venerdì 15 gennaio 2021

58 - "Il Rompicapo" ("The Puzzle"/"QED", 1922) di Lee Thayer

Copertina dell'edizione pubblicata dalla
Polillo Editore
Nonostante siano ormai passate le feste di Natale, su Three-a-Penny restiamo in tema con le recensioni di storie legate alla stagione invernale e a scenari nevosi. Se non ci saranno grosse sorprese improvvise, oppure titoli in uscita che non hanno a che fare con questo tipo di romanzi gialli, ho infatti intenzione di proseguire su questo genere di letture (con conseguenti analisi) almeno fino a marzo, quando finalmente arriverà la primavera e le cose necessariamente cambieranno. Trovo che l'atmosfera esterna agevoli l'immergersi nei racconti, se questi ultimi vengono rispecchiati da essa; perché dunque non approfittarne? Tenuto pure conto del fatto che possiedo numerosi mysteries i quali vedono scenari gelidi e incantevoli, con tanto di tormente di neve ad isolare enormi magioni e piccoli ostelli, e intrighi diabolici a celarsi dietro ai sorrisi cordiali dei nostri vicini a cena e degli amici passati a farci un saluto. Così, in un'alternanza tra autori maschili e femminili, tra romanzi gialli delineati secondo uno stile più britannico oppure più americano, eccomi qua con l'ennesima recensione "nevosa" su Three-a-Penny, che vi propongo questa settimana. Proprio a proposito di stili di scrittura differenti, non ricordo se avevo già esternato la mia predilezione per quello prettamente anglosassone, proprio della cosiddetta Terra d'Albione, l'Inghilterra. Infatti, trovo che gli autori e le autrici nate e cresciute in questo Paese siano stati/e capaci di dare vita a trame molto più di mio gusto, rispetto a quelle dei loro colleghi e delle loro colleghe d'oltreoceano. Badate bene: non ho assolutamente nulla contro gli scrittori americani degli anni d'oro, che si imposero al pubblico dei lettori tra il 1920 e il 1950 circa; sarebbe snobistico, errato e ingiusto fare affermazioni che li condannino senza appello. Certo, ognuno ha le proprie preferenze, ma non si può cancellare una tradizione influente come quella che si sviluppò nelle case di Manhattan e negli uffici degli impiegati di New York e Chicago, soltanto per capriccio. In fondo, proprio in America la crime story è stata capace di dare vita a innumerevoli sottogeneri, dal noir alla suspense delle women in jeopardy, dal giallo psicologico esportato dal Vecchio Continente all'hard-boiled; e sfido chiunque a non trovare almeno uno di questi di proprio gusto.

Per quanto mi riguarda, ad esempio, amo molto quelle storie dove si calca la mano sugli aspetti sovrannaturali e sulla creazione di un'atmosfera particolare, dove la tensione e un certo timore vengono sfruttati per esaltare i fatti criminosi che si verificano in esse. Penso a quei romanzi un po' datati di Mary Roberts Rinehart, dove fanciulle indifese vengono spesso a trovarsi a combattere contro nemici implacabili e sconosciuti, magari inseriti nei loro stessi ambienti familiari o di amicizia; oppure a quelli di Mignon G. Eberhart, con infermiere pronte a gettarsi sulla pista di assassini insospettabili e una trattazione più moderna di temi ancora oggi attuali; oppure ancora la serie di Henry Gamadge ad opera di Elizabeth Daly, dove vengono declinate la paura e la pazzia e l'investigatore si muove in ambienti semi-aristocratici con passo felpato, a differenza di quelli dei più decisi e diretti private-eye dei bassifondi delle metropoli degli scrittori della scuola dei duri. Questo tipo di racconto, nonostante presenti numerose differenze da quello britannico, tutto sommato dipinge situazioni che ad esso si ricollegano; è ingentilito e caratterizzato da vicende tranquille (almeno all'apparenza...). Forse per questo il mio gusto personale è più appagato da esso: nonostante il giallo tradizionale della Golden Age inglese abbia più spessore, una sorta di background solido su cui poggiare le radici per poi elevarsi, e per questo resti il mio preferito, quello americano fa del proprio meglio per declinare quegli stessi elementi di trama in un terreno composto di materiale differente e più "sdrucciolevole", adattandoli alle necessità e producendo risultati apprezzabili. E sempre per questo motivo, su Three-a-Penny mi concentro sugli scrittori d'oltre Manica e sulle loro opere. Mi viene più facile fare confronti tra loro, e riesco a sviluppare sulle tematiche che essi affrontano un pensiero più discorsivo. Eppure, ogni tanto un cambiamento ci vuole; per cui oggi ho deciso di soffermarmi su un'autrice americana che per me era del tutto nuova, ma mi incuriosiva. Con la complicità dell'uscita nello scorso novembre del suo primo romanzo giallo in italiano, infatti, ho letto e oggi recensirò "Il Rompicapo" di Lee Thayer (Polillo Editore, 2020). Si tratta di una storia che si è rivelata diversa da come me la aspettavo; una vera sorpresa, a volte nel bene e altre nel male, alla quale non mancano un'ambientazione invernale (per restare sul "giallo sulla neve"), alcuni personaggi abbastanza ben caratterizzati e, soprattutto, un enigma architettato ed orchestrato con maestria ed ingegno, il quale funge da fulcro per tutte le vicende.

