venerdì 26 febbraio 2021

63 - "Morte nello Studio del Rettore" ("Death at the President's Lodging"/"Seven Suspects", 1936) di Michael Innes

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Tra i numerosi romanzi gialli che in questi ultimi due anni (quasi) ho recensito qui si Three-a-Penny, ho notato di non averne mai affrontato uno appartenente a un sottogenere che ha trovato larga popolarità durante la Golden Age della classica crime story: quello del delitto all'università (o college, come vengono chiamati tali istituti in Inghilterra e America). Si tratta di una grave mancanza, a cui ho deciso di porre rimedio con l'analisi di oggi; ma prima vorrei farvi una piccola panoramica riguardo questo tipo di mysteries. Esso trae forza dalle peculiari caratteristiche che questi luoghi del sapere presentano: spesso sono microclimi "chiusi", metaforicamente per idee e abitudini oppure materialmente perché circondati da mura invalicabili e portoni che alla notte li trasformano in piccole fortezze inaccessibili, dove si può trovare una fauna umana tanto variegata quanto peculiare. Basti pensare alle scuole che tutti noi abbiamo frequentato o frequentiamo, dove ci sono ragazze e ragazzi spigliati e ambiziosi, timidi e studiosi, curiosi o riservati, gelosi e appassionati, insieme a professori maniacali e stressati, focosi e rabbiosi, gentili e comprensivi. Le correnti sotterranee che uniscono individui che ogni giorno stanno a contatto gli uni con gli altri, inoltre, sono l'ingrediente fondamentale all'interno di qualsiasi istituto... come del resto all'interno di un romanzo del mistero. Per cui, non stupisce il fatto che la scuola sia diventata uno tra i luoghi prediletti da chi ha ideato delitti efferati ed entusiasmanti, dal momento che in essa si mettono in gioco un sacco di cose che riesco a dare vita a trame intriganti. In aggiunta a ciò, poi, non bisogna dimenticare che gli scrittori di tradizionali crime novels avevano come scopo quello di interpretare la società e il mondo che li circondava; per cui, cosa avrebbero potuto sfruttare meglio del posto dove le giovani generazioni venivano istruite? Posti dove, per giunta, molti di loro avevano studiato oppure in cui insegnavano e per questo conoscevano a menadito, così da non dover inventare troppe cose e togliere quella patina di realismo che il classico romanzo giallo inglese ha fatto proprio come marchio di fabbrica.

Si possono fare tantissimi esempi di ciò. Prendiamo Dorothy L. Sayers la quale, allo stesso modo di J.S. Fletcher nel campo del giornalismo e Freeman Wills Crofts in quello delle ferrovie, trasse ispirazione e spunto dal proprio lavoro dai pubblicitari Benson's per costruire e dare colore a "Lord Peter e l'Altro". Grazie all'esperienza, poté non solo ideare un crimine sfruttando tutti gli elementi possibili e la conoscenza del proprio ruolo all'interno di un nucleo specifico di persone, ma anche dare originalità alla canonica trama che prevede un cadavere su di una scena del delitto e un investigatore (dilettante o professionista) convocato a risolvere il mistero. Ecco, qualcosa di simile riuscirono a fare un po' tutti i suoi colleghi, i quali venivano da un ambiente familiare che si identificava con un ceto medio-elevato e pertanto avevano frequentato istituti più prestigiosi di quelli destinati al popolo della periferia. Come racconta Martin Edwards in "The Story of Classic Crime in 100 Books", ad esempio, tra i primi ventotto membri del Detection Club partendo dalla sua fondazione, non meno di quattro di loro (Ronald Knox, Douglas Cole, Lord Gorell ed Edgar Jepson) aveva frequentato il prestigioso Balliol di Oxford! Il loro era un circolo a cui appartenevano soprattutto esponenti di un mondo elitario, composto da membri accomunati da radici comuni che si svilupparono in percorsi di vita differenti, il quale tuttavia riusciva a parlare a chiunque con un linguaggio universale: quello della natura umana. E si sa che l'essere vivente manifesta se stesso in ogni momento della propria vita; soprattutto quando egli viene raffigurato dentro un gruppo. Per questo agenzie pubblicitarie, stazioni, uffici bancari e appunto scuole costituirono un terreno molto fertile che permise ai giallisti della Golden Age di sbizzarrirsi. Tra nomi come Nicholas Blake, Christopher Bush, Gladys Mitchell e R.C. Woodthorpe, oggi ho scelto Michael Innes col suo "Morte nello Studio del Rettore" (Polillo Editore, 2008), dal momento che egli viene considerato il capostipite del filone del "giallo universitario". Non avrei potuto selezionare autore migliore; e questo romanzo ne è la prova, dal momento che tratta un caso complessissimo e avvincente che coinvolge docenti e studenti, tra ironia e terrore.

