venerdì 29 maggio 2020

34 - "Il Divorzio non si Addice a Enid Balfame" ("Mrs Balfame", 1916) di Gertrude Atherton

Copertina dell'edizione pubblicata da
Le Assassine

Three-a-Penny sta prendendo sempre più forma e sostanza, col passare del tempo. Tutto è iniziato la scorsa estate per noia e sfida, poi inaspettatamente mi sono ritrovato a superare con i post il 31 dicembre, e adesso il blog è in procinto di addentrarsi in una nuova estate che, per motivi a cui faremmo volentieri a meno, sarà ricordata in futuro. Però c'è una bella differenza rispetto a dodici mesi fa: se con la fine del 2019 sono riuscito a stringere un rapporto di collaborazione con Mulatero Editore (che ringrazio ancora per la fiducia accordatami), da quest'oggi posso aggiungere "Le Assassine" al numero di case di pubblicazioni dedicate alla crime story, le quali si sono dette disponibili a inviare al sottoscritto una copia dei loro nuovi classici romanzi del mistero, affinché li recensisca. Dire che sono euforico è poca cosa, e spero di meritarmelo. Ma bando alle ciance e torniamo a noi. Prima di tutto, qualche parola su "Le Assassine", questa casa editrice di Milano che è stata fondata solo nel maggio 2018 ma ha già occupato un posto importante all'interno del panorama giallo italiano. Già nel corso del 2019 so per certo che essa ha attirato l’attenzione di testate nazionali come il Corriere della Sera, oltre che di media esteri, per la sua peculiare caratteristica: occuparsi esclusivamente di letteratura del mistero estera declinata al femminile, in diverse sfumature. Come ha spiegato una delle fondatrici di "Le Assassine", Tiziana Elsa Prina, l’idea è nata dalla sua passione per la letteratura di questo genere e da un gruppo di persone che da anni lavora sul genere crime e nel mondo dell'editoria, le quali hanno voluto dare espressione di questo interesse condiviso per il giallo, con la creazione di due collane che toccano svariate sfaccettature di questo genere narrativo: dal giallo puro alla suspense, dall'hard-boiled al noir al mystery psicologico, passando per paesi diversi come Malesia, Canada, Germania, Francia, Marocco. In Oltreconfine, infatti, trovano posto quelle autrici contemporanee provenienti da diverse parti del mondo che descrivono la società che le circonda; mentre in Vintage si trovano le scrittrici appartenenti al passato le quali mostrano come il giallo al femminile si sia evoluto nel tempo.

Con stili differenti, fantasiosi, essenziali, sofisticati, "Le Assassine" si è sforzata di trovare un modo per mettere al centro della narrazione la figura femminile nel corso di più di un secolo, di farne un fulcro attorno al quale sviluppare un'identità ben precisa. E a mio parere ci è riuscita benissimo. Ha scelto autrici che hanno ottenuto un discreto successo (per quanto ne sappia) in entrambe le collane, e personalmente auspicherei un incremento delle pubblicazioni, una volta passato questo periodo tremendo che stiamo vivendo. Ha posto l'attenzione su protagoniste che, nel bene o nel male, sono rimaste impresse nella memoria dei lettori, grazie al loro operato e all'incarnazione della società nella quale si sono trovate calate. Così, ha fornito spunti di riflessione sempre importanti per comprendere un mondo che si è evoluto senza sosta, dalla fine dell'Ottocento fino ai giorni nostri, gettando uno sguardo su noi stessi. Da parte mia, però, ammetto di nutrire una particolare predilezione per la collana Vintage, dal momento che sono un accanito fan della classica crime story. Per cui mi dedicherò ad essa, nel recensire i titoli che comprende. E a ben vedere, molto tempo fa mi sono già messo a presentarvi un romanzo edito da "Le Assassine": "Chi ha Ucciso Charmian Karslake?" di Annie Haynes, il quale era risultato essere una piacevole prova di quel giallo tradizionale e senza grandi pretese che ha avuto fortuna intorno agli anni Venti del Novecento. Non è stato un capolavoro di originalità ed innovazione, ma ciò non significa che esso sia stato scadente oppure deludente; anzi, giocando su aspetti formali diversi dal solito, mi ha intrattenuto senza farmi spendere troppe energie mentali né deludendomi. E lo stesso discorso vale per il romanzo che mi appresto a recensire oggi, ultimo uscito nella collana Vintage. Pure "Il Divorzio non si Addice a Enid Balfame" (Le Assassine, 2020) di Gertrude Atherton, infatti, l'ho considerato come un libro che non punta sulla straordinarietà dell'indagine, quanto trova la sua essenza in qualcosa che va al di là della ricerca del colpo di scena. Se nel libro di Haynes il mero processo per arrivare alla verità, senza fare chissà quali riflessioni filosofiche a riguardo, costituiva il fulcro della narrazione, in quello di Atherton l'importanza dell'enigma è venuta in secondo piano, in favore della descrizione di quale fosse la condizione della donna all'interno della società puritana e rigida dell'America dei primi anni del secolo scorso.

Entering a Village, Camille Pissarro, 1863, raffigurante un
villaggio simile a Elsinore
Siamo in America, come dicevo, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. La Prima Guerra Mondiale infuria in Europa, e i cittadini USA osservano con malcelato timore i sanguinosi conflitti e le devastazioni che sono in atto dall'altra parte del mondo. Più di tutto, però, essi vogliono tenersi informati sugli sviluppi che possono vederli coinvolti nell'immediato futuro, e per questo si organizzano in modo da invitare a spiegare loro chiunque abbia qualcosa da dire riguardo la guerra. Anche a Elsinore, un piccolo villaggio di provincia, si è presentata una dottoressa proveniente da New York, dietro l'invito della presidentessa del locale Circolo del Venerdì Sera. Quest'ultima, la bella Enid Balfame, può considerarsi a tutti gli effetti la persona più importante della cittadina: è affascinante, intelligente, carismatica e gradevole. Nel suo cuore, però, cova rabbia e un senso di disgusto nei confronti del marito ubriacone e chiassoso, il quale non manca occasione per metterla in imbarazzo di fronte alle amiche e alla gente che la conosce da tanti anni e la ritiene un'esempio di virtù. E la signora Balfame non può nemmeno divorziare e abbandonare il consorte, dal momento che ciò getterebbe sulla sua immacolata figura un velo di disonore che le farebbe perdere qualunque credibilità agli occhi del prossimo! Così, proprio mentre sta ascoltando i resoconti della sua ospite su battaglie terribili svoltesi di là dell'Atlantico, Mrs Balfame si rende conto che l'unica soluzione per poter finalmente liberarsi dell'ingombrante individuo che, giovane sciocca, ha sposato più di venti anni prima, è l'omicidio. Che brutta parola, pensa. Meglio usare una perifrasi per descrivere ciò che ha intenzione di fare: eliminare l'ostacolo che rischia di mettersi tra la sua gloria e la libertà. Così, pian piano inizia ad organizzarsi. Dopo aver congedato le amiche e la dottoressa newyorkese, Enid accompagna l'amica Anna Stauer, dottoressa e medico del villaggio, fino al cottage di quest'ultima, dove la donna le ha rivelato custodire un potente veleno inodore e insapore. In un momento in cui ella è assente, Mrs Balfame si affretta a sottrarre il fatale liquido e a nasconderlo; poi lo porta a casa e decide di tenerlo in serbo per usarlo nell'occasione più propizia.

E questa si verifica proprio poco tempo dopo, quando Mr Balfame si presenta al Circolo mezzo ubriaco per fare una scenata a sua moglie. Piena di vergogna e animata da un odio bruciante, ella fa di tutto per fronteggiare la situazione e restare lucida davanti agli estranei; poi si fa accompagnare a casa dalla dottoressa Stauer e, una volta rimasta sola, in un impeto di rabbia, prepara un bicchiere di limonata per il marito, avvelenandola con la sostanza che ha sottratto alla sua amica. Non ha importanza quello che potrebbe rischiare: ha finto di perdonare quel bruto del coniuge, per allontanare tutti i sospetti, e calcolato ogni cosa per fingere una disgrazia e impersonare la vedova affranta. Così, dopo aver predisposto il suo piano, si prepara a dormire. Ecco, sente che Mr Balfame sta passando lungo la strada, dopo essersi fermato da alcuni amici per smaltire la sbornia: non dovrà fare altro che entrare in casa, bere ciò che lei ha preparato, e cadrà a terra senza alcun suono. Poi Enid laverà via qualunque traccia che possa aver lasciato dietro di sé. Ma cos'è questo rumore che viene dal piano di sotto? Che sia un ladro? La donna si affretta a scendere e ad uscire dalla porta sul retro, fino a raggiungere il bosco; e in quel momento il Fato lancia i dadi del Destino. Mentre lei si trova al buio, qualcuno spara a Mr Balfame, uccidendolo sul colpo e fuggendo a gambe levate. Di corsa, Mrs Balfame si affretta ad eliminare la limonata e a trascinarsi a letto, mentre i vicini danno l'allarme. Inizia così un calvario lungo e doloroso per la bellissima vedova, corteggiata da un giovane avvocato e insidiata dal pettegolezzo del villaggio. Infatti la gente si dice: "La signora è sempre stata un esempio di rettitudine ed è benvoluta; ma cosa può nascondersi nel suo cuore?" Il lettore, però, sa che lei è innocente. Chi può essere l'assassino, allora? Toccherà aspettare la fine di un'indagine piena di gelosia e maldicenza, prima di scoprire la verità.

Dipinto senza nome di Annie Ovenden, raffigurante un
cottage simile a quello di proprietà dei Balfame
C'è una cosa che mi preme subito sottolineare riguardo "Il Divorzio non si Addice a Enid Balfame": non stato il giallo che mi sarei aspettato di leggere. Infatti, le premesse (o almeno le prime pagine che ho scorso prima di fare sul serio) lasciavano presagire come la storia potesse svilupparsi in un modo molto affascinante: cioè ricalcando la narrazione di uno dei massimi capolavori del genere, "L'Omicidio è un'Affare Serio" di Francis Iles. Come potrebbe rendersi conto chiunque inizi questo romanzo, infatti, la storia è narrata tenendo quasi sempre al centro di tutto la signora Balfame, vero motore del racconto, e facciamo una profonda immersione in ciò che emerge dai suoi pensieri e dalle sue emozioni più profonde e nascoste. L'odio per il marito, la brama di celebrità, il timore di vedersi emarginata dagli amici e dalla gente comune... tutto questo mi ha ricordato come l'autore britannico ha descritto gli sforzi del dottor Bickleigh per raggiungere i propri malsani scopi. Tuttavia, purtroppo, bisogna tenere in considerazione che questo mystery di Atherton risale al 1916, molti anni prima che Iles/Berkeley avesse l'illuminazione e sviluppato l'audacia necessaria a proporre a un editore il suo più celebre romanzo psicologico. In America, per giunta, era molto di moda la narrazione incentrata sulla "donna in pericolo", quella corrente delle women in jeopardy che avrebbe trovato in Mary Roberts Rinehart e nelle sue numerose discepole grande fortuna; insomma, qualcosa di completamente differente da quanto avrebbe introdotto Iles alcuni anni dopo. Così, a malincuore, abbiamo alcune affinità con "L'Omicidio è un Affare Serio" soltanto in questo frangente, e per il resto ci troviamo di fronte a uno stile decisamente più "vintage", per restare in tema con il titolo della collana che ospita "Il Divorzio non si Addice a Enid Balfame". Ma non è tutto. Per rincarare subito la dose sui difetti di questo romanzo giallo, voglio aggiungere come a mio parere l'enigma non sia stato affatto tratteggiato con l'accuratezza e la complessità a cui un appassionato è stato abituato. Per dirla tutta, non mi ha fatto impazzire e ha messo in luce una certa approssimazione, in confronto ai trucchi che idearono ad esempio Christie E Berkeley, oppure a quelli di Daly, McCloy e altre colleghe di Atherton, per restare negli USA. Ci sono soltanto quattro sospettati capaci di emergere dal folto gruppo di personaggi che vanno e vengo dalla scena, e questo non aiuta a gettare fumo negli occhi al lettore attento. L'impressione che ho ricavato da questi elementi, insomma, è stata di una certa superficialità, come se l'importante non fosse tanto costruire un giallo con tutti i crismi, quanto una storia che potesse veicolare un messaggio potente senza curare le apparenze della crime novel.

