venerdì 16 ottobre 2020

49 - "La Casa Senza Porta" ("The House Without the Door", 1942) di Elizabeth Daly

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore

Con l'inoltrarsi nelle stagioni più fredde dell'anno, arrivano puntuali le piogge e le giornate più cupe dal punto di vista meteorologico. Ad alcuni tutto ciò mette molta tristezza addosso, ma per fortuna a me non fa un particolare effetto negativo. Anzi, a dirla tutta, penso di preferire questo clima che dà sollievo ai miei occhi affaticati, a quello troppo afoso e luminoso dei mesi tra marzo ed agosto. Tuttavia, bisogna dire che in quest'anno tutto fuorché ordinario, con una pandemia che ci è piombata addosso e non accenna a smorzarsi più di tanto, questa insofferenza per il brutto tempo si è acuita. Nelle ultime settimane, forse complice proprio il graduale allontanamento della stagione calda, abbiamo visto come il numero dei contagiati e dei ricoverati (che da tempo si era mantenuto su livelli abbastanza sopportabili e gestibili in Italia) stia crescendo e non accenni ad arrestarsi. Pertanto, comprendo benissimo come molti possano sentirsi ancor più preoccupati per la situazione generale della nostra salute, con l'arrivo di un clima che, per natura, va sempre più ad aggravare le circostanze che favoriscono la diffusione della malattia, e ci costringe pian piano ad abbandonare quegli svaghi che, con l'estate, ci eravamo concessi e avevano aiutato a non soffermarsi troppo sul COVID. Io stesso, pur ribadendo il mio affetto per l'autunno e l'inverno, mi rendo conto di quanto pericolosa possa diventare la faccenda. Questa settimana, ad esempio, si è diffusa la notizia che una scuola a meno di dieci chilometri da casa mia ha dovuto sospendere qualunque attività per i troppi contagiati, tra alunni e insegnanti; e per fortuna io vivo in un posto isolato rispetto ai grandi centri cittadini e alle metropoli! Insomma, la situazione non promette proprio benissimo, nonostante il nostro Paese non debba far fronte a un quadro generale difficile da sopportare come quello dei nostri vicini. Però non dobbiamo perdere la testa: se usiamo le precauzioni che ormai abbiamo imparato a ripetere come un mantra (mascherine, gel igienizzante e distanziamento), ci possiamo considerare relativamente al sicuro. Piuttosto, proviamo a fare del nostro meglio per distrarci, anche senza uscire di casa per quanto ci è possibile: guardiamo un film, cuciniamo oppure leggiamo un buon libro. Vi assicuro che l'atmosfera di questo periodo ben si addice a qualunque attività di questo genere.

Io, ad esempio, sto approfittando del nuovo momento di prudenza e ridimensionata allerta per pianificare le letture dei prossimi mesi. Ovviamente mi concentrerò come sempre sul giallo classico e su quei libri che già in marzo, allo scoppio della pandemia, mi erano sembrati i più adatti alla realtà quotidiana che stiamo vivendo, nei quali contano la condizione della mente umana, portata al limite della pazzia e prigioniera di ossessioni sconvolgenti, e la psicologia nelle sue multiple manifestazioni. Detto ciò, conto di inserire qualche lettura a tema natalizio quando inizieremo ad avvicinarci al periodo delle feste; ma intanto mi concentrerò su altro. Quello che mi ripropongo di fare per almeno un paio di settimane, è di pescare qualche titolo caratterizzato da un'ambientazione dove il mistero assume una connotazione "fisicamente costretta" e claustrofobica (tipo "delitto della camera chiusa"), oppure di soffermarmi su mysteries che sappiano farci empatizzare al meglio con i personaggi e le situazioni che essi andranno a vivere. Con questo non voglio dire che la mia scelta cadrà solo sul giallo di stampo britannico: nonostante esso resti il mio preferito, quello a cui voglio dare la precedenza, intendo comunque fare qualche incursione anche in quello americano, le cui caratteristiche forse incarnano al meglio i nostri quotidiani sentimenti e condizione mentale. Infatti, la grande atmosfera di angoscia che minacciava e schiacciava i personaggi dei romanzi sullo stile delle women in jeopardy, le “donne in pericolo” di Mary Roberts Rinehart e Mignon G. Eberhart, e la paranoia in cui essi venivano gettati (aspetto in seguito sviluppato da autrici quali Helen McCloy ed Elizabeth Daly) trovano  molte affinità con la società di oggi e, assieme al soprannaturale in procinto di Halloween, non guasteranno. Questo tipo di narrativa espresse al meglio la realtà del suo tempo, così simile al nostro; ma allo stesso modo venne influenzata dall'analisi in profondità della psiche dell'individuo, dallo straniamento e dalle sensazioni suscitate negli stessi personaggi e nel lettore. Le paranoie inconsce e le ossessioni assunsero connotazioni tangibili, e il significato di bene e male venne trattato in innumerevoli declinazioni, spesso senza fare distinzioni nette; mentre temi come quello delle aspettative da parte del prossimo e della sensibilità ferita da tragedie personali, divennero terreno fertile su cui sviluppare trame intriganti e originali in cui le manie proliferavano. I protagonisti, spesso esponenti di famiglie aristocratiche decadute a nuclei familiari borghesi oppure poveri diavoli sui quali la sfortuna si è accanita, sono attori che agiscono a braccio dal momento che non hanno avuto una parte da imparare, sperando di azzeccare la battuta giusta e di poter così vivere un po' più a lungo la loro vita grama, senza fronzoli. Il loro scopo è quello di non farsi notare e vivere nell'ombra, in silenzio, mentre sviluppano complessi mentali dannosi che li riducono al silenzio e il loro umore vira verso la depressione e fissazioni malsane.