New College, Oxford, Antique Print, 1920s, raffigurante
un complesso studentesco simile al St. Anthony
Il libro narra dello strano caso di omicidio del rettore Josiah Umpleby, al quale qualcuno ha sparato un colpo di pistola in mezzo alla fronte. Non capite cosa ci sia di insolito in tutto questo? In effetti sarebbe tutto fin troppo anonimo... se non fosse che dopo averlo ammazzato qualcuno gli ha avvolto la testa in una toga accademica, ha sparso attorno al suo corpo senza vita mucchietti di ossa umane e ha disegnato sopra al caminetto due teschi ghignanti. Una scena terrificante, questa che si presenta agli occhi dell'ispettore John Appleby, e alquanto rivelatoria per certi aspetti. L'assassino, infatti, deve per forza essere qualcuno con il cervello fuori posto, per aver ideato una messinscena così melodrammatica. Eppure, come dimostra fin da subito il sergente Dodd, al St. Anthony's nessuno sembra essere uno squilibrato. Certo, tra gli studenti e i docenti si contano innumerevoli individui a dir poco eccentrici, con piccole manie e ossessioni e menti ormai tanto assuefatte allo studio del sapere da essere distaccate dal mero mondo materiale; però questo non significa che uno di loro debba per forza essere internato in un manicomio. Ma qualcuno deve pur aver ammazzato Umpleby, da qui non si scappa; e deve essere stato qualcuno che vive all'interno del college. Fin dai primi rilevamenti, infatti, appare chiaro come il rettore abbia trovato la morte in una fredda serata di novembre, quando i cancelli esterni dell'edificio vengono serrati a doppia mandata, assieme al paio di interni che delimita il frutteto conosciuto come Orchard Ground. Dalla portafinestra che dà su questo prato pare sia entrato l'omicida, che abbia sparato e che si sia dileguato verso una delle stanze di Little Fellows, la residenza in cui vivono i docenti anziani. Oppure, costui potrebbe essere sgusciato fino al muro che confina con Schools Street o aver attraversato i cancelli che collegano il frutteto con il cortile Bishop's, ed essersi allontanato. In questo caso, tuttavia, sorge un nuovo problema che complica ancora di più le cose: per usufruire di entrambe queste vie di fuga, il colpevole avrebbe dovuto essere in possesso di una chiave particolare, della quale esistono soltanto dieci copie.

Esse sono di proprietà dei succitati docenti anziani e di alcuni membri del personale: Tracy Deighton-Clerk, il preside; Empson, docente di psicologia e scienza della mente; John Haveland, professore di antropologia; Pownall, insegnante di storia antica; Samuel Titlow, docente di archeologia classica; Giles Gott, censore addetto alla ronda e giallista sotto pseudonimo; Arthur Lambrick, matematico. Chiudono il cerchio dei sospetti il dottor Barocho; Ian Campbell, insegnante di etnologia e alpinista provetto; Denis Chalmers-Paton; l'anziano professor Curtis che è in procinto di godersi una meritata pensione. Tutti costoro hanno trascorso la notte dentro il St. Anthony's oppure erano in possesso della fatidica chiave che avrebbe aperto i cancelli all'omicida, pertanto sono sia testimoni sia probabili assassini. E il fatto che tutti loro, più o meno, avessero un movente valido per togliere di mezzo Umpleby non semplifica le cose. L'ex rettore si era macchiato di oscuri furti di idee, di velate frecciate ai danni dei colleghi, di essere fonte di insensati battibecchi; chiunque potrebbe essersi offeso al punto di decidere di toglierlo di torno. Ma Appleby non è uno sprovveduto: lui stesso ha frequentato il St. Anthony's qualche tempo prima e sa come funziona la mente di questi docenti svagati soltanto all'apparenza. Può sembrare che loro non abbiano alcun cruccio al mondo, che siano immersi in elucubrazioni astratte e che nulla riesca a toccarli; ma in realtà sono più soggetti agli impulsi provenienti dall'esterno della gente normale. Ciò che non scompone minimamente un idraulico, può scuotere fin dalle fondamenta il fragile castello di carte che ogni professore ha costruito, la loro carriera andare in frantumi a causa di una minima scossa. Pertanto, decide di unire la forza bruta dei poliziotti al comando di Dodd e la conoscenza psicologica e mentale che lo contraddistingue per incastrare il colpevole, inconsapevole che parte del suo lavoro verrà svolto da tre studenti annoiati, i quali si lanceranno a caccia di un sospettato per il puro gusto di un pomeriggio di svago e del rispetto della giustizia.