After the Storm, Hemet, California, Anna Hills, 1922,
raffigurante un paesaggio simile a quello intorno a Fern Hills
La storia si svolge quasi completamente a Fern Hills, un paesino d'alta quota del New Jersey popolato da pochi abitanti stabili di età avanzata e da villeggianti periodici o affittuari di ville site alle pendici dei monti. In casa Carlisle, l'investigatore privato Peter Clancy sta trascorrendo qualche giorno di vacanza, lontano dalla vita frenetica che conduce a New York nell'agenzia di cui è socio, in previsione di qualche giornata di pesca assieme all'amico Harrison, il quale lo ospita assieme all'anziana madre, e ad altri suoi amici. Nel giorno convenuto, i quattro avventurieri si organizzano per partire con un certo anticipo e ad incamminarsi sulla neve che è calata sulla vallata, verso la loro destinazione: sono Harrison, Clancy, un tizio di nome Robert Kent, il quale svolge un lavoro imprecisato nell'industria cinematografica, e un certo Louis Hood, il quale ha la casa poco distante da quella dei Carlisle. I primi due chiacchierano davanti al caminetto, in attesa che Kent scenda dal piano di sopra dove si sta preparando con dovizia, come è suo solito fare, e che Hood li raggiunga per comporre un gruppo unico e diretto verso il Club di pesca; eppure, se Robert si unisce a Clancy e Harrison poco dopo, di Louis non si vede traccia. Forse gli è successo qualcosa... oppure è soltanto in ritardo. Già qualche ora prima aveva avvisato di non poter presenziare alla cena concordata con i suoi amici. Probabilmente si sta ancora vestendo di tutto punto. Così, gli altri tre salgono in macchina e decidono di andargli incontro, per poi caricarlo nell'auto a metà strada. Tuttavia, mentre si avvicinano alla casa di Hood, incontrano soltanto un tizio tutto imbacuccato che tira dritto quando loro gli si avvicinano, scambiandolo per il loro amico. E anche quando imboccano Ferwood Road, dove si trova la villa di Louis Hood, i tre si trovano davanti a un muro oscuro. Nessuna luce è accesa, e l'edificio pare disabitato da tempo.