Mi rendo conto che tutto ciò possa apparire quanto meno sconfortante, ma credo anche che possa diventare catartico e lenire almeno un po' la desolazione che ogni tanto proviamo, facendoci capire che la situazione potrebbe andare peggio. Se non si sta attenti, infatti, noi stessi possiamo diventare i nostri peggiori nemici, e costringerci a compiere azioni e assumere atteggiamenti che ci danneggiano. È questo il caso della protagonista di "La Casa Senza Porta" (Polillo Editore, 2017) di Elizabeth Daly. I romanzi gialli di quest'autrice sono tra le letture di questo tipo che preferisco, assieme a quelli scritti da Margaret Millar, in cui il fatalismo e la desolazione si accaniscono contro l'essere umano, e quelli di Helen McCloy, della quale vorrei recensire qualcosa di nuovo a breve (ma prima devo controllare che le edizioni in mio possesso siano integrali, per fare un buon lavoro). Nel libro di cui parlerò oggi, il tema centrale attorno a cui si sviluppa il mistero e che viene sviscerato è quello della condanna, la "casa senza porta" del titolo. Quando una persona può dirsi del tutto libera dai sospetti e in grado di tornare a vivere la propria esistenza davanti al mondo intero? La protagonista è stata assolta dall'accusa di aver ucciso il marito, ma allo stesso tempo è stata costretta a nascondersi agli occhi della società perché la gente non è mai stata convinta del tutto della sua innocenza. Questa situazione ha generato numerosi traumi nella vita della donna e un clima di irrealtà e di sospensione temporale caratteristico dei romanzi di Daly, dando vita a una storia suggestiva, scritta splendidamente, ambientata in uno scenario in cui l'atmosfera di abbattimento e incertezza e la tensione psicologica si rafforzano l'una con l'altra. Come era stato per "Morte al Telefono", i puristi dell'enigma potrebbero lamentare una scarsa attinenza al fair play da parte dell'autrice; eppure vi assicuro che il bello dei gialli di Daly non sta tanto nella costruzione dell'enigma (comunque spesso di fattura più che ottima), quanto nel malessere incarnato dai loro protagonisti e dai disagi psicologici che essi incarnano.

L station, New York, 1951 circa, in una foto di Evelyn Hofer,
raffigurante uno scorcio della metropoli simile alle Third
Avenue in cui vive Mrs Vina Gregson
La vicenda si apre in un gelido pomeriggio di novembre, a New York. In un quartiere ottocentesco sulla Third Avenue, il bibliofilo e investigatore dilettante Henry Gamadge osserva la facciata di un enorme edificio, assieme a un agente immobiliare di nome Colby. Quest'ultimo, tuttavia, non sta tentando di vendergli un appartamento a buon prezzo; ciò che vuole, in realtà, è molto più impegnativo. In una delle stanze ammobiliate a 45 dollari al mese, infatti, vive una donna che intrattiene alcuni raporti sociali con Colby, la quale si fa chiamare Mrs Greer; una signora raffinata, elegante e che non vuole assolutamente attirare l'attenzione su di sé. Un comportamento abbastanza curioso, questo; al punto che a fare le sue veci al di fuori delle quattro mura domestiche è una sorta di governante-confidente di nome Minnie Stoner. Cosa mai avrà tutto questo a che fare con Gamadge? Ogni cosa si spiega quando lui e Colby vengono introdotti alla presenza di Mrs Greer: in realtà ella è la tristemente celebre Vina Gregson, accusata tre anni prima di aver ammazzato il marito con la morfina e rilasciata in seguito a un processo da ordalia. Proprio in seguito alla cattiva pubblicità che ha suscitato sulla sua figura, Mrs Gregson ha deciso di scomparire dallo sguardo della società e del mondo intero, per leccarsi le ferite e vivere quanto le resta in tranquillità. Eppure una nuova minaccia si staglia all'orizzonte per la donna: negli ultimi tempi, è stata oggetti di ben quattro incidenti sospetti: è caduta dalle scale della cantina della sua casa di campagna, ha subìto un'intossicazione alimentare forse causata da un veleno, è scampata a un'esplosione causata dalla fuoriuscita di gas dal forno del suo appartamento, e ha rischiato di avvelenarsi con una torta alterata dall'arsenico bianco.