A Road in Seine et Marne, Alfred Sisley, 1875, raffigurante un
paesaggio campagnolo simile a quello di Burford
Come dicevo nell'introduzione, "Morte nello Studio del Rettore" è una lettura che non deve essere affrontata a cuore leggero. O meglio, si tratta sì di una storia che contiene momenti spensierati che finiscono per divertire il lettore; ma per la maggior parte della sua lunghezza essa narra un caso intricato che prevede grandissima attenzione per evitare di perdersi qualche passaggio importante. Io stesso mi sono trovato in difficoltà nel cogliere la maggior parte di essi. Tutto sommato, però, voglio rassicurarvi: l'esordio di Innes è una bomba. Bomba nel senso che è capace di stordirti come se ti sommergesse di enciclopedie sulla storia, la filosofia, la psicologia e l'archeologia, ma pure di afferrarti e buttarti al'interno di un mondo in possesso di caratteristiche terrene e più che affascinanti da cui sarà difficile uscire. Il ritratto della vita da college che emerge da "Morte nello Studio del Rettore" è perfettamente delineato (pp. 61-66, 111-112, 126-128, cap. 10, 213-216, 243-245, 253-255): assistiamo a più riprese a scene di vita quotidiana, come una cena nel refettorio con tanto di lettura della Bibbia prima del pasto, e qualche ora in compagnia di studenti pigri ma svegli che si baloccano con teorie investigative, mentre fanno solitari che occupano tutto il pavimento oppure studiano il "Posterior Analytics" preparando una bevanda che mescola latte e madera. Ci viene descritto un pomeriggio di svago nella campagna di questi stessi studenti, i quali da un momento all'altro abbandonano l'intonazione di canti di Pindaro e versi di Shakespeare per gettarsi all'inseguimento di un ciclista sospetto. Soprattutto, entriamo nelle vite private dei docenti del St. Anthony's, nei discorsi che fanno per spiegare come si sia potuto verificare un decesso violento come quello di Umpleby, utilizzando tutto il loro sapere per "aiutare" Appleby. Da un salto nel catastrofico disegno di una società antica che si riflette su quella moderna, da parte di Titlow, passiamo a un discorso fatto di sottintesi in cui Empson suggerisce moventi per l'assassinio grazie allo studio comparato di psicologia e scienza, per tornare a immagini legate all'astrologia e alla religione nei pensieri di Deighton-Clerk; il tutto nell'arco di un centinaio di pagine. Credo stia in questo il punto di forza e di debolezza del romanzo d'esordio di Innes, in questa enorme quantità di informazioni che all'apparenza non hanno alcuna attinenza con il caso su cui l'ispettore di Scotland Yard sta indagando.