Un po' intimoriti dall'improvviso silenzio che regna nel giardino della casa e un po' stizziti per il fatto che Hood sia loro sfuggito (perché deve essere per forza andata così), Carlisle, Clancy e Kent scendono dall'automobile e si incamminano sulla terrazza che porta davanti all'uscio principale dell'edificio, per suonare il campanello. Tutto tace, niente si muove nella semioscurità che li circonda. Persino quando il trillo della campana risuona nelle stanze gelide della villa, sembra che loro siano rimasti gli unici esseri viventi al mondo. Tuttavia, nei paraggi si trova qualcosa che nessuno di loro si aspetta di trovare... Ai piedi della scala che porta al prato abbondantemente spolverato di neve, pochi metri sotto alla terrazza, si trova infatti il cadavere di un giovanotto ben vestito, il quale ha una profonda ferita alla gola e il collo spezzato. Carlisle, Clancy e Kent pensano subito al peggio, considerando che Hood non si trova da nessuna parte; però, con una certa sorpresa, quando i tre giovani si avvicinano al corpo si rendono conto che non si tratta del loro amico; quest'ultimo fa appena in tempo ad affacciarsi all'uscio di casa, prima di spiccare un balzo ed unirsi a loro alla base della scala. No; il cadavere su cui dovrà indagare la polizia è quello di un tale di nome Walter Brown, un tizio che Hood afferma di aver incontrato pochi minuti prima e del quale conosce poco altro, oltre al nome. Come è arrivato fin lì? E se davvero Louis non lo conosceva, come aveva potuto Brown presentarsi a un appuntamento a casa sua, quando i suoi amici sanno a malapena quando decide di rifugiarsi a Fern Hills? La domanda più sconcertante di tutte, riguardo l'omicidio, è però un'altra: come diamine ha fatto Brown ad essere ammazzato, dal momento che non ci sono coltelli sulla coltre bianca che lo circonda, se le uniche impronte impresse nella neve sono quelle che lui stesso ha lasciato? Qualcuno deve essersi avvicinato a lui per spezzargli l'osso del collo, lo sostiene pure il medico legale! Così, accantonando i lieti propositi di una meritata vacanza, Clancy torna a dedicarsi all'investigazione, scoprendo che forse i suoi amici non gli hanno detto tutta la verità... Chi era l'uomo che hanno incontrato in macchina? Perché Louis ha ritardato tanto? E di chi era il grido che il maggiordomo di Hood ha sentito echeggiare in casa e nel giardino proprio mentre Brown veniva ammazzato? Bisognerà fare molta strada prima di scoprire la verità.

The Fisherman, Renoir, 1874, che potrebbe benissimo
raffigurare Harrison Carlisle intento a pescare
Prima di leggere "Il Rompicapo", mi ero fatto una certa idea su come sarebbe potuto essere questo romanzo giallo. Sapendo che era stato scritto da un'autrice americana, già immaginavo che, giunto alla sua conclusione, probabilmente esso non sarebbe stato del tutto nelle mie corde; però mi incuriosiva il fatto che presentasse un delitto impossibile, con tanto di orme sulla neve mancanti e un'ambientazione in qualche modo "isolata", come quella di un paesino di montagna dove gli stranieri sono malvisti. E adesso che l'ho finito, posso confermare le premesse che ho esposto qui sopra: questo libro, infatti, si piazza in un posto di mezzo in una mia ideale classifica di gradimento. Perché, se è indubbio come l'enigma in esso sviluppato sia molto buono e, anzi, costituisca forse il motivo principale per cui si dovrebbe leggere "Il Rompicapo", d'altra parte la storia presenta dei difetti non da poco conto, i quali in un certo senso ne pregiudicano il risultato finale. Ma andiamo con ordine, partendo dalle cose che mi hanno convinto di più. Innanzitutto, credo che ciò che importasse alla sua scrittrice, fosse il fatto di costruire un mistero ben congegnato e capace di soddisfare il gusto di quei lettori che preferiscono concentrarsi più sul mezzo, sul metodo di uccisione, piuttosto che su chi dei sospettati abbia compiuto il misfatto oppure su una raffigurazione dettagliata degli elementi di contorno. Pertanto, come capirete, l'enigma in questo mystery è l'elemento che più di tutti gli altri viene esaltato, il fulcro attorno al quale le vicende ruotano ancora più di quanto non accada di solito, che non lascia mai la scena. Ogni azione, ogni situazione in cui i personaggi vengono a trovarsi, è sempre fine a fornire indizi e prove per il lettore e per l'investigatore. Pure le digressioni (che ci sono all'interno della trama, questo non lo metto in dubbio) servono per suggerire a Clancy nuove piste da seguire e probabili ipotesi che possano spiegare i misteriosi eventi che si sono verificati nel giardino della villa di Louis Hood. Thayer è stata abile e capace nel tratteggiare le fasi dell'indagine e nel far compiere al suo detective e all'enigma che aveva nella mente, passo dopo passo, un processo di svelamento progressivo, almeno fino a un certo punto; mi è tutto sommato piaciuto.