E alla fine penso che sia questo ciò che voleva fare Atherton, nonostante a prima vista possa apparire molto strano. Infatti, con le parole qui sopra, non intendo assolutamente bocciare "Il Divorzio non si Addice a Enid Balfame" (o almeno trasmettervi una totale delusione da parte mia). Infatti, se dal lato prettamente enigmistico questo mystery presenta più di un difetto, dall'altro lascia emergere la trattazione di alcuni temi in un modo che definirei mirabile per l'anno in cui esso è stato scritto. Atherton, come recita la sua biografia, fu una grande femminista e combattente per i diritti civili delle donne; e da questo suo libro ciò appare chiaramente. Sono rimasto colpito dal fatto che ella riuscì a infondere in un giallo questa sua volontà e convinzione: per il 1916, si tratta di un grande passo avanti. Fino ad allora, la stragrande maggioranza di libri era appartenuta al cosiddetto "romanzo ottocentesco", caratterizzato da storie d'amore travagliate, salotti eleganti in cui famiglie aristocratiche prendevano il tè e, nei sobborghi, gli operai e la povera gente faticava ad arrivare a fine mese in mezzo alla miseria e all'inedia. Con "Il Divorzio non si Addice a Enid Balfame", Atherton ha trasportato quel tipo di letteratura all'interno del genere crime che andava evolvendosi e sviluppandosi in America nei primi anni del Novecento: infatti, come dicevo, la sua storia dipende ancora molto dalle dinamiche di un tipo di libro ormai superato, con signore pudiche, gentiluomini col senso dell'onore e dinamiche giocate su affronti da risanare con duelli e simili, pur declinandosi alla crime story. Ma non è tutto. Al posto di figure femminili che si lasciano in qualche modo manipolare dagli uomini, Atherton ha imposto donne e ragazze capaci di tenere testa al "sesso forte". Mi ha affascinato molto questo discorso che, come non mi stancherò mai di ricordare, è stato fatto nel 1916. In "Il Divorzio non si Addice a Enid Balfame" la protagonista ha una personalità forte, contraddittoria a causa del momento storico fondamentale che sta vivendo il suo sesso, ma pure determinata ad affermare se stessa; le giornaliste bistrattate da Jim Broderick, il reporter che sembra godere nel mettere in cattiva luce l'imputata e si accanisce, alla fin fine emergono come le uniche figure capaci di osservare i fatti con obiettività; la giovane Alys Crumley, insicura ma conscia del proprio valore e decisa a mettere a frutto i propri punti di forza, appare in una luce migliore di quella della stessa Mrs. Balfame. Secondo me è questo il vero valore di "Il Divorzio non si Addice a Enid Balfame": riuscire a riportare ai giorni nostri come già all'inizio del secolo, quando le cose sembravano ferme all'età della pietra, le battaglie delle donne per l'affermazione di se stesse e lo sviluppo di un'identità cosciente e decisa fossero a un punto di svolta e già indirizzate verso una meta che, sulla carta, non doveva essere così lontana. Poi, sul fatto che pure nel 2020 ci siano differenze non ancora appianate, riguardo i salari paritari oppure alcune uguaglianze di tipo sociale, quello è un discorso che meriterebbe una digressione a parte, che non sono sicuro di riuscire a fare al meglio e per cui lascio a chi ha più esperienza di me. Ma per tornare al punto e alla recensione del romanzo di Atherton, voglio ribadire ancora una volta come libri quali questo siano necessari per poter approfondire l'argomento, nonostante a volte (come in questo caso) in sottofondo permanga una patina di antichità, pregiudizi e conformismi che rimanda al periodo storico in cui venne scritto.

Gertrude Franklin Horn Atherton, nata nel 1857 e morta nel
1948

A mio parere, "Il Divorzio non si Addice a Enid Balfame" ritrae perfettamente la personalità e quale fosse il ruolo della donna che Gertrude Franklin Horn Atherton auspicava andasse affermandosi all'interno della società americana del primo Novecento. Nata nel 1857 in una famiglia agiata, in cui il padre era un importante cittadino di San Francisco, venne allevata dal nonno, parente del celebre Benjamin Franklin, in seguito alla separazione dei suoi genitori. Fu quest'ultimo a trasmetterle la passione per la lettura, e ben presto la bambina iniziò a frequentare le scuole fino a raggiungere la Sayre School di Lexington. Ribelle e desiderosa di libertà, però, ella dovette ben presto fare ritorno a casa, dove incontrò il giovane George Atherton intento a corteggiare sua madre: fu amore a prima vista tra i due. Al punto che, addirittura, dopo il fidanzamento loro misero in atto una vera e propria fuga d'amore, la quale la portò a vivere assieme alla madre di lui, una signora cilena conosciuta per la sua prepotenza. In breve, la novella signora Atherton si rese conto di quanto sarebbe stata sconvolgente e deludente la sua vita accanto alla suocera; pertanto, si rifugiò nella costruzione di una vita indipendente per sopperire all'infelicità di quella condivisa col coniuge. Vita che la vide affacciarsi su tremendi dolori (perdette sia il figlio George a causa della difterite, sia l'amato marito in un naufragio), ma le permise pure di farsi largo nella carriera di autrice di fiction. Infatti, dopo aver affidato l'altra figlia Muriel proprio alla suocera (in modo che quest'ultima le concedesse l'eredità del defunto George), Atherton iniziò a scrivere romanzi non di genere giallo, assieme a biografie, commedie e sceneggiature cinematografiche, firmandosi a volte con pseudonimi come Frank Lin e Asmodeus. Trasferitasi a Londra intorno al 1880, l'autrice ebbe la possibilità di conoscere Oscar Wilde, che in un primo momento aveva evitato di incontrare pensando che fosse fisicamente ripugnante: la lui trasse alcuni insegnamenti preziosi. Già nel 1890, tuttavia, dovette tornare in California per prendersi cura della figlia, in seguito alla morte del nonno e della suocera. Laggiù, intraprese la carriera di giornalista e scrisse per "The San Francisco Examiner", dove incontrò Ambrose Bierce col quale intrattenne un'amicizia di amore-odio ormai celebre. Da questo punto in poi, iniziò a spostarsi in giro per il mondo, facendo soprattutto la spola tra Londra e New York, dove pubblicò i romanzi che scriveva quando non era occupata a recensire e a buttar giù articoli. Tutto ciò serviva soprattutto per riempire il vuoto che la solitudine stava scavando dentro di lei (confidò a Bierce il proprio sgomento per la necessità di scrive come freelance e la sua avversione per i circoli letterari tanto di moda al tempo). E le sue stesse opere, controverse e forse troppo avanti per il suo tempo, finirono per attirarle rifiuti e critiche aspre. Nel 1899 tornò definitivamente in America, dove risiedette fino alla morte avvenuta nel 1948; ma per quel momento, si era gettata in altri generi come quello delle storie di fantasmi (dove ricevette grandi soddisfazioni) e nella presidenza di alcune associazioni, come la PEN di San Francisco, instaurando la propria fama e la propria concezione sociale a livello nazionale.

Tra le altre cose, Gertrude Atherton fu pure una suffragetta che non credeva nell'uso della militanza per promuovere la causa e sostenne la supremazia bianca; cosa che vista ai giorni nostri lascia stupiti. Inoltre, sviluppò una forte ostilità al comunismo. Ma ciò che soprattutto è rimasto del suo pensiero riguarda altro. Forte sostenitrice della riforma e della promozione di un'identità culturale californiana, paragonata a Henry James ed Edith Wharton, l'autrice Atherton è stata una delle prime femministe che conoscesse la difficile situazione delle donne del suo tempo. Sapeva cosa significava repressione sessuale, quale era il costo della forza richiesta per sfuggire a quest'ultima, le cicatrici che essa lasciava sulla pelle di una donna e la relegavano. Per questo, auspicava una vera e propria uguaglianza sessuale, al punto da "ridefinire il potenziale delle donne". Mise tutto ciò nei suoi romanzi, il bene e il male di quanto era convinta, ma lo fece sempre per provare ad affermare se stessa. Ancora oggi è celebre il suo scontro con un'altra scrittrice di gialli classici americana, Anna Katherine Green: mentre quest'ultima invitava la gente a rifiutare il suffragio universale, adducendo come scusa il fatto che le donne si stessero interessando a faccende riservate agli uomini, Atherton la smentì con un'epocale sberleffo e sostenne la tesi contraria, auspicando una parità dei sessi al più presto. Questa sua urgenza emerge pure in "Il Divorzio non si Addice a Enid Balfame", il quale affronta a riguardo alcuni temi a lei cari in modo straordinario per il tempo in cui esso venne scritto. Sondò l'ipocrisia della società, la quale viene manifestata dai giornalisti capaci di manipolare i fatti a loro piacimento (soprattutto il meschino Jim Broderick, tipico esempio maschilista) e dalla gente comune che gode nel parlare alle spalle delle persone: Mrs Balfame, infatti, viene sostenuta dalle amiche quando esse traggono vantaggio dall'occasione, ma quando lei è lontana loro non si fanno scrupoli a considerarla colpevole. Di conseguenza, la stessa America viene criticata: nelle grandi città, i popoli si sono sviluppati e presentano agli occhi del mondo un'immagine di sé aperta, libera e senza ombre; nella provincia, invece, la situazione è ben diversa, dal momento che imperano ancora bigottismo, pettegolezzo di bassa lega e quanto altro di sbagliato ci può essere, come una gerarchia sociale dettata dal potere e dalle apparenze di un'esistenza puritana. Filtrò secondo il punto di vista di un villaggio americano l'impatto che la Guerra Mondiale stava avendo su uomini e donne, e soprattutto diede la sua interpretazione su cosa significasse "femminismo" per lei. Attraverso la figura di tutte le donne presenti in "Il Divorzio non si Addice a Enid Balfame" (la stessa Mrs. Balfame, Alys Crumley, Anna Stauer), Atherton ha restituito come una ragazza poteva considerare la vita agli inizi del Novecento, immersa in una società in cui dominano i pregiudizi, il puritanesimo, le tradizioni stantie e i legami di sangue impossibili da negare. La stessa Enid vorrebbe emanciparsi da tutto ciò che di sbagliato e antiquato la circonda, ma non ci riesce perché ha paura di quello che la gente potrebbe dire di lei ed allontanarla dai ruoli che a fatica adesso ricopre. Interessante è notare come molte di queste dinamiche siano state demolite, ma altrettante resistano ancora nonostante sia passato un secolo.

Tra vizi e virtù, i personaggi emergono in uno slancio di modernità, pur restando relegati a stereotipi del tempo, divisi tra l'apparire e l'essere. La signora Balfame è da un lato attraente, algida, perfetta e ammirata da tutti, ma dall'altro è cinica e fredda come un blocco di ghiaccio, oltre che determinata a raggiungere la propria meta; le sue amiche pubblicamente la difendono, ma nel privato si domandano quando di innocente ci sia davvero nella loro beniamina; Anna Stauer, lo dottoressa del villaggio, nutre un'insana ammirazione per Mrs Balfame, pur dimostrando una contemporanea attenzione affinché gli uomini non debbano ferire e umiliare le esponenti del suo stesso sesso; Alys Crumley è indecisa, spaventata e disposta a scendere a compromessi per affermarsi, ma ha qualche scrupolo ad accusare Enid per non rischiare di coinvolgere l'amato Rush Dwight, avvocato rampante che incarna il perfetto gentiluomo, pronto a gettarsi in un burrone per difendere l'onore minacciato di una donna, ma indeciso su cosa desideri davvero. Grandi contrasti, insomma, si manifestano in "Il Divorzio non si Addice a Enid Balfame"; un romanzo giallo dove, voglio ricordare, non è tanto importante la parte "enigmistica", la quale risulta carente di mordente e di carattere; quanto tutto ciò che fa da contorno ad essa, tra rappresentazione di una società di provincia con tutti i suoi difetti, tratteggio di figure femminili che spiccano in un mondo dominato dagli uomini (ma ancora per poco, sembra suggerire) e dispiegamento di temi interessanti e trattati con un occhio decisamente moderno per il suo tempo. Un quadro caustico e graffiante, calato in una storia del mistero che forse poteva essere costruita meglio; ma comunque affascinante per chiunque sia interessato a scoprire quali fossero i sentimenti e gli ostacoli che le donne hanno dovuto affrontare (e affrontano tutt'oggi).



Link all'edizione italiana su Amazon:

venerdì 22 maggio 2020

33 - "Il Dramma di Corte Rossa" ("The Red House Mystery", 1922) di A.A. Milne

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Con la recensione di oggi, termina la mia breve incursione nel giallo dedicata alle storie ambientate in luoghi esotici oppure vacanzieri. Questo non significa che non esistano altri titoli, dedicati al clima primaverile-estivo, al di fuori di quelli che vi ho presentato in questo primo mese di giornate di sole e timide uscite, in seguito all'isolamento forzato causato dall'epidemia di Coronavirus; in realtà, ci sarebbero molti altri romanzi gialli classici appartenenti a questo filone che meritano un'analisi. Eppure, non voglio diventare troppo noioso e concentrarmi solo su un tipo di crime story. Quindi, tralasciando il prossimo venerdì che vedrà una recensione un po' speciale, dai primi di giugno aspettatevi qualcosa di diverso. Dopotutto, anche se non sono capace di scrivere un romanzo del mistero come quelli che mi piacciono, non voglio rinunciare ad evocare un'aura di mistero sugli argomenti delle mie prossime recensioni. Farò, insomma, un po' come i giallisti di professione, i quali non avvertono il lettore prima di stupirlo con una nuova trovata; a volte addirittura senza tirare in ballo soltanto il loro ingegno. Alcuni di loro, infatti, sono riusciti a creare avvincenti storie di successo e che si ricordano ancora al giorno d'oggi... per poi decidere di punto in bianco, per motivi differenti, di abbandonare il genere giallo. Questo sì che si può definire come un colpo di scena. Chissà cosa è mai passato per la loro testa, per indurli a una decisione tanto drastica. Forse si sono resi conto di non riuscire a tenere il ritmo per pubblicare un nuovo romanzo del mistero in tempi ragionevoli, oppure si è trattato di una sorta di passatempo e non erano interessati a continuare su quella scia, oppure ancora hanno perso interesse col passare del tempo e si sono disaffezionati alle storie di crimini e omicidi. La stessa Dorothy L. Sayers dovette far fronte a questo dilemma, poiché era maggiormente intenzionata a raccontare storie che avevano soltanto un marginale collegamento col delitto; mentre Anthony Berkeley sviluppò un carattere troppo instabile e patì pene troppo segnanti per riuscire a produrre qualcosa d'altro dopo "As For the Woman".