Perché dico "all'apparenza"? Semplicemente perché proprio su di essi si basa l'interpretazione della maggior parte delle prove e la raccolta di indizi utili allo svelamento della verità. Con questo non intendo dire che sia esclusivamente così: ci sono molti elementi pratici su cui Dodd e Appleby fanno affidamento, come le impronte sull'arma del delitto, alcuni segni su di un oggetto voluminoso che ha avuto un ruolo centrale nella costruzione della messinscena nello studio, le stesse ossa sparse attorno a Umpleby costituiscono una prova che può o non può indicare con sicurezza un certo individuo. Però, ho avuto come la sensazione che Innes abbia conferito maggiore spessore al lavorio mentale di Appleby, al suo saper cogliere sfumature in ciò che viene o non viene detto, al tono o alla reazione coi quali una determinata persona risponde. Non per nulla, l'autore viene considerato alla pari di due artisti dello scavare nella natura umana come Nicholas Blake e Margery Allingham, capaci di sfruttare una certa erudizione per interpretare il groviglio psicotico che si nasconde dietro le maschere che tutti noi portiamo addosso. Si tratta di un lavorone (se avete letto "Quando l'Amore Uccide" oppure "Morte di un Fantasma", per fare un esempio ciascuno dei giallisti appena citati, ve ne sarete resi conto), che parte da premesse semplici come banali assassini per poi dare vita a trame in cui ci sono svolte vertiginose e inaspettate dietro ogni angolo. La stessa di "Morte nello Studio del Rettore" si inalbera dal presupposto di un omicidio avvenuto dentro un college come tanti altri, ma è il modo attraverso il quale essa viene interpretata a restituire la qualità dell'opera. Modo che, sfortunatamente, non a tutti piacerà. E lo dico a ragion veduta, visto che ad esempio ho letto una brevissima recensione da due stelle su cinque per questo romanzo, in cui veniva criticato il fatto che ogni cosa appariva troppo verbosa e contorta. Già; "Morte nello Studio del Rettore" di Michael Innes è assolutamente pieno di paroloni, di similitudini, di riferimenti ad opere letterarie di genere "elevato", di citazioni a filosofi e ad altri illustri e augusti personaggi della Storia della letteratura. Non si scappa da questo fatto. A qualcuno farà storcere il naso, ne sono certo; però chi come il sottoscritto si diverte ad affrontare letture stuzzicanti dal punto di vista della comprensione non resterà deluso. L'enigma coinvolge talmente tante variabili, tante prove che possono essere interpretate in differenti modi, tante piccole scoperte capaci di capovolgere e ricapovolgere i sospetti, che non lascerà nessuno indifferente. Nel bene o nel male, sta a seconda del gusto del lettore.

John Innes Mackintosh Stewart, alias Michael Innes,
nato nel 1906 e morto nel 1994
Il fatto che John Innes Mackintosh Stewart (vero nome di Michael Innes) sia stato un autore e individuo divisivo e particolare si può cogliere da una frase contenuta nella recensione del "Times Literary Supplement" dedicata alla sua seconda opera, "Hamlet, Revenge!": "Un autore che fa scuola a sé tra gli scrittori di detective novels". Dopo aver letto questo suo esordio, penso che egli si possa davvero considerare come qualcosa di particolare all'interno del genere. Nato nel 1906 ad Edimburgo, scozzese, il giovane Stewart avrebbe fatto molto parlare di sé. Figlio di un avvocato delle Highlands, studiò prima alla Edinburgh Academy e in seguito all'Oriel College di Oxford, prima di intraprendere un viaggio fino a Vienna per studiare psicoanalisi nel 1929. Distintosi in questo campo, l'anno seguente tornò in Gran Bretagna dove insegnò letteratura inglese alla University of Leeds fino al 1934. Nel 1935 sarebbe però avvenuta la piccola svolta nella sua vita: Stewart ottenne una cattedra nientemeno che ad Adelaide, in Australia, per l'insegnamento della letteratura inglese e influenzato dal successo di "Tragedia a Oxford" di J.C. Masterman, mentre si trovava sul piroscafo che lo avrebbe condotto verso la sua meta, decise di trascorrere il tempo dedicandosi alla scrittura di un romanzo del mistero che avrebbe preso il nome di "Morte nello Studio del Rettore". Questo esordio ottenne grande successo di critica e pubblico, al punto da venir pubblicato pure in America col titolo di "Seven Suspects" (per non creare incidenti diplomatici per via del riferimento al Presidente nell'intestazione originale), ma non influenzò particolarmente le ambizioni di Stewart, il quale continuò ad insegnare comunque per gran parte della sua esistenza. Già nel 1946, infatti, terminato il periodo australiano, tornò in patria per recarsi a Belfast e alla Christ Church di Oxford, dove rimase fino al 1973 ed ottenne la qualifica di "professor emeritus". Nel corso della propria carriera di insegnante, Stewart pubblicò innumerevoli opere di vario genere, che spaziarono dalle biografie di autori come Kipling, Conrad e Hardy, a studi critici sulla poetica di Shakespeare, all'ottavo volume della prestigiosa "Oxford History of English Literature", a un'autobiografia dall'ironico titolo "Myself and Michael Innes". Fu però al campo della classica crime story che è soprattutto legato il suo nome, visto che ad essa ha dato un enorme contributo.