Ho apprezzato il fatto che il metodo per ammazzare Brown sia stato spiegato secondo logica, quando in un primo momento esso appariva quanto mai sovrannaturale: come nella migliore tradizione classica, è stato usato "un complesso sistema di leve e specchi" (cit.) per mettere in atto l'inganno, e la soluzione non è apparsa troppo complessa e macchinosa per essere messa in atto. Un individuo determinato avrebbe compiuto certe azioni proprio come l'autrice ha spiegato, e non avrebbe incontrato difficoltà nel farlo. Inoltre l'utilizzo di un certo pragmatismo nella descrizione plantare dei luoghi e nel piglio con cui il caso è stato condotto (in parte dal poliziotto di Fern Hills, l'ispettore Winkle che tenta di spiegare i fatti seguendo la sua mente da sempliciotto, e in parte da Clancy, molto più esperto e logico) nel misurare impronte di scarpe, nell'esame delle ferite dal punto di vista medico, nell'impiego di numerose armi (coltelli, pistole, ecc...), nel ricercare un certo tipo di pneumatici ben preciso e nella presenza di numerosi testimoni (o presunti tali), lasciano capire come l'intento di Thayer fosse quello di impostare una storia dove il delitto viene affrontato alla maniera di Sherlock Holmes, con rilevamenti e tutto ciò che li riguarda dal punto di vista materialistico. Infatti, alla fine non emerge mai un vero profilo psicologico dell'assassino, inteso come lo avrebbe potuto fare ad esempio Nicholas Blake: tutto si riconduce a un delitto compiuto secondo un metodo analitico e matematico (il titolo originale stesso, QED, si rifà al "come volevasi dimostrare" dei teoremi della geometria), dove il movente ha carattere pragmatico. Questa cosa, da un lato, può essere considerata un punto debole, dal momento che il giallo della Golden Age, quello a cui siamo tutti un po' più affezionati, si concentra più sulla psicologia dell'assassino a discapito del meno trucco scenico (nello stesso Carr, nonostante l'impossibilità del crimine sia sempre accentuata, troviamo personaggi tormentati e complessi, capaci di regalare più di un brivido con la loro stessa presenza sulla scena); però non dobbiamo dimenticare che "Il Rompicapo" è pur sempre un libro del 1922, quindi degli albori dell'Età dell'Oro del giallo tradizionale, e non bisogna essere troppo duri su questo fronte, a mio modesto parere. Inoltre, in aggiunta alla buona qualità dell'enigma, non bisogna dimenticare che questo giallo sa regalare numerose descrizioni di scenari affascinanti e suggestivi: a partire dai boschi dove Clancy e Harrison vanno a pescare e incontrano il vecchio Bill, fino alle strade di New York di Broadway e agli interni del teatro in cui miss Gale recita, per arrivare ai tempestosi orizzonti dell'ultima corsa dell'assassino e dei suoi inseguitori, ogni cosa viene evocata e descritta con enfasi dall'autrice, la quale si dimostra molto abile nel tratteggio di paesaggi e nel dipingere luoghi.