Spaventata, Mrs Gregson si è rivolta a Colby per ottenere aiuto e consigli su come comportarsi, e a sua volta l'agente immobiliare ha chiesto a Gamadge di dire la propria a riguardo. L'investigatore si informa sulla storia della donna, e scopre che i tentativi di ammazzarla molto probabilmente sono legati al caso mai risolto della morte di Mr Gregson; per cui decide di incontrare chiunque avesse avuto un ruolo di rilievo al processo e raccogliere qualche informazione in più. Nel frattempo, Mrs Gregson dovrà scomparire del tutto stavolta; ovvero, nascondersi anche da Mrs Stoner e dagli amici più intimi, come lo stesso Colby. Gamadge organizza quindi ogni cosa affinché la donna si trasferisca in una casa di cura, un edificio isolato dal resto del mondo e gestito da una coppia di sue amiche, dove sarà al sicuro da chiunque intenda farle del male; e alle calcagna, a sua insaputa, le mette il suo assistente, Harold Bantz. Da parte sua, lui si mette in contatto coi i pochi individui che Mrs Gregson ha tenuto accanto a sé dopo l'inizio della sua seconda vita: il figlio acquisito di suo marito, un ballerino stravagante di nome Benton Locke; una nipote impiegata presso la vedova di un ricco senatore, Cecilia Warren; la stessa Minnie Stoner e il fidanzato di Cecilia, Paul Benton. Nel corso degli interrogatori, tuttavia, Gamadge sente che c'è qualcosa che non va, qualcosa che gli è stato nascosto e che ci sono potenti correnti sotterranee emotive che scorrono tra i sospettati degli attentati alla vita di Mrs Gregson; e quando uno di loro verrà ucciso a sangue freddo, dovrà fare del suo meglio per evitare che altro sangue venga sparso. Per fortuna, al suo fianco ci sono Harold e Clara, la sua adorata moglie, assieme a un paio di uomini fidati che possono raccogliere informazioni presso enti che a lui sono preclusi. Il cuore del mistero, però dovrà andare a scovarlo con le proprie mani, fino a una lontana cittadina che porta il nome di una lettera greca, Omega: sarà laggiù che la verità salterà ai suoi occhi e le prove di un crimine efferato torneranno alla luce, per impedire un grave errore giudiziario e la condanna di un innocente.

Compo House, 19th century, Westport, raffigurante il
Sanatorium o casa di cura del luogo
Per qualche tempo mi sono come mai perché Agatha Christie abbia affermato, nel corso di un'intervista, che proprio Elizabeth Daly fosse la sua scrittrice di romanzi gialli preferita. Voglio dire, come colleghi aveva Dorothy L. Sayers, Anthony Berkeley, John Dickson Carr e tanti altri nomi celebri, tutti residenti nel Regno Unito e appartenenti al Detection Club, tra cui scegliere. Perché andare a pescare proprio un'autrice che non viene particolarmente celebrata nemmeno in America, e che tra le altre cose ha dovuto attendere un pezzo prima di veder ripubblicata la sua opera? Quasi nessuno, al di fuori degli appassionati e addirittura anche tra loro, la ritiene una scrittrice di capolavori degni di essere ricordati. Eppure, dopo aver letto un paio di suoi romanzi, penso proprio di aver capito il motivo di questo affetto incondizionato di Christie per Daly. Infatti, sono convinto che in parte esso sia giustificato dal fatto che le caratteristiche dei mysteries di una e l'altra siano molto simili, per non dire quasi identiche. Certo, Agatha Christie è insuperabile e nessuno/a potrà mai arrivare al suo livello di narrazione, in cui si mescolano perfettamente originalità, tradizione, essenzialità eppure spessore e la capacità di intrattenere come di divertire; però da parte mia ritrovo sempre qualcosa di tutto ciò nello stile della scrittrice americana. Ad esempio, entrambe si concentrano su un tipo di giallo che fa riferimento alla Golden Age e ai suoi topoi emblematici: l'azione è circoscritta a una sfera metaforica in cui non ci sono quasi mai frenesia e violenza fine a se stessa; le vicende, pur svolgendosi in un paio di giorni, sono ambientate in una sorta di limbo temporale in cui i personaggi agiscono come in un sogno ad occhi aperti; le case di campagna dominano la scena o comunque trovano un ruolo frequente nelle storie; è molto importante che la soluzione del mistero si trovi nascosta in un passato incerto e in qualche modo idealizzato; il romanticismo, pur non essendo indispensabile per il tratteggio del caso, trova un suo ruolo e aiuta a rendere la trama più scorrevole; una famiglia disfunzionale è al centro del mistero; spesso sono presenti nel racconto anziane zitelle un po' inquietanti e parenti "parassiti"; la psicologia, soprattutto, è un tema che viene approfondito e studiato e analizzato in profondità e costituisce la chiave di lettura di ogni mistero. Tutte queste sono caratteristiche che Christie ha fatto sue al punto da renderle quasi personali, ma bisogna ricordare che in realtà non è così: a ben guardare, più di uno/a ha sfruttato tutto ciò, pur con risultati inferiori.