Alla sua copiosa produzione, firmata sempre come Michael Innes, l'autore dedicava due ore ogni mattina, dalle sei alle otto, prima di dedicarsi al lavoro universitario. Dal 1936 al 1986 si contano circa cinquanta opere, tutte con protagonista lo stesso investigatore, l'ispettore John Appleby di Scotland Yard il quale, per la fine della propria carriera, avrebbe raggiunto il grado di commissario della Polizia Metropolitana e ottenuto nientemeno che un cavalierato. Uomo di straordinaria cultura, di metodi raffinati e di grande sensibilità, egli si sposerà con Judith Raven ( in "Applesby's End")e avrà un figlio, Bobby, il quale seguirà le orme del padre nel campo delle investigazioni. Tra i romanzi più famosi di Innes si contano, oltre a quelli già segnalati, "Lament for a Maker", "Stop Press", "The Daffodil Affair", "Delitto a Elvedon Court", "Meglio Erede che Morto" e "Christmas at Candleshoe", dal quale Disney trasse il film "Una Ragazza, un Maggiordomo e una Lady"; oltre alla spy story "The Man from the Sea"inserita dal critico Julian Symons nella sua lista dei cento migliori romanzi gialli di tutti i tempi. Importante fonte di ispirazione per altri giallisti come Edmund Crispin, Innes morì nel 1992, dopo un felice matrimonio e ben cinque figli. Come dicevo, fu molto apprezzato dalla critica, la quale gli riservò sempre tanti elogi: riguardo "Morte nello Studio del Rettore", ad esempio, il Times lo descrisse come "il più importante contributo alla letteratura gialla apparso da molto tempo a questa parte"; il celebre critico e autore di "The Cain's Jawbone", Torquemada, lo rilesse ben due volte prima di poter assicurare come, nonostante la complessità, esso fosse un romanzo "non vulnerabile in nessun momento"; Nicholas Blake lo celebrò sullo Spectator come "il miglio esordio che avesse mai letto". E in effetti le cose stanno proprio così. A prima vista, infatti, "Morte nello Studio del Rettore" può forse dare l'impressione di essere fin troppo pretenzioso, lento e poco equilibrato in fatto di ironia e dramma; ma non è affatto questo ciò che io ho tratto dalla sua lettura. Anzi, penso che quest'opera serva proprio a dimostrare come sia errato quel postulato secondo cui un romanzo del mistero non debba mai essere preso troppo sul serio: in questo caso, se non ti costringi a dare importanza a ciò che esso racconta, non riuscirai ad apprezzarlo fino in fondo.

Copertina dell'edizione più recente
del romanzo in lingua inglese
La sua storia non tratta certo una materia semplice, ma riesce a dipingere un mondo suggestivo e a tratteggiare come in esso si muovano non tanto personaggi in carne ed ossa, quanto menti e intelletti capaci quasi di prendere forma propria. Lo studio del funzionamento e delle reazioni a eventi improvvisi dei cervelli dei Fellows, degli studenti e del personale di St. Anthony è stato preciso ed accurato come poche altre volte si è riscontrato all'interno di un libro il cui scopo dovrebbe essere quello di intrattenere il lettore. Si tratta di qualcosa di straordinario sotto molti punti di vista, dal momento che lo stesso stile non si lascia andare a osservazioni futili e semplicistiche, ma occupa una parte importante per la comprensione di queste correnti sotterranee e ragionamenti (non per nulla l'autore aveva studiato psicanalisi a Vienna, pp. 49-52). Per la prima volta, ho davvero capito cosa voglia dire essere intellettuali: non trattare un argomento come se fosse una poesia da imparare a memoria e recitare a comando, ma applicare le proprie conoscenze in modo da plasmare i fatti e adattarli alla situazione. Esiste una struttura dietro a tutto quanto, che purtroppo non sono riuscito sempre a comprendere; però ciò non toglie che essa esista e sia stata ideata in modo ordinato, mescolando menzogna e verità così da renderle irriconoscibili a meno di non fare un grosso sforzo. Inoltre, vengono messe in discussione tantissime cose sulle quali di solito non ci si interroga all'interno di un romanzo giallo; tra tutte, il fatto che non sempre si possa riuscire a cogliere la verità da semplici fatti concreti. Le "prove" non sono più semplici mozziconi di sigarette e impronte, ma piuttosto cenni, comportamenti, reazioni, sentimenti che emergono da discorsi e interrogatori: come avrebbe agito pure Blake, Innes fa propria questa convinzione e conferisce nuova linfa alla nascente crime story psicologica (senza tralasciare la drammaticità caratteristica del genere). Detto questo, il police procedural non manca, dal momento che seguiamo la routine di Dodd e Appleby e in essa troviamo azioni che si attengono alla realtà dei fatti: l'uso di piantine, i ragionamenti sulle chiavi e sul fatto che il college venga visto come un luogo chiuso da analizzare logicamente puntano su un approccio tradizionale al mystery (pp. 79-85/85-93). In questo sta il bello dell'enigma: nel suo essere innovativo per certi versi (il finale dove emerge come ognuno si sia fatto un'idea differente della soluzione è pazzesco e ricalca "La Vedova del Miliardario" di E.C. Bentley) e classico per altri.