In ogni caso, come dicevo, alcuni scrittori (soprattutto appartenenti alla Golden Age) si sono improvvisamente risolti ad abbandonare il classico giallo ad enigma, spesso dopo il grande successo arriso alla loro prima opera di genere. Tra questi si possono citare C.P. Snow, del quale ho recensito la scorsa settimana quella che per lunghissimo tempo fu la sua unica incursione nel mystery, "Morte a Vele Spiegate"; Dermoth Morrah, che ci ha lasciato "Il Caso della Mummia Scomparsa", esemplare giallo a sfondo universitario, prima di concentrarsi sulla scrittura di articoli di giornale; Ellen Wilkinson, esponente del partito laburista inglese, la quale scrisse "The Division Bell Mystery" basandosi sulla sua esperienza al Governo; la coppia Horatio Winslow-Leslie Quirk, con il capolavoro del delitto impossibile "Svanito nel Nulla"; l'americano F.G. Parke, del quale non si conosce la vera identità ma solo il romanzo "La Sera della Prima"; T.L. Davidson e il suo "Omicidio in Laboratorio"; Richard Connell con il mystery "Delitto in Mare"; Alfred Meyers e il suo "Aria Mortale". Ognuno di questi signori (e signore), pur dedicandosi ad altre occupazioni di carattere politico, scientifico, narrativo, musicale, didattico, cinematografico, tentò la strada del giallo e, sfortunatamente, non riuscì a resistere alla tentazione di prendere altre strade o a sostenere il carico di lavoro che comportava l'ideazione di omicidi fittizi. In compenso, riuscirono a diventare celebri in altri ambiti; sebbene, da parte mia, avrei preferito scoprire quali altri misteri sarebbero riusciti a creare. Eppure, nessuno di loro ha mai raggiunto una fama tanto grande ed è stato tanto in anticipo sui tempi come ha fatto uno dei narratori moderni più importanti tra tutti: A.A. Milne, l'inventore di Winnie-the-Pooh. Ricordato al giorno d'oggi soprattutto per le avventure del piccolo orsetto e dei suoi amici del Bosco dei Cento Acri, Milne compì l'impresa straordinaria di ottenere pari fama sia nell'ambito delle storie per bambini sia in quelle a carattere delittuoso, grazie alla sua unica incursione nel genere giallo, uno dei romanzi gialli più leggeri e divertenti di sempre: "Il Dramma di Corte Rossa" (Polillo Editore, 2003), il quale costituisce un mirabile esempio di giallo "soleggiato-vacanziero" (per restare in tema con i titoli del mese di maggio) e vede, per la prima volta, la nascita della figura dell'investigatore scanzonato e dell'indagine intesa come atto di divertimento e svago, oltre che di inchiesta per la scoperta di un colpevole. Si tratta di un tipico delitto della casa di campagna, in cui si sommano moltissimi elementi di cliché che negli anni a seguire avrebbero costituito il racconto del mistero. Un giallo troppo stereotipato, penserà qualcuno; eppure vi posso assicurare che esso è l'eccezione che conferma la regola, dove l'eccesso di maniera dà vita a quello che Rex Stout, inventore di Nero Wolfe, definì come un libro "semplicemente incantevole" nella sua deliziosa ingenuità.

Red Cottage (Essex), 1927, di Eric Ravilious, simile alla
Corte Rossa di proprietà di Mark Ablett
La vicenda si apre fin da subito in un un'atmosfera da sogno: a Corte Rossa, la casa di campagna del filantropo e gentiluomo Mark Ablett, è l'ora della siesta, quel particolare momento della giornata in cui si è troppo stanchi per muovere un dito e si prova un particolare piacere nel restare ad ascoltare il lieve suono della falciatrice al lavoro sui campi lontani. Nell'edificio si trovano pochissime persone, poiché gli ospiti dell'ultimo fine settimana hanno deciso di recarsi al vicino campo da golf per fare qualche oziosa partita: nell'atrio ombroso e fresco, seduto in una poltrona, Matthew Cayley, cugino di Mark, sta leggendo un libro; in un punto imprecisato della casa, Ablett si aggira turbato in attesa dello sgradevole incontro che a breve dovrà affrontare con Robert, il fratello; in cucina, infine, alcune domestiche stanno allegramente chiacchierando proprio sull'imminente ricongiungimento degli ultimi esponenti dell'antica famiglia degli Ablett. Come fa notare l'anziana signora Stevens alla nipote Audrey, a Corte Rossa non succedeva niente del genere da tempo immemore: infatti, Mark ha sempre tenuto nascosto il fatto di essere legato da rapporti di parentela con un individuo che, a suo tempo, è stato allontanato dall'Inghilterra e additato come "pecora nera". Eppure, adesso sembra sia giunto il momento che tutti i nodi vengano al pettine, poiché l'arrivo di Robert è stato annunciato all'ora della colazione con grande enfasi a tutti quanti (forse per avvertirli in caso di cattive sorprese?) e le premesse lasciano intendere come egli stia per sconvolgere la pacifica tranquillità della casa di campagna.

E infatti Robert arriva, puntuale come un orologio svizzero e con un'aria tanto scontrosa che Audrey si chiede quali siano le sue reali intenzioni. Subito il visitatore viene fatto accomodare nello studio a est della casa e la ragazza corre ad avvertire il padrone di casa, incuriosita dalla reazione di quest'ultimo alla vista del fratello; tuttavia, ben presto la faccenda si fa complicata e tragica. Mentre Audrey si trova in giardino, dentro Corte Rossa si ode uno sparo che mette in allarme tutti quanti, a partire dalle domestiche in cucina fino a Cayley, il quale scopre di non riuscire ad aprire la porta che collega lo studio all'atrio in cui si trova. Cos'è successo davvero dietro l'uscio serrato? L'arrivo fortuito di Anthony Gillingham, amico di uno degli ospiti della casa, Bill Beverley, permette la repentina scoperta del cadavere di Robert, chiuso nella stanza in cui egli era stato sistemato in attesa del fratello. A quanto pare, è stato ammazzato da un colpo di pistola e Mark, che secondo la testimonianza del cugino si era unito al morto pochi minuti prima dello sparo, è svanito nel nulla. Che sia fuggito perché temeva di essere accusato del delitto? Tutti si convincono che le cose siano andate così, da Cayley al giovane Beverly agli altri ospiti della casa; eppure Gillingham ha qualche dubbio a riguardo. Alla scoperta del cadavere, egli ha notato una serie di strani dettagli che lo hanno insospettito sul reale svolgersi dei fatti e, un po' per mancanza di altri passatempi e un po' per curiosità, decide di mettersi ad indagare per conto proprio, con Beverly a fargli da spalla. I due si trovano ben presto di fronte a una serie di sfide e di ostacoli che li metteranno alla prova, tra passaggi segreti e gite subacquee, fino a scoprire una verità forse non così imprevedibile, ma di sicuro sorprendente se basata sulle convinzioni che la polizia e gli altri testimoni si erano costruiti all'inizio della vicenda.

Pianta di Corte Rossa
Anche questa volta, ci troviamo nella situazione di partenza che avevamo riscontrato con "Morte a Vele Spiegate": tratteggiata così, infatti, la trama pare avere tutti gli ingredienti del tipico romanzo giallo che gli appassionati di crime story classica amano; anzi, se li contiamo risultano quasi troppi per poter essere accettati e sopportati. Non che la cosa stupisca più di tanto: "Il Dramma di Corte Rossa", infatti, risale al 1922, agli albori di quella che sarà la Golden Age del mystery di stampo inglese; per cui è abbastanza prevedibile che non ci sia chissà quale elemento di originalità al suo interno e che a dominare la scena siano soprattutto quelli che oggi consideriamo cliché a tutti gli effetti. Inoltre, non bisogna aspettarsi che questo romanzo rivoluzioni il genere; ricordiamo che il mondo era nel bel mezzo di una guerra sanguinosa, dalla quale si cercava di sfuggire per qualche ora impegnando la mente in esercizi divertenti, e che quindi la priorità era quella di ideare vicende leggere e intriganti ma non aveva ancora preso piede la vera e propria sfida tra narratore e lettore. Eppure, a differenza del libro di Snow, in questo caso ho amato ogni pagina di "Il Dramma di Corte Rossa". Cosa strana, considerando il fatto che, oltre alla presenza di aspetti inflazionati nel racconto del mistero, l'enigma stesso sia da considerare come molto inferiore a quello che è stato costruito in "Morte a Vele Spiegate", in quanto a complessità ed ingegnosità.

Come spiegare questa reazione da parte dei lettori (parlo al plurale perché ho accertato che siamo stati in molti ad apprezzare e lodare il romanzo di Milne)? Ebbene, la risposta che mi sono dato è che, sebbene entrambi gli autori abbiano dato vita a una sola opera di pregio di genere giallo, Snow non possedesse la capacità di dipingere una storia di omicidi di stampo prettamente classico, dotata di quegli elementi che la caratterizzarono per tutto il corso della sua epoca più sfavillante e capace, allo stesso tempo, di raccontare come fosse il mondo del primo Novecento e di intrattenere chi leggeva con grazia e simpatia; cosa che, invece, Milne ha dimostrato a più riprese di possedere. Mi spiego meglio, prendendo a sostegno come "Il Dramma di Corte Rossa" è stato giudicato da uno scrittore molto famoso negli Stati Uniti, uno dei padri del giallo hard-boiled, Raymond Chandler. Egli ha passato al setaccio questo romanzo e ne ha fatto oggetto di una celebre analisi all'interno del saggio "La Semplice Arte del Delitto", osservando come esso tratti una storia tutt'altro che credibile, se confrontata con altri romanzi del mondo dei duri a cui lui era molto legato. Secondo lui, non era plausibile che tanti elementi del mistero fossero lasciati al caso: che l'inchiesta del coroner venisse basata su un processo privo di alcun documento ufficiale sulla vittima e su Mark Ablett; senza l'analisi del cadavere da parte del medico legale, indispensabile in casi di delitto; sulla testimonianza di molti testimoni sospettati; sulla quasi totale ignoranza nei confronti della figura di Robert; sulla troppo ingenua fiducia della polizia. Per non parlare del fatto che Gillingham fosse raffigurato in modo troppo irreale e scherzoso ("rabbrividisco al pensiero di quello che gli farebbero i ragazzi della Squadra Omicidi del mio paese" sentenziò).

Ora, se confrontate con altri mysteries del periodo, tra quelli di Sayers, Christie o Berkeley, queste critiche alle inesattezze sono fondate: ci troviamo senza dubbio di fronte a un giallo tutt'altro che perfetto e pieno di cliché, e non possiamo che essere d'accordo con le argomentazioni di Chandler; benché voglia ricordare ancora una volta come il libro di Milne appartenesse agli albori del giallo ad enigma della Golden Age. Però, detto questo, vorrei sottolineare due cose: innanzitutto, nel fare la sua analisi, Chandler era di parte e avrebbe apertamente considerato qualunque cosa al di sotto del romanzo dei duri, se solo avesse potuto farla franca; quindi, bisogna intendere le sue parole negative sul caso di Corte Rossa con molta cautela. Inoltre, cosa più importante, vorrei mettere in luce un fatto che moltissimi critici tendono a dimenticare, quando recensiscono un'opera di svago: ognuno di noi decide di approcciarsi alla storia fittizia in modo differente, quindi non è detto che, se a uno non è piaciuto un dato libro, esso debba fare schifo anche a un altro (e viceversa). La cosa varia in base a fattori diversi: c'è chi leggere per intraprendere una sfida mentale, chi fa come le persone vissute nel 1920 e vuole soltanto svagarsi un po', chi intende la crime story come passatempo e perciò non ha grandi pretese sul rispetto delle regole del fair-play, o sul fatto che vengano impiegati cliché o introdotte innovazioni originali. Personalmente, dalla lettura di gialli cerco di ricavare informazioni sul mondo del primo Novecento, oltre che desiderare un mistero affascinante e una certa sorpresa. Quindi, per concludere la digressione, bisogna tenere da conto, quando si fanno delle critiche su un dato argomento (io stesso mi sforzo di mettere in luce pregi e difetti allo stesso modo, così da dare una visione d'insieme), che ciò che noi amiamo potrebbe essere noioso per altri. E "Il Dramma di Corte Rossa" ha messo d'accordo un sacco di persone, nonostante le sue lacune. Come mai?