Emma Redington Lee, alias Lee Thayer, nata
nel 1874 e morta nel 1973
Questa capacità nel saper raffigurare scenari a parole stampate su carta forse può essere dovuta al fatto che Emma Redington Lee, vero nome di Lee Thayer, fu principalmente illustratrice e amante delle arti, e solo in un secondo momento giallista. Nata in Pennsylvania nel 1874, nonostante abbia trascorso gran parte della sua vita a New York, la giovane Emma si era infatti diplomata presso il Cooper Union and Pratt Institute; ma questo non le aveva impedito di dedicarsi alla scrittura per divertimento. E dovette davvero essere felice di essere una narratrice dal momento che, tra un'esposizione di opere alla Chicago World's Fair del 1893, disegni per copertine di libri, collezioni di oggetti giapponesi e viaggi in lungo e in largo, riuscì a scrivere nientemeno che sessantuno mysteries! Il suo primo giallo, "The Mystery of the Thirteenth Floor", fu dato alle stampe nel 1919 quando Thayer aveva già compiuto quarantacinque anni, mentre l'ultimo, "Dusty Death", uscì quando la scrittrice aveva compiuto novantadue anni, nel 1966. Sfortunatamente per lei, non ottenne mai chissà quale celebrità nel capo della narrativa del mistero, e al giorno d'oggi pare che tutti i suoi sforzi letterari siano stati dimenticati o quasi. In tutti i suoi romanzi (tranne uno), il protagonista delle indagini è Peter Clancy, un giovanotto di origine irlandese dai capelli rossi, che agisce da investigatore privato presso un'agenzia che condivide con un socio più anziano, il poliziotto in pensione O'Malley, anch'egli con antenati provenienti dall'Irlanda. In effetti, è curioso notare come questo carattere dei personaggi li accomuni con quelli tipici della narrativa di un'altra giallista, contemporanea di Thayer: Isabel Ostrander, la quale era solita inserire individui di tale nazionalità nei suoi gialli. Sposata nel 1909 con Henery W. Thayer, Lee Thayer morì nel 1973; ma prima di allora aveva acquisito un momento di gloria che a molti altri suoi colleghi non era stato concesso. Nel maggio 1958, infatti, venne ospitata in una trasmissione televisiva della CBS chiamata "What's My Line?", dove alcuni pseudo-vip venivano invitati senza essere presentati formalmente e membri regolari di una sorta di giuria dovevano indovinare che lavoro questi ospiti svolgessero. Emma Lee, la quale come dicevo aveva combattuto a lungo per affermarsi senza mai riuscirci davvero, pur vendendo bene, si rivelò essere la scelta ideale per la trasmissione: come fu descritta, "questa dolce signora anziana scrive gialli su omicidi raccapriccianti!"; proprio insospettabile.

Bisogna inoltre ammettere che Thayer viene pure menzionata da alcuni critici, ma non sempre in termini lusinghieri. Alcuni addirittura hanno affermato che, dopo aver letto alcuni suoi romanzi, si potrebbe rivalutare l'odiosa figura di Philo Vance, notoriamente un individuo tanto astuto e competente quanto antipatico. E sotto certi aspetti, i libri dell'autrice sono proprio scadenti; tanto più che ella non cambiò mai il proprio stile in meglio, nemmeno dopo che Van Dine diede uno scossone al giallo americano con la sua opera. Come osservato da alcuni critici, il lavoro di Thayer può essere accostato più a quello di Anna Katharine Green, rispetto a quello di Mary Roberts Rinehart: non abbiamo mai storie piene di suspense e di terrore puro, con fanciulle in preda al panico e assalite da misteriosi assassini in case oscure. Il fine dell'autrice di "Il Rompicapo", come dicevo, è quello di tratteggiare un'inchiesta pulita, logica e senza alcun tipo di risvolto soprannaturale (a meno che non serva per sviare l'attenzione del lettore, ma succede di rado); proprio come fece Green. Ci sono altre somiglianze in questo senso: il fatto che le ambientazioni siano simili, con grandi case isolate e chiuse dove i protagonisti rimpiccioliscono di fronte alle oscure vastità; che sulle scene del delitto restino tantissime prove da rilevare e da mettere insieme per ricostruire l'accaduto, indizi spesso sinistri e inquietanti; le descrizioni liriche e poetiche degli ambienti e del paesaggio, con un contrasto tra natura e metropoli che caratterizza pure la narrativa di Green. L'impossibilità dell'enigma (pp. 20-21, 24-27, 29-30, 142-143) segue una tradizione inaugurata in America da Anna Katharine, dove la soluzione viene svelata mano a mano. Detto ciò, tuttavia, restano le stesse critiche che si potrebbero rivolgere a Green: lo svelamento dell'assassino che non riesce ad essere all'altezza di altri in romanzi più celebrati; una tendenza a concludere in fretta e con azione frenetica la faccenda, dopo aver intrapreso una strana più lenta nella prima parte della storia; l'inserimento di frasi che al giorno d'oggi definiremo razziste (quando entra in scena il maggiordomo cinese dei Carlisle, p. 61); uno stile fin troppo essenziale, pure se si tratta di un romanzo giallo americano, dove il tono scanzonato stride con gli eventi delittuosi che si verificano.