Al di là di questo, comunque, ci sono altri elementi che mi hanno portato a promuovere "Morte nello Studio del Rettore". Dietro alla persistente serietà dei toni, ogni tanto emergono sprazzi ironici che fanno tirare il fiato al lettore: le parti con protagonisti gli studenti a caccia di fantomatici assassini sono tra le migliori del romanzo, ma pure i discorsi tra Appleby e Dodd oppure quelli con il professor Curtis e Gott sono simpatiche. Sono numerosissimi i riferimenti al genere giallo, tra citazioni di Edgar Allan Poe, Thomas De Quincey, titoli di opere e riferimenti a delitti fittizi (pp. 14-15, 18-19, 25-29, 33-34, 46-47, 75-76, 85, 103, 120, 126-128, 187-191, cap. 12, 205-207, 220, 293). L'ambientazione è affascinante quanto l'atmosfera generale della storia (pp. 85-93, 97-99): c'è indubbiamente più "scena mentale" che "scena pragmatica", dal momento che contano più le tabelle orarie di quelle planimetriche e che l'importante sia inserire in una sorta di diagramma ipotetico gli stati d'animo a discapito dei numeri, ma non mi sento di dire che Innes sia stato carente da questo punto di vista. Bene o male, riusciamo a farci un'idea del St. Anthony e di come sia il classico mondo accademico che in esso alberga. E a proposito di mondo accademico, la parte del leone in "Morte nello Studio del Rettore" la fanno i personaggi. Sono loro il fulcro attorno a cui ruotano le vicende in ogni momento, sono sempre al centro dell'attenzione e come posti sotto una lente d'ingrandimento; lente che, tuttavia, ne evidenzia più il carattere rispetto alla fisicità. Ho avuto l'impressione che Innes intendesse mettere in mostra più la loro personalità, rischiando così di tralasciare elementi che ci permettessero di distinguere meglio Empson da Titlow, per fare un esempio. In questo senso, in effetti, è stato un po' carente, ma non bisogna dimenticare che il suo scopo era proprio quello di analizzare in profondità il sentimento. Riconosciamo Deighton-Clerk dall'atteggiamento oltraggiato, Titlow dal pessimismo, Haveland dalla paranoia, Curtis dall'arguzia, Ransome dalla schiettezza... Indubbiamente è un processo meno immediato, ma credo pure interessante. Solo Appleby ci appare come un individuo in carne ed ossa a tutto tondo, dotato tanto di intelligenza quanto di pragmatismo: sviluppato nel corso dei romanzi della serie, nasce, cresce e si sviluppa davanti ai nostri occhi, mettendo in luce caratteristiche nuove e differenze con Dodd. Per il resto, l'unica altra cosa degna di nota è il fatto che non ci sono personaggi femminili in "Morte nello Studio del Rettore". Una stranezza che non passa inosservata. Detto ciò, sono convinto che questo giallo possa fare la felicità di coloro i quali vogliono andare oltre il semplice divertimento e svago, facendo un'immersione in un mondo tanto strano e astruso quanto suggestivo. Non cedete alle apparenze e date una possibilità a Michael Innes: il suo esordio è una bomba che vi irretirà e non vi permetterà di sfuggirgli.


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