vita, Unistaire un paranoico esaltato, Quelch un perfezionista ossessivo-compulsivo, Cavaturaccioli uno sconfitto che tenta di dare un senso alla propria esistenza e Rosenblatt un poliziotto di provincia che si è trovato a fronteggiare una sfida inedita secondo gli schemi che ha assimilato. Tutti loro, dotati di nomi tanto pittoreschi quanto le loro personalità (pp. 22-23, 37-39, 40-44, 46-49, 73-74, 77-78, 81-82, 85-87, 96-97, 107-108, 131-135, 168-169, 175-176, 178-179, 188-195), agiscono nel caos creatosi all'interno della storia, tentando di tenere in piedi quanto li riguarda, e finiscono per assistere al crollo delle aspettative, circondati dal terrore e l'inquietudine che trasudano dalle pagine e dalle coincidenze che li vedono protagonisti loro malgrado. In mezzo ad animali uccisi barbaramente, continui riferimenti al sangue e ad altre cose raccapriccianti che includono la medicina (altro tema di riferimento), assistiamo a un fenomeno unico all'interno del genere giallo, in cui tutto sembra tornare e le coincidenze iniziano a diventare qualcosa di più. Non voglio anticipare troppo, ma vi consiglio di prestare attenzione alle somme di denaro che vengono menzionate nel corso della vicenda, ai nomi di persone e luoghi che appaiono a più riprese, ai personaggi stessi che si dimostrano legati l'uno all'altro più di quanto si pensi a prima vista, ai delitti e alla psicologia che si cela dietro ad essi e agli oggetti ricorrenti. Forse l'autore sta tentando di rendere a parole la complessità della società oppure di dirci qualcosa? Chissà. Di sicuro, in mezzo a tutti questi elementi, si trovano false piste e gli indizi necessari a scoprire cosa sia accaduto a S. Inis St. Erme e come un auto sia diventata invisibile per qualche ora; per cui, lettori, in guardia! Tocca a voi districare la matassa e individuare dove appare chiaramente la soluzione dell'indagine; dopotutto, Riddle non ha mai visto né l'assassinato, né l'assassino, né l'automobile incriminata (altro risvolto inedito della storia), se dobbiamo dargli fiducia e credere alle sue stesse parole. Sin dalla prima riga, l'autore non vi concederà pace e vi condurrà passo dopo passo sulla sottile linea dell'ambiguità e dell'imprevedibilità, agghiacciandovi e gettandovi a più riprese fumo negli occhi, in una frenetica ricerca della verità in cui i padroni della scena sono sempre il Terrore e la Morte; ricerca che vi lascerà come ipnotizzati, grazie a un linguaggio stilisticamente spezzato e surreale, la ripetizione ossessiva di motivi ricorrenti e un ritmo inarrestabile.

Joel Townsley Rogers, nato nel 1896 e morto
nel 1984
Fa sensazione pensare che "La Rossa Mano Destra", osannato a destra e a manca, non abbia permesso al suo autore di diventare famoso mentre egli era in vita. Joel Townsley Rogers, infatti, non riuscì mai a godere del successo e ad ottenere un riconoscimento per la sua opera totale grazie ad esso. Nato nel 1896 a Sedalia, nel Missouri, manifestò fin dall'adolescenza uno spiccato interesse per la scrittura ed ebbe l'opportunità di assecondare questa passione mentre frequentava l'università di Harvard. Laggiù, prima di partire come aviatore per combattere nella Prima Guerra Mondiale, si cimentò nella stesura di poesie (questo forse spiega il lessico vario e particolare che utilizzò per "La Rossa Mano Destra"), editoriali e racconti di vario genere per i giornali universitari. Appena congedato, nel 1919 iniziò a scrivere per alcuni periodici e per tre anni diresse una rivista specializzata sui libri, ma in seguito al duraturo matrimonio con Winnie Whitehouse abbandonò l'impiego e iniziò a scrivere una quantità enorme di storie sul volo e sugli aviatori con lo pseudonimo di Roger Curly, forte della propria esperienza bellica. Nel 1922, in cambio della direzione della rivista Brentano, aveva ottenuto di poter dare alle stampe il suo primo romanzo, "Once in a Red Moon", una storia tra il pulp e il romantico; ma il campo che più gli si addiceva restava quello del racconto breve. All'interno di questo genere raccontò di tutto, dalla fantascienza all'avventura e al poliziesco; e fu proprio grazie a una storia mystery che venne notato da Lee Wright, editor della Simon & Schuster. Quest'ultima, in una lettera, gli confidò di essersi innamorata di quel particolare embrione di "La Rossa Mano Destra" e di volerlo pubblicare ampliato nella sua collana. Nel 1945, quindi, esso venne dato alle stampe e ottenne un grande successo, diventando inoltre oggetto di numerosi studi critici. Eppure, la fortuna non arrise per molto a Rogers, il quale tentò di continuare su quella strada scrivendo altri due romanzi, "Lady with the Dice" del 1946 e "The Stopped Clock" del 1958, ma ottenendo in cambio un rifiuto per il primo (che fu poi pubblicato da un altro editore) e per il secondo recensioni molto negative; con la sola accezione di quella che confezionò Anthony Boucher, grande autore di giallo classico e massimo studioso e critico del mystery tradizionale.

Nonostante il giudizio di quest'ultimo, quindi, Rogers decise di tornare alla scrittura di racconti e proseguì in questa strada fino al 1984, quando morì a Washington D.C., completamente al verde. Incredibile, se si pensa quanto sia stato unico e grande il suo contributo al giallo, non è vero? Eppure, in epoca moderna, in pochi si ricordano di lui, a parte gli stretti appassionati del genere giallo e alcuni dei suoi più grandi autori, come Donald E. Westlake ed Ed Gorman. Tuttavia, ciò non deve scoraggiare: a mio parere, ci sarà sempre qualcuno che spenderà volentieri qualche parola di lode nei confronti suoi e del suo "La Rossa Mano Destra": un testo straordinario, con un enigma fatto di mille giravolte e di altrettanti colpi di scena, capace di strabiliare ancora dopo tanti anni grazie all'aura di mistero che lo circonda (pp. 7-8, 15-16, 36-37, 72-73, 99-101, 134-139, 150-152, 155-158, 165-167, 186-188, 217-218, 225-226). Rogers riuscì a mettere insieme talmente tante cose che sorprende pensarle tutte assieme: la detective story di matrice classica, poiché presenta un apparato indiziario di prim'ordine, logico e assolutamente ineccepibile benché tortuoso al limite del magistrale; il thriller psicologico di stampo americano, con l'atmosfera di terrore che aleggia simile a una nebbia mefitica (pp. 25-26, 31-35, 68-70, 94-99, 152-154, 158-160, 162-167, 171-174, 181-186, 201-205, 207-213); il romanzo hard-boiled, perché caratterizzato dalla violenza, dal ritmo e da una brutalità senza pari; il noir, grazie al suo essere torbido e sfuggente come un'anguilla; il giallo di suspense, poiché gioca con la tensione e tiene i nervi del lettore sotto una spietata raffica di colpi martellanti. Un gioco di luci e ombre in cui niente è lasciato al caso, dove abbassare l'attenzione significa perdere un tassello importante per giungere alla verità, dove la febbre sale sempre più, tra mutilazioni e fughe nella notte, e tutto torna senza sbavature. Un viaggio nella pazzia e nella notte della mente, che avrebbe potuto benissimo implodere in se stesso a causa della quantità di elementi  bizzarri che lo costituiscono, ma che risorge come l'araba fenice e trionfa nel riuscire a consegnare una soluzione soddisfacente da punto di vista razionale. L'unica cosa che si poteva aggiungere? Una piantina per avere del tutto chiara la faccenda. Eppure anche così ci troviamo di fronte a un vero Capolavoro, a quello che il critico Roland Lacourbe definì come “un roman d’un brio éblouissant e l’un des deux ou trois grand chefs-d’oeuvre incontestables et incontestés de toute la littérature policièr”, a un testo di culto che chiunque appassionato di crime novels dovrebbe affrettarsi a procurarsi. Nella prefazione all'edizione in lingua originale del 1997, Edward D. Hoch commentò a proposito di questo romanzo: "Se questa è la prima volta che lo leggete, è un'esperienza che sinceramente vi invidio"; voi cosa state aspettando?