E in America, se ci facciamo caso, ci rendiamo conto che questa attenzione alla psicologia e a una narrativa onirica ha trovato il terreno ideale per fiorire. Prendendo spunto dal romanzo vittoriano di Austen e Collins, con la descrizione della società del tempo con i suoi pregi e difetti e l'attenzione alla interazioni e conflitti tra i personaggi, Daly (ma non solo) è riuscita a restituire un racconto in cui i protagonisti sono le storie familiari di persone decadute oppure ferite, con la loro generalità e straordinarietà; anticipando in questo modo l'interesse che oggi ha catturato i lettori di thriller moderni per la psicopatologia e la socio-patologia. Magari non riesce a reggere il confronto con le storie fin troppo violente dei suoi colleghi contemporanei; ma chi conosce il giallo classico (oppure ha visto alcuni film in bianco e nero degli anni '50-'60) non può fare a meno di notare come la narrativa di Daly sia raffinata e riesca a toccare punti nevralgici, andando a concentrarsi su situazioni solo all'apparenza insipide e neutre, ma in realtà celanti segreti oscuri e cose non dette. Così accade pure in "La Casa Senza Porta", dove storie tormentate e indecisioni e terrore si mescolano insieme. Immersi in una specie di nebbia onirica, dove niente è certo e ogni cosa può rovesciarsi da un momento all'altro per mostrare un volto finora nascosto, entriamo in contatto con quell'angoscia che era presente da molto tempo in America e stava facendosi sempre più insostenibile. Diffusa come un virus nell'aria o un gas che si respirava giorno per giorno, essa era un pensiero fisso con cui bisognava fare i conti e che logorava i rapporti all'interno della società, attraverso sintomi fisici e psichici, arrivando ad avvelenarne gli equilibri al punto che i timori crebbero fino a trasformarsi in ossessioni vere e proprie. In "La Casa Senza Porta", Vina Gregson si trova vittima di una forte emozione, di una sorta di bisogno irrinunciabile a preoccuparsi per la propria posizione sociale, costantemente alla ricerca di pace e stabilità mentale e fisica; non riesce a togliersi dalla testa l'idea di essere considerata colpevole di un'assassinio a sangue freddo, e soffre nel pensare che il resto del mondo le tenga gli occhi incollati addosso (pp. 8-13, 15-19, 21-24, 26-27, 29-32, 34-35, 43-47, 53-56, 70, 79, 117-125, 151-152, 225-228, 232-235, 245-251). Benton Locke, nonostante sia ancora giovane agli occhi del mondo, ha ormai assunto un atteggiamento cinico verso il prossimo e soprattutto verso se stesso, dal momento che si sente già percorrere il viale del tramonto in ambito artistico e del ballo: non intende mollare, ma è consapevole di essersi perso il "suo" momento a causa della povertà e di una serie di circostanze che si ricollegano a Mr e Mrs Gregson (pp. 24, 28-29, 57, 77-78, 80-95). Cecilia Warren, dal canto suo, è stata costretta fin da bambina a badare a se stessa: orfana di madre, poi allontanatasi dal padre malato e affidata agli zii, assieme a un cugino eccentrico, in una casa che non sentiva sua e circondata da individui che non sentiva di conoscere, ricambiata. Da adulta, ha scelto di fare una scuola per stenografe con l'intenzione di mantenersi da sola; e ora si ritrova alle dipendenze di una donna che le vuole bene, ma rischia di trattarla troppo come una bambola con cui baloccarsi. La ribellione non è contemplata, e frustrazione e delusione montano nel suo animo sempre più (pp. 24, 28, 56, 63-65, 101-102, 104-115, 140-142, 172, 186, 192, 201-204, 254, 256-258). Anche nel rapporto con Paul Belden, almeno all'apparenza, non riesce a ricavare molto conforto: lui è un dongiovanni che proviene da un mondo differente dal suo, abituato a un rapporto più schietto con prossimo e ad accettare ogni cosa senza pensare a quale sia il prezzo da pagare per averla (pp. 112-115, 140-145, 172, 174-175, 185, 191-192, 254-258).