Tutto ciò rende "Il Rompicapo" meno buono di quanto mi aspettassi, unito al fatto che i personaggi non sono sempre ben caratterizzati. Certo, per citare miss Gale, oppure Harrison Carlisle e lo stesso Clancy, loro sono figure a tutto tondo, che spiccano sulla carta e si rendono protagonisti attivi nelle vicende; ma altri come Robert Kent e Louis Hood, il sospettato principale, non hanno lo stesso impatto; anzi, tendono a scomparire. Poi sono proprio pochini gli indiziati, per poter fornire davvero un gruppo in cui scovare l'assassino. Pure questo è un richiamo alla narrativa di Green. Da una parte, abbiamo individui che restano in disparte per gran parte del racconto e tornano in scena di punto in bianco; dall'altra, personaggi come Clancy che ci vengono presentati a tutto tondo. Lui stesso, in particolare, è una figura interessante, dal momento che mette insieme l'investigatore privato all'americana, grintoso, determinato e molto attivo fisicamente (segue gli indizi nei boschi e per le strade della città come un segugio nato dalle penne degli autori della scuola hard-boiled, ha energia da vendere e non ha paura di mettere in scena inseguimenti quando è necessario, è implacabile nel torchiare i sospettati e nel metterli alle strette) con quella del detective di stampo più razionale, il quale limita il lavoro pratico a favore di quello mentale e logico, segue una missione che lo porterà a scoprire l'inganno con l'uso del proprio cervello, agisce in gran parte per conto suo e ha un atteggiamento meno scorbutico e violento. Non per nulla, all'apparenza, sembra quasi uno di quei giovanotti un po' sciocchi e alle prime armi. Detto ciò, comunque, i personaggi non soddisfano più di tanto le aspettative e mi inducono ad abbassare il voto di giudizio. Però voglio concludere con una nota positiva, che in parte riscatta "Il Rompicapo" dalla delusione che poteva essere, se non avesse presentato un enigma molto buono e un'ambientazione tratteggiata con abilità (pp. 16-18, 33-35, 64-67, 73-74, 76-79, cap. 9, 111-112, 117, 133, 135, 150, 159-162, 179, 181, 194, 202, 208-210, 214-216): l'inserimento di temi insoliti che conferiscono originalità alla trama e aiutano nella scoperta della verità. Viene trattata a lungo la pesca, con termini specifici e una narrazione che lascia trapelare come Thayer debba essere stata un'appassionata in materia (pp. 59-60, cap. 7, 132, 150-155); il teatro e ciò che lo riguarda vengono approfonditi e portati sulla scena in più occasioni, in parte assieme al cinema (pp. 133-139); il jujitsu, quella tecnica delle arti marziali orientali che poche volte ha avuto spazio in un giallo classico, gioca un ruolo che la porta ad essere discussa in diverse occasioni (62-63, 116); viene accennato alla politica, la quale non può mancare in un mystery americano; l'amicizia che lega Harrison e Clancy, così tante volte manifestata e celebrata; la stregoneria (pp. 120-123). Sono modi rudimentali per dare brio al racconto, e Thayer ha fatto un buon lavoro in merito. Forse bisognerebbe tenere da conto il fatto che questo romanzo è stato scritto in un'epoca molto precedente alla nostra, e perdonare qualche piccolo scivolone. Non lo so; io resto dell'idea che "Il Rompicapo" sia come uno di quegli episodi del manga di Detective Conan (penso lo conosciate tutti, e se così non fosse recuperate subito): molto centrati sull'indagine, con qualche accenno all'ambientazione suggestiva e con personaggi intercambiabili tra loro. È un libro senza troppe pretese, che vuole mettere in scena in delitto congegnato come un meccanismo ad orologeria, tralasciando discorsi troppo complicati. Niente di eccitante, ma nemmeno del tutto deludente. Sufficiente, direi.

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