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venerdì 21 febbraio 2020

25 - "L'Omicidio è un Affare Serio" ("Malice Aforethought", 1931) di Francis Iles

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
L'idea di vivere in un paesino di campagna esercita da sempre un certo fascino nell'immaginario del cittadino medio, con il suo stare in mezzo alla natura, lontano dal caos e dalla frenesia della metropoli, a contatto con gente semplice e alla mano che ti riempie di attenzioni. Io stesso abito in una delle tipiche "contrade" che caratterizzano il territorio dell'Italia, dove tutti si conoscono, le persone che incontri per la strada sono sempre le stesse e il tempo passa lentamente, e devo ammettere che ci sono un sacco di lati positivi in questo modo di vivere. Tuttavia, anche se non lo sembra, a volte tutte queste caratteristiche possono assumere accezioni negative: l'isolamento nei mesi invernali si fa sentire e rende disagevole il contatto con la civiltà, ogni tanto la noia può diventare decisamente irritante e i vicini di casa, all'apparenza armati di buone intenzioni, si trasformano in gente invadente che desidera impicciarsi di affari che non li riguarda, per poi lasciarsi andare al gossip sfrenato e malevolo al riparo delle loro piccole tane, con la candida scusa di ammazzare il tempo. Anche con l'avanzare della modernità questi luoghi, spesso isolati, tendono (con implacabile testardaggine e grande stizza dei giovani) a conservare inalterato il loro cuore e a rifiutare ogni cenno di contaminazione: se da un lato fa piacere notare come il passato venga tenuto in gran considerazione, dall'altro è frustrante il fatto che tutto resti immutato, insieme al carattere comunitario che rende queste piccole collettività simili a famiglie allargate, dove tutti sanno e tutti si permettono di dire la propria; e come in ogni nucleo di individui, a causa di questa vicinanza ci sono tensioni sotterranee che scorrono in continuazione e nervi scoperti che, se toccati, portano di conseguenza a scontri e discussioni. Non tutto è rose e fiori, in queste circostanze, e qualcosa ne sapevano anche gli scrittori di romanzi gialli classici, i quali elessero come scenario tradizionale dei loro casi proprio i villaggi remoti della campagna inglese, piccoli agglomerati di cottage, giardini curati e chiese, in cui a venire ammazzato non era unicamente qualcosa di intangibile, ma spesso anche un essere umano in carne ed ossa.

Villaggi di campagna che, a parte per i cadaveri, sono affini alle "contrade" come quella in cui abito (è forse per questo motivo che il genere del "delitto-al-villaggio" mi sta tanto a cuore?). Ne è un esempio St. Mary Mead, il paese in cui vive Miss Jane Marple, l'arguta zitella creata dal genio di Agatha Christie: con le villette tutte uguali, il vicariato, le crinoline e i vezzosi abiti lunghi di pizzo grigio, esso si oppone alla tecnologia, ai suoi lunghi tentacoli e al "nuovo che avanza" rappresentato dal quartiere moderno di case in cemento e acciaio, mentre sullo sfondo i pettegolezzi dilagano volentieri a vivacizzare la vita monotona degli uomini e delle donne. Oppure King's Abbot, il paese in cui è ambientato "L'Assassinio di Roger Ackroyd" con protagonista Poirot, che viene acutamente dipinto come un covo di allegre e pungenti zitelle alle quali fa capo la signorina Sheppard, sorella del narratore. Una delle rappresentazioni più ciniche, brutali, satiriche e realistiche della comunità campagnola inglese (e, in un certo senso, delle nostre "contrade") venne tratteggiata anche da Anthony Berkeley, sotto lo pseudonimo di Francis Iles, in uno dei romanzi più famosi della storia della letteratura del mistero, il quale introdusse un nuovo modo per raccontare il disagio e la cattiveria della mente umana e operò una vera e propria rivoluzione all'interno del genere, indirizzando il percorso da seguire negli anni a venire per gli autori di gialli psicologici. Con esso, egli spinse agli estremi la concezione secondo cui il centro focalizzatore dell'azione doveva essere il colpevole, insieme alle sue emozioni e al suo cervello malato, e diede vita a una vicenda tanto entusiasmante quanto sgradevolmente sconcertante, dove la comunità del villaggio gioca un ruolo molto importante nello svolgersi della vicenda. Il titolo di questo libro innovativo è "L'Omicidio è un Affare Serio" (Polillo Editore, 2003), e oggi sarà il soggetto della mia recensione.

"Tennis and Englishness" di Eric Ravilious, un dipinto che illustra il tipico
tennis party a cui era solita partecipare la gente dei villaggi di campagna
inglesi
Il romanzo si apre con la descrizione di un tennis party, tipico evento della società provinciale nella prima parte del Novecento, a cui partecipano tutte le persone più in vista del villaggio di Wyvern's Cross: ci sono il vicario Torr, assieme alla moglie e ai due figli; le signorine Peavy e Wapsworthy, zitelle; il romanziere Peter Davy e signora; i fratelli Hartford e Ivy Ridgeway; l'avvocato Chatford; il giovane Dennis Bourne, in vacanza dalla scuola; la viziata Gwynyfry Rattery e l'ereditiera Madeline Cranmere, oltre ai signori Bickleigh che ospitano l'evento nella propria abitazione. Come capiamo ben presto, l'interesse principale dei convitati alla festa non è quello di giocare a tennis, ma di passare al setaccio le vite dei principali peccatori del circondario e giudicare in modo sprezzante la condotta di costoro, senza accorgersi che questo comportamento rivela, tra le righe, quanto loro stessi siano corrotti e ipocritamente falsi. C'è chi cela dietro a una facciata caritatevole la propria natura puritana e bigotta, chi si diverte a fare osservazioni sulle relazioni degli altri e sopprime una forte insoddisfazione sentimentale, chi ostenta un finto perbenismo in pubblico e adotta una ferocia disdicevole al riparo da orecchi indiscreti. E c'è anche chi nasconde una natura oscura e maniacale sotto un carattere mite e dimesso. In particolare il cortese dottor Bickleigh, infatti, soffre di uno spiccato complesso di inferiorità, accentuato dal carattere dominante della moglie Julia e mescolato a un'inarrestabile ansia dovuta a numerosi fattori (l'essere nato in una famiglia modesta, il non aver frequentato le scuole "giuste", l'aver sposato una donna di rango aristocratico), e per compensare questo suo sentirsi inadeguato non trova di meglio che vivere continue avventure amorose con chiunque gli capiti a tiro. Tuttavia è un uomo amato dai vicini, molto più della consorte, e di conseguenza si considera una specie di dongiovanni i cui piccoli peccati possono essere perdonati: un uomo ai cui piedi non possono che cadere tutte le giovani fanciulle del circondario, il quale può permettersi di accontentare qualunque sua passione amorosa; tanto più che da anni sta cercando la donna giusta per lui; e poco importa che ogni volta sostenga di averla trovata: tutto ciò non ha la minima importanza, per lui, nemmeno l'intrattenere più di un rapporto nello stesso tempo.

Non c'è da stupirsi, quindi, che decida di meritare un trattamento migliore quando, dopo un secco rifiuto da parte della sua ultima spasimante, la moglie lo umilia di fronte a tutto il gruppo riunito in occasione del tennis party. La conoscenza della bella Madeline Cranmere, appena trasferitasi a Wyvern's Cross, lo spinge a riflettere seriamente sul suo infelice matrimonio, ad immaginare ogni notte come potrebbe essere la sua vita senza l'odiata consorte, e alla fine la prospettiva di diventare ricco lo convince che bisogna fare qualcosa per cambiare la sua infelice situazione attuale. Dapprima si prepara il terreno per poter chiedere in sposa la giovane ereditiera, poi tenta ingenuamente di convincere la moglie a concedergli il divorzio: se ella accetterà, tanto meglio; altrimenti si vedrà costretto ad eliminarla, sebbene a malincuore. In seguito a numerose vicissitudini, il dottor Bickleigh adotterà un attento comportamento e studierà un piano a prova di bomba (dopotutto, l'omicidio è un affare serio, no?) per assicurarsi un futuro radioso assieme alla sua anima gemella; e poco importa se ciò prevederà di fingere, mentire, tentare di assassinare qualche scomodo testimone o ostacolo e gettare alle ortiche la propria etica professionale e reputazione: la soddisfazione personale dovrà essere al primo posto, per un uomo che ha già incassato troppi duri colpi dalla vita e vuole essere finalmente felice e, soprattutto, libero. 

Herbert Rowse Armstrong, conosciuto
come l'Avvelenatore di Hay-on-Wye
e prototipo per il personaggio del
dottor Bickleigh
Se Richard Austin Freeman, con "The Singing Bone", inventò l'inverted story (ovvero il racconto dell'indagine al contrario, con un colpevole noto fin dall'inizio e i suoi frenetici tentativi di scampare alla giustizia come oggetto della trama) e in seguito Freeman Wills Crofts applicò questa forma narrativa dando maggior risalto all'alibi dell'assassino in "Il Volo delle 12.30 da Croydon", con "L'Omicidio è un Affare Serio" Berkeley capì che ormai i tempi erano maturi per cambiare le regole della tradizionale partita tra lettore e autore. Già con "Gioco Mortale", il romanzo firmato con il suo vero nome che precede questo sconcertante libro, aveva iniziato ad elaborare un tipo di storia diverso dal solito, in cui era più importante la figura dell'assassino rispetto al rigore della presentazione di indizi ed alibi. "I giorni del vecchio enigma poliziesco, basato interamente sulla trama e senza connotazione dei personaggi e concessioni allo stile e allo humor, sono, se non contati, in ogni caso nelle mani del pubblico" sostenne nella prefazione di quel volume, aggiungendo che "il romanzo giallo si sta sviluppando in un genere narrativo con un interesse più accentuato sul crimine, che tiene avvinto il lettore facendo leva non tanto sugli elementi matematici quanto su quelli psicologici". Attraverso un tono cinico, brutale e satirico, Berkeley decise quindi di capovolgere tutte le regole non scritte (riguardo ambientazione, personaggi, punti di vista ed enigma) e di impostare la vicenda come se essa venisse vista dagli occhi dell'antagonista, dipingendolo come una vittima che decide di liberarsi dalla minaccia costituita da un'altra persona e tratteggiando i suoi sentimenti contrastanti e chiaramente malati per dare al lettore un'idea precisa della psiche dell'omicida; e in questo caso la vicenda diventa ancor più strabiliante se si pensa che essa venne delineata a partire da un caso reale di avvelenamenti multipli, il quale vide come protagonista Herbert Rowse Armstrong, l'unico avvocato nella storia dell'Inghilterra ad essere salito sul patibolo per omicidio. Berkeley, come pure la Sayers ed altri suoi colleghi, fu un fervente appassionato di casi autentici, meglio con protagonisti belle donne e distinti uomini della borghesia inglese, per cui non stupisce che abbia voluto sfruttare una storia tanto diabolica quanto stupefacente come quella di un signore di mezza età, il quale invitava in continuazione un socio scomodo e sua moglie a prendere una tazza di tè avvelenato, senza curarsi del fatto che entrambe le sue vittime erano consapevoli del rischio e si affannavano freneticamente a trovare scuse per rifiutare di farsi mandare all'altro mondo.

Una serie di eventi, questa, che senza difficoltà avrebbe divertito un tipo sardonico come Anthony Berkeley Cox e che, paradossalmente, poteva essere adattata anche alla sua figura. Tra il famigerato dottor Bickleigh e il suo creatore, infatti, ci sono molte affinità significative. Per avere una visione chiara e dettagliata di questa somiglianza, vi consiglio di leggere "The Golden Age of Murder" di Martin Edwards, in cui l'autore viene attentamente messo sotto il microscopio; in questo caso. vi basti sapere che entrambi avevano 37 anni al momento della pubblicazione del romanzo, soffrivano di un complesso di inferiorità nei confronti delle donne (quello di Berkeley probabilmente era dovuto al fatto di essere sempre stato considerato, dalla madre autoritaria, più "tardo" rispetto al fratello Stephen e alla sorella Cynthia), erano degli inguaribili donnaioli, avevano un nome che suonava simile l'uno all'altro, erano capaci di spiazzare gli interlocutori con repentini cambi di umore, vivevano nel Devon, possedevano una particolare concezione della vita matrimoniale (Berkeley dedicò "L'Omicidio è un Affare Serio" alla moglie Peggy, onore alquanto sinistro visto come evolve la vicenda al suo interno), erano entrambi molto fantasiosi e, ovviamente, condividevano l'interesse per i delitti e il crimine. Niente male, per un opera che non intendeva essere apertamente autobiografica. Berkeley, infatti, mantenne sempre uno stretto riserbo sulla sua vita privata, e sono di recente alcuni fatti della sua vita sono venuti alla luce. Forse usò la narrativa del mistero come un mezzo per andare incontro alle proprie manie e, in qualche modo, mettervi un freno? In ogni caso, l'esperimento non dovette andare del tutto a buon fine, visto che il suo atteggiamento non mutò in meglio; anzi, con il passare degli anni purtroppo peggiorò e la sua mente divenne sempre più instabile, tanto che Julian Symons raccontò di averlo incontrato in un paio di occasioni e, in entrambe, si verificarono strane circostanze: una volta, un chiodo arrugginito sbucò dal suo piatto di minestra (lo aveva lasciato cadere qualcuno per sbaglio o lo aveva infilato lì lui stesso?) e l'altra interruppe addirittura la conversazione, mettendosi una maschera sulla faccia, gonfiando una pallina di gomma e facendo profondi respiri.

Ma, in fondo, Anthony Berkeley era un compagno che, per quanto un po' inquietante, era di sicuro insolito e sorprendente. Brillante romanziere, oltre ad innovare il romanzo giallo con le sue trame in anticipo sui tempi riuscì a rivoluzionare anche la concezione del detective tradizionale con l'introduzione, in "Uno Sparo in Biblioteca", di Roger Sheringham, un individuo scontroso, maleducato, fallace e abbastanza sconveniente il quale, prima di arrivare alla soluzione, finisce per sospettare di quasi tutti. Berkeley era uno che avrebbe potuto vantare e strombazzare una personalità fuori dal comune, però decise di non farlo. Amava indossare i panni di personaggi curiosi, spesso misogini e burberi, come se fosse sempre sul palcoscenico; a volte litigava con foga con alcuni membri del Detection Club, che contribuì a fondare fin dai primi giorni (una volta mi sarebbe piaciuto assistere a un suo incontro con Dorothy L. Sayers), ma in molti affermarono con convinzione che sotto sotto amava incoraggiare i giovani scrittori e, cosa da non dimenticare, possedeva una percezione della realtà fuori dal comune. La stessa identità di Francis Iles, con cui firmò "L'Omicidio è un Affare Serio", "Il Sospetto" (da cui Hitchcock trasse un film che, per quanto ben fatto, non riesce a rendere l'idea della grandezza del libro da cui è stato tratto) e "As For the Woman" rimase un incognita che venne svelata solo dopo la sua morte; una maschera che amava portare più di ogni altra, poiché era nata dal ricordo di un vecchio antenato, un contrabbandiere che veniva considerato una pecora nera dalla famiglia. Proprio il tipo che lui avrebbe preso in simpatia fin da subito e al quale avrebbe accordato la disponibilità per combinare qualche astuto ed eclatante scherzo. 

Caricatura dell'autore, Francis Iles alias Anthony
Berkeley Cox, nato nel 1893 e morto nel 1971
Tornando a "L'Omicidio è un Affare Serio", esso rivela numerosi aspetti della concezione pessimistica del mondo che Berkeley/Iles aveva e sulla sua idea di crime story. Ad esempio, i personaggi sono tutti antipatici, indice rivelatore dell'anima (apparentemente) misantropa dell'autore, il quale una volta dichiarò che non esisteva al mondo qualcuno che lui non odiasse cordialmente. Gli uomini sono esseri insignificanti, che la maggior parte delle volte vengono ingannati e bistrattati dalle donne, e queste ultime sono ancora peggio: tratteggiate sempre come maliarde ingannatrici, capaci di mettere nel sacco il povero malcapitato per il semplice gusto di farlo, vengono di conseguenza trattate con maschilismo e spesso malmenate malamente. Sono esseri superiori agli uomini, diversi come il giorno dalla notte, capaci di farli sentire sempre a disagio e fuori posto, che si fanno seguire per poi attaccare una volta raggiunte, simili a sirene. E dove volete che venga ritratto un simile gruppo di individui sgradevoli, se non un un villaggio di campagna dove tutto e tutti generano odio, il pettegolezzo è più velenoso dell'arsenico nel tè e le chiacchiere ciniche possono portare un uomo sul patibolo? In confronto a St. Mary Mead, qui siamo all'inferno; niente conforto nelle casette con giardino, niente pizzi ad ingentilire gli arredamenti e le vite degli uomini e delle donne, niente aiuto dal vicino in un momento di difficoltà: solo maldicenze e delusioni.

Lo stile stesso della scrittura è teso, scarno, crudo e brutale, senza filtri nel raccontare le percosse a una giovane ragazza, i rapporti nella grotta e le avances spudorate; mentre le bugie di Bickleigh, sempre più astruse man mano che la vicenda prosegue, suonano tanto astute nella sua mente quanto contorte sulla carta stampata e dipingono un enigma di prim'ordine, lucido e e penetrante come pochi altri. La trasformazione del mite dottore insignificante, sottomesso alla moglie cattiva e bisbetica, in un superuomo capace di architettare un delitto che dovrebbe essere perfetto è quasi ipnotica: ci sentiamo attratti da questa figura in evoluzione, un po' dispiaciuti per lui e impauriti allo stesso tempo da quanto possa escogitare nella sua follia omicida. È il cinismo, con l'ironia pesante, che la fa da padrone in questo magistrale esempio di come la natura umana possa degenerare, se sottoposta a troppa pressione. Il finale ha una nota beffarda che racchiude la concezione definitiva di Berkeley sulla realtà che ci circonda: la giustizia è destinata a fallire, in un mondo dove ciò che è giusto e ciò che è sbagliato si possono confondere e mistificare tanto facilmente. Tutto ciò, in sintesi, consacra quello che The English Review definì come il romanzo "possibilmente più scioccante mai scritto. Esso è psicologicamente e straordinariamente buono; è l'opera di un narratore nato; è ironico e spiritoso oltre che tragico". Probabilmente non tutti sono d'accordo come questa lode, e qualcosa mi dice che nei piccoli villaggi inglesi del tempo non dev'essere piaciuta la descrizione della vita comunitaria di Wyvern's Cross. Dopotutto, però, perché ostinarsi a credere che laggiù sia tutto rose e fiori, quando le nostre amate crime novels ci raccontano da quasi un secolo come stanno davvero le cose?