Esso può essere considerato secondo diversi punti di vista. Da quello strettamente enigmistico, può non valere molto per un appassionato: infatti, è innegabile che nel libro ci sia, da parte dell'autore, un uso smodato di passaggi segreti, travestimenti e altri elementi fin troppo usati nel giallo, insieme a molte imperfezioni e ingenuità. D'altra parte, però, è pur vero che il romanzo si legge che è un piacere, proprio grazie al suo essere leggero, grazioso, confortante. In esso, sembra contare più il viaggio del mistero, come se l'autore volesse intrattenere con una storia graziosa piuttosto che creare chissà quale capolavoro del giallo. Questa è la grande differenza con "Morte a Vele Spiegate" e il motivo per cui Chandler lo bocciò. Nel caso di Snow il delitto, costruito con ingegnosità quasi calcolatrice, era il centro di tutto quanto: esso era stato curato con fredda astuzia e costruito come se la vicenda dovesse essere rappresentata per un pubblico di attenti codebreaker, trattato come un quesito matematico a cui viene accostata l'indagine delle emozioni e dei caratteri dal punto di vista scientifico-analitico, senza dare importanza al sentimento vero e proprio e senza lasciarsi mai andare, come se fosse un delitto far trapelare che, dietro a ogni cosa, ci fosse un'anima. Il risultato, di conseguenza, era stato qualcosa di artificioso e irreale, in cui tutto si concentrava sul caso e mai sul lato "umano" della storia (non per niente le uniche parti dove emerge una parte di genuinità sono quella allo stadio, con l'ironica tirata di Finbow sulle capre e le pecore accostate agli studenti di istituti privati e licei pubblici, e quella all'ospedale, con i pomposi e vivaci Boothby e Parfitt). L’ironia incarnata da Birrell e la signora Tufts veniva trattata da Snow (che ne era privo) come una caratteristica poco seria, che trasformava tali personaggi in macchiette da prendere in giro; non riesce a spezzare la tensione e ad allontanare la mente dal caso, ma costituisce un pretesto cinico per dimostrare come il mistero viene affrontato (malamente) dalla polizia ufficiale in confronto al metodo di Finbow. Milne, invece, con questo romanzo decide di incarnare l'ideale di Thomas de Quincey e il suo "L'Assassinio come una delle Belle Arti" e di dare una svolta al giallo improntato al solo problema matematico, abbandonando l'austerità come avevano già iniziato a introdurre Christie e Sayers in "Poirot a Styles Court" e "Peter Wimsey e il Cadavere Sconosciuto", introducendo per la prima volta il componente principale che avrebbe fatto la fortuna delle storie di Berkeley: il brillante chiacchiericcio e il lasciarsi andare un po', trattando il giallo non solo come un austero cruciverba ma raccontando piccoli episodi di vita quotidiana per spezzare la gelida routine dell'indagine.

In questo caso, l’ironia diventa qualcosa di leggero, un elemento che contribuisce a far avvicinare non solo il ristretto numero di amanti del giallo, ma soprattutto la gran quantità di persone che desiderano leggere una storia simpatica, che abbia o meno a che fare con un delitto. Credo sia questa la ragione del successo tra il pubblico e gran parte della critica di "Il Dramma di Corte Rossa"; tanto grande da rendere la disamina denigratoria di Chandler come una sorta di lamentela capricciosa di un collega invidioso. Leggere questo romanzo vuol dire rasserenarsi, entrare in un mondo migliore, garbato, pulito e ordinato, nonostante vi venga commesso un delitto; e alla fine conta poco la perfetta esecuzione del mistero tanto casa a Snow. I difetti scompaiono di fronte al lettore medio (e al giallista meno manicheo di Chandler), poiché egli viene catturato dal racconto e avvolto dal modo grazioso in cui è narrata la storia, dall'intreccio godibile, dal crogiolarsi beato nelle splendide descrizioni della campagna inglese, dai dialoghi brillanti e dall'umorismo garbato che permea tutto il libro, anche nei momenti più drammatici.

Alan Alexander Milne, nato nel 1882 e
morto nel 1956
D'altronde, Alan Alexander Milne era quello che si può definire come "uno scrittore di vocazione". Nato nel 1882, fu il terzo di tre fratelli: egli stesso, Barry (il maggiore) e Ken (il minore). Se col primo ebbe sempre un rapporto molto difficile e caratterizzato da una feroce inimicizia, col secondo instaurò uno straordinario legame di cordialità che gli permise di scoprire la propria strada letteraria. Infatti, dopo gli studi alla Henley House di Londra (diretta dal padre), sotto l'ala protettrice di nientemeno che H.G. Wells, e la Westminster School, approdò col fratellino al Trinity College di Cambridge, dove come duo iniziarono a collaborare a "The Granta", la rivista umoristica pubblicata in loco. Fu questo l'inizio della sua carriera di scrittore, poiché durante gli anni universitari Alan iniziò a scrivere anche per altre testate; tra cui il "Punch", dove venne assunto in pianta stabile nel 1906. Nel frattempo, un anno prima aveva pubblicato una serie di pezzi sotto il titolo "Lovers in London", un volume che in seguito avrebbe ripudiato e del quale si affrettò a riacquistare i diritti per non vederlo più ristampato. Nel 1913 sposò Dorothy de Selincourt, e poco dopo si arruolò per andare in guerra. Nel 1919, al ritorno dal fronte, si aspettava di tornare a scrivere per il "Punch" ma dovette accettare il fatto che, alla redazione, si erano ormai adattati a trovare un suo sostituto, che producesse contenuti adatti alla testata umoristica invece di baloccarsi con opere teatrali (come aveva fatto lui). In questo modo, Milne cambiò rotta e si concentrò sulla scrittura di testi per il teatro, i quali gli diedero tanta fama quanto critiche (egli fu sempre molto suscettibile a riguardo). Ormai famosissimo, decise di nuovo di tentare una strada diversa e, nel 1922, scrisse "Il Dramma di Corte Rossa", il quale venne accolto ancora una volta tra critiche feroci (come quella di Chandler) e lodi sperticate, tanto da diventare in breve uno dei più grandi gialli di tutti i tempi. Questo forse sarebbe bastato per un uomo normale: dopotutto, ormai avrebbe potuto dedicarsi esclusivamente al teatro o al mystery fino alla fine dei suoi giorni. E invece, di nuovo, Milne intraprese una sfida all'apparenza disperata: decise di scrivere per i bambini, ottenendo l'ennesimo trionfo con i quattro volumi sull'orsetto Winnie-the-Pooh e i suoi amici del Bosco dei Cento Acri (tra cui il bambino Christopher Robin, alter ego del figlio di Milne).

È curioso come egli, poco dopo, iniziò ad odiare la sua creazione: forse desiderava essere ricordato per le sue opere più impegnate, come accadde a Christopher St. John Sprigg. A quel punto, dunque, decise di abbandonare l'orsetto al suo destino, ma stavolta il pubblico non gli perdonò l'affronto; tanto che le sue opere successive non riuscirono nemmeno lontanamente ad eguagliare il successo ottenuto con Winnie. Intanto i rapporti con Christopher si erano deteriorati poco a poco e Alan decise di trasferirsi con la moglie nel Sussex, a vivere in campagna. Laggiù trascorse gli ultimi anni della sua vita, finché nel 1952 venne colpito da un ictus e dovette essere operato al cervello; l'intervento gli salvò sì la vita, ma lo rese invalido fino al 1956, quando morì. Questo suo carattere difficile può far pensare che Milne fosse un vecchio antipatico, dal quale era meglio stare alla larga; eppure, Clarice Carr (la moglie del celebre giallista John Dickson) lo ricordò in un'occasione particolare, durante una delle cene al Detection Club (al quale Alan venne chiesto di unirsi grazie al suo celebre giallo e ad alcuni racconti sporadici sullo stesso genere): sconcertata, lo descrisse come "il tipo puramente inglese, bello da vedersi come una star cinematografica, magro e ben proporzionato, né piccolo né troppo alto, leggeri capelli marroni... Si portò in un angolo e si sedette laggiù, senza parlare o guardare nessuno". La spiegazione del suo comportamento, tuttavia, non è da imputarsi a snobismo o indole scostante, ma solamente a timidezza e reticenza (come affermarono John Rhode e Dorothy L. Sayers). Da parte mia, l'ho sempre immaginato come uno di quei vecchi gentiluomini d'altri tempi, duri ma capaci allo stesso tempo di essere affascinanti e di intrattenere con storie argute: in fin dei conti, aveva lavorato al "Punch" come Berkeley e non mi sarei aspettato una vena umoristica poco sviluppata. Quella stessa emerge da ogni sua opera letteraria: nei testi teatrali, in Winnie-the-Pooh e, ovviamente, anche in "Il Dramma di Corte Rossa", dove essa riesce ad amalgamare ogni elemento della trama e della struttura narrativa in modo egregio e leggero.

Pensate che, nella ristampa del suo romanzo giallo del 1926, inserì un'introduzione in cui spiegava come egli intendesse la crime story e cosa, a suo parere, essa dovesse essa mettere in scena. Stilò quindi una piccola scaletta di regole da seguire (come fecero Monsignor Knox, T.S. Eliot e S.S. Van Dine; il tutto con intento ironico, s'intende): spiegò che il romanzo doveva essere scritto in inglese corrente; che non doveva esserci al suo interno alcun interesse amoroso, soprattutto per l'investigatore, il quale doveva essere impegnato a risolvere il caso e non ad intrattenere allegre relazioni; che il detective e l'antagonista non dovevano avere conoscenze particolari ad avvantaggiarli nell'ideazione del delitto e nel raggiungere la sua soluzione; che la scienza non doveva essere impiegata troppo spesso per giustificare prove e indizi; che le conoscenze del lettore dovevano essere sempre messe sullo stesso piano di quelle della spalla di turno, senza nascondere alcun elemento fondamentale o a fare rivelazioni finali; infine, che ci dovesse essere uno "Watson" ad interpretare il ruolo del lettore all'interno del racconto. Questa lista deve essere presa in modo ironico, come dicevo; eppure, se ben guardiamo, ci accorgiamo che tutto ciò è stato inserito in "Il Dramma di Corte Rossa": oltre all'ambientazione tradizionale, quella di un mondo "alla Wodehouse" in cui l'estate è eterna, il tè e i tennis party si sprecano, la guerra non è mai esistita e solo ogni tanto appare qualche cadavere di sfuggita, un po' somigliante a quella di "La Pietra di Luna" di Wilkie Collins, in cui viene dipinta la società de tempo; oltre all'atmosfera rilassata e sognante, caratterizzata dal piacevole chiacchiericcio tra una governante e una cameriera, dalla calda giornata estiva nella quale si ode solo il brusio delle api e una falciatrice lontana, da simpatici ospiti scrocconi e sfaccendati (tra cui i proverbiali maggiori dell'esercito, anziane signorine e giovani delicate forse poco tridimensionali, vedi pp. 7-10, 13-15, 17-20, 23-25, 52-58, 63, 75-79) che a quel tempo erano parte del tessuto sociale e tranquillamente tollerati; oltre a tutto ciò, insomma, abbiamo una coppia di protagonisti che, parodiando il genere con la giusta alchimia e battute e riferimenti simpatici, decidono di giocare a Sherlock Holmes e Watson (pp. 87-88, 90, 95-97, 108, 113-118, 121-122, 127-128, 136, 139, 142-143, 147-152, 171-177, 188, 195-196, 201-202, 209, 212, 214, 218-219, 240, 244-245) all'interno di una storia piena di elementi fin troppo usati nel giallo: a partire dal titolo (che sembra proprio accennare al classico delitto della casa di campagna), troviamo poliziotti un po' ottusi ma abbastanza svegli da capire che la faccenda è più complicata di quanto sembri; passaggi segreti dietro gli scaffali pieni di libri, aule di tribunale colme di gente in attesa del verdetto del coroner, confessioni finali in forma di lettera, fantasmi finti.

Lo stesso Gillingham incarna lo stereotipo del giovane ricco che, alla pari di Lord Peter Wimsey, decidere di dedicarsi all'indagine da dilettante per passare il tempo e rendersi utile, grazie alla capacità di registrare tutto e conservarlo nel subconscio; mentre Bill è il giovane sfaccendato "alla Bertie Wooster" tanto presente nei classici mysteries, un po' ingenuo e vanesio ma fedele. Insieme costituiscono le due facce dell'indagine: quella che si diverte ad indagare, per puro spasso, e quella consapevole della tragedia avvenuta, più seria quando fa ragionamenti nella sua testa (pp. 36-39, 56-60, 66-70, 80-81, 89-91, 96-97, 99-102, 104-105, 111-112, 122-123, 132-134, 137-138, 140-141, 143-144, 167-170, 183-184, 191-193, 197-203, 242-244). Lo stile garbato e simpatico, pieno di piccole osservazioni dell’autore (pp. 18, 24-27, 41-42, 52-54, 67-68, 73-77, 95-96, 109-110, 119-121, 147-151, 157-159, 179-182, 186-188, 217, 222) con cui viene tratteggiata tutta la storia, infine, restituisce al lettore un giallo sempre giocato sul filo del divertissement, dove le sue leggerezza e allegria (non c'è praticamente mai un momento di tensione o di reale pericolo per i due protagonisti) non appaiono mai fuori posto. "Il Dramma di Corte Rossa" è un giallo che è invecchiato, sì, ma con grazia. Ed è per questo che, a mio parere, pur nella sua ingenuità viene citato e ricordato con affetto a tutt'oggi (a differenza di altre opere più complesse e ingegnose, ma pesanti e invecchiate male); nonostante il suo enigma poco complesso, carente soprattutto nella parte dell'inchiesta (cap. 19) e nella soluzione finale, il cui confronto coi grandissimi del genere è del tutto impietoso. Penso che, in fondo, lo scopo di Milne non fosse quello di ideare una soluzione plausibile che reggesse a un attento esame, ma che il vero piacere della lettura fosse da ritrovare nell'ingegnosità della sua costruzione e nel rapporto tra i personaggi. Insomma, per concludere: il fatto che questo sia uno dei primi esempi di giallo deduttivo non deve indurci a pensare che esso sia noioso o addirittura scadente. Anzi, secondo me è da considerare ancor più straordinario proprio perché, nonostante questi difetti, "Il Dramma di Corte Rossa" ha saputo mantenere bene la propria fama per tutti questi anni, come un giallo d'epoca arguto che è invecchiato con grazia. Niente male, pur essendo un po' prevedibile sotto alcuni aspetti.

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venerdì 15 maggio 2020

32 - "Morte a Vele Spiegate" ("Death Under Sail", 1932) di C.P. Snow

Copertina dell'edizione pubblicata
dalla Polillo Editore
A partire dalla settimana scorsa (e così sarà per tre volte in tutto, poiché per l'ultimo venerdì del mese ho intenzione di pubblicare la recensione di un romanzo estraneo al sottogenere del "delitto sotto il sole", ma non per questo poco bello), abbiamo visto come il classico romanzo giallo della Golden Age si possa declinare secondo una cornice diversa da quella a cui uno potrebbe subito pensare, il più delle volte caratterizzata da scenari gotici e suggestivi come castelli nella tempesta o isolate magioni avvolte dalla notte più oscura; ovvero quella esotico-vacanziera, la quale costituisce il filo conduttore delle recensioni del mese di maggio su Three-a-Penny. Con l'avvicinarsi della bella stagione, infatti, ho intenzione di lasciare per qualche tempo la classica crime story caratterizzata dalle ambientazioni di cui sopra, per passare a letture che ci permettano di fantasticare sui soleggiati momenti di relax e tranquillità che ci aspettano in futuro (o almeno, speriamo che sia così); magari immaginando di essere in riva al mare o di compiere attività all'aperto, in luoghi esotici dove i protagonisti delle storie vivono le loro avventure. Anche in questi frangenti, l'omicidio non è una presenza estranea; anzi, si può dire che il desiderio di lasciarsi alle spalle tutte le preoccupazioni e, allo stesso tempo, l'esacerbare gelosie e ossessioni nascoste siano ancora più sentiti e forti, quando ci troviamo a volerci rilassare senza essere disturbati. Per questo motivo, ho deciso di concentrarmi per qualche tempo su alcuni titoli adatti a descrivere queste manifestazioni del temperamento degli individui, tratteggiate in contorni placidi solo all'apparenza e caratterizzati da una calma fasulla. Infatti, nemmeno il dolce cullare delle navi da crociera, il suono monotono e rappacificante del treno che corre sulle rotaie, il ronzio sonnolento dei motori degli aerei di linea riescono a lenire la frustrazione dell'essere umano e a raffreddare gli animi che si scaldano sotto i raggi del sole.

Proprio i mezzi di comunicazione e locomozione sono il più delle volte protagonisti di mysteries ambientati in questi scenari vacanzieri, sia in stagioni più rigide come l'inverno (come non ricordare "L'Assassinio sull'Orient-Express" di Agatha Christie?) sia in altre più calde. In "Un Pomeriggio da Ammazzare" di Shelley Smith, ad esempio, abbiamo visto che è l'aeroplano privato del signor Jones a condurlo nella casa di Alva Hine, dalla quale partirà tutta la vicenda. In "Poirot sul Nilo" di Christie, il battello Karnak su cui viaggia l'investigatore belga, mentre è in ferie, costituisce la scena del delitto, l'elemento caratterizzante della vicenda, quello che dà una connotazione precisa al mistero. Negli innumerevoli gialli di Freeman Wills Crofts, sfegatato appassionato del giallo su rotaie, è spesso il treno a diventare elemento imprescindibile della trama. Ma non solo gli autori di gialli classici inglesi si sono sperticati nell'ideare omicidi a bordo di innumerevoli mezzi a motore: Rufus King, narratore impareggiabile degli anni '30-'40 del mystery analitico americano, ha costruito un'intera carriera sulle uccisioni avvenute a bordo di navi, yacht, imbarcazioni da diporto e simili; Charles Daly King, altro grande scrittore della crime novel classica, ha dato prova più volte di prediligere il sottogenere del "delitto a bordo" grazie ai suoi "Delitto in Cielo", "La Morte Viaggia in Treno" e "In Alto Mare". Spesso questi veicoli ci portano in luoghi esotici come isole e paesi stranieri (il deserto iraniano di "Un Pomeriggio da Ammazzare", l'Egitto di "Poirot sul Nilo", gli atolli paradisiaci del centro America in un altro giallo di questo tipo come "Charlie Chan e la Casa Senza Chiavi"), permettendoci di evadere dalla monotonia quotidiana; altre volte, invece, essi ci accompagnano dietro l'angolo di casa, senza che ci sia bisogno di andare dall'altra parte del mondo per la riuscita di un buon romanzo del mistero; come nella minuscola Burgh Island dell'Inghilterra meridionale, nella quale è ambientato "Dieci Piccoli Indiani" di Christie.

A quest'ultimo tipo di location si può aggiungere quella costituita dai Broads, quell'intrico di laghi poco profondi e larghi fiumi che si dirama per gran parte dell'Inghilterra orientale, tratteggiata nel romanzo che intendo recensire oggi: "Morte a Vele Spiegate" di C.P. Snow (Polillo Editore, 2002). In questa storia, pur non giocando un ruolo importantissimo all'interno della storia, l'ambientazione viene evocata in modo da conferire un'originale sfondo per le oscure vicende narrate, tratteggiate con tono distaccato a partire dal delitto avvenuto a bordo di un piccolo yacht per poi passare allo scatenarsi degli istinti dei sospettati, costretti a convivere in un isolato cottage, e alle complesse elucubrazioni dell'investigatore dilettante di turno, impersonato da un impiegato amministrativo con l'animo del filosofo-scienziato, in modo da dare vita a un esemplare giallo classico.

Anchor and Boats (Rye Harbour, East Sussex), Eric Ravilious,
1938
Come dicevo, fin dall'inizio ci troviamo nei Broads, in una fresca serata di inizio settembre. Ian Capel, distinto gentiluomo dotato di ironia e di più anni di quanti desideri ammettere, sta camminando da ore ed ore lungo viottoli fangosi e sotto una pioggerella fine e insistente, col fine di raggiungere la barca del suo amico Roger Mills, un famoso oncologo di Londra che lo ha invitato a trascorrere qualche tempo a bordo in compagnia di alcuni giovanotti e signorine. Benché stanco e irritato dalle indicazioni imprecise che Roger gli ha dato, è contento del suo imminente ritrovarsi tra persone più giovani di lui: sta per ricongiungersi alla deliziosa compagnia che solo un paio di anni prima si era recata in Italia per un soggiorno. Ci saranno Philip, il giovane sfaccendato che tutti loro amano proprio a causa della sua pigra indolenza; il pratico e tagliente William, promettente stella della medicina che potrebbe scalzare Roger dal suo piedistallo; ovviamente Roger, sempre più volgare, grasso e rumoroso; Christopher, uno dei ragazzi più poveri ed intelligenti che egli abbia mai conosciuto, oltre ad essere un ottimo compagno di ventura; ma soprattutto la dolce Avice, la sua preferita, la ragazza per cui nutre più di un'amicizia ma che (ne è consapevole) non potrà mai sperare di conquistare. È il pensiero di raggiungere quest'ultima che lo spinge a continuare ad avanzare, insieme alla prospettiva di riposare al caldo; e poco dopo il suo desiderio si avvera: Ian raggiunge l'attracco di The Siren, lo yacht di Roger, e scopre che al gruppo si è aggiunta una certa Tonia Gilmour, la nuova fiamma di Philip, una ragazza esuberante e attraente dai capelli rossi.

Le risate e i brindisi per il nuovo lavoro di Christopher, benché attenuati dalla conferma del fidanzamento del giovane con Avice, riscaldano le ossa del vecchio gentiluomo, il quale non riesce a capacitarsi di quanto sia fortunato a poter stare assieme a quelle sei simpatiche persone, e il sonno arriva a fatica quando viene il momento di dormire. Il mattino seguente, tuttavia, una sorpresa per niente piacevole attende gli occupanti dello yacht: Roger, infatti, viene ucciso mentre si trova al timone della barca. Lo sconcerto assale i membri della compagnia, i quali tentano di risolvere la faccenda a modo loro prima di rivolgersi alla polizia, ma quando appare chiaro che il fattaccio non si riesce a sciogliere né può restare impunito, Ian inizia a domandarsi chi possa essere il colpevole di quello sporco assassinio. Appare chiaro fin da subito, infatti, che nessuno avrebbe potuto salire a bordo e far fuori il capitano, per poi scomparire nuovamente; quindi, il colpevole deve essere uno tra William, Tonia, Philip, Christopher e Avice. Quest'ultima, essendo cugina della vittima, sembrerebbe la persona più probabile da sospettare e Ian non può sopportare di vederla struggersi, o peggio, impiccata; così, approfittando di un passaggio sul dinghy guidato da Christopher e William, diretti ad informare le forze dell'ordine dell'accaduto, il gentiluomo si reca al più vicino telefono e convoca un suo vecchio amico, tale Finbow, il quale si trova in licenza da Hong Kong, per incaricarlo di scoprire la verità sulla morte di Roger. Finbow, da parte sua, si dimostra molto interessato alla faccenda: essendo un tipo che si diverte ad osservare come agisce la natura umana di volta in volta, potrebbe analizzare le reazioni di ognuno dei sospettati e interpretare le prove sulla scena del delitto come se si trattasse delle viscere degli antichi aruspici; quindi egli accetta di buon grado e, dopo essersi conquistato la fiducia del borioso sergente Birrell incaricato delle indagini, inizia a riflettere sul comportamento di ognuno dei sospettati, i quali nel frattempo sono stati costretti a vivere in un isolato cottage. Pian piano, grazie ai suoi metodi inusuali, Finbow inizia ad escludere una persona dopo l'altra dalla sua lista mentale, chi in base a prove materiali come capelli e tempi d'azione, chi a causa del peculiare carattere; mentre i nervi di tutti iniziano a cedere, compresi quelli del suo amico Ian. Riuscirà Finbow a inchiodare l'assassino di Roger? Ma soprattutto, sarà stato proprio un male che un tipo ambiguo come il dottor Mills sia stato eliminato?

Pianta della suddivisione di The Siren, lo yacht di Roger
Dalla trama, avrete capito come "Morte a Vele Spiegate" abbia tutti gli ingredienti per essere uno di quei romanzi gialli classici che gli appassionati amano. Un amico che conosco ormai da molti anni, grande fan del mystery più classico e analitico possibile, in una sua recensione ha dato un voto molto alto a questo libro, dilungandosi su quanto esso sia "decisamente classico" in tutti i suoi elementi: ambientazione ridotta a pochi scenari (soprattutto lo yacht e il cottage) come nel numero dei sospettati; sviluppo del caso tra omicidio, indagine parallela tra inquirenti ufficiali e ufficiosi e svelamento della verità di uno e dell'altro con conseguente celebrazione dell'acume del segugio occasionale; e tratteggio dei personaggi, tra cui Ian Capel nel ruolo di una riuscitissima spalla "alla Watson" (pp. 10, 14, 29, 42-43...); senza dimenticare la presenza di piantine utili alla comprensione dei movimenti di tutti i personaggi, indispensabili in un romanzo del mistero che si rispetti. Dopotutto, siamo nel momento storico in cui fiorirono i maggiori esponenti del giallo della Golden Age come Sayers, Christie, Iles e tanti altri, e nel quale, come nella struttura narrativa più tipica che si possa immaginare nel genere del giallo tradizionale, qualcuno viene ucciso, un investigatore dilettante ma dotato di acuto ingegno deduttivo si applica alla risoluzione dell'elaborato caso e, evitando false piste e inserendosi tra sospettati più o meno eccentrici con domande innocue solo all'apparenza, riesce a scoprire i segreti nascosti di tutti quanti e a svelare "chi-lo-ha-fatto" in un lungo monologo finale e drammatico. Eppure, devo ammettere che il mio giudizio finale su "Morte a Vele Spiegate" non riesce ad essere entusiasta quanto quanto quello che ho riportato qui sopra; il che è un vero peccato.

I motivi di questa mia parziale delusione sono differenti, anche se presi uno alla volta forse non influiscono più di tanto nella resa totale della storia. Innanzitutto, dunque, c'è il problema dello stile, che io ho trovato molto confuso e difficile da seguire (pp. 42-43, 59-62, 70-71, 88, 97, 118, 122, 124, 147, 153, 161, 167, 184, 199-200). Se da una parte mi ha ricordato quello caratteristico di Richard Austin Freeman, in cui le digressioni si sprecano e ogni occasione sembra buona per l'autore per infilare una riflessione personale sull'argomento trattato, dall'altro non mi ha restituito la stessa sensazione un po' ironica e suggestiva che avevo provato quando, ad esempio, mi sono tuffato in "L'Occhio di Osiride". Voglio dire, la spiegazione di Snow allo stadio da cricket (cap. 9) sul motivo per cui William si è presentato davanti al cadavere di Roger senza camicia, sul ponte la mattina del delitto, e la conseguente differenza tracciata tra studenti di prestigiosi college e alunni di istituti statali (le insolite "capre" e "pecore") è stato un pezzo di bravura nel "far passare il tempo", come l'ha definito lo stesso Finbow, e un intermezzo che non mi ha infastidito; così come la breve parentesi all'ospedale di Liverpool Street, dove abbiamo conosciuto di sfuggita il dottor Boothby e il giovane Parfitt. Però, per il resto della storia di "Morte a Vele Spiegate", ho come avuto l'impressione che il tono usato sia nel racconto del mistero della morte di Roger, sia nell'enunciazione delle teorie e dei momenti di tensione, sia stato molto (forse troppo) formale e presuntuoso. La freddezza di Finbow è come passata attraverso le pagine fino a raggiungermi, allontanandomi da quella sorta di impersonificazione che metto in atto mentre leggo e che mi permette di immergermi nelle vicende in prima persona. In sintesi, non sono riuscito a sentire il caso come al solito e ho percepito una sorta di parete tra me e il racconto di Snow, provando per la prima volta un distacco netto, forse dovuto al tono "da scienziato" dell'autore.

In secondo luogo, di conseguenza, ho avuto un problema con i personaggi: data questa incongruenza insormontabile tra me e il consueto coinvolgimento nella storia, non sono riuscito nemmeno a considerare i personaggi come esseri viventi in tutto e per tutto. Con questo, intendo dire che per me la maggior parte dei sospettati (Philip, Christopher e Tonia in primis, ma pure William e Avice in misura minore) non sono riusciti a staccarsi dalle pagine e a prendere vita davanti ai miei occhi, restando figure a due dimensioni che si muovono come burattini, per cause estranee alle emozioni paradossalmente più si avanzava nelle vicende e la tensione nervosa saliva. Per contro, quasi a voler ribaltare il risultato sperato da Snow, ho percepito con maggiore chiarezza il sergente Birrell e la signora Tufts, personaggi di importanza minore in "Morte a Vele Spiegate" rispetto agli altri, grazie al loro ridicolo pudore vittoriano e all'essere futili macchiette che risaltavano sulla piattezza della resa del sentimento umano. Infine, lo stesso enigma mi ha lasciato qualche perplessità. Infatti, se da un lato sono soddisfatto dal fatto che la soluzione finale sia stata suffragata da indizi materiali e accettabili da una giuria in tribunale, dall'altro non sono riuscito ad accettare del tutto il voler mettere insieme, da parte dell'autore, l'indagine prettamente preposta alle elucubrazioni "materialistiche" e quella governata dai ragionamenti sui caratteri e sulle emozioni dei personaggi. Mi è sembrato come se Snow avesse voluto dimostrare che il successo in un'indagine per omicidio debba essere sostenuto da una giusta dose di indizi pratici e di elementi psicologici, per poter sperare di cavare il proverbiale ragno dal buco; e se questo ragionamento può anche essere accettato, lui ha costruito un caso basato su aspetti troppo vaghi per essere considerati sufficientemente solidi da reggere le critiche, e dotato di troppo pochi elementi originali per essere ricordato nettamente in mezzo agli altri. Troppo viene lasciato al caso, e con troppa facilità i sospettati vengono eliminati dalla lista dei probabili colpevoli (tanto che spesso rientrano in corsa!), generando una soluzione troppo intellettualizzata; il che, assieme alle due critiche che ho discusso poco sopra, non mi permettono di promuovere del tutto questo libro.

Charles Percy Snow, nato nel 1905 e morto nel
1980

Bisogna ammettere che, tuttavia, se la riuscita di "Morte a Vele Spiegate" è risultata solo in parte (spiegherò quali sono gli elementi da salvare e che rendono questo romanzo giallo comunque degno di essere letto quale storia d'evasione, non giungete a conclusioni troppo affrettate!), forse uno dei motivi di ciò è stato il fatto che esso è stato il primo libro in assoluto che Charles Percy Snow (questo il nome esteso dell'autore) scrisse, e quindi risentisse della sua inesperienza. Nato al Leicester nel 1905, egli si trovava a studiare chimica e fisica all'università di Cambridge quando, nel 1932, decise di esordire come scrittore proprio con un romanzo giallo, l'unico della sua carriera per moltissimi anni. In una nota a un'edizione successiva, più precisamente, Snow osservò che questo libro "non era propriamente la mia opera prima dal momento che, a ventun anni, avevo scritto un romanzo su dei giovani in un'università della provincia inglese"; tuttavia, quel lavoro non fu mai dato alle stampe, con posteriore gioia dell'autore, e quindi "Morte a Vele Spiegate" si può considerare come la sua prima opera ufficiale. In occasione della ristampa che ho menzionato sopra, l'autore si disse più che contento del successo avuto dal suo libro: quest'ultimo doveva costituire la pietra tombale sul suo percorso come scienziato in favore di una florida carriera come narratore, poiché quello era sempre stato il suo desiderio. Eppure, benché avesse iniziato con uno di quei gialli "artificiosi e stilizzati secondo la maniera dell'epoca" forse per provare a mettersi alla prova ed esso fosse stato accolto molto bene, Snow si rese conto ben presto che stava per essere attirato nella stessa trappola della scienza da cui stava tentando di scappare, se avesse continuato su quella strada. Così, sebbene avesse desiderato dedicarsi al giallo declinato al roman policier più realistico "alla Simenon", a malincuore decise di non mettere più mano a un altro mystery ("divertenti da scrivere, ma richiedono quasi lo stesso tempo di un romanzo propriamente detto" osservò, e lui era già troppo impegnato per dedicare troppo tempo alla creazione di enigmi), prediligendo l'ideazione di altre opere di narrativa come "La Ricerca" del 1934 e il fortunato ciclo sulla vita inglese dal titolo "Estranei e Fratelli" (in cui coniò la frase "corridoi del potere"), al centro delle quali era sempre il conflitto tra etica, potere e scienza. Sposatosi nel 1950 con la scrittrice Pamela Hansford Johnson, C.P. Snow conquistò la notorietà nel 1959 col saggio "Le Due Culture", basato sulla frattura fra scienza moderna e valori umanistici, e alternò fino alla fine dei suoi giorni l'attività letteraria con quella di ricercatore scientifico, riuscendo addirittura a ricoprire la carica di sottosegretario al ministero della tecnologia dal 1964 al 1966; riuscendo appena un anno prima della morte, avvenuta nel 1980, a pubblicare un nuovo giallo dal titolo "Una Mano di Vernice". Questo (assieme al fatto che nel suo esordio citò Sayers e Van Dine) dimostra come fosse ancora legato all'idea di diventare un giallista a tempo pieno, se solo avesse potuto.

In fin dei conti, penso che sia stato un peccato che non si sia più concentrato sulla crime story se no quando fu troppo tardi; nonostante i difetti evidenti, "Morte a Vele Spiegate" dimostra come Snow avesse una certa inventiva. Magari avrebbe potuto migliorare su alcuni aspetti scadenti dell'opera in questione e regalarci qualcosa di memorabile. In ogni caso, come vi dicevo, non considerate del tutto dimenticabile il suo esordio nella narrativa. È innegabile che in esso ci siano molte cose che non funzionino; però, secondo alcuni aspetti della storia, penso che più di una persona potrà dirsi entusiasta del risultato che ne ha ricavato l'autore. In fin dei conti, l'amico che ha apprezzato questo romanzo del mistero è una delle persone più esigenti che conosca in fatto di giallo classico. Inoltre, per quanto mi riguarda, ho apprezzato moltissimo il tratteggio dell'atmosfera e dell'ambientazione, un po' rarefatte ed essenziali ma di sicuro più vivide delle personalità dei personaggi e originali. Mi ha divertito il continuo botta-e-risposta tra Finbow e Ian, platealmente ricalcati nelle figure di Sherlock Holmes e del dottor Watson (da notare alle pp. 50-58, 63-67, 72-86, 105-106, 116-117, 165-166, 170-172, 175 e 237 come l'investigatore dilettante abbia le sue manie del rito del tè e del cricket tanto quanto il Segugio di Baker Street adorava suonare il violino e iniettarsi la droga, mentre il povero narratore annaspa di fronte all'intelletto superiore del suo amico e maestro allo stesso modo della "spalla" di Holmes). Nella sua freddezza e quasi totale apaticità, tuttavia, Finbow rivela anche alcune caratteristiche che lo differenziano dal suo modello: tende a condividere con Ian i suoi pensieri e a metterlo a parte dei sospetti; forse troppo, per mantenere la giusta tensione fino allo svelamento finale. Ho avuto l'impressione che l'autore volesse come trasportare Sherlock Holmes nell'epoca del giallo della Golden Age, costringendolo ad adattarsi ai nuovi metodi che si erano sviluppati tra il 1888 (nascita del personaggio di Doyle) e gli anni Trenta del Novecento. Peccato che egli non riesca mai a dare davvero vita al suo protagonista, assieme agli altri personaggi, sia a fatti che a parole, facendoli restare come gusci abitati per qualche tempo e poi abbandonati e che parlano non come effettivamente succede nella vita reale, ma dicendo ciò che pensa l'autore. Philip, Tonia, Avice, Christopher, William, Ian, Roger e lo stesso Finbow, per non parlare di Birrell e della signora Tufts, incarnano stereotipi che non riescono mai del tutto a staccarsi dal modello a cui sono ispirati: appaiono come attori che interpretano una parte sul palcoscenico, figure appartenenti alla Jazz Age o che riflettono la formazione dell'autore e le sue opinioni sociologiche, senza riuscire a dare vita al loro ruolo.

Eppure, mi ha in parte divertito lo scandalizzarsi di Birrell e della signora Tufts di fronte all'infrangersi dei loro rigidi principi morali e vittoriani. Ho provato, insomma, una sorta di repulsione-attrazione per gran parte della lettura, tanto che alla fine ho scoperto di essere stato un po' soddisfatto; per questo vi invito a dare una possibilità a "Morte a Vele Spiegate". Lo stesso stile e approccio scientifico all'indagine (pp. 14-15, 19-20, 35-37, 40-42, 50-52, 54-56, 72-86, 128-130, 133-135, 137-140, 231-234, 258-259), arido e impersonale nei lunghi dialoghi tra Finbow e Ian, è riuscito ad evocare una certa poesia nel mettere a confronto materialismo e sentimento (pp. 89-90, 92-94, 97-98, 101-102, 106-110, 113-117, 125-129, 131-132, 135-140, 148-149, 154-155, 160-163, 172-173, 176-178, 181-189, 191-193, 201-204, 216-217, 227-231, 234-235, 237-239, 254-257, 259-267): benché con effetti poco soddisfacenti sulla carta, in esso Snow ha provato a fare quello che gli altri suoi colleghi riuscirono a mettere in pratica con maggior estro nei loro gialli; cioè, accostare indizi tangibili con sensazioni psicologiche. Conflitto, quest'ultimo, incarnato anche dal duello tra dilettante e ufficiale incaricato del caso: Finbow osserva il crimine da un punto di vista soprattutto filosofico, escludendo i sospetti grazie alla conoscenza della natura umana tanto cara a Poirot; Birrell, invece, dal canto suo cerva fatti e prove tangibili, arrivando al punto di immergersi in un fiume per trovarli. Questo episodio, inoltre, fa parte di una serie che mette in luce come Snow intendesse in qualche modo imitare la sfida tra il detective "alla Wimsey" e il poliziotto un po' stupido del giallo tradizionale: Birrell ha studiato e imparato a memoria tutto quanto si potesse leggere sul crimine, apparendo come una macchietta sempre sul punto di ripetere concetti astratti e poco utili nella realtà, mentre Finbow applica la sua conoscenza del mondo reale così da interpretare ogni piccolo dettaglio dell'indagine, osservando intorno a sé e intrattenendo ignari sospettati affinché facciano rivelazioni importanti; dimostrando in questo modo come Snow avesse appreso la lezione di Berkeley/Iles sull'importanza del comportamento umano. Sfortunatamente, questo tipo di psicologia non viene sviluppato al meglio dall'autore e il risultato diventa troppo stereotipato, come se il romanzo fosse più un esercizio di ginnastica mentale che una storia viva e avvincente. In ogni caso, non c'è dubbio che "Morte a Vele Spiegate" riesca ad essere un pezzo d'epoca, un modo curioso per entrare in un mondo come quello dell'Inghilterra degli anni '30, quando ancora la società era stratificata, e una lettura piacevole ed esemplare, sebbene non trascendentale e incapace di conquistare del tutto il lettore.

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venerdì 8 maggio 2020

31 - "Un Pomeriggio da Ammazzare" ("An Afternoon to Kill", 1953) di Shelley Smith

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Anche se sembra incredibile, siamo già arrivati al mese di maggio. Nonostante la pandemia di Coronavirus non abbia abbandonato il campo e ci costringa ancora a limitare i nostri movimenti, ormai ci stiamo avviano verso la bella stagione (sebbene io non ami particolarmente l'estate) e ci sentiamo tutti spinti a fantasticare sul fare qualche uscita in più, rispetto alle scorse settimane. Il sole solleva il nostro umore un po' grigio, immaginiamo di essere già al mare (se in futuro ci sarà permesso, beninteso) e, tra le altre cose, accantoniamo un po' tutte quelle attività che ci hanno tenuto compagnia nei giorni più freddi dell'anno in favore di quelle da compiere all'aperto. I lettori, da parte loro, si possono considerare fortunati, dal momento che possono fare a meno di mettere da parte il loro passatempo e passare semplicemente dalle letture a tema autunnale-invernale degli ultimi tempi, accomodati in poltrona, a concentrarsi su quelle primaverili ed estive all'ombra delle terrazze. Pure io, appassionato di crime story nel mio piccolo, da quest'oggi abbandonerò la rassegna dedicata esclusivamente ai titoli del "delitto della prigionia" per orientarmi su alcuni romanzi gialli che vedranno i protagonisti vivere avventure ambientate in luoghi esotici e calorosi e contrassegnate da una vena un po' più solare (in senso letterale) e a volte vacanziera, benché pur sempre segnate dall'omicidio nelle sue forme più inquietanti e sorprendenti. Dovete sapere, infatti, che sebbene esistano moltissime crime novel classiche nelle quali la fanno da padrone le vacanze di Natale, le giornate uggiose nelle città degli anni '50 e i caratteristici pomeriggi trascorsi a pattinare sul ghiaccio o a raccogliere legna per accendere i caminetti dei cottage sul mare, sferzati dal vento gelido, tanti mysteries possono contare su vacanze al mare, lunghe escursioni o partite a golf disputate in tenute di campagna assolate, crociere ravvivate da lunghe ore trascorse a prendere il sole e soggiorni in case abitate per pochi mesi l'anno, sulla costa inglese ed americana, per rafforzare i propri misteri.

Anche in questi frangenti, dove le persone sembrerebbero più disposte a rilassarsi e ad abbandonare gli intenti criminali, il delitto non evita di fare la propria apparizione; anzi, si può dire che esso diventi più presente del solito, soprattutto se la gente è in ferie. Forse ciò è dovuto al fatto che chiunque si diriga verso le località sopra citate intenda trascorrere un po' di tempo senza preoccupazioni, lontano dalle frustrazioni della monotonia quotidiana, e quando si imbatte in ostacoli alla propria felicità pure in un periodo che dovrebbe essere dedicato al più totale relax, la classica goccia che fa traboccare il vaso fa degenerare nel crimine lo stress accumulato (a meno che non ci sia premeditazione, s'intende). In ogni caso la cornice soleggiato-vacanziera, con le sue pigre ore oziose, il rumore del vento sulla costa e tra gli alberi, la pace e la tranquillità del dolce far niente, costituisce una sorta di sottogenere prolifico del giallo classico e occupa un ruolo di primo piano al suo interno: basti pensare a "Corpi al Sole" di Agatha Christie, famosissima avventura di Poirot alle prese con un delitto perpetrato in un'isola, quando tutti hanno un alibi di ferro; oppure a "Il Dramma di Corte Rossa" di A.A. Milne, uno dei primi e più celebrati esempi di "giallo della casa di campagna" scritto dall'autore di Winnie-the-Pooh; oppure ancora a "Morte a Vele Spiegate" di C.P. Snow, un libro incentrato su di un'uccisione compiuta su di uno yacht che gironzola per l'Inghilterra orientale, mentre libri quali "La Domatrice" e "Non c'è più Scampo" della Christie mettono in scena omicidi avvenuti nel corso di viaggi in località lontane e insolite, come la Giordania e il territorio di quella che fu la Mesopotamia. Tra i romanzi gialli di questo tipo, spesso ambientati in posti esotici e fuori dal comune, c'è anche il libro che recensirò quest'oggi: "Un Pomeriggio da Ammazzare" (Polillo Editore, 2016) di Shelley Smith. Esso tratta una storia in cui psicologia e sentimenti come l'amore, l'inganno, il tradimento e la morte dominano la scena, tratteggiata su due piani temporali che si mescolano in continuazione, in uno stile ipnotico e all'interno di un'ambientazione che ricorda allo stesso tempo le favole de "Le Mille e Una Notte" e i racconti vittoriani di Wilkie Collins. Tuttavia, se pensate che quest'ultimo aspetto voglia significare che le vicende raccontate siano ispirate a una narrativa superata e vetusta, vi voglio mettere in guardia: prima della fine della storia, più di una volta vi troverete di fronte a un'inaspettata svolta nei fatti. A dispetto delle apparenze, questo non è un romanzo prevedibile: l'essere umano e i suoi sentimenti nascondono intenti nascosti, sono mutevoli come le dune del deserto, sferzate da un vento indomabile, e "Un Pomeriggio da Ammazzare" illustra al meglio questo concetto.

"Deserto con Luna" di Riccardo Vasdeki, che ritrae
un deserto simile a quello di "Un Pomeriggio da
Ammazzare"
Il racconto si apre in un modo davvero insolito, anche se affascinante: il signor Lancelot Jones, un noioso insegnante inglese diretto in India per diventare il precettore del figlio del sultano Mahmoud Kahn, è costretto a compiere un atterraggio di fortuna con il suo aereo privato e si ritrova nientemeno che nel bel mezzo del deserto dell'altopiano iraniano, lontano dalla civiltà a cui è abituato. O meglio, quasi del tutto isolato; poiché, a breve distanza dal luogo in cui il velivolo ha toccato terra, egli scorge un misero villaggio e, poco lontano, una grandissima casa in cui potrebbe chiedere ospitalità, mentre il guasto al motore del suo aereo viene riparato dal maldestro pilota che lo ha cacciato in un guaio tanto scocciante. Deciso più che mai a non finire arrosto sotto i cocenti raggi del sole dell'Iran, Jones si avvicina quindi al grande edificio e, dopo essere stato accolto da un'anziano servitore, all'ombra dei muri pitturati di blu e bianco fa la conoscenza di una vecchia e strana signora inglese che dice di chiamarsi Alva Hine, di essersi ritirata di propria volontà in quell'angolo sperduto di mondo e di voler offrire al viandante l'ospitalità tipica dei popoli orientali. Si tratta di una combinazione che ha dell'incredibile per il materialista Jones, il quale non crede alle coincidenze. Com'è possibile che una simile matrona abbia incrociato proprio la sua strada? Tanto più che la donna pare rallegrarsi nel metterlo in difficoltà e in imbarazzo, con la sua ironia brillante ma sferzante come una frusta. Ad esempio, ha osato chiedere a lui (dedito soltanto alle scienze e ai fatti) quali siano i suoi romanzi di fantasia preferiti. Fantasia! Con la poesia, essa forma una coppia dalla quale lui intende tenersi ben alla larga. Piuttosto, Jones si dimostra interessato a conoscere i motivi per cui miss Hine si è allontanata dalla società; così, per ammazzare le lunghe ore afose del pomeriggio che separano il suo ospite dalla ripresa del viaggio verso Bandrapore, la signora decide di intrattenere il suo ospite raccontandogli la storia avventurosa della sua vita, fatta di amore, odio, vendetta, senso di colpa e, purtroppo, morte.

Alva Hine (la quale un tempo si chiamava Blanche Sheridan e abitava con la sua famiglia sulla costa dell'Essex), infatti, può vantare il triste destino di essere stata tra i protagonisti di un vecchio caso di omicidio, iniziato dal momento in cui lei, giovane ragazza intenta a prendersi cura del padre (per il quale nutriva un insana ammirazione mista ad amore incestuoso) e dei fratelli in seguito alla morte della madre, aveva ricevuto il dubbio onore di vedersi piombare in casa una matrigna odiosa. A suo dire quest'ultima, Sophia Falk, aveva accalappiato il suo ingenuo padre grazie al proprio fascino e ai suoi ventisei anni, e in questo modo aveva distrutto il bel quadretto della famiglia Sheridan, insinuando gelosie e rancori segreti tra i componenti di quest'ultima. In particolare, Sophia aveva dato prova di odiare profondamente proprio la giovane e sgraziata Blanche; al punto di spingerla tra le braccia di un proprio cugino, Oliver Bridgewater, pur di allontanarla dal padre. La cosa, tuttavia, non si era rivelata priva di pericoli e rischi; al punto che, ben presto, l'esistenza di Alva e degli altri protagonisti del dramma aveva assunto una piega sempre più sinistra, tra malattie più o meno false, intrighi per aggiudicarsi denaro e un'atmosfera casalinghe che si faceva ogni giorno meno serena. Finché, all'improvviso, Sophia era stata uccisa. Tutti quanti avevano un buon motivo per liberarsi della sinuosa serpe che si era installata nella casa degli Sheridan, per cui chi è il colpevole dell'omicidio? Forse il novello vedovo, uno tra i suoi figli, suo genero Oliver, oppure il giovanotto che era andato a fare visita alla vittima proprio poco prima che lei fosse trovata senza vita in giardino? Il finale riserva una doppia sorpresa al lettore, il quale forse si aspetta la prima rivelazione della narratrice; ma la seconda, quando Lancelot Jones si renderà conto che la sua ospite ha tenuto per sé un'importante informazione, non potrà fare a meno di colpire nel segno.

Un giardino vittoriano, simile a quello in cui ha
trovato la morte Sophia Sheridan, nata Falk
"Un Pomeriggio da Ammazzare" è uno di quei deliziosi esempi di romanzo giallo che, pur presentando una storia intrigante e avendo tutte le intenzioni di sorprendere il lettore, non vuole prendersi troppo sul serio. Fin dall'inizio, infatti, ci rendiamo conto di come il tono del racconto sia decisamente ironico (basta fare attenzione allo scambio di battute tra il pilota Ras Ali e il signor Jones) e che Alva Hine stia divertendosi a prendere in giro il suo ospite, magari sottoponendolo a un fuoco incrociato di rivelazioni sconvolgenti sul suo rapporto con il padre, oppure stuzzicando il materialismo di Jones con discorsi sul romanzo fittizio. Eppure, se considerassimo questo libro come qualcosa di fatuo, caratterizzato solo dalla semplice leggerezza, cadremmo in errore. A ben guardare, in esso c'è molto più di quanto possa apparire a prima vista. D'altronde, "Un Pomeriggio da Ammazzare" si può considerare come una celebrazione del giallo tradizionale, fatto di quegli elementi tipici e prestabiliti che sono rimasti nel tempo senza mai cambiare e che definiscono il genere. Questo tipo di romanzo, come ho già detto altre volte, basa tutto se stesso sulle apparenze che vengono suscitate e sull'ingannare e fuorviare chi legge con false piste e personaggi sospetti (benché attenendosi al fair play, s'intende); quindi, non deve sorprendere che l'autrice abbia tratteggiato una vicenda piena di piccoli dettagli, insignificanti solo a prima vista e importantissimi ai fini della soluzione finale, e di concetti molto profondi.

Tuttavia, ciò che in questo libro colpisce più di tutto, secondo me, è il fatto che il giallo classico venga inserito in una cornice che rimanda a qualcosa di totalmente diverso dal mystery della Golden Age, nel quale gli elementi materiali rappresentano il fulcro della narrazione: ovvero, quel genere letterario che si sarebbe sviluppato nel giallo psicologico moderno. La stessa Smith, parlando della sua opera complessiva, osservò di aver "cominciato a scrivere whodunit [n.b. i gialli tradizionali]" ma di essersi ben presto "allontanata dalla formula" per buttarsi "su un tipo di storia che tenesse più conto degli aspetti psicologici nella personalità del criminale". Si tratta dello stesso percorso che, anni prima, aveva intrapreso Anthony Berkeley, quando aveva assunto lo pseudonimo di Francis Iles: dopo alcuni anni dedicati al semplice giallo nel solco della tradizione, egli aveva deciso di interessarsi di più sulla psiche dell'assassino e di esplorarla, spostando in secondo piano l'indagine prettamente formale e prediligendo, quindi, l'esplorazione degli impulsi e dei sentimenti che andavano a scontrarsi nella mente del pazzo e del paranoico (come accade, ad esempio, in "L'Omicidio è un Affare Serio").

In quel caso, tuttavia, egli si era limitato all'applicazione di questo nuovo metodo di analisi del caso criminale nei confronti dell'omicida, mettendo in luce i suoi conflitti interiori, senza aggiungere nulla che si rifacesse alla tradizionale crime novel; dopotutto, si trattava pur sempre di generi inconciliabili sotto alcuni aspetti. Smith, invece, è riuscita a trovare un espediente per far convivere, all'interno della sua storia, queste due facce della stessa medaglia, sfruttando la risorsa già impiegata nei romanzi vittoriani del "racconto nel racconto" per rafforzare la sua idea di romanzo del mistero, inteso come strumento atto a scandagliare le profondità dell'animo umano e a mettere in luce le sue debolezze. Quindi, non bisogna pensare che "Un Pomeriggio da Ammazzare" sia un racconto come quelli degli altri autori di giallo classico. Al suo interno, convivono allo stesso tempo una certa leggerezza nell'esposizione dei fatti, una veste ironica ma non troppo cinica e disillusa, e un'attenzione particolare a temi seriosi e tutt'altro che confortevoli come l'incesto e il senso della giustizia (pp. 176-182), che lo rendono innovativo e più vicino al giallo moderno. Questo mix insolito viene rappresentato al meglio dalle due storie che Smith ha inserito nel suo romanzo: quella al presente, in cui la psicologia e le parole contano più delle parole e sono rivelatori nel tratteggiare il profilo reale dei personaggi (pp. 14-15, 21-25, 35, 46-47, 62-64, 67, 69-70), e quella presentata all'interno del lungo flashback costituito dal racconto in salsa vittoriana che miss Hine recita per Lancelot Jones, basato non solo sul ritratto mentale dei personaggi (con tutte le loro gelosie e invidie), ma pure sull'uso di cliché del giallo classico. E la particolarità di "Un Pomeriggio da Ammazzare" non sta solo in questo connubio; anche la trattazione della storia del delitto e l'enigma in sé presentano qualcosa di originale, poiché spinge i lettori ad interpretarli e decifrarli come se essi riuscissero ad arrivare alla soluzione finale prima dello scioglimento dei dubbi; quando invece le cose stanno all'opposto e il primo colpo di scena (al termine del "racconto vittoriano") illude chi legge di aver scoperto la verità e li prepara per lo scossone dell'ultima pagina, simile a una bastonata in testa, al termine del "racconto al presente".

Bellissima copertina inglese per "Un
Pomeriggio da Ammazzare"
Tra tutte, l'originalità fu la caratteristica principale delle storie di Nancy Hermione Courlander, vero nome di Shelley Smith. Nata nel 1912 a Richmond on Thames, nel Surrey, ella studiò sin da piccola in Francia: prima al Cours Maintenon di Cannes, poi al College Fermina di Parigi e infine alla Sorbonne, dove si diplomò nel 1931. Nel 1933 sposò Stephen Bodington, ma il matrimonio si rivelò fallimentare e i due divorziarono appena cinque anni dopo, nel 1938. Nel 1942, per racimolare un po' di denaro, Hermione pubblicò sotto pseudonimo il suo primo romanzo, "Background for Murder", una storia che si rifaceva al classico giallo tradizionale, con tanto di enigma predominante sul fattore psicologico dei personaggi. Pian piano, tuttavia, Smith iniziò a modificare la propria concezione di romanzo poliziesco e virò verso un tipo di mystery ispirato alla narrativa inaugurata da Anthony Berkeley, sotto lo pseudonimo di Francis Iles. La psicologia divenne la chiave attraverso cui si poteva giungere alla soluzione dell'enigma, la strada giusta per interpretare le prove non scritte lasciate dall'assassino; forse un po' presuntuosa, come concezione, ma di sicuro efficace. Questo la portò a scrivere numerosi gialli psicologici, senza impostazioni schematiche definite e molto diversi tra loro proprio a causa della sua novella considerazione del genere giallo, i quali si augurò potessero dare "soddisfazione a coloro che amano andare un po' più in profondità". Ottima scrittrice nonché giallista e sceneggiatrice di livello, Shelley Smith a scrivere così quindici romanzi (non molto famosi in Italia) prima della morte avvenuta nel 1998, tra cui i più importanti sono "La Cantina N.5", una storia inserita dal critico H.R.F. Keating tra i 100 migliori gialli mai scritti, in cui lo studio dei caratteri e del loro interagire è stato paragonato quasi allo stesso livello di "La Morte non sa Leggere" di Ruth Rendell; "In un Villaggio Inglese", inclusa nella lista delle 100 migliori crime novels dal critico Julian Symons, che mescola una prima parte più classica e una seconda centrata sullo studio del carattere dei personaggi e sulle tensione; "La Ballata dell'Uomo in Fuga", premiato nel 1963 con il Grand prix de littérature policière e finalista per l'Edgar nello stesso anno, il quale è un tipico esempio di thriller cinematografico, tanto che da esso venne tratto il film "Un Buon Prezzo per Morire" di Carol Reed; e ovviamente "Un Pomeriggio da Ammazzare".

Quest'ultimo può essere considerato come il capolavoro di Shelley Smith, un magistrale esempio di quanto quella dello scrittore si possa considerare più come una vocazione artistica che un mestiere: in esso, infatti, Smith traccia le sue storie in un senso "non commerciale", il cui scopo non è quello di dare vita a un meccanismo perfettamente complesso, ma piuttosto a un'opera di bellezza fine a se stessa, capace di interpretare il mondo senza per questo voler strizzare troppo l'occhio al "popolare" e che vuole prendere in giro chi si ostina a considerare il giallo come un serio esercizio mentale. La narrazione diventa un gioco fantasioso, che si trasforma a volte in uno strumento potente che riesce a condizionare il lettore: pur restando attinente al giallo classico, spingendo ad andare avanti nella trama così da svelare tutti i retroscena e i dubbi, essa dimostra come chi legge sia influenzabile, stuzzica i valori della società e scuote le menti grazie ai temi che affronta, tra un colpo di scena e l'altro. Attinente alla crime story classica, ci chiediamo come mai Alva Hine si sia trasferita nel deserto; ci immergiamo nell'ambientazione da fiaba del racconto, simile a quella delle "Mille e Una Notte" (pp. 9-11, 17, 24-25, 29, 48-49, 63-64, 75, 80-81, 84, 89. 98, 183-185), tra pianure deserte, coste battute dal vento, case signorili appena accennate, intraviste sullo sfondo rispetto allo spessore dei personaggi; diventiamo consapevoli del vittorianesimo "alla Henry James" in cui era calata la società in cui è cresciuta miss Hine, tra inchini, buone maniere, sorrisi di facciata, apparenze da mantenere, subdoli giochi di seduzione, rapporti malati e segreti nascosti (pp. 18-21, 25-27, 30-35, 39-40, 43-46, 53-60, 69-70, 78-79, 103-104, 114-115, 130-131, 133-134, 142, 145, 147, 163, 167); ci facciamo spettatori di adulterii, incesti, melodrammi tratteggiati con una poesia e un romanticismo quasi svenevoli, ma pur sempre suggestivi (pp. 18-21, 26-27, 36-38, 48-49, 60-62, 65, 72, 75, 89-90, 95-96, 112-113, 116-122, 153-161, 173-174, 185-188); assistiamo a un enigma che, benché meno elaborato, si rifà all'indagine classica. La suspense, secondo la migliore tradizione del genere, viene mantenuta fino alle ultime pagine; anche dopo il primo colpo di scena sconcertante del racconto, quando le ombre del passato si stendono inquietanti sul presente e capiamo che le cose raramente sono quello che sembrano. I riferimenti letterari e culturali sono numerosi (pp. 12-15, 22, 31, 98, 138, 185), come a sottolineare l'aspetto fittizio di tutta la faccenda, e grande importanza viene data alla letteratura e al potere della parola sulle psicologia. Eppure, questo romanzo non si riduce del tutto agli elementi più tradizionali del giallo; già, poiché la parte più considerevole di "Un Pomeriggio da Ammazzare" viene occupata dall'analisi dell'essere umano e dei suoi sentimenti più oscuri. Essa viene descritta perfettamente da due frasi, tratte da "La Cantina N.5" e "La Ballata dell'Uomo in Fuga": la prima recita "L’omicidio inizia nella mente", mentre la seconda "Noi interpretiamo il mondo che ci circonda attraverso le nostre paure e le nostre speranze. Le parole che gli altri ci rivolgono noi le intendiamo come una risposta ai nostri stessi pensieri. Nelle paura o nel desiderio, noi cerchiamo invariabilmente ciò che ci aspettiamo di vedere".

Da questi due pensieri scaturiscono le premesse, i retroscena, i preludi, le avvisaglie di gran parte dei drammi narrati dalla scrittrice inglese. Il rimpianto e il desiderio di tornare indietro sono temi molto importanti all'interno del romanzo, ma è soprattutto l’incomprensione (l’incomunicabilità che non sta tanto nella forma o nella sintassi delle frasi di chi parla, ma nella mente, nel cuore, nelle aspirazioni o nelle paure di colui che ascolta) la chiave di lettura di "Un Pomeriggio da Ammazzare": Blanche e Sophia, Mr. Sheridan e Harry, Harry e Lucy, Oliver e Sophia, Blanche e Oliver; tutti costoro vivono in un'eterna inconciliabilità, sordi al prossimo e incentrati solo su loro stessi e sui loro desideri. I più reconditi desideri o le più radicate paure dei personaggi (spesso soli e distaccati dal resto della famiglia, poco simpatici ma interessanti per il loro decadimento morale, pp. 7-8, 10-12, 14-15, 17-19, 25-26, 32-33, 35, 38, 42, 58-60, 62, 69-71, 74-75, 82-83, 85, 91-95, 101, 118-122, 125-127, 135-136, 143) provocano la distorsione delle parole e/o dei gesti altrui, generando false ipotesi a cui seguono morte, dolore e distruzione. In certi casi, il fraintendimento diventa una sola cosa con la volontà inconscia di vedere eliminato ciò che si frappone al coronamento delle brame, delle aspirazioni, delle speranze e delle fissazioni. In altri con l’impellenza di veder spazzate via le paure, le ansie, le apprensioni nel più breve tempo possibile; costi quel che costi. In questo modo, agli attori sulla scena viene data maggiore importanza rispetto agli indizi dell'indagine e ai luoghi in cui il dramma si svolge, ed essi risultano quindi reali e efficaci. Su tutti quanti, però, spiccano le donne, a volte in cerca di guai, altre volte vittime sull'orlo di un esaurimento nervoso, ma vere, volitive, determinate, vendicative, astiose, orgogliose (basta considerare Blanche, Sophia e Mrs. Falk). Esse diventano letali e provocano scintille quando si scontrano tra loro, lasciando gli uomini inermi davanti alla loro potenza, un po' stupidi, deboli e malleabili, sbeffeggiati fino alla fine. Donne capaci di rendere irrespirabile e asfissiante l’atmosfera placida e idilliaca di una casa nel deserto, ma per le quali facciamo comunque il tifo (pp. 18-21, 26, 43-45, 48-49, 51-58, 60, 64, 73-76, 79, 88-90, 92, 94, 96-98, 100, 103-104, 110, 113-115, 117-119, 121, 124-127, 133, 139, 148-152, 157, 168-172, 174-175). Jones appare come un individuo talmente noioso e materialista da farci storcere il naso, e non vediamo l'ora che venga messo in imbarazzo da Alva Hine, al punto di allontanarci dalla sua concezione pure quando egli sta dalla parte della giustizia. Un risultato niente male per un'autrice come Shelley Smith, capace di dare vita con questo bellissimo romanzo a un "tour de force che è una rarità, totalmente originale" secondo il giudizio di Julian Symons. "Un racconto drammatico di mistero vittoriano e melodramma". Un atto d’amore per le storie della Golden Age, ma con un pizzico di innovazione che lo rende geniale e intelligente, ma anche un piacevole trabocchetto in cui il lettore viene bellamente ingannato e portato fuori strada, per il gusto di prenderlo per i fondelli; una piacevole opera che ci ha aiutato a trascorrere un pomeriggio in spensieratezza, la quale alla fine ci ha dato congedo in modo arguto ed educato come se fossimo nelle "Mille e Una Notte" e il sultano ci abbia permesso di vedere indenni l'alba del giorno dopo.

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