Sanitarium on the Wissahickon, Michael Gessner, raffigurante
un bosco simile a quello che circonda Five Acres
Infine, abbiamo Minnie Stoner, la docile dama di compagnia di Mrs Gregson, così riservata e obbediente. Cosa nasconde il suo animo: una pacata sicurezza oppure oscuri tormenti? Dal suo rapporto con Vina si potrebbero cogliere alcuni riferimenti a un attaccamento poco salutare, sia per l'una che per l'altra, inseparabili fin troppo (pp. 14, 24-25, 32-35, 56, 136-141, 144). Eppure, la signora Greer-Gregson non intende scendere a patti: incurante del danno che può recare a se stessa e agli altri, possibilmente coinvolti negli attentati contro la sua vita, pretende che nessuno sconvolga i suoi fragili equilibri che ha costruito finora; senza accorgersi che così non fa altro che indurre la propria mente spaventata a partorire terribili e inquietanti spettri, i quali infestano le conversazioni e prendono forma di scandali e velate minacce ingigantite fino a premere sulla coscienza. I temi della condanna e della colpa sono strettamente legati a questa angoscia minacciosa e all'atmosfera di desolazione che si respira in "La Casa Senza Porta": essi infatti inducono il lettore a riflettere sul loro significato, e a chiedersi se non sia peggio quando la sentenza viene sospesa. Quello che Daly sembra dire, tra le righe, è se non sia meglio essere giudicati colpevoli fin da subito, invece di trovarsi in quel libro infernale in cui il mistero non può essere svelato né dagli inquirenti, per mancanza di prove, né dall'assassino, il quale è costretto a dover convivere con un peso sulla coscienza per non consegnarsi da sé nelle mani del boia. La condanna, insomma, sembra avere più rilevanza quando non viene esercitata appieno, ma diventa una sorta di gabbia in cui vengono rinchiusi innocenti e colpevoli assieme; una gabbia che questi ultimi contribuiscono a costruirsi da soli e che viene eretta con l'aiuto degli estranei, i quali possono renderti la vita difficilissima nel momento in cui non credono alla giustizia e sussurrano alle tue spalle. Di conseguenza, ci viene da chiederci quando saremmo davvero liberi. La libertà non è qualcosa che ci viene concessa di diritto, ma che dobbiamo sforzarci di conquistare: libertà di essere noi stessi; libertà di mostrarci agli altri per quello che siamo, pur senza andare a usurpare la loro con il nostro operato. Mi è molto piaciuto questo discorso insito in "La Casa Senza Porta", anche se devo ancora assimilarlo del tutto per riuscire a descrivere al meglio i miei sentimenti a riguardo. In ogni caso, da esso si comprende benissimo come Daly avesse assimilato la lezione del suo tempo e del mystery classico americano degli anni '30-'50: trarre dalle chimere dettate dal malcontento individuale la giusta ispirazione a plasmare la materia psicologica dei suoi libri, trasferendo sugli attori sulla scena il disagio e l'impotenza e le ossessioni. Interpretò questo sentire diffuso e tratteggiò gli spettri inquietanti e terribili che il desiderio di trovare sollievo dalla miseria quotidiana evocava, trasformando frustrazione ed egoismo da sentimenti negativi, perseguibili più del rispetto delle leggi e del prossimo dal momento che ognuno si preoccupava più si se stesso, a catartici e "utili". E interpretò questo fatalismo senza usare toni duri e violenti, ma sfruttando la paranoia dilagante per ideare racconti agghiaccianti di pazzia e disillusione, come quella che vede coinvolta Vina Gregson e gli altri personaggi, in cui lo straniamento dei personaggi e il loro cinismo suscita riflessioni profonde sull'animo umano e sulla sua natura intrinseca. Senza per questo inventare situazioni da zero: infatti, se fossimo vissuti nei primi anni '40, probabilmente avremmo assistito alle scene che lei ha raccontato, e ci saremmo potuti calare nei panni degli sconfitti che popolano le sue storie, comprendendo le loro azioni e le ragioni che li avrebbero spinti a compierle. In sintesi, Daly ha coinvolto il lettore e ha restituito un resoconto preciso della condizione socio-psicologica in cui versava l'America in quel momento; mica male, per un'autrice che è stata bistrattata e continua ad esserlo ancora oggigiorno.

Elizabeth Daly, nata nel 1879 e morta nel 1967
L'attenzione alla psicologia è da sempre uno degli aspetti che caratterizzano il romanzo giallo, sia di stampo britannico sia di stampo americano; e soprattutto in quest'ultima declinazione esso ha trovato terreno fertile per svilupparsi e fiorire. Basta pensare alla narrativa delle women in jeopardy, oppure a quella delle "nuove leve" della metà del Novecento, incarnata da Charlotte Armstrong, Helen Reilly e le loro colleghe. Anche Elizabeth Daly intraprese la strada del giallo psicologico, benché declinato in una forma più tradizionale, quando decise di iniziare a scrivere romanzi gialli; e non c'è da stupirsene, visti gli altri suoi interessi. Nata nel 1879 a New York, in una famiglia tra le più in vista della società del tempo, fin dalla giovinezza respirò aria di cultura, poiché il padre e lo zio erano rispettivamente un giudice dell'Alta Corte e un commediografo di successo. Educata nelle scuole più prestigiose, dopo la laurea Elizabeth, a partire dal 1904, insegnò al Bryn Mawr College per tre anni, per poi dedicarsi alla sua passione più grande: il teatro. In questo ambito, dove la Vita viene messa in scena ogni giorno dell'anno, Daly si impegnò nella scrittura di testi, nella produzione e nella direzione, come regista, di moltissime opere scenografiche in veste amatoriale, imparando sempre più a comprendere le azioni degli individui e ciò che li muove per riuscire a trasportarli nei suoi copioni (tutto questo sarà poi inserito in "The Street Has Changed", un romanzo di costume nel quale un'attrice ritiratasi dalle scene rivive quarant'anni di teatro). Nei momenti di pausa, tuttavia, coltivò anche l'interesse per il mystery, che considerò sempre con rispetto e sul quale sosteneva: "Al suo meglio il romanzo poliziesco è un'alta forma di letteratura". Un po' come Dorothy L. Sayers, dall'altra parte dell'Oceano. Il suo autore preferito fu Wilkie Collins, il famosissimo ideatore del primo romanzo giallo classico come lo intendiamo oggi, "La Pietra di Luna", e ad esso si ispirò per provare a scrivere lei stessa alcune crime novels, in cui vengono tratteggiati spesso personaggi colti e complessi usando uno stile elegante e raffinato.

Solo nel 1940, dopo aver superato la cinquantina, riuscì però a coronare questo sogno e a pubblicare "Notte d'Angoscia", la prima avventura del suo segugio dilettante Henry Gamadge. Costui è un bibliofilo, un appassionato collezionista di libri rari e antichi e un'autentica autorità in materia, giovane, alto e con un viso dai tratti marcati ma gradevole, il quale vive con un gatto (Martin) e un assistente di nome Harold Bantz, il cui aiuto si rivela sempre prezioso. Gentile, educato e provvisto di un discreto patrimonio, Gamadge venne ripreso in tutti i sedici romanzi successivi di Daly, i più famosi dei quali sono "Murders in Volume 2", "Evidence of Things Seen", "Any Shape or Form", "Death and Letters", "The Book of the Crime", l'ultimo ad apparire prima della sua morte (avvenuta nel 1967, dopo essere stata insignita di uno speciale premio Edgar), "Morte al Telefono" che viene considerato il suo capolavoro, e ovviamente "La Casa Senza Porta". Si tratta di mysteries appartenenti al tradizionale giallo a enigma, dei quali una delle più appassionate ammiratrici fu, come dicevo, nientemeno che Agatha Christie. Come mai? Ebbene, se più sopra avevo osservato come le caratteristiche letterarie delle due autrici fossero molto simili e quindi probabilmente ciò fece entrare in sintonia Christie con Daly, il motivo più importante del giudizio della scrittrice britannica sulla sua collega d'oltreoceano penso sia da rilevare a livello più profondo. A mio parere, ciò che conquistò Agatha (e aggiungo me stesso) fu il fatto che Elizabeth riusciva a dare vita a storie che, pur immerse in un diffuso senso di sconforto misto a desolazione, lasciavano uno spiraglio agli attori che si affannavano sulla scena (al di fuori dell'assassino) per ottenere una seconda possibilità, un'occasione per risvegliarsi dal torpore e dalla stasi in cui essi erano caduti per tornare alla vita. In sintesi, Daly ha saputo confortare il lettore, e questo è ciò che ha fatto innamorare Christie. Lei stessa, come può dire chiunque conosca la sua storia personale, ha sofferto nel corso della sua vita: certo, ha vissuto avventure straordinarie ed è stata in grado di superare ostacoli all'apparenza insormontabili, però ha affrontato un divorzio molto doloroso, che le ha quasi strappato la voglia di scrivere; ha provato sulla sua pelle quanto sia terribile perdere una madre a cui si è legati a doppio filo; come tante altre persone, poi, ha visto la guerra coi proprio occhi e quanto essa possa essere spaventosa. Ecco, a mio parere i personaggi di Daly sono un po' come Christie e come tutti noi, magari delusi dalla miseria della vita oppure dalle delusioni che si susseguono e refrattari a reagire, ma nel profondo combattivi e per nulla arrendevoli. Il racconto di questa sensazione, simile a una convalescenza dopo un periodo di malattia, mi ha colpito ancora una volta, come era accaduto in "Morte al Telefono", e trova una grande affinità con quella dei libri della Regina del Crimine, dove l'esito delle indagini non esclude un finale lieto per i protagonisti. Ed è anche per questo che, sempre secondo me, Daly è superiore a Millar e alle sue colleghe: qui c'è ancora una speranza di guarigione e cure amorevoli possono compiere il miracolo di restituire la vita a chi, affetto da fatalismo, ne ha bisogno.

Il lettore, assieme ai personaggi, si sente cullato e trova alleviate le sue paure, benché non gli venga risparmiata la visione del Male e della Pazzia. L'atmosfera nella casa di cura, ad esempio, ci mostra come più di uno sia depresso per la situazione in cui si trova la società e il mondo; ma allo stesso tempo restituisce l'immagine di un Eden in cui è ancora possibile trovare ristoro e speranza per andare avanti. Le piccole cose, le faccende quotidiane e il racconto di una normalità dove la gente non è preda di angosce riesce in qualche modo a smorzare la minaccia e la tensione che emergono dai fatti legati al caso su cui indaga Gamadge: abbiamo il racconto del lavoro di Clara, sua moglie, e di Harold nel sistemare la corrispondenza, oppure l'eccentrico passatempo di Mrs Smiles nell'organizzare cene eleganti e divertirsi con i suoi ospiti. Con ritmo lento (forse troppo per alcuni, ma a mio parere necessario per calare chi legge nella giusta atmosfera), Gamadge raccoglie indizi su indizi e agisce di conseguenza con estrema prudenza, proprio come un medico che si accinga a studiare una diagnosi e una cura adeguate a un malanno (pp. 11, 18-19, 28, 37-43, 47-48, 157-162, 166-169, 180-181, 207); e da parte sua Daly traccia una storia tranquilla all'apparenza, dove ogni azione è ponderata e, anche se a volte è necessario agire in fretta, non trasmette mai un senso di fastidiosa urgenza. Inoltre, la New York che percepiamo, assieme al resto delle ambientazioni, sono come ingentilite rispetto al solito (pp. 7-9, 12-16, 23, 25-31, 58-59, 79-80, 100 105, 118, 120-123, 190-196, 175, 177-178, 204-206, 221-224): le descrizioni sono meravigliose, con grandi case site in mezzo ai campi coltivati, oppure sul fianco di colline dove gli unici suoi che vengono percepiti sono i versi degli animali e lo stormire del vento tra le foglie degli alberi. Ogni cosa è vividamente evocata, come un dipinto impressionista; ma questo non vuol dire che sia tutto allegro e divertente. Anzi, spesso è il brivido di terrore che domina la scena, con efferati crimini incorniciati da idilliaci paesaggi dove non ti aspetteresti mai di trovare Morte e Follia. Tutto ciò, viene calato in una fitta nube di sospetto, la quale grava ininterrottamente sopra i protagonisti. Proprio questa capacità di tratteggiare in profondità la psicologia degli attori sulla scena, pur descrivendo le vicende in scenari di tutti i giorni, è uno dei caratteri fondamentali dello stile di Daly (pp. 11-12, 21, 49-52, 55-56, 58-59, 74-76, 97-100, 117-118, 126-132, 143-144, 147, 152-157, 163, 171-172, 195-197, 213-219, 235-243), assieme al fatto che nella sua opera si parli spesso di cultura (pp. 17, 30, 68) e affini con un linguaggio elegante e raffinato. In ogni pagina del libro, aleggia una sorta di patina simile a neve, che ricopre tutto e restituisce una dimensione simile a un sogno, in cui il tempo pare essersi fermato sia per i personaggi, sia per l'ambientazione. Ogni tanto, ci caliamo in contesti quotidiani, mangiamo qualche pasticcino e sorseggiamo una tazza di tè in compagnia di giovani eleganti e taciturni, oppure di signore che sferruzzano tenendo i ferri sulle ginocchia, serene soltanto all'apparenza, mentre i gomitoli rotolano ai loro piedi senza sosta. Se qualcuno deve parlare, lo fa sottovoce; come se nelle vicinanze ci fosse un infermo che riposa ed egli dovesse usare tutte le sue forze per rimettersi in sesto, e non a causa di correnti sotterranee che ruggiscono tumultuose contro fragili argini (pp. 9-11, 3-15, 17-18, 21, 23, 26-27, 30-32, 39, 43-47, 53-57, 62-66, 70-73, 77-78, 81-85, 87-88, 90-92, 94, 101-103, 105-109, 111-115, 117-124, 127, 133-134, 136-142, 145-146, 151-157, 179-183, 185-189, 192-193, 200-203, 225-228, 230, 232-235, 243-251, 254-255).

Copertina dell'edizione pubblicata nei
Classici del Giallo Mondadori n. 848

Ognuno dei personaggi, chi attraverso il cinismo e chi attraverso la negazione della realtà, ha sollevato una difesa psicologica contro qualunque colpo debba ricevere e lo scalpore che ne deriva, così da non attirare l'attenzione dell'opinione pubblica assetata di scandali. La colpa e la condanna, bisogna ricordarlo, sono sempre in agguato per tornare in superficie e creare nuovi disagi (pp. 23-24, 28, 43-44, 53-66, 69-70, 117-120, 175-177). Il malcontento emerge in superficie nei discorsi tra Gamadge e i sospettati: tutti loro (al contrario di Clara, Harold e gli altri loro amici e conoscenti), chi più chi meno, sono insoddisfatti, nascondono ferite segrete, delusioni interiori che faticano a rimarginarsi e traumi pregressi, allo stesso modo degli sconfitti di cui erano piene le città statunitensi, nel periodo in cui questo romanzo è stato pubblicato. Ancorati a un passato che è stato fonte di guai ma appare quanto meno desiderabile, essi non riescono ad affrontare il presente e si rifugiano nel conforto di un tempo morto da anni ma che non si decidono a seppellire; e in questo modo interrompono le loro esistenze, gettandosi addosso lo sconforto e il fatalismo che sfociano nella paranoia e costruendo prigioni invisibili ed inespugnabili. Sono vivi, questi individui, ma complessati nella loro complessità psichica. La spiegazione finale fatta da Gamadge mette in luce tutto questo tormento, l'agghiacciante freddezza dell'assassino e la sua lucida follia. Si tratta del coronamento di un enigma strano, insolito, come spesso avviene nei romanzi di Daly, nel quale gli indizi assumono maggiore carattere psicologico rispetto a quello materiale, ma che non risulta inferiore a quello di altri grandi gialli classici. "La Casa Senza Porta", insomma, riesce ad essere un romanzo di straordinaria potenza; forse inferiore a "Morte al Telefono", ma comunque capace di dimostrare quanto la psiche dell'individuo possa distorcersi e di dipingere una società che assomiglia paurosamente alla nostra, bisognosa di conforto e fatta di persone ferite che, tuttavia, hanno la possibilità di riuscire a riscattarsi, se solo riescono a convincersene. O se riescono a lasciarsi alle spalle il giudizio, a volte troppo pesante da sopportare, degli altri e a farsi una nuova vita.

Mi addolora sempre molto leggere che i romanzi di Daly vengono definiti noiosi, lenti e banali. Fino a un certo punto posso capire le critiche che vengono loro rivolte, dal momento che sono particolari esempi di quel mystery psicologico che furoreggiò in America e che è per certi versi differente da quello di stampo britannico, basato più sulla miscela di materialità ed elementi intangibili. Però sono convinto che libri come "La Casa senza Porta" siano magistrali esempi di storie in cui viene descritta l'azione di una mente in preda alla follia, e quindi non sempre riesca a restituire un racconto "logico". Inoltre, nonostante sia indubbiamente meno frenetico nella narrazione, lo stile ci permette di entrare appieno in contatto con la società del tempo e di comprendere cosa significasse vivere negli anni in cui i fatti sono ambientati. Questo è ciò a cui dovrebbe mirare un "vero" romanzo giallo, oltre a narrare un enigma intrigante e che appassioni: diventare uno strumento che permetta di analizzare ciò che circonda gli eventi narrati e trasferire questa "indagine" al giorno d'oggi. E Daly, con i suoi libri, riesce a farlo benissimo.

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