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venerdì 14 febbraio 2020

24 - "Assassinio sul Cervino" ("Murder on the Matterhorn", 1951) di Glyn Carr

Copertina dell'edizione pubblicata da
Mulatero Editore
Nella maggior parte dei casi, quando si parla di classica crime story, lo scenario che viene subito alla mente è quello tipicamente inglese. Ciò è dovuto al fatto che il giallo deduttivo è nato in Inghilterra e, quindi, è naturale ritrovare ambientazioni che si riconducano a luoghi siti dall'altra parte della Manica, dove sono apparse le storie che hanno fatto scuola in questo campo letterario e che si possono considerare come prototipi di trame e vicende che sarebbero venute in seguito. Ad esempio, il villaggio di campagna (magari dotato della sua villa signorile sulla collina) rappresenta lo sfondo più familiare al lettore appassionato di mysteries di matrice anglosassone, poiché conta innumerevoli prove di scrittori e scrittrici che in esso si siano cimentati; basta citare Agatha Christie e la sua Miss Marple, oppure un libro quale "L'Assassinio di Roger Ackroyd". Anche i cosiddetti "delitti universitari", ambientati in prestigiosi college come quello di Oxford o in rispettabili scuole di formazione femminili, sul genere della Meadowbank School di "Macabro Quiz", fanno ormai parte dell'immaginario collettivo sul romanzo giallo classico; per non parlare delle morti avvenute a bordo di treni di provincia o di barche lanciate lungo fiumi e laghi (come in "Morte a Vele Spiegate" di C.P. Snow). Tutte queste ambientazioni, benché espressione di un mondo universalmente riconosciuto anche al di fuori della terra d'Albione, rimandano a un microcosmo ben preciso: quell'Inghilterra ideale in cui esistono i delitti, le prove, i moventi, i sospettati e poco altro, in cui è quasi immaginabile trovare protagonisti e usi e costumi di una società differenti da quelli inglesi. Eppure, il bello del classico romanzo del mistero sta nel riuscire a ritrarre un gruppo di persone sempre riconoscibile e, allo stesso tempo, di proiettarlo su qualunque ammasso eterogeneo di esseri umani; quindi, non dovrebbe stupire il fatto che, ogni tanto, possiamo incappare in una vicenda lontana (in fatto di lunghezze spaziali) dalla "solita" Inghilterra e dai suoi scenari campagnoli o urbani, tipici di storie quali "C'è un Cadavere dall'Avvocato" di Michael Gilbert e "I Delitti di Praed Street" di John Rhode, a favore di ambientazioni esotiche come quelle dei romanzi di J. Jefferson Farjeon.

Come abbiamo visto, anche Glyn Carr si è divertito ad ideare storie che prendevano ispirazione dal giallo più classico di tradizione britannica e dal filone narrativo che rese celebre John Dickson Carr, ovvero quello del mistero della camera chiusa; decidendo tuttavia di trasportare l'ambientazione a livelli più estremi, dove i limiti non sono più costituiti da solidi muri intonacati, ma da ripide pareti di roccia il cui limite superiore viene rappresentato dal cielo azzurro delle quote più elevate, pur mantenendo gli elementi classici del romanzo del mistero. Lo ha fatto ambientando "Morte Dietro la Cresta" in Galles; e ha ripetuto lo schema di volta in volta in ogni suo mystery, come si può capire dalla seconda avventura con protagonista Abercrombie "Filthy" Lewker, "Assassinio sul Cervino" (Mulatero Editore, 2019), che recensisco oggi. Ambientato sui monti che dividono la Svizzera dal Paese in cui vivo (ovvero l'Italia), in esso possiamo ritrovare il gruppo chiuso di personaggi dei tipici delitti nelle case di campagna a cui ci ha abituato Agatha Christie, con segreti nascosti e invidie personali, intrighi ed enigmi basati sugli indizi, la ricerca della verità intrapresa attraverso lo scandagliare la psicologia dell'assassino; senza tralasciare, tuttavia, un originale sfondo costituito dal villaggio di Zermatt, sulle Alpi. In questo modo, Glyn Carr è riuscito ancora una volta a trasportare tutti gli elementi della tradizionale partita tra lettore e scrittore al di fuori della cornice classica, pur mantenendo il fair play che ci si aspetterebbe da un giallista del suo calibro, e a consegnarci una storia che non delude le aspettative; anzi, probabilmente migliore del suo esordio nella fiction del mistero.

Piantina dei luoghi del Cervino
interessati in "Assassinio sul Cervino"
La vicenda si apre mostrandoci il nostro Abercrombie Lewker, mentre è intento a preparare l'occorrente per la consueta vacanza sui monti, in seguito al termine della stagione teatrale di cui è stato protagonista. Egli ha tutta l'intenzione di fuggire dal caos cittadino di Londra e di rifugiarsi sulle vette delle Alpi, sul versante svizzero del Cervino, per godere delle belle giornate che esse riservano e per fare numerose escursioni. Eppure, a pochi giorni dalla partenza, si presenta a casa sua nientemeno che Sir Frederick Claybury, il suo ex-capo nei Servizi Segreti di Sua Maestà. Quest'ultimo, preoccupato per alcune voci udite lungo i corridoi del potere, propone al capocomico di aiutarlo a salvaguardare l'integrità dell'Inghilterra e del Governo britannico, incaricandolo di tenere d'occhio Léon Jacot, un individuo belligerante e dall'aria poco rassicurante, il quale appare intenzionato a conquistare la Francia come uomo politico emergente e ad assicurare la propria influenza alle forze politiche che riusciranno a convincerlo a seguire la loro causa. La minaccia del comunismo è ancora molto sentita nei Paesi dell'Ovest Europa, per cui Lewker dovrebbe assicurarsi di scoprire quali siano in realtà le intenzioni di Jacot e, soprattutto, riuscire a convincere quest'ultimo a schierarsi dalla parte "giusta" delle barricate. Filthy, da parte sua, non vede di buon occhio questo incarico improvviso, poiché vede minacciato il proprio tempo libero che aveva intenzione di dedicare alle arrampicate in montagna; tuttavia, Sir Frederick gli rivela che anche Jacot, come lui, è un fervente ammiratore dell'arte dell'alpinismo, e gli confida che egli sta dirigendosi proprio a Zermatt (la destinazione di Lewker) per intraprendere una salita sulla cresta nord-est del Cervino, al fine di battere il record di velocità di conquista del monte. Incapace di rifiutare una richiesta d'aiuto da parte del suo ex-capo e di sottrarsi al proprio dovere, alla fine Abercrombie accetta e, grazie a un passaggio a bordo dell'aereo del cognato di Jacot, John Waveney, raggiunge la propria meta a Zermatt: l'Hotel Obelgabelhorn. Si tratta di un albergo alla mano, non troppo elegante ma nemmeno misero, in cui ci si può imbattere in un variegato esempio della natura umana: oltre a Jacot e alla giovane moglie Deborah, un'avvenente ragazza, Lewker incontra il dottor Greatorex (un amico di lunga data) assieme al giovane scrittore-alpinista Bernard Bryce; il conte e la contessa De Goursac, altolocati esponenti della società dei primi del Novecento; la signorina Margaret Kemp, la quale accompagna la burrascosa zia Beatrix Fillingham, un donnone esuberante e rumoroso.

A prima vista, il gruppo appare ben affiatato, con un miscuglio di giovani e meno giovani ed interessanti personalità; eppure, già dalla prima sera dal suo arrivo, Filthy coglie numerosi cenni di antipatia rivolti alla persona di Léon Jacot, il quale assume un comportamento a dir poco testardo e maleducato di fronte alla preoccupazione del gruppo all'idea che egli scali il Cervino in condizioni poco ottimali. Inoltre, Lewker non riesce a capire quali siano le intenzioni del francese in fatto di tendenze politiche e la rivelazione (da parte di Deborah Jacot) che egli sia stato minacciato da un gruppo di estremisti non lascia presagire niente di buono. Quando, nel corso del giorno seguente, verrà scoperto il cadavere di Jacot ai piedi del Matterhorn Glescher, apparentemente vittima di un incidente in montagna, Abercrombie si domanderà se questa morte non sia il frutto di una complessa macchinazione, piuttosto che un semplice errore di calcolo: erano in tanti a desiderare la dipartita di Jacot, a partire dai suoi compagni all'Obelgabelhorn, passando per un fantomatico avversario politico e finendo con la famiglia di una guida di montagna, coinvolta in una faccenda di cuore tutt'altro che piacevole. Filthy deciderà quindi di affiancare Herr Schultz, il commissario incaricato delle indagini, per scoprire cosa sia stato il responsabile della morte di Jacot e, soprattutto, come qualcuno possa aver spinto giù dalla montagna quell'abile scalatore e procurarsi, allo stesso tempo, un alibi inattaccabile.

La cittadina di Zermatt, ai piedi del Cervino svizzero, negli
Anni '50
Ancora una volta, ci troviamo di fronte a una particolare variazione del delitto della camera chiusa e a un romanzo giallo in cui ricorrono alcuni elementi che già erano presenti in "Morte Dietro la Cresta". Come era stato in quest'ultimo libro, l'ambientazione occupa una parte importantissima all'interno della trama: essa, infatti, si può considerare come la particolarità dei casi di cui si occupa Lewker, essendo tratteggiati con suggestivi sfondi di paesaggi montuosi, descritti con abilità e competenza e che danno originalità agli omicidi creati dall'autore. È un piacere immergersi in questa natura accuratamente descritta e in scenari solenni e pacifici, pur nella loro intrinseca insidiosità, che si possono ancora vedere al giorno d'oggi e nei quali l'uomo si ritrova ad essere una misera parte dell'insieme (pp. 30, 32-35, 40-44, 59-60, 64-66, 74-75, 147-149, 162-163, 173-174, 209-211, 226, 244, 264, 274, 277): assistiamo alle escursioni di Lewker fino alla baita di Heinrich Taugwalder, la guida sospettata di aver ucciso Jacot per proteggere l'onore della figlia, come se le vivessimo in prima persona, immaginando di sederci assieme al nostro investigatore dilettante sulle rocce e di ascoltare le chiacchiere infinite di Miss Fillingham; vediamo con gli occhi della mente il cielo azzurro e gli alberi che ci circondano; quasi sentiamo il cinguettio degli uccelli che cantano sui rami e percepiamo la presenza del Cervino alle nostre spalle, attore non protagonista di questo romanzo. Senza dimenticare tutti quei piccoli dettagli sulla vita dell'appassionato di arrampicata (pp. 38, 56, 58-59, 71-73, 75, 65-66, 85, 88, 96-98, 102-113, 124, 128-129, 135-136) e sulla sua storia, citando tragedie realmente avvenute come quella di Edward Whymper, i quali ci permettono di entrare nei modi di un vero scalatore e di far parte di un mondo che, anche se estraneo ai più, ci viene mostrato nella sua parte migliore, attraverso scene che appartengono al passato (i riferimenti ai "signori" e alle guide del posto, le immancabili pipe e la possibilità a non "cambiarsi per cena"). Non mi stancherò mai di sottolineare la bravura di Glyn Carr nell'essere stato capace di trasformare un punto "debole" come l'ambientazione in un elemento di forza della sua narrativa: nella recensione di "Un Piccolo Omicidio di Natale", avevo fatto notare come lo sfondo spesso risultasse la caratteristica che si riesce meno a far diventare "originale", tra quelle che costituiscono il romanzo giallo, poiché esso necessita di essere affiancato ad almeno un altro elemento della narrativa gialla per poter esprimere al meglio il proprio potenziale.

Ebbene, nel caso delle crime novels di Glyn Carr le descrizioni, accurate al punto da sembrare passaggi di guide turistiche vere e proprie (pp. 110-113, 222-229), diventano invece l'elemento più forte della trama, poiché permettono al lettore di immergersi totalmente nella lettura e lo tengono incollato alle pagine, sopperendo ai piccoli difetti e ai cliché che ogni tanto ritornano nella storia. Anche in "Assassinio sul Cervino", infatti, rimangono ancora alcuni stereotipi difficili da estirpare: la presenza di scienziati-dottori forse malvagi, che rendono simili Ferriday e Greatorex; la politica che gioca sempre un ruolo di primo piano all'interno delle vicende, con i comunisti dipinti come diavoli in terra anche se non occupano un posto importante nella soluzione finale (pp. 20-23, 31, 49, 77-78, 80, 82, 143-145, 177); le storie d'amore un po' sdolcinate tra personaggi sospettati (Hilary e Michael nell'esordio dell' scrittore, Bryce e la signorina Kemp in "Assassinio sul Cervino"). Tuttavia, altri temi che avevamo ritrovato in "Morte Dietro la Cresta" vengono qui approfonditi meglio e articolati in modo da uscire dalle solite descrizioni trite e ritrite: la presenza di citazioni, ad esempio, si fa meno pedante dell'esordio (pur restando comunque massiccia!, vedasi pp. 16, 18-19, 24, 56, 60, 80, 83, 93, 99, 146...), e l'ironia non è troppo forzata. Sopra a tutto il resto, però, resta questo interesse dell'autore nel dilungarsi sulla vita dell'escursionista, che ci viene presentata in modo meno descrittivo e "freddo" e, quindi, riuscendo a modellare la trama su di essa. Benché lontani dalle vicende nelle case di campagna inglesi, dalle "crociere con delitto" e dagli antichi mausolei del sapere, il "delitto nel villaggio di campagna" diventa qualcosa che possiamo proiettare in un contesto in cui vengono inserite nozioni dettagliate, pur senza estraniare queste ultime: la gita di Lewker alla Schönbielhütte del cap. 13 ne è un tipico esempio, con un racconto che si sarebbe potuto fare nel salotto di un cottage ma avviene in una baita sulla vetta di un monte, tra aneddoti sull'arrampicata, piccoli dettagli sulla vita di montagna, accorgimenti e abitudini che gli alpinisti devono adottare e buone norme da seguire quando si decide di scalare una parete rocciosa; ma anche la spedizione per recuperare il cadavere di Jacot è stata molto suggestiva.

I personaggi, infine, pur restando un po' stereotipati nei ruoli che Glyn Carr ha loro assegnato, riescono a dimostrare di avere un'anima più libera, che li rende imprevedibili, sospetti e molte volte simpatici. Tra tutti, mi ha colpito Miss Beatrix Fillingham, con la sua irruenza e scontrosità mista alla curiosità e al gusto per il pettegolezzo di una Miss Marple più caustica e decisamente senza freni inibitori (l'incontro con Filthy durante la sua ascesa alla baita di Taugwalder, alle pp. 66-69, e il loro colloquio in seguito al fattaccio poco prima del finale, alle pp. 225-232, mi hanno divertito come poche altre cose lette ultimamente). Ma il protagonista, istrionico e padrone della scena, resta sempre lui, il capocomico Abercrombie Lewker: originale, brillante, dotato di senso dell'umorismo, di inventiva e acume, rappresenta una delle figure di investigatore dilettante meglio riuscite. Pomposo ma capace di provare pietà, sempre con la citazione di Shakespeare pronta sulle labbra, è consapevole del proprio ruolo di deus ex machina e di personaggio cardine della vicenda, colui che risolverà il mistero della morte impossibile di Léon Jacot. Intraprende la scoperta di indizi e analizza le ipotesi con cognizione di causa, per arrivare ad inchiodare il colpevole attraverso accurate descrizioni delle azioni dei personaggi e la ricerca nella psiche umana degli attori coinvolti sulla scena che si ritrova a calcare. Immagina proprio così la sua funzione: come quella di un attore che interpreta una parte e che deve coinvolgere lo spettatore-lettore nei suoi pensieri, spingendolo a mettere in pratica le proprie capacità. Ma senza dimenticare di essere un personaggio comico, che prende un po' in giro quei detective troppo seriosi di alcuni gialli suoi contemporanei.

Frank Showell Styles (alias Glyn Carr),
nato nel 1908 e morto nel 2005
L'ironia fu forse la caratteristica principale nella scrittura di Frank Showell Styles, vero nome di Glyn Carr. Nato a Birmingham nel 1908, dopo la scuola egli lavorò in banca per una decina d'anni, finché decise di mollare questo impiego che non lo soddisfaceva. Partì quindi per un lungo viaggio in giro per l'Europa, che dovette tuttavia interrompere allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Arruolatosi nella Royal Navy come artigliere, durante il conflitto riuscì a salire di grado fino a giungere a quello di comandante. Tornata la pace, Styles decise di rinunciare a tornare a lavorare nel mondo della finanza e si trasferì in Galles, dove trascorse il tempo ad arrampicare (fu da sempre la sua passione più grande), a dedicarsi al teatro e a progettare la sua nuova carriera di scrittore. Nel 1947, infatti, diede alle stampe il suo primo romanzo, "Traitor's Mountain", una spy story che mescolava il genere a quello umoristico, e il successo di quest'ultimo lo spinse a dare il via a una serie più convenzionale, sotto pseudonimo e con protagonista un divertente capocomico un po' sovrappeso e dalla citazione facile che si ritrova ad indagare su casi misteriosi ambientati in alta montagna. In realtà, già durante una scalata del Milestone Buttress gli balzò in mente come "fosse facile progettare un omicidio perfetto in quel luogo"; pertanto decise di "ideare un sistema [adatto] e costruirci attorno una trama adeguata". In questo modo, come Glyn Carr firmò "Morte Dietro la Cresta" (primo di quindici gialli classici, tra cui vanno ricordati questo "Assassinio sul Cervino" e "Il Picco delle Streghe") e Abercrombie Lewker fece il proprio ingresso nella letteratura del mistero, dopo tre romanzi più avventurosi. La serie fu accolta favorevolmente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, soprattutto per la capacità dell'autore di descrivere con doverosa attenzione le scene di arrampicata e i luoghi in cui esse si svolgevano. Dopo "Fat Man Agony" (1969), Styles concluse le avventure di Lewker per dare il via a un'altra serie, il cui protagonista divenne un ufficiale della marina britannica al tempo delle guerre napoleoniche; nel frattempo, tuttavia, continuò a scalare e a fare escursioni, oltre a scrivere una quantità enorme di guide, manuali e racconti sulla montagna (in totale furono circa 160), finché non morì nel 2005. I romanzi di Abercrombie Lewker (in parte ripubblicati dalla Rue Morgue Press, secondo la quale pare esista un romanzo inedito andato perduto) sono storie leggere, divertenti e facili da leggere, proprio come voleva scriverle Styles: ognuna presenta un delitto apparentemente impossibile, alla maniera di quelli creati da John Dickson Carr con la stanza chiusa trasformata in un ambiente impervio e pericoloso, caratterizzato da pregi e difetti.

Proprio la scrittura, capace di essere leggera ma non frivola (vedasi ad esempio pp. 15-17), ha costituito la fortuna di "Assassinio sul Cervino", assieme a un enigma niente affatto male e delineato a fondo. Pur recando uno stile piacevole e umoristico, infatti, la storia può contare pure in una struttura meglio ripartita dell'esordio dell'autore: oltre a prestare molta attenzione agli usi e costumi dell'epoca in cui essa è ambientata, troviamo un mistero decisamente più solido di quello di "Morte Dietro la Cresta" e un delitto concentrato sugli aspetti psicologici che è ben equilibrato con l'attenzione data alla natura e alle descrizioni del paesaggio. La struttura dell'enigma è meno grezza rispetto a quella dell'esordio di Glyn Carr; il campo dei sospetti è caratterizzato da uno spaccato della natura umana di grande vairetà (pp. 30-32, 35-36, 41-42, 53-58, 66-67, 70, 78-79, 97, 100, 123, 152-155); l'azione è più varia poiché permette a Lewker di spostarsi di più e di agire in un campo vasto, consentendo ai sospetti di montare in numero maggiore di quanto era accaduto con "Morte Dietro la Cresta"; gli indizi seguono il fair play, pur non essendo molto numerosi, e permettono al lettore di capire quale sia la soluzione della morte di Jacot, senza tuttavia renderla troppo facile da intuire o scontata; inoltre, per la prima volta viene messa in scena una tipica sfida tra dilettante e professionista. Herr Schultz, con la sua aria di superiorità, mette in discussione le teorie di Lewker un po' come accadde tra Poirot e Japp e la tenzone tra i due genera un conflitto di collaborazione-scontro che si protrae per tutta la vicenda e conduce come per mano chi legge, fino alla fine. Le considerazioni sul romanzo giallo (pp. 105, 127, 141-142, 278-279) sono anche stavolta presenti, ma mi sono parse meglio inserite nella trama, come un accompagnamento delle spiegazioni degli investigatori. Insomma, grazie a questo caso, costruito in modo da dare maggiore risalto ai sospettati e meno alla cornice in cui esso si svolge, Glyn Carr è riuscito a vincere la sfida che vede la morte in montagna come qualcosa di monotono. Dopotutto, se si vuole uccidere qualcuno in un tale contesto, non ci sono grandi cambiamenti da mettere in pratica. Ma stavolta l'autore è riuscito a spiazzarmi, ha trovato una scappatoia originale per diversificare gli omicidi che avvengono sulle cime e i suoi libri, senza renderli uno la fotocopia dell'altro; sono curioso di sapere se anche col terzo riuscirà a stupirmi e a creare un mystery ben costruito come questo "Assassinio sul Cervino", definito da un grande dell'alpinismo quale Hervé Barmasse come "un romanzo che dovrebbe obbligatoriamente essere nella libreria di chi ama leggere, di chi ama i gialli e di chi ama l'alpinismo e la montagna".

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venerdì 7 febbraio 2020

23 - "Dov'è Cicely?" ("Cicely Disappears", 1927) di A. Monmouth Platts/Anthony Berkeley

Copertina dell'edizione pubblicata nei
Classici del Giallo Mondadori n. 1429
Da pochi anni a questa parte, in Italia, il mercato della classica crime story ha subito un radicale cambiamento. Infatti, se fino alla fine del 2015 soltanto Mondadori (con le sue collane da edicola sulle ristampe del Giallo) e in parte Polillo (la quale ha ripreso le pubblicazioni dopo un periodo di pausa) si erano addentrate in questo campo perlopiù inesplorato dall'editoria del nostro Paese, da qualche tempo le pubblicazioni in tal senso si sono moltiplicate grazie alla nascita di nuove collane da libreria, dedicate al romanzo del mistero inglese della prima metà del Novecento. L'opera di Christopher St. John Sprigg, ad esempio, ha trovato il proprio posto in Lindau, assieme ad altri titoli meno impeccabili in fatto di enigma ma in gran parte inediti e sempre ben accetti; Mulatero prosegue la sua riproposta della serie di Abercrombie Lewker di Glyn Carr, e lo stesso si può dire di Le Assassine, le quali hanno in cantiere libri del mistero molto appetibili. Forse questo è un segno del fatto che, finalmente, la crime story della Golden Age ha iniziato ad assumere una connotazione differente da quella che l'ha vista etichettata come letteratura "medio-bassa"; relegata alle sole collane da edicola, dove ci eravamo abituati a veder ristampati i soliti titoli oppure romanzi più attinenti al genere hard-boiled. Bisogna ammettere, tuttavia, che anche in questo formato, a partire dal 2018, sono tornati alla ribalta alcuni inediti perlomeno interessanti per il collezionista di gialli tradizionali, soprattutto all'interno dei Classici del Giallo. Certo, spesso gli autori proposti non sono i Grandi Maestri del calibro di Dorothy L. Sayers (della quale manca la traduzione nostrana di "Gaudy Night"), Ngaio Marsh, J.J. Connington, John Rhode oppure Nicholas Blake; però penso che non ci si debba lamentare per questo. Dopotutto, si tratta pur sempre di nuove letture e, dal canto mio, nutro una grande passione per gli intrighi prettamente inglesi, ma densi di suspense, che ideò a suo tempo Ethel Lina White, o per le storie scientifiche e al limite dell'asettico di Richard Austin Freeman; per cui sono più che felice di trovare inedite storie di questi autori ogni anno.

A questo proposito, proprio in questo mese di febbraio, i Classici del Giallo hanno riservato una sorpresa ai suoi lettori, proponendo per la prima volta la traduzione di un libro attorno al quale aleggia una densa aura di mistero; quel "Cicely Disappears" che venne firmato da tale A. Monmouth Platts e che comparve (leggermente diverso) in una prima edizione a puntate nel marzo 1926, col titolo di "The Wintringham Mystery", per poi essere raccolto in volume l'anno seguente. Un romanzo giallo davvero particolare, visto che le sue ripubblicazioni e traduzioni estere si contano sulle dita di una mano: la prima (originale) nel 1927, quella giapponese di una quindicina di anni fa e quella di cui sto parlando, che recensirò per voi questa settimana. Si tratta, dunque, di una sorta di evento, che si può paragonare in piccola parte a quanto è accaduto con "Com'è Morto il Baronetto?" di H.H. Stanners; solo che in questo caso il romanzo, benché sotto pseudonimo, è stato scritto nientemeno che da Anthony Berkeley! Così, di punto in bianco, Mondadori ha momentaneamente ripreso il ruolo di editore di punta nel campo del mystery, consegnando ai lettori l'inedito "minore" di un grande del Giallo col titolo "Dov'è Cicely?" (Classici del Giallo Mondadori n. 1429, 2020); "minore" perché fu la prima incursione di Berkeley nel campo della classica crime story e, quindi, non all'altezza di altri suoi capolavori, ma non per questo meno divertente o del tutto estraneo al modello che l'autore ha instaurato nel corso della sua carriera, poiché esso presenta numerosi cenni biografici a personaggi e luoghi che ebbero un forte legame con lui e affronta temi che egli svilupperà negli anni seguenti.

Illustrazione su come si svolgeva una seduta spiritica simile
a quella messa in scena in "Dov'è Cicely?"
La storia inizia presentandoci il personaggio di Stephen Munro, un giovane appartenente all'aristocrazia inglese della prima metà del Novecento, il quale si ritrova a dover abbandonare gli agi a cui è abituato e ad affrontare la dura realtà: dopo aver esaurito i propri mezzi di sostentamento, infatti, egli è caduto in disgrazia e, pur di sopravvivere, è costretto a cercare un lavoro come tutte le persone che non hanno avuto la fortuna di nascere con un cospicuo patrimonio alle spalle. Non può nemmeno mantenere il proprio maggiordomo Bridger, poiché l'unica prospettiva che gli si presenta all'orizzonte è quella di diventare a sua volta un servitore a Wintringham Hall, la dimora della ricca lady Susan Carey; e un valletto non può permettersi alcun cameriere personale. Insomma, un futuro ricco di sorprese e decisamente imbarazzante si delinea nell'avvenire di Stephen, obbligato ad assecondare gli strani desideri degli ospiti della padrona di casa: quest'ultima si rivela una vera arpia, impossibile da accontentare; il suo amico Freddie Venables, nipote della signora Carey, lo tratta come se fosse un suo pari e non sembra avere intenzione di accettare la nuova condizione del novello cameriere, mettendolo in continue situazioni inopportune; il maggiordomo di Wintringham Hall, Martin, spera di riuscire ad inserirlo al meglio nel personale che dirige e si erge sgradevolmente ad esempio per Stephen, sebbene anche Bridger sia stato accolto da lady Susan. Inoltre, come se tutto questo non bastasse, la ragazza di cui il nostro sfortunato protagonista è innamorato, Pauline Mainwaring, si presenta a Wintringham Hall con un nuovo corteggiatore dall'aria bellicosa e pare ignorare i continui sguardi che Munro le indirizza. Eppure, pian piano, Stephen riesce a trovare un giusto compromesso e a sopportare la situazione che si trova costretto a vivere: l'altra nipote di lady Carey, Millicent, appare tranquilla e riservata e non crea alcun tipo di problema, e pian piano anche gli ospiti si abituano alla presenza di un valletto fuori dall'ordinario come lui. Un valletto che tiene gli occhi ben aperti e non si lascia sfuggire nulla: come quando intravede nell'espressione di Cicely Vernon, la protetta della sua padrona, un lampo di apprensione, mentre lei si appresta a lasciare la casa. Una stranezza che solletica la sua fantasia...

La sera stessa della partenza della signorina Vernon, tuttavia, l'attenzione di Stephen viene catturata dalla malsana idea di Freddie di mettere in scena una seduta spiritica. Tutti si annoiano, per cui cosa potrebbe sollevare meglio l'umore dei presenti? Tra vane lamentele e l'entusiasmo crescente, alla fine l'esperimento viene approntato proprio mentre Cicely ritorna precipitosamente a Wintringham Hall; sarà proprio la ragazza ad offrirsi per fare da medium per entrare in contatto con gli spiriti. Mentre le luci sono spente e il salotto è chiuso come una scatola da scarpe, tuttavia, il gioco si trasforma in cruda realtà e accade l'impensabile: Cicely scompare nel nulla, in mezzo a suoni lugubri, urla inumane ed effluvi di cloroformio, senza che nessuno riesca a capire come sia riuscita ad compiere una tale fuga impossibile. Che fine ha fatto la ragazza? E come mai lady Susan sostiene con tanta forza che si tratta solo di uno scherzo di pessimo gusto? Quando la scomparsa della giovane si farà ben più reale, sarà Stephen (accompagnato da una spalla più che mai gradita ed affettuosa) ad assumere i panni dell'investigatore dilettante e a prendere in mano le indagini sul mistero, tra passaggi segreti, ospiti subdoli, ricatti e furti; mentre la Morte si avvicina sempre più, per colpire all'improvviso e ritirarsi nella stessa ombra in cui (forse) si trova già la ragazza sparita.

Copertina dell'edizione originale di "Dov'è Cicely?" del 1927
Nell'introduzione alla recensione, ho sottolineato il fatto che la recente pubblicazione di "Dov'è Cicely?" rappresenta un evento non sono per i lettori italiani come il sottoscritto, ma in qualche modo pure per coloro i quali sono abituati a letture in lingue diverse dalla nostra. Questo titolo, infatti, è scomparso dagli scaffali delle librerie di quasi chiunque nel mondo, e solo alcuni fortunati possono affermare di possedere l'edizione originale del 1927. Si tratta, dunque, di un'eccezionale occasione per riscoprire uno dei romanzi più oscuri della storia della Golden Age del giallo all'inglese, e sono davvero contento che Mondadori abbia deciso di riproporlo. In realtà, per qualche tempo mi sono chiesto come mai sia dovuto passare così tanto prima di veder ristampato "Dov'è Cicely?": dopotutto, esso rientra tra le opere di uno dei maggiori scrittori di crime novels di tutti i tempi, colui il quale diede vita per primo a un prototipo del giallo psicologico come lo intendiamo noi oggi, grazie ai libri che firmò come Francis Iles; quindi perché si erano perse quasi del tutto le tracce di questo giallo? A fine lettura, tuttavia, penso di aver capito il motivo di questo ritardo e come mai questa prima prova letteraria di Berkeley non sia rimasta a lungo impressa nella memoria dei critici. Il fatto è che, pur raccontando una storia piacevolissima e tipicamente tradizionale, "Dov'è Cicely?" non spicca nella massa di altri romanzi gialli dell'epoca; non è qualcosa di imprescindibile, pur proponendo una variazione della camera chiusa tanto amata dagli appassionati di classica crime story. Infatti, se paragonato a capolavori geniali dello stesso autore, come "Il Caso dei Cioccolatini Avvelenati" o a "L'Ultima Tappa", questo libro risulta inferiore, poiché presenta ancora troppi cliché e personaggi un po' stereotipati. Tutto questo, però, non vuol significare che le vicende narrate siano noiose e poco interessanti. Se da un lato la storia non possiede ancora le caratteristiche straordinarie che Berkeley avrebbe conferito in seguito alle sue creazioni, dall'altro essa risulta godibile e divertente, permettendoci inoltre di notare come queste ultime stessero iniziano a delinearsi, in una sorta di abbozzo o prova generale; e ciò è di grande interesse per poter capire quale fu il percorso intrapreso dall'autore per raggiungere le vette di perfezione che sarebbero venute in futuro.

Insomma, non siamo ancora ai livelli di "L'Omicidio è un Affare Serio", dove l'autore decise di anticipare i tempi e cambiare le regole della tradizionale partita tra lettore e autore di gialli; ma alcune idee sull'enigma e sulla personalità e mentalità dei personaggi cominciarono già a prendere forma, dando vita a una forte contrasto interno alle vicende raccontate il quale, oltretutto, rappresenta al meglio chi fosse Anthony Berkeley Cox. Dovete sapere, infatti, che egli, nato nel 1893 come la sua controparte femminile Dorothy L. Sayers, fu un personaggio talmente complesso che probabilmente nessuno riuscirà mai a comprenderlo appieno (in ogni caso, per avere una visione chiara e dettagliata di questa somiglianza, vi consiglio di leggere "The Golden Age of Murder" di Martin Edwards, in cui l'autore viene attentamente messo sotto il microscopio). Problematico, affetto da un fortissimo complesso di inferiorità nei confronti delle donne (probabilmente dovuto al fatto di essere sempre stato considerato, dalla madre autoritaria, più "tardo" rispetto al fratello Stephen e alla sorella Cynthia), inguaribile donnaiolo, misantropo e affettuoso di volta in volta, ma allo stesso tempo geniale innovatore della crime story britannica, Berkeley fu un individuo capace di spiazzare gli interlocutori con i suoi repentini cambi di umore e idee. Probabilmente fu la guerra a dare il colpo di grazia al suo fragile equilibrio mentale: ritornato dai campi di battaglia, la sua salute fisica e psichica si aggravò e mise in luce quanto il conflitto l'avesse indebolita, tanto quanto l'intelligenza e la creatività erano invece solide. Aveva trascorso un'infanzia segnata dall'infelicità, tra fratelli considerati molto più dotati di lui e genitori non propriamente affettuosi, e la somma dei suoi traumi finì per generare in lui un atteggiamento schizofrenico, che si abbatteva sul prossimo di continuo, soprattutto quando si trattava di esseri femminili, e che egli stesso tentò di esorcizzare attraverso la scrittura. Rinchiuso nelle sue proprietà di Monmouth House e The Platts (proprio ad esse si ispirò per inventare lo pseudonimo usato per firmare "Dov'è Cicely?"), trascorreva le proprie giornate a riflettere sulla propria esistenza travagliata e a riversare nei romanzi le frustrazioni, generando un'aura di mistero attorno a sé e alimentando la propria insoddisfazione. Si prendeva gioco della giustizia, considerandola fallace e inutile per dirimere le questioni vitali degli uomini; intrecciava relazioni e flirt illudendosi di aver trovato l'anima gemella e finendo sempre per rendersi conto di essersi sbagliato; si lamentava del Governo e degli addetti statali dopo un'infelice esperienza lavorativa in un ufficio governativo: riuscì a fare tutto questo mentre ideava misteri strabilianti, dando nuova linfa al giallo all'inglese, tratteggiando con tono cinico i personaggi e le loro debolezze e mettendo in ridicolo le convinzioni più radicate della sua epoca. "I giorni del vecchio enigma poliziesco, basato interamente sulla trama e senza connotazione dei personaggi e concessioni allo stile e allo humor, sono, se non contati, in ogni caso nelle mani del pubblico" sostenne nella prefazione di "Gioco Mortale", il suo secondo romanzo, aggiungendo che "il romanzo giallo si sta sviluppando in un genere narrativo con un interesse più accentuato sul crimine, che tiene avvinto il lettore facendo leva non tanto sugli elementi matematici quanto su quelli psicologici". Tale convinzione, pertanto, non poté che indurlo a compiere l'ennesima pazzia: per il gusto di cambiare le solite regole noiose, infatti, arrivò a rovesciare completamente i canoni del giallo all'inglese, inducendo gli assassini a diventare le vittime, gli assassinati crudeli aguzzini, giudici dall'aria paterna figure lugubri e molto altro. Tuttavia, il suo gusto per il mistero finì ancora una volta per toccare l'esagerazione, tanto da indurlo a non rivelare mai niente di sé senza sotterfugi: non concedette interviste né autografi gratuiti e si divertì a confondere anche gli amici fornendo opinioni che cozzavano spesso tra loro, godendo nel mantenere uno stretto riserbo sulla sua vita privata al punto che solo di recente alcuni fatti della sua vita sono venuti alla luce.

In ogni caso, l'utilizzo della narrativa del mistero come mezzo per andare incontro e mettere freno alle proprie manie non dovette andare del tutto a buon fine, visto che il suo atteggiamento non mutò in meglio; anzi, con il passare degli anni purtroppo peggiorò e la sua mente divenne sempre più instabile, tanto che Julian Symons raccontò di averlo incontrato in un paio di occasioni e, in entrambe, si verificarono strane circostanze: una volta, un chiodo arrugginito sbucò dal suo piatto di minestra (lo aveva lasciato cadere qualcuno per sbaglio o lo aveva infilato lì lui stesso?) e l'altra interruppe addirittura la conversazione, mettendosi una maschera sulla faccia, gonfiando una pallina di gomma e facendo profondi respiri. Ma, in fondo, Anthony Berkeley non era quel mostro che fin qui può esservi parso: era un compagno che, per quanto un po' inquietante, si dimostrò insolito e sorprendente. Brillante romanziere, capace di creare atmosfere ricche di sfumature misteriose e trame complesse, oltre ad innovare il romanzo giallo con le sue trame in anticipo sui tempi, riuscì a rivoluzionare anche la concezione del detective tradizionale con l'introduzione, in "Uno Sparo in Biblioteca", di Roger Sheringham, un individuo scontroso, maleducato, fallace e abbastanza sconveniente il quale, prima di arrivare alla soluzione, finisce per sospettare di quasi tutti. Berkeley era uno che avrebbe potuto vantare e strombazzare una personalità fuori dal comune, però decise di non farlo. Amava indossare i panni di personaggi curiosi, spesso misogini e burberi, come se fosse sempre sul palcoscenico; a volte litigava con foga con alcuni membri del Detection Club, che contribuì a fondare fin dai primi giorni (una volta mi sarebbe piaciuto assistere a un suo incontro con Dorothy L. Sayers), ma in molti affermarono con convinzione che sotto sotto amava incoraggiare i giovani scrittori e, cosa da non dimenticare, possedeva una percezione della realtà fuori dal comune. La stessa identità di Francis Iles, con cui firmò "L'Omicidio è un Affare Serio", "Il Sospetto" (da cui Hitchcock trasse un film che, per quanto ben fatto, non riesce a rendere l'idea della grandezza del libro da cui è stato tratto) e "As For the Woman" rimase un incognita che venne svelata solo dopo la sua morte; una maschera che amava portare più di ogni altra, poiché era nata dal ricordo di un vecchio antenato, un contrabbandiere che veniva considerato una pecora nera dalla famiglia. Proprio il tipo che lui avrebbe preso in simpatia fin da subito e al quale avrebbe accordato la disponibilità per combinare qualche astuto ed eclatante scherzo.

Anthony Berkeley Cox, nato nel 1893
e morto nel 1971
Tenuto conto di questa descrizione contrastante della personalità di Berkeley, non c'è alcun dubbio che essa sia riflettuta in pieno già a partire da questo suo primo romanzo. Come vi ho detto, infatti, "Dov'è Cicely?" presenta alcune idee abbozzate sulla concezione del romanzo del mistero, sui temi trattati e sulle figure dei protagonisti secondo la concezione dell'autore, le quali avrebbero poi costituito una sorta di marchio, insieme al seminare cenni biografici a personaggi e luoghi che ebbero un forte legame con la sua persona. Ad esempio, per i propri personaggi Berkeley prese ispirazione da persone con cui entrò in qualche modo in contatto: Cullompton, Kentisbeare e il ricco ma violento Julius Hammerstein ricordano individui che possono essere accostati a figure reali (primo tra tutti Hammerstein, il quale lavora come agente immobiliare allo stesso modo di Paul Dashwood, marito della famosa E.M. Delafield e "rivale" dello stesso Berkeley per la conquista del suo cuore). Anche per la figura di Stephen Munro può esistere un legame con un essere umano in carne ed ossa: egli, infatti, si chiama come il fratello dell'autore, sposato alla giovane Hilary della quale quest'ultimo si era invaghito; sebbene in fatto di caratteristiche fisiche e psicologiche sia più vicino allo stesso Berkeley, poiché è un giovane che si apprezza per la sua ironia un po' cinica, per il modo di fare schietto ma simpatico, per l'impossibilità di essere trovato davvero antipatico nonostante alcune uscite teatrali e per il temperamento irriverente. Tra i cenni biografici, inoltre, si può includere il riferimento allo sculacciare (uno dei cavalli di battaglia più curiosi dello scrittore, p. 136) e la scelta dello pseudonimo adottato per firmare il romanzo, visto che egli scelse i nomi delle sue due proprietà di campagna per comporlo.

Pure in fatto di temi ricorrenti nella narrativa di Berkeley ci possiamo sbizzarrire. Primo tra tutti, il voler mettere in ridicolo gli atteggiamenti dei personaggi: grazie al proprio tipico umorismo inglese, irriverente e cinico, l'autore si diverte a girare il coltello nelle debolezze degli attori sulla scena, portando alla luce segreti e nefandezze di tutto questo gruppo di individui ben poco simpatici, ognuno caratterizzato da doppiogiochismo oppure da interessi personali da portare avanti senza curarsi delle conseguenze sugli altri. Ma non solo; Berkeley fa anche in modo di portare Stephen (nobile decaduto a servitore) di nuovo alla pari con gli ospiti "ufficiali" di Wintringham Hall, dopo avergli permesso di seminare sconcerto tra il personale: in questo modo, sembra prendersi gioco dei valori del suo tempo e, restituendo la dignità a Munro, di quella giustizia secondo cui egli sarebbe dovuto essere licenziato ed allontanato dalla casa, e non reinserito nella società più elevata. A questo proposito, il sentimento critico si riflette pure nel ritratto che viene fatto della giustizia. Berkeley fu sempre ossessionato dal fatto che il sistema giuridico inglese non fosse all'altezza delle aspettative e, di conseguenza, riuscisse solo a condannare le vittime e a salvare i colpevoli; ebbene, anche in questo caso (soprattutto nella spiegazione finale e nella scoperta del colpevole) si nota come l'autore avesse già iniziato a sviluppare questo tema, benché non raggiungendo ancora i livelli di sconcerto generati in romanzi successivi come "L'Ultima Tappa". Inoltre, l'irriverenza tocca la seduta spiritica: Berkeley calca la mano sugli effetti misteriosi, generati nel corso del rituale, per prendere in giro chiunque creda a queste séance fasulle; non lo fa semplicemente per dare enfasi alle descrizioni e generare tensione e pathos, ma intende dipingere il tutto come qualcosa di scherzoso e bonario, un intrattenimento per trascorrere qualche ora oziosa e che non bisogna prendere sul serio (un po' come avrebbe fatto in seguito Christopher St. John Sprigg col suo "Sei Oggetti Misteriosi", anche se in quel caso egli avrebbe sollevato la questione politica dell'ingannare la gente ingenua e sulla pericolosità del plagiare e menti). In fin dei conti, la seduta spiritica resta uno stratagemma per mettere in mostra la vacuità della società e non diventa fonte di inquietudine; al contrario, sono gli atteggiamenti delle persone che si rivelano pericolosi e deleteri. Ultimo tra gli elementi che saranno sviluppati da Berkeley, ma non meno importante, è infine la fallacia dell'investigatore. Con la creazione di Roger Sheringham, l'autore ideò per primo la figura del detective che può permettersi di sbagliare nel giungere a una conclusione, e lo fece agire in questo modo in numerosi tra i suoi casi. Anche in "Dov'è Cicely?" ritroviamo questa formula in modo abbozzato, poiché Stephen cambia idea di capitolo in capitolo su chi sia il colpevole, e dobbiamo aspettare proprio la fine prima che decida a chi imputare le colpe.

È questo l'ennesimo segno del segreto divertimento di Berkeley nel tormentare giocosamente e prendere in giro il prossimo. Insomma, tutto ciò dimostra come "Dov'è Cicely?" non sia affatto un romanzo da buttare. Peccato solo che la storia tenda verso l'avventuroso, tanto che i capitoli dedicati alla truffa ai danni del padre di Pauline esulano un po' troppo dal mistero della scomparsa di Cicely, ed essa rechi al suo interno ancora stereotipi e cliché della narrativa di inizio Novecento per potersi dire un capolavoro. Ad esempio, alcune figure assomigliano a burattini che difettano di personalità (Bridger assume gli atteggiamenti di Betteredge, il maggiordomo di "La Pietra di Luna", oppure del famoso Jeeves di Wodehouse, del quale Berkeley sentiva forse ancora l'influsso, poiché aveva già scritto una parodia) oppure non riescono ad affrancarsi dai loro modelli, come l'anziana lady Susan, l'ambiguo maggiordomo Martin, la debole signorina Carey e lo stupido aristocratico Kentisbeare. Il trucco del passaggio segreto, esplorato a notte fonda, rimanda di nuovo alla tradizione del romanzo vittoriano, assieme alla figura dell'individuo sospettato perché è stato in prigione. La storia d'amore tra Stephen e Paula è un po' stucchevole, sebbene numerosi guizzi ironici la alleggeriscano e si notino alcuni elementi di maggiore libertà negli usi e costumi. Il problema maggiore, tuttavia, è posto dalla quantità ingente di sfaccettature che vengono date all'enigma: furto, sequestro, ricatto, truffa sono mescolati tutti assieme (forse) per ampliare la platea di lettori, ma soprattutto per confondere le acque, al punto che forse risultano troppi da sviluppare al meglio; con il risultato che, sebbene il mistero sia senza dubbio intrigante, la trama risulti tirata troppo per le lunghe e la soluzione della sparizione di Cicely diventi un po' ingenua e superficiale. Per non parlare del finale tirato e un po' banale alla "e vissero sempre felici e contenti". Tutto questo, insomma, influisce sulla resa finale e ci consegna un romanzo giallo ancora fuori fuoco, rispetto a quelli che Berkeley avrebbe creato in seguito, il quale tuttavia può contare su uno stile elegante e leggero, tipico dei gialli "alla Agatha Christie" che si leggono per il gusto di passare qualche ora a rilassarsi o come storie di evasione. Sapete che (probabilmente) proprio Agatha rientrò tra i pochi lettori che riuscirono a fornire una soluzione soddisfacente al mistero di "Dov'è Cicely?", quando il Daily Mirror istituì un concorso sulla versione a puntate del 1926? Tra i vincitori, infatti, spuntò un certo Archibald Christie. Se proprio volete trovare un motivo forte per leggere questa classicissima crime story, potete immaginare di vestire i suoi panni per qualche ora. Oppure tenere a mente che, in ogni caso, questo romanzo è eccezionale non solo per la sua rarità su scala mondiale, ma anche per l'importanza del suo autore all'interno del genere